Esperienze Formative

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lunedì, 12 Novembre 2007 23:24

I Salmi: la poesia della preghiera

I salmi sono poesia; da questa semplice affermazione scaturiscono grandi conseguenze. Certo è difficile racchiudere la poesia in una definizione stretta; eppure la differenza tra poesia e prosa è palese.

Il fallimento del progetto di Dio

Gn 3-11 e le «strutture di peccato»

di Gaetano Castello


Proponiamo una lettura dei capitoli 3-11 della Genesi tra i più noti della letteratura biblica, cogliendo alcuni interessi spunti sul dilagare del peccato nel mondo e la sua tendenza ad organizzarsi in «strutture di peccato». Si tratta solo di «spunti» offerti come contributo per una riflessione avvertita, non solo dai credenti, come necessaria ed urgente.

Introduzione

Gn 1-11 costituisce nel suo insieme la grande introduzione alla storia di Israele che, secondo la narrazione biblica, ebbe le sue remote origini nella chiamata di Abramo (Gn 12,1-3). Tesi generale di quei capitoli è che il progressivo allontanamento dell’uomo da dio pone le basi per una alleanza particolare, quella con Abramo, preludio all’Alleanza del Sinai. Si danno insomma le motivazioni per comprendere come mai Dio abbia eletto un popolo proponendogli una alleanza e vivendo con esso un rapporto privilegiato. Questa impostazione deriva dall’intento stesso dei compositori e dei redattori del racconto come risulta dall’osservazione attenta dei due documenti fondamentali che, composti in epoche diverse, sono stati poi raccolti insieme a formare l’attuale narrazione. In ognuno dei due antichi documenti, ricostruiti attraverso l’ausilio della critica letteraria, si intravede questo motivo di fondo benché espresso in maniera diversa.

Gli antichi documenti, detti «Jahvista» e «Sacerdotale», si sono serviti, a loro volta di un materiale preesistente, la cui origine è da ricercare nell’ambiente del vicino oriente antico; si tratta prevalentemente dei cosidetti «miti delle origini», racconti in cui si tentava di chiarire il senso della vita, della morte, dei problemi umani a partire da situazioni archetipe, «originarie». È una maniera pre-scientifica e pre-filosofica, ma non per questo meno vera, di affrontare le grandi domande dell’esistenza.

1. Il peccato come scelta dell’uomo

Proprio dal confronto con miti del vicino oriente antico si coglie il messaggio particolare di cui il testo biblico è portatore: il peccato, in Gn 3-11, non è frutto di una lotta mitica tra gli dei; la miseria e il caos che regnano in tante situazioni umane non vengono attribuiti semplicemente ad una vicenda svoltasi fuori del tempo, su di un piano diverso da quello umano, il piano della divinità. Non si proiettano, insomma, sulle vicende umane le conseguenze di vicende divine. Il campo viene sgombrato da una delle principali componenti dei miti delle origini: quanto di peccaminoso e di disordinato vi è nella storia umana, dipende dalle scelte dell’uomo, ‘ādām.

L’equilibrio Dio-uomo-natura, descritto nel suo insieme dai primi due capitoli della Genesi, è messo in discussione dall’atteggiamento dell’uomo e della donna chiamati, perchè immagine di Dio, ad esercitare la loro responsabilità nel gestire armonicamente quel rapporto. In Gn 3-11 si descrive il dilagare del peccato nella vita umana a causa del rifiuto da parte dell’uomo di vivere responsabilmente i rapporti col suo creatore, provocando, nel contempo, rapporti squilibrati degli uomini tra loro e con la natura. Questo motivo centrale, su cui la tradizione ebraica e cristiana ha continuamente riflettuto a partire dal concetto di peccato e di responsabilità «personali», ha un risvolto non meno importante rappresentato dal dilagare del peccato nell’organizzazione stessa della vita umana, nella civilizzazione del mondo e nella cultura. È l’altra faccia di quella eredità del peccato di cui parla S. Paolo (Rm 5,12-14).

2. L’istinto del «mangiare»

La caduta di Adamo ed Eva (Gn 3), originata dalla trasgressione dell’ordine divino di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, viene rappresentata significativamente dall’atto quotidiano e vitale del «mangiare». Il verbo ‘ākal, che ricorre insistentemente nella narrazione, scandisce le varie fasi della storia del primo peccato dell’uomo. Richiamati dalla voce del serpente, Adamo ed Eva rinunciano a gestire responsabilmente la propria libertà escludendo dall’orizzonte della scelta il creatore e il suo divieto. Si tratta del trionfo dell’istinto che però finisce per compromettere non solo i rapporti tra gli uomini ed il creatore ma anche i rapporti dei due tra loro e con il creato. L’albero della conoscenza, come tutto il resto, viene ordinato semplicemente a soddisfare l’istinto del mangiare, un istinto non negativo in se stesso (2,16) ma da controllare perché non si trasformasse nell’incontrollabile spinta a «divorare» indistintamente quanto si presentava deisderabile. La prima conseguenza del gesto viene annotata con poche ma significative parole nel v. 7: Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Con una conclusione che in parte rende ragione alle promesse del serpente «si aprirono loro gli occhi», si mette immediatamente in evidenza la scoperta della nudità che, diversamente da un’interpretazione di tipo sessuale spesso associata alla nudità ed allo stesso peccato originale, indica la vulnerabilità. Si tratta qui di una conoscenza non individuale ma sociale. Il bisogno di protezione dell’uno nei confronti dell’altro ha ragione di essere proprio per quanto accadrà nella seconda scena del racconto (3,8-13) in cui l’uomo scaricherà la sua responsabilità sulla donna e questa sul serpente.

Il bisogno di coprirsi di fronte all’altro diventa bisogno di nascondersi davanti a Dio: Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,9-10).

Il testo indica come effetto primario della trasgressione non tanto il sentimento più ovvio del rimorso, della colpa, quanto il percepire l’altro come potenziale nemico avvertendo la propria vulnerabilità.

Alla descrizione della caduta (vv. 1-7) e all’indagine divina (vv. 8-13), segue la terza scena (vv. 14-19), la sentenza di Dio, in cui con le maledizioni divine si evidenziano le conseguenze della trasgressione. Si osservi innanzitutto che la maledizione di Dio è relativa esclusivamente al serpente ed al suolo mentre per l’uomo e la donna si esplicitano le conseguenze frutto della nuova situazione creatasi: rapporto di dominazione tra l’uomo e la donna (v. 16), e disarmonia tra l’uomo e la terra (vv. 17-19):

Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per casa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».

La scelta di farsi guidare dall’istinto del mangiare ha come effetto immediato la configurazione di nuovi rapporti. Il bisogno di coprirsi risponde, come conseguenza del peccato, all’appetito del serpente di colui che mangia. L’altro è non più ‘ezer «aiuto», «alleato» (2,18) ma il possibile aggressore. Tale conseguenza si rende evidente nel tipo di rapporto che si configura tra la donna e l’uomo al v. 16: «... Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il termine ebraico te šûqāh tradotto con «istinto», è da intendere come desiderio di impadronirsi di una persona. Il dominio (radice ebraica YRD) che nel primo capitolo si riferiva alla superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi (1,26.28), entra nel rapporto uomo-donna rendendo ambigua la stessa struttura familiare come vissuta nei secoli ed esperita in molti casi anche oggi.

La seconda alterazione avviene tra l’uomo ‘ādām e la terra ‘ādāmāh da cui l’uomo è stato tratto e a cui è destinato. Il rapporto con la terra, precedentemente descritto nei termini pacifici del 1coltivatore e custodire» (2,15), diventa teso. Vi è quasi una resistenza della terra nell’offrire all’uomo i suoi frutti, un uomo guidato dall’istinto del mangiare, di appropriarsi di ciò che stimola il suo appetito. Ritroveremo questa problematica al termine del racconto del diluvio, in cui si registra la trasformazione ormai avvenuta nel rapporto tra l’uomo e il mondo animale, un rapporto connotato dal timore e terrore del bestiame nei confronti dell’uomo (9,1-4).

Il peccato, la rinuncia ad esercitare la responsabilità di fronte all’Altro , al Creatore, ha generato una alterazione dei rapporti uomo-donna e uomo-natura attraverso il dominio dell’istinto del «mangiare», di impossessarsi di ciò che appare «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile» (3,6). Siamo qui all’origine non solo del peccato dell’uomo come singolo individuo, ma all’origine di un modo sbagliato di stabile i rapporti tra le persone e con il mondo. È a partire da questa logica che la prassi di dominio dell’uomo sulla donna, finisce per assumere una funzione strutturale, trasmessa cioè dalle istituzioni culturali, economiche, religiose, dai comportamenti sociali. Il racconto della Genesi con il suo invito a meditare sull’«origine» dell’umanità, tende a stimolare una rinnovata coscienza del rapporto autentico tra uomo e donna, e più generalmente tra le persone, per fondare una prassi di vita critica rispetto ai presupposto stessi delle «strutture» umane.

L’atteggiamento «divoratore» nei confronti della terra richiederà degli interventi limitativi di Dio (9,4), laddove non è risultato sufficiente l’appello alla responsabilità. Si tratta anche qui di una logica che fonda una prassi generatrice di «strutture di peccato», atteggiamenti che cioè si strutturano nell’agire sociale, nella cultura tanto da non tendere più immediatamente percepibile la responsabilità del singolo. Proprio nello squilibrio tra l’uomo e la natura, nell’atteggiamento «divoratore» non del singolo ma di modi di organizzare la società e di soddisfare i suoi crescenti bisogni, si assume oggi, drammaticamente, la consapevolezza di come il peccato dell’uomo «divoratore» abbia assunto dimensioni sovra-personali, appunto «strutturali».

3. Il dilagare della violenza

Due testi in particolare ci aiutano ad approfondire la nostra ricerca: la storia di Caino e della sua discendenza e la storia del diluvio.

La narrazione famosa del primo omicidio della storia, che non a caso si configura come fratricidio mettendo in luce la comune «origine» degli uomini, viene solitamente considerata nel suo valore esemplare, e non senza ragione, per la descrizione della dinamica della violenza nel rapporto tra gli uomini su cui si è riflettuto solitamente a partire dalla responsabilità personale. Ma la storia di Caino, il personaggio principale della narrazione, continua con la storia della generazione che con lui ha inizio: Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio. A Enoch nacque Irad... e Metusaél generò Lamech. Lamech si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Zilla a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro (4,17-22).

Caino è il costruttore della prima città, posto cioè alla base della società umana. Non solo. Viene espressamente detto dal testo che dalla sua discendenza ha origine, nel suo complesso, la civiltà umana e la sua ossatura economica: la vita pastorale (4,20), la musica (4,21), la metallurgia (4,22). Tutta la civiltà porta il peso della colpa di Caino.

Non a caso padre di coloro che si specializzeranno nelle diverse arti è Lamech, discendente di Caino, di cui viene proposto il modo di pensare, la logica del suo comportamento, attraverso un canto, il secondo della Bibbia dopo quello della gioia di Adamo per la creazione di Eva (2,23):

Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per mia scalfittura
E un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino
Ma Lamech settantasette» (4,23-24)

La logica che guida l’agire dell’uomo nella società che da Caino è nata è quella espressa da Lamech nel suo orgoglioso canto della violenza (Ho ucciso per una scalfittura e per un livido) moltiplicata (settantasette colte).

È utile considerare, sia pure brevemente, le principali caratteristiche dell’omicidio commesso da Caino, in cui si ritrovano le scelte che hanno per così dire ispirato, sostenuto, al di là di Caino stesso il dilagare la violenza.

La narrazione della vicenda offre poche informazioni sui personaggi, vengono messe però in risalto le differenze che caratterizzano i due «fratelli»:

Poi (Eva) partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo (4,2).

Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso... (4,3-4).

La prima differenza è culturale. Indicando i due diversi lavori il testo richiama la distanza esistente tra il mondo agricolo e quello pastorale, due occupazioni dietro le quali si configura una diversa organizzazione della vita.

La seconda differenza, che scaturisce immediatamente dalla prima, è cultuale: l’offerta caratterizza il tipo di culto, diverso evidentemente nelle due culture, quella agricola e quella pastorale.

Il dramma ha inizio proprio da questa differenza tra «fratelli», una differenza messa in evidenza nella diversa accoglienza dell’offerta da parte di Dio. Da sempre la domanda sul motivo che Dio avrebbe avuto per prediligere un’offerta e non l’altra, è stata al centro dell’attenzione dei lettori. Il testo non si preoccupa di offrire una motivazione convincente, indica invece con chiarezza il punto di partenza della vicenda: la differenza. E in ultima analisi è proprio questa «differenza» non accettata che crea la crisi di fronte alla quale Dio interviene stimolando Caino alla riflessione, a prendere le distanze rispetto al pericolo di cedere ad un comportamento istintivo, tendente a eliminare la differenza (4,6-8).

AI rifiuto della differenza fa seguito, nella dinamica innescatasi in Caino, il rifiuto della responsabilità che nasce direttamente dal suo essere il «fratello». Non a caso il termine «fratello» è ripetuto sette volte nei versetti 1-11 tanto da costituire il filo conduttore del testo. Nella sua risposta Caino non solo mente dicendo di non sapere dove sia Abele, ma giustifica la menzogna rifiutando la responsabilità che deriva dall'esserne «fratello», una responsabilità molto più sentita in un tempo in cui l'istituto familiare costituiva il riferimento principale se non esclusivo per la sicurezza dell'individuo di fronte ad un mondo minaccioso ed agli inconvenienti della vita. Rifiuto della differenza e rifiuto della responsabilità di «fratello» costituiscono, in maniera diversa, i due momenti tragici che motivano e giustificano il primo gesto violento dell'umanità. Con Lamech, come abbiamo visto, questa logica della violenza viene posta esplicitamente alla base di un agire che viene ad iscriversi, benché non deterministicamente, nello stesso sviluppo della società umana.

L 'alterazione prodotta dall'azione di Caino viene segnalata sia nella conclusione del testo con il nuovo tipo di rapporto che si stabilisce tra Caino ed il suolo (4,12), sia nella minaccia di violenza che viene da chiunque incontrerà Caino (4,14).

Che la «logica della violenza» riesca a costituire un vero e proprio modo di vivere guidando e giustificando atteggiamenti comuni ad essa ispirati, appare evidente sia dal testo di Lamech, già considerato, sia, più avanti, dall'amara constatazione divina circa il dilagare di corruzione e violenza sulla terra (6,5.12.13).

4. Babele, la «porta del cielo»

Nel racconto umoristico della «torre di Babele» (Gn 11,1-9) la tecnica costituisce il nuovo supporto di una società che si organizza con l'intento di distinguersi dagli altri popoli: Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (11,3-4).

La volontà di distinguersi, «facciamoci un nome», è associata alla pretesa capacità di raggiungere il cielo. La torre di Babele diventa così la grande metafora dell'orgoglio dell'uomo civilizzato, sostenuto dall'idea che il progresso tecnico sia la chiave per «raggiungere il cielo». L 'intervento di Dio (vv. 6-9), la sua punizione, consiste non a caso nella dispersione, nella differenziazione che si esprime con la molteplicità delle lingue.

Distinguersi dagli altri popoli in virtù delle capacità tecniche alle quali è affidato il senso della riuscita umana, della risposta all'aspirazione umana verso l'Infinito rappresenta, sul-

la base del racconto genesiaco, un aspetto della logica del peccato animatrice di strutture di peccato.

Conclusione

Abbiamo indicato alcune piste di riflessione offerte da Gn 3, 11 sulla diffusione di logiche di peccato che tendono a diffondersi ed organizzarsi in strutture sovra-personali, vere e proprie «strutture di peccato». Senza nulla togliere al carattere personale del peccato (la sua origine demoniaca e l'aspetto individuale), ci sembra che il testo della Genesi suggerisca all'uomo una visione disincantata del mondo e delle strutture nelle quali egli si trova ad operare. La logica del peccato che nel racconto di Caino viene a configurarsi come logica della violenza, non solo si trasmette (Caino -Lamech -generazione diluviana) coinvolgendo in maniera sempre più anonima e generale gli uomini, ma viene amplificata dall’agire individuale, dal contributo del singolo (Lamech).

Rispetto a questa constatazione, intraprendere vie diverse, rispettose dell’equilibrio originario voluto dal creatore (Set, Noè... Abramo), costituisce una possibilità per l’uomo, una possibilità concessa in maniera definitiva da Gesù Cristo.

Sono molti i richiami storici e anche di attualità che ci inviterebbero a proseguire su questa pista di riflessione. Si pensi, per es., alle strutture economiche del mondo capitalistico che sovrastano l’individuo, rendendolo partecipe di meccanismi che esigono, a livello sovra-personale, quel rifiuto delle differenze e della fraternità in nome dell’esigenza «divoratrice» del capitale.

Un campo fecondo per una riflessione etica, già avviata in questo senso e che può trovare, ci sembra, un utile supporto in Gn 3-11 in vista di un impegno più incisivo del singolo e della comunità dei credenti in dialogo con gli uomini di buona volontà.

Tre sono i riti di riconciliazione: il primo per i singoli penitenti, il secondo per più penitenti con confessione e assoluzione individuale, il terzo per più penitenti con confessione e assoluzione generale.

L’identità teologale dell'etica cristiana

di Giannino Piana

I documenti del Magistero non si rivolgono solo ai credenti e fanno spesso riferimento ad un ordine naturale che ha radici nella coscienza umana.

La morale cristiana è una semplice morale umana o è qualcosa di più e di diverso Esiste, in altre parole, una differenza sostanziale tra il comportamento puramente umano e quello del credente E, sé esiste, dove sta tale differenza? Questi interrogativi sono venuti affiorando, con sempre maggiore insistenza negli ultimi decenni, non solo nell’ambito della ricerca teologica, ma anche all’interno della stessa coscienza dei credenti. A favorirne la nascita hanno concorso un insieme di fattori legati tanto alle trasformazioni del contesto socio-culturale quanto al rinnovamento dell’etica cristiana. Tra essi merita anzitutto di essere ricordato il fenomeno della secolarizzazione, che ha provocato una graduale emancipazione dell’uomo e del mondo dall’universo simbolico sacrale da cui sembravano dipendere. L’agire umano è venuto di conseguenza sempre più configurandosi come agire autonomo, le cui motivazioni ed i cui significati possono essere rintracciati dall’uomo a partire dalla propria ragione e da una corretta interpretazione della realtà storica. L’etica appare dunque essenzialmente come un dato umano, come lo spazio nel quale ogni uomo è chiamato a costruirsi responsabilmente il proprio destino in stretta relazione con gli altri e con il mondo.

D’altra parte, la stessa riflessione morale cristiana, stimolata da una più attenta rivisitazione dei testi biblici, ha progressivamente ricuperato il fondo umano che sta alla radice dell’agire dei credenti. Molti dei valori e delle norme contenuti nella rivelazione, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, altro non sono che la trasposizione, nel quadro della storia della salvezza, di una sapienza umana diffusa, che ha la sua sorgente nel piano originario della creazione. È significativo che gli stessi documenti del magistero - soprattutto quelli di carattere sociale - non si rivolgano esclusivamente ai cristiani ma a tutti gli uomini di buona volontà e facciano spesso riferimento ad un ordine naturale, che ha le sue radici nella coscienza dell’uomo.

Questa riscoperta di un patrimonio comune costituisce senz’altro un elemento positivo e di grande interesse. Consente infatti di riaprire un confronto e di dar vita ad una feconda collaborazione tra credenti e non credenti in nome di un convergente interesse per l’uomo e per la sua liberazione. Ciò non significa tuttavia che si debba negare l’originalità della morale cristiana, significa piuttosto che tale originalità va ricercata in un più vasto orizzonte di interpretazione del senso dell’agire. A questo orizzonte, ricco di profonde implicazioni, ci rinvia la recente e densa opera di Mauro Cozzoli (Etica teologale. Fede, carità, speranza, Edizioni Paoline, Milano 1991), che individua nella vita teologale l’elemento nuovo e fondativo dell’agire morale del cristiano.

Fede, carità e speranza, nel rapporto costitutivo che le unisce, sono modi di essere strutturali e dinamici che permeano di sé l’intero esistere umano e coinvolgono tutto l’agire. Attraverso di esse ha infatti luogo la partecipazione alla vita divina che si realizza nell’incontro tra il dono di Dio e la libera accoglienza dell’uomo. L’identità della morale cristiana non va dunque anzitutto ricercata sul terreno della definizione dei significati immediati dell’agire, ma su quello della determinazione del suo senso ultimo. La fede acquista, sotto questo profilo, il carattere di centro di unificazione e di irradiazione della vita morale e assolve la funzione di criterio ultimo di discernimento delle diverse situazioni dell’esistenza quotidiana. L’incontro con Gesù, in quanto evento trasformatore e datore di senso, è lo specifico morale del cristiano.

Il dovere etico, lungi dal risuonare come un’imposizione, appare piuttosto come esigenza da accogliere e come compito da eseguire nella fedeltà. In quanto opzione decisiva di tutta l’esistenza, la fede coincide con la libertà fondamentale della persona sollecitata a rispondere all’iniziativa divina, abbandonando la presunzione dell’autogiustificazione e convertendosi alla radicalità del messaggio evangelico.

Il cuore di questo messaggio è il grande comandamento dell’amare. Esso ha il suo fondamento e riceve il suo senso dalla partecipazione alla carità di Dio, cioè alla comunione che unisce il Padre al Figlio nello Spirito. L’inserimento dell’uomo nel dialogo trinitario dell’agape contrassegna la sua nuova condizione di creatura e di figlio di Dio e costituisce lo statuto ontologica della sua esistenza che deve interamente svilupparsi nell’amore. Il mistero trinitario diviene così il modello cui l’uomo è chiamato ad ispirare la propria condotta: un modello i cui connotati sono la donazione totale di sé, l’accoglienza incondizionata dell’altro e la piena comunione da realizzare nel superamento di ogni chiusura e nell’accettazione radicale della diversità.

La croce di Cristo è il luogo a cui soprattutto riferirsi per attingere la specificità dell’amore cristiano come gratuità e pura benevolenza, come totalità e sovrabbondanza che supera ogni bisogno umano e travalica tutti i confini. Il vangelo della carità è pertanto la nuova legge della grazia che lo Spirito scrive nel cuore dell’uomo. Essa spinge chi la riceve a rendere trasparente nella vita quotidiana l’amore verso Dio e verso il prossimo, in quanto aspetti inscindibili dell’unico precetto. Non si dà infatti amore vero per l’uomo senza Dio, ma neppure amore autentico per Dio a prescindere dall’uomo, che ne riflette immediatamente l’immagine

Testimoni di speranza

Ma la fede e la carità non stanno senza la speranza, che è la tensione escatologica della vita cristiana. Essere discepoli di Gesù significa infatti diventare testimoni credibili della speranza, la quale non va considerata come una proiezione spiritualistica che distoglie l’uomo dalle responsabilità secolari, ma come una forza sollecitatrice dell’impegno per il mondo. In quanto assunti nel dinamismo salvifico di Cristo, creazione e storia sono sottratte al determinismo e coinvolte nel processo di liberazione già in atto, e tuttavia aperto al futuro assoluto. La speranza è dunque la molla dell’agire morale del credente. La promessa del Signore obbliga il cristiano a calarsi dentro la storia, vivendo la ricerca di un equilibrio sempre nuovo tra la passione del possibile e l’attesa del giorno del Signore. Essa conferisce soprattutto senso alla libertà dell’uomo, spingendolo ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità e ad accettare anche gli inevitabili scacchi.

La vita teologale è perciò, in definitiva, ciò a cui occorre risalire se si vuole cogliere la novità della morale cristiana. Essa confluisce nell’azione liturgico-sacramentale come momento nel quale si attua, nel modo più completo, la partecipazione del cristiano alla vita di Cristo. Qui infatti l’indicativo di salvezza trova la sua ragione ultima per dispiegarsi in imperativo di salvezza, cioè in esigenza di vivere in fedeltà alla logica del regno. Ma il rischio laddove manca la vita teologale è che tale momento si inaridisca trasformandosi in rito vuoto e in atteggiamento devozionalistico e che la vita morale si secolarizzi e si privatizzi.


6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

2. Cristo unico sacerdote della Nuova Alleanza

Per i cristiani parlare di Cristo come unico sacerdote del NT è una cosa non tanto ovvia, in quanto hanno dinanzi a sé l’immagine di tanti sacerdoti e vescovi, cosicché per loro è chiaro piuttosto il contrario. I sacerdoti sono tanti, perché il popolo di Dio è numeroso e diffuso in tutto il mondo. Eppure questa non è la verità, perché nel NT c’è un unico sacerdote, in quanto è l’unico che abbia potuto compiere ciò che si richiede al sacerdote: stabilire il rapporto fra Dio e gli uomini. L’unicità del sacerdozio di Cristo è fondata sulla identità personale di Cristo, sul suo essere il Verbo di Dio fatto uomo. In questo senso dobbiamo dire che Cristo non è solo l’unico sacerdote del NT, ma di ogni possibile sacerdozio, perché in nessuna religione è possibile stabilire il rapporto con Dio. Al massimo si può esprimere un desiderio, una preghiera, ma la realtà è più alta e più ardua. Il desiderio perenne dell’umanità di raggiungere Dio e il suo mondo è stato realizzato in modo inaudito e fantastico nella persona di Gesù il Cristo. Proprio perché egli è il Figlio di Dio e proprio perché è diventato uno di noi, ha realizzato nella sua persona e poi nell’opera che ha compiuto sulla terra quanto l’umanità intera da sempre ha sognato.


2. a. Originalità della lettera agli Ebrei

Non sono molti i testi che si occupano del sacerdozio di Cristo; in realtà uno solo, la lettera agli Ebrei, come è già stato ricordato. <<La legge infatti non condusse nulla a perfezione. Invece è stata fatta entrare nel mondo una speranza superiore, per la quale ci avviciniamo a Dio…E quelli sono divenuti sacerdoti in molti, perché la morte impediva loro di rimanere. Questi invece, per il fatto che rimane in eterno, ha un sacerdozio non trasmissibile. Onde può anche salvare per sempre quelli che, mediante lui, si avvicinano a Dio, essendo sempre vivente per intercedere in loro favore>> (7, 19.23-25).

Intanto una affermazione di grande rilievo e di fortissimo impatto: la legge non condusse nulla a perfezione. Se essa fu incapace di portare alla perfezione, pur essendo un dono divino, è chiaro che ancora meno potevano le altre istituzioni religiose dell’umanità; salva la loro buona volontà. Ritroviamo qui un pensiero familiare a san Paolo sul tema della giustificazione: questa non viene dalla legge. Ma poi il discorso continua e coinvolge anche i sacerdoti dell’AT. In altre parole, risulta chiaro quanto da sempre afferma la teologia della grazia, sulla base di un semplice ragionamento: la creatura non può mai raggiungere il Creatore, se questi non le si dona in modo gratuito e libero. Il primato della grazia non è un dogma così arduo, perché il semplice buon senso lo fa capire e accettare.

 

2. b. Unicità e originalità del sacerdozio di Cristo

Nel caso specifico del sacerdozio della Nuova Legge, il discorso del testo agli Ebrei si rifà ad una constatazione che è sotto gli occhi di tutti: ‘la morte impediva loro di rimanere’. La funzione di un sacerdote, secondo la logica biblica, è quello di intercedere per sempre. Dunque l’intercessione è quanto individua e specifica il compito di un sacerdote. Finché esiste questo mondo di essa si avrà sempre bisogno. Ma chi può garantire una intercessione perenne, se non chi ha in sé la vita imperitura? La tesi del testo biblico è del tutto coerente e logica: nel NT non ci possono essere altri sacerdoti, se non il Cristo Signore, perché in forza della sua vita immortale rende superfluo il compito di altri sacerdoti. E la tesi è ribadita con un nuovo argomento, quando si dice: <<(Cristo) dopo aver offerto un unico sacrifico per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando che i suoi nemici siano posti sgabello ai suoi piedi. Infatti con unica oblazione ha reso per sempre perfetti quelli che vengono santificati>> (10, 12-14).

Intercede in nostro favore assiso alla destra di Dio. Chi può vantare un tale titolo ed una tale intercessione? Ci sono due concetti che si inseguono: l’intercessione perenne e la santificazione perfetta. Sembrerebbe, a prima vista, che la santificazione perfetta rendesse inutile l’intercessione, ed invece restano assieme l’una e l’altra, perché ciò che è reso perfetto una volta per sempre, ha bisogno di essere distribuito nel tempo della storia. C’è da fare una ulteriore osservazione a questo proposito. Il testo citato Eb 7,24 nella versione delle Edizioni Paoline, parla di un sacerdozio ‘non trasmissibile’, quella della CEI invece parla di un sacerdozio ‘che non tramonta’. Il traduttore S. Zedda gioca abilmente sul termine greco, che in senso traslato può essere espresso anche come ‘non trasmissibile’. Si dice infatti che è ‘aparàbaton’. I cultori del greco potranno approfondire le cose.

 

2. c. Sacerdozio unico e partecipato

Ma per quel che ci riguarda, la cosa non è senza importanti significati. Se si tratta di sacerdozio unico, è evidente che non è trasmissibile, perché altrimenti perderebbe la sua unicità. Qui però potrebbe insinuarsi un dubbio di non lieve entità: dunque quelli che noi chiamiamo sacerdoti cristiani oggi, in realtà non lo sono, anzi appaiono addirittura degli usurpatori. È noto che questa è stata una interpretazione di alcuni Riformatori del XVI secolo. Non è detto che si debba leggere così. Infatti se il sacerdozio unico di Cristo non può essere trasmesso, può essere partecipato, nella linea sacramentale. Infatti è questa che da una parte congiunge con Cristo e dall’altra relativizza o ridimensiona il ruolo dei ministri del NT. Non si tratta di una identificazione fisica con Cristo, nel senso di una formula che si presta ad equivochi: ‘sacerdos alter Christus’, ma di una comunione nella linea sacramentale appunto, che dice partecipazione e differenziazione. La linea sacramentale è quella che impedisce ogni esagerazione ed ogni negazione. Non sostituiamo Cristo, né siamo soltanto dei portavoce, ma siamo veramente uniti a lui, mediante lo Spirito, rendendolo presente nel nostro tempo, in forza di ciò che i sacramenti significano e realizzano. Se non siamo il Cristo, lo rendiamo presente nella storia di oggi nella forza dello Spirito Santo. Dunque, è sempre lui che salva e redime e santifica, secondo la splendida teologia di sant’Agostino: Pietro battezza? Giuda battezza? È sempre Cristo che battezza.

 

2. d. Compiuto nel santuario di Dio

E l’ultima attestazione del sacerdozio unico di Cristo è dato da Eb 9, 11-12.15 :<<Cristo, però, apparso come sommo sacerdote dei beni futuri, per una tenda più grande e perfetta, non manufatta, cioè non di questa creazione, né mediante sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue è entrato nel santuario una volta per tutte, perché ha trovato un riscatto eterno…Perciò egli è il mediatore dell’alleanza nuova, affinché, essendo intervenuta una morte in redenzione delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, i chiamati ricevessero la promessa dell’eterna eredità>>.

Il sommo sacerdote entrava una volta nel santuario del tempio per chiedere il perdono dei peccati di tutto il popolo. Cristo è entrato in un altro santuario, quello del cielo; dunque la sua mediazione, la sua opera non è simbolica, ma reale; è giunto nel santuario di Dio, presentando a lui la lista dei nostri peccati e ottenendone il perdono. Solo lui è giunto al trono di Dio, perché egli è venuto da questo trono, in quanto Figlio. Questa è dunque la novità che fonda la redenzione definitiva e la nuova alleanza. Quindi è il mediatore unico della nuova alleanza, per tutti i motivi già detti. Tuttavia, questa unicità non è la chiusura per una mediazione che perdura nel tempo, in virtù della Pasqua di Cristo,come testimonia san Paolo: <<E tutto ciò è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione; è stato Dio, infatti, a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro>> (2Cor 5, 18-20).

L’opera unica di Cristo è resa presente da coloro che sono stati resi ambasciatori di Cristo Signore e dell’opera della riconciliazione.

Attualità: la grande svolta

di Renzo Bertalot

A - I teologi

Nel 1957 Hans Küng pubblicava la sua tesi di dottorato presso l'università Gregoriana di Roma discutendo il tema della giustificazione per fede in un confronto diretto con la teologia di Karl Barth. Le convergenze emergenti erano di una tale entità da sorprendere gli studiosi sia cattolici sia protestanti. Barth stesso era stato richiesto di fare la presentazione alla dissertazione del candidato dando un suo giudizio. L'apprezzamento del teologo di Basilea non poteva venire espresso in maniera più chiara: "lei mi fa parlare come parlo io e...io penso come lei mi fa parlare". La ricerca accurata e il coraggio determinante mettevano in evidenza la convergenza dei rispettivi pensieri. "Se" tale interpretazione cattolica della giustificazione per grazia mediante la fede si dimostrasse effettivamente coerente con il sistema dogmatico di Roma a Karl Barth non resterebbe altra possibilità se non quella di ritornare a Trento per dire ad alta voce: Patres peccavi. Le contrapposizioni tradizionali si rivelavano quindi come un "continuato malinteso". Le due chiese non avrebbero più dovuto considerarsi "alternative", ma come espressioni diverse della stessa fede. (1)

Nel 1969 la tesi di H. Küng, con la prefazione di K. Barth, veniva pubblicata in italiano. J. L. De Vitte, professore di teologia controversista della Pontificia Università Gregoriana, segnalava le osservazioni generalmente positive che circolavano sull'argomento. (2) Dopo secoli di polemiche si apriva uno squarcio di sereno. Era la grande svolta, una pietra nello stagno immobile degli arroccamenti passati. Si parlava ampiamente del "malinteso" di Trento mentre il Concilio Vaticano II era in pieno svolgimento.

Tuttavia non tardarono le resistenze e ripresero fiato le affermazioni sulle chiese "alternative", sulle "scelte" inevitabili, sui nuovi "orientamenti" e sulle "linee politiche" imposte dalla guerra fredda. Fu un momento difficile per quanti prestavano attenzione alle tesi del "dialogo" in vista del superamento del "monologo" a forte matrice integrista. L'"aut-aut" tornava ad incidere sui contenuti anziché sulla necessità di distinguere tra il fondamento e la forma per non contrabbandare il vaso d'argilla con il messaggio da trasmettere. Il dialogo infatti, dopo mezzo secolo di incontri tra le chiese, era un occasione da non perdere: non bisognava cedere frettolosamente alla tentazione di accantonarlo.

Intanto la contestazione giovanile dell'establishment che si era sviluppata a partire dal 1967 all'università americana di Berkeley (California), si tinse di rosso cupo in Europa e sotto la spinta del vento caldo, proveniente dalla Cina, stimolò alcune frange estremiste a criticare Stalin addirittura da sinistra. Non di rado la sopravvivenza del dialogo veniva paragonata a neutralità disimpegnata e le si attribuiva poco generosamente il marchio dell'infamia.

Certamente c'è da chiedersi se K. Barth e P. Tillich, così notevolmente aperti alle idee socialiste, non siano giunti alla fine della vita con qualche dubbio sulla loro fatica a proposito degli ultimi eventi storici loro contemporanei.

B - I dialoghi

Intanto nel 1968 ad Uppsala ebbe luogo la IV Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese. Un tema molto difficile da affrontare era quello della "cattolicità" della chiesa: ogni settore del cristianesimo presente lo rivendicava come una nota caratteristica della propria identità confessionale. Il cosiddetto "miracolo" di Uppsala propose una transizione comune dalla nozione di "cattolicità esclusiva" ad una "cattolicità inclusiva" e quindi aperta al futuro e soprattutto alla missione. Nel contesto si chiarì che ogni "dono" di Dio comporta un "compito" per chi lo riceve (Gabe und Aufgabe). Non sono pensabili l'uno senza l'altro!

La discussione presente sulla giustificazione per fede e gli approfondimenti futuri potranno facilmente richiamarsi a questi orientamenti ecumenici incipienti.

Nel 1972 ebbe luogo a Malta un incontro tra cattolici e luterani sul tema della giustificazione per fede. Il documento conclusivo evidenziava le prospettive convergenti e stimolava la continuazione dei lavori nonostante le critiche degli assenti. (3) Per H. Küng era invece un momento felice. Una volta messo in risalto l'essenziale sarebbe stato possibile accompagnare K. Barth a Trento affinché potesse finalmente mantenere la sua promessa e dire ad alta voce: Patres peccavi. Purtroppo Barth era morto quattro anni prima e il dialogo sulla grande svolta rimase interrotto. (4)

Nel 1997 il dialogo cattolico luterano presenta un documento finale sul tema della giustificazione per fede in vista di un accordo definitivo. Le controversie tradizionali sono ricondotte ad una questione di "forma" al di là della quale emerge un "fondamento" comune fortemente marcato e decisivo per entrambe le parti. (5) Tra l'altro si affermava la nostra totale dipendenza dalla grazia salvatrice e non dalla nostra libertà personale. Siamo, infatti, incapaci di convertirci a Dio, di meritare la giustificazione e di ottenere la salvezza tramite i nostri meriti.

Per i cattolici la "cooperazione" veniva intesa come "effetto" della grazia e non della nostra abilità. Per entrambe le parti si poteva affermare che tutto ciò che precede e segue il dono di Dio non costituisce la base della giustificazione e dei meriti. Le scomuniche tradizionali non avrebbero più avuto ragione di sopravvivere in rapporto allo specifico accordo raggiunto.

Non mancarono riserve da parte di un folto gruppo di teologi luterani e anche da parte riformata, (6) ma la Federazione Mondiale Luterana approvò il documento.

C - La svolta

In data i settembre 1998 si ebbe la risposta ufficiale da Roma. Si rendeva necessario un ulteriore chiarimento sulle questioni di vocabolario (l'espressione iustus ac peccator e il concetto di "penitenza"), per stabilire un rapporto corretto con la regula fidei e l'autorità del consenso proposto. Si doveva forse registrare dopo 450anni da Ratisbona un persistente cono d'ombra? Non fu così. Tutto poteva essere confermato con la sola aggiunta di un allegato al testo ufficiale. L'allegato venne e fu accettato ufficialmente l'11 giugno 1999. (7) La firma del documento finale avvenne il 31 ottobre 1999, durante le celebrazioni della domenica della Riforma, ad Augusta, città storica del protestantesimo, dove fu stesa la Confessione detta appunto "augustana" del 1530.

Si tratta evidentemente di un salto di qualità (è il primo dialogo "recepito") verso il Terzo Millennio che ci vedrà impegnati nei vari settori del cristianesimo per trarne le conseguenze sul piano teologico e pratico. Intanto cattolici e luterani possono definire, sia pure con sottolineature diverse, l'uomo simul peccator et iustus affermando che "noi siamo in verità interiormente rinnovati dall'azione dello Spirito Santo, restando sempre dipendenti dalla sua opera in noi" e contemporaneamente "se diciamo di essere senza peccato non siamo nel giusto". (8)

È ancora prematuro prevedere il rinnovamento dei dialoghi che la "dichiarazione congiunta" comporterà nell'area del movimento ecumenico. Possiamo solo anticipare le prime reazioni da parte cattolica che leggono nel documento firmato ad Augusta un "consenso differenziato" e "un'interpretazione autentica" di quanto il concilio di Trento aveva deliberato in proposito.

Possiamo anche aggiungere una domanda autorevole da parte luterana: .... il mistero dell'unica chiesa di Cristo può essere espresso attraverso un altro approccio ecclesiologico, un'altra teologia del ministero, un altro apprezzamento delle strutture ecclesiali? Resta il fatto che la questione posta è appunto quella della legittimità di un approccio ecclesiologico diverso dalla mia tradizione". (9)

Se ci si chiede se sia possibile una 'riconciliazione senza capitolazione', da parte autorevole cattolica si risponde: "La dichiarazione congiunta offre una risposta positiva a questo interrogativo". (10)

A distanza di tanti anni credo che sia doveroso non dimenticare quanti hanno lavorato e sperato di vedere questo momento. In modo particolare il nostro pensiero va ancora al cardinale Gasparo Contarini, patrizio veneziano.

Note

1) Sull'"immenso e tragico malinteso di Trento" cf. J. De Senarclens, Héritiers de la Réformation, Labor et Fides, Ginevra, 1959, p. 163. Per quanto riguarda il rapporto tra giustificazione e santificazione, vedi J. Moltmann, Lo spirito della vita, Queriniana, Brescia, 1998.

2) H. Küng, La giustificazione, Queriniana, Brescia, 1969, pp. 389ss.

3) Sono “consensi che commuovono gli inconsapevoli", e un “ricorso storico di un'antica incomprensione", cf. V. Subilia, La giustificazione per fede, Paideia, Brescia, 1976, p. 114.

4) H. Küng, Karl Barth and the Postmodern Paradigm, in The Princeton Seminary Bullettin, n.l, (1988), p. 16.

5) Joint Declaration on the doctrine of Justification, World Lutheran Federation, Ginevra, 1997.

6) Dubbi sul "pieno consenso" furono espressi da parte valdese, cf. Riforma dell'11 settembre 1998. Va inoltre ricordato che per Calvino i bambini dei credenti sono battezzati perché cristiani e non sono cristiani perché battezzati, G. Calvino, I.C.R. IV, XV, 22. Per U. Zwingli la salvezza dipende dall'elezione, non dai sacramenti. Per M. Lutero, cf. G. Ferrari (a cura di), Lutero. Opere scelte. 9. I Concili e la Chiesa 1539, Claudiana, Torino, 2002. L'acqua per mezzo della Parola di Dio diventa battesimo, p.351. Ilbattesimo comunica la salvezza, p.51.

7) Così alla conferenza stampa, tenutasi a Ginevra presso il Centro Ecumenico in data 11 giugno 1999, presieduta dal past. Ishmael Noko, segretario generale della Federazione Mondiale Luterana, e dal cardinale Edward Idris Cassidy, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani.

8) Cf. intervista al card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e a Eero Huovinen, vescovo luterano di Helsinki, in 30 Giorni, n.6, 1999, p. 19.

9) A. Birmelé, La dichiarazione congiunta luterano-cattolica sulla giustificazione. Un cammino di pace tra le chiese (I), in Av.Vv., Conflitti violenza pace: sfida alle religioni, Ed. Ancora, Milano, 2001, p. 76. André Birmelé, teologo luterano, è docente all'Istituto di Ricerca Ecumenica di Strasburgo.

10) A. Maffeis, La dichiarazione congiunta luterano-cattolica sulla giustificazione. Un cammino di pace tra le chiese. (Il), in Ib., p 88. Angelo Maffeis, teologo cattolico, è docente alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale e membro di Fede e Costituzione.

Il 6 settembre 2000 usciva la Dichiarazione Dominus Jesus del cardinale Ratzinger che ci invita a riflettere in modo esclusivo sulla "perfezione" della chiesa di Cristo, perfezione che si trova "soltanto" nel cattolicesimo. Ha sollevato logicamente forti reazioni sia all'interno che all'esterno del mondo cattolico. È un forte richiamo al punto di partenza e anche un invito a non trasformare i dialoghi in utopia per non perdersi in un labirinto di intuizioni senza uscita.

Molto interessante è il suggerimento di Paul Ricoeur, cui è stato attribuito il "Premio Internazionale Paolo VI" in data 5 luglio 2003, di prestare maggior attenzione al dialogo in quanto linguaggio. Si tratta infatti di imparare una lingua straniera e di cercare di tradurla nel proprio ambito confessionale. Cf. P. Ricoeur, Dal Concilio di Trento al Convegno di Trento, in G. Breschin-E. Cambi-L. Cristellon, Lutero e i linguaggi dell'Occidente, Morcelliana, Brescia, 2002, pp. 17-24.

Nicola Cabasilas,
il laico che fu maestro di spiritualità

di Marco Ronconi

Nicola Cabasilas (1322-1391/97), santo della Chiesa bizantina, ha goduto nella cristianità latina una notevole e per certi versi curiosa autorevolezza, che non sembra fortunatamente declinare. I suoi testi - di un autore non cattolico - sono stati utilizzati sia al Concilio di Trento, sia al Vaticano Il. Senza volontà di precisione, si trovano sue citazioni in Jacques-Bénigne Bossuet, Giuseppe Dossetti, Joseph Ratzinger, Paolo VI e Giovanni Paolo Il. A un suo passo si è rifatto il Predicatore della Casa Pontificia lo scorso venerdì santo, mentre il suo nome è presente in Orientale Lumen e nella più recente enciclica Ecclesia de Eucharestia. Anche l’ultimo convegno ecumenico tenutosi al monastero di Bose lo scorso settembre, ha analizzato la figura di questo laico cristiano, che vale forse la pena conoscere più a fondo.

Maria nostra guida perché possiamo incontrare Dio Uno e Trino.

Mercoledì, 31 Ottobre 2007 20:22

Scelte radicali (Faustino Ferrari)

Dovremmo tornare a focalizzarci sulle esigenze della vita evangelica. Quelle esigenze che interpellano tutti nella loro radicalità e non soltanto alcuni privilegiati...

Gesù nelle grandi confessioni
e nelle ideologie

di Bruno Secondin

ISLAM

Gesù rimane sempre «sorpassato» da Maometto, l’ultimo e il più grande dei profeti. Ancora oggi non è assolutamente ammissibile per l’islam non solo l’incarnazione nel tempo del Dio unico e invisibile; ma anche la morte in croce del Figlio di Dio. Un profeta non può essere lasciato da Dio nell’umiliazione.

È importante notare che ciò che l’islam pensa e crede di Gesù è radicato in certi capitoli del Corano, in particolare quelli che trattano di Gesù e della sua madre Maria. Essi rimangono ancora oggi fattore determinante e centrale del giudizio islamico su Gesù Da qui deriva una notevole stima sia del cristianesimo - considerato religione rivelata da Dio - che di Cristo, considerato mandato da Dio, taumaturgo, originato da nascita verginale, portato in cielo col corpo (ma senza soffrire la morte).

Maria è l’unica donna citata per nome nel Corano - da lei prende nome perfino un capitolo del testo - e che insieme a Cristo ha goduto di particolare simpatia e venerazione nei secoli tra i musulmani1. Ma sempre alla luce e nell’orizzonte generale di quello che il Corano dice di loro.

Nel Corano sono anche descritte qualità distintive dei «seguaci di Cristo»: mitezza e misericordia, assenza di superbia, attenzione ininterrotta alla preghiera, liberalità nelle elemosine e attesa dell’ultimo giorno. In questo senso di vita cristiana come «ascesa» mediante la povertà, la mitezza e l’umiltà si è anche sviluppata e tramandata l’immagine di Gesù nell’islam.

Inoltre oggi si tende a studiare ancor di più la «cristologia» del Corano perché la sua «teologia» riflette la posizione del giudeo-cristianesimo: cioè la cristologia siriaca e semitica dei primi secoli (che privilegia la categoria del servo, come appunto fa il Corano), che poi abbiamo perduto, con la «ellenizzazione».

Un fatto nuovo rispetto alla storia è l’attuale interesse nell’islam per il così detto Vangelo di Barnaba: un testo italiano e spagnolo, databile al secolo XVII (edito però in questo secolo), ma che pretende essere una traduzione di un testo scritto al tempo di Gesù, dal suo discepolo Barnaba. Ciò che ci interessa è come Gesù è presentato: è un Gesù musulmano, ma in stile simile a quello dei Vangeli canonici cristiani. Non contiene nulla che sconcerti un musulmano: né la divinità di Gesù, né la crocifissione, né affermazioni che non siano nell’ortodossia del Corano. C’è di più: l’annuncio chiaro ed esplicito della venuta d’un profeta dopo Gesù, con la rivelazione perfetta2.

Ma se nel Corano Gesù viene chiamato «Parola» di Dio e annunciatore del «Vangelo», come possono i musulmani disinteressarsi di questo Messia e del suo Vangelo?

Fra i teologi musulmani, citiamo Mahmoud M. Ayoubl

«Noi vediamo perciò che - come il Cristo della fede e della speranza cristiana - il Gesù del Corano e della successiva pietà musulmana è molto più di un semplice essere umano e di un semplice banditore di un libro. Mentre il Gesù dell’islam non è il Cristo della cristianità, il Cristo del Vangelo parla spesso attraverso il semplice, umano Gesù della pietà musulmana»3.

Purtroppo le attuali situazioni di conflitto e di tensione fra nazioni cristiane/occidentali e nazioni/culture islamiche hanno fatto crescere tra i musulmani un fondamentalismo esasperato, che non c’era nella storia passata, in questa forma almeno.

Note

(1) Un recente interessante contributo in Maria nell’ebraismo e nell’islam oggi, Marianum-EDB, Roma-Bologna 1987.

(2) Il testo: L. CIRILLO-M. FREMAUX, Évangile de Barnabé Recherches sur la composition etl’origine. Texte et traduction, Paris 1977. Una valutazione cristiana:.J. SLOMP, The Gospel in Dispute. A crirical Evaluation of the first french Translation, with the italian Text and Introduclion of the so-called Gospel of Barnabas, in «Islamocristiana», 4(1978), pp. 67-111.

(3) E’un noto teologo musulmano, che ora vive in America. La frase è ripresa da un suo saggio in «The Muslim World» 66(1976), p. 187.

BUDDISMO

Gesù appare una grande «personalità», supremo maestro della via alla saggezza sconosciuta, che ha tante somiglianze con Budda4. E un’ammirazione che però non intende accettare gli aspetti «divini» di Gesù. Si tace di fronte alla «divinità per natura».

Non mancano delle proposte di «rivedere le formule cristologiche» per i cristiani che vivono in un contesto culturale buddista. Per es. il gesuita singalese A. Pieris5 insiste soprattutto sulla lotta per essere povero e la lotta a favore del povero.

Noi citiamo alcuni passaggi dal grosso saggio di H. Küng sulle religioni6.

Il primo testo è la ripresa di una considerazione, molto audace per vero, ma suggestiva, di un teologo americano.

«Quello che ha da dire il teologo americano John Cobb ... dovrebbe far riflettere: “Il buddismo shin non ha ancora affrontato la crisi del rapporto tra storia e fede. Se esso si confronta con questa crisi, i suoi problemi si presentano, sotto parecchi aspetti, più pressanti di quelli di fronte ai quali si è trovato il cristianesimo; la sua base è infatti ancora più lontana dal corso reale della storia. Esso può certamente trovare molti appoggi nel Budda e nella storia del buddismo, ma là dove la sua dottrina è più caratteristica esso trova un appoggio minimo in questa tradizione, che precede lo stesso Shinran».

Poi Cobb compie: un grande passo, che certamente solo pochi buddisti sono disposti a imitare:

«Tuttavia, niente nell’autocomprensione buddista presuppone la necessaria ammissione che la storia cercata possa venir trovata soltanto in India o nell’Asia orientale. Al contrario, il buddismo tende all’universalità. Pure esso richiede una visione inclusiva di tutte le cose,e oggi una tale visione deve abbracciare la storia universale. Ma la storia universale comprende anche la storia di Israele e l’evento Gesù. Quella storia che comprende la visione cristiana della benevolenza di Dio, sostiene anche la concezione, propria del buddismo shin, della sapienza e della compassione, che caratterizzano la realtà ultima... Appena questo atteggiamento [di sospetto e di difesa] venga superato realmente, non esiste più un motivo di principio perché i buddisti non possano accogliere anche il passato palestinese, come hanno accolto quello indiano. E’ più in Palestina che in India che la storia, quando venga letta come incentrata in Gesù, offre la base più solida per la fede, e che noi veniamo redenti dalla grazia ia virtù della fede».

Ed ancora:

«Quando impara a conoscere la figura del Budda, che fu un uomo che pensava in maniera elitaria, il cristiano avvertirà la grande sfida a mettere radicalmente in questione e a ristrutturare la propria vita orientata forse troppo sul successo e sull’attivismo. Viceversa, quando il buddista accetta di confrontarsi con Gesù di Nazaret, con il Cristo, che aveva compassione del popolo e accoglieva i falliti, percepirà un invito a superare “per il bene di tutti gli uomini” la divisione in due classi dei credenti, a dare al laico, ritenuto inferiore, non soltanto una funzione di secondo grado, ma anche un accesso diretto alla liberazione, un diritto e una dignità propri, a venire in aiuto dei deboli, degli sfortunati e degli sfruttati, per trasformare proprio in questo modo il mondo qui e ora, nella compassione e nell’amore, per il bene di tutti».

Note

(4) Cf. lo studio di P. NGUYEN VAN T0T, Le Bouddha etle Christ, Urbaniana Press, Roma 1987.

(5) A. PIERIS, Buddismo: sfida ai cristiani, in «Concilium», 22(1986), pp. 97s. Per un’analisi più ampia:: rimandiamo ad un importante numero di «Concilium», 14(1978) 6: Buddismo e cristianesimo.

6) H. KÜNG, Cristianesimo e religioni universali, Mondadori, Milano 1986, pp. 513s e 424. Nella prima citazione egli si riferisce allopera di. COBB, Beyond Dialogue. Toward a Mutual Transformation of Chrislianity and Buddhism, 1982, pp. 139-140.

INDUISMO

Qui il rapporto è invece molto più complesso e anche la letteratura è abbondante. C’è un fatto molto interessante: l’affermazione frequente di molti convertiti dall’ induismo al cristianesimo, e anche di molti cristiani profondamente «induizzati», i quali dicono che il Vangelo non sarà mai compreso appieno sinché esso non riceverà anche l’interpretazione «induista». Questo lo si dice specialmente al riguardo del Vangelo di Giovanni: «I cristiani non riusciranno a capire il Vangelo di san Giovanni se non quando l’India sarà cristiana». In generale possiamo dire che:

— Gesù Cristo si innesta bene nella religione bhakti, un ramo non secondario dell’induismo, praticamente tutta la religione del popolo indù. Il motivo di fondo è che la religione bhakti si basa su un dialogo d’amore tra il fedele e il suo Dio (o Krisna o Visnu o Siva), in maniera non dissimile da quello che può avvenire per il cristianesimo per un cristiano «medio».

— Gesù Cristo - trasportato nella visione indù - avrebbe così una funzione simile a quella di Krisna e sarebbe visto come un’avatara di Visnu. La Bhagavad-gita e alcuni Purâna sono essenzialmente i testi della bhakti a cui si ispira una simile visione.

I primi tentativi consapevoli di collaborazione tra cristianesimo e induismo risalgono all’opera missionaria di Roberto de Nobili (1577-1656), esempio di un’autentica inculturazione: si fece brahmino, imparò le lingue sanscrito e tamil, accettò le caste e l’intoccabilità. Altro pioniere è stato Bartolomeo Ziegenbalg (1683-1719), tedesco luterano.

Ma soprattutto importante va ritenuto il ruolo del rinascimento indù del XIX secolo. Esso raggiunse l’apice nel «Brahmo Samaj» fondato da Raja Ram Mohan Roy (1830). Si volle rinnovare l’induismo nel senso di un monoteismo ispirato ai Vedanta e al discorso della montagna, con chiari obiettivi umanistici.

Altre figure che emergono: Keshab Chander Sen (Cristo è un «orientale», logos della nuova creazione); Ramakrishna (1836-1886) (e il suo discepolo continuatore del movimento: Vivekananda), estatico grandissimo, ebbe anche una visione di Cristo. Considerò Gesù come un orientale, dei più grandi maestri di tutti i tempi, a ragione chiamato Dio. Gli europei lo avrebbero interpretato male e abusivamente trasformato in un testimone di una storia missionaria imperialista; è invece maestro dell’interiorità e dei senza patria.

Altri nomi da ricordare: Mahatma Gandhi: per lui Cristo non è un monopolio del cristianesimo, ma un modello per tutti gli uomini, specie in alcuni principi: come la forza della verità, la non violenza, il servizio al prossimo. Vinobba (discepolo di Gandhi): Gesù fu il più grande dei satyagrahi: cioè di coloro che credono nella forza della verità e si impegnano per essa.

Da parte cristiana va notata l’esperienza di «inculturazione» (attraverso gli Ashrams cristiani) di J. Monchanin (+1957), H. Le Saux (Swami Abhishiktananda + 1973; che nel 1968 si ritirò sull’Himalaya a fare l’eremita), Bede Griffiths (autore del libro noto: Ritorno al centro).

Una menzione particolare anche per R. Panikkar, nel suo libro noto, Il Cristo sconosciuto dell'Induismo7: egli sviluppa un notevole parallelismo tra Cristo e Isvara (creatore, signore e manifestazione suprema di Brahman).

Interessante anche il caso del Giappone: dove si riscontrano sia condizioni culturali favorevoli al messaggio cristiano, sia un profondo e quasi «insuperabile» sentimento di rifiuto della visione cristiana.

Note

(7) Vita e Pensiero, Milano 1976.


NEO-MARXISMO

Non è curiosità inutile rivolgere uno sguardo anche nel campo marxista e ascoltare cosa hanno da dire su Gesù Cristo coloro che credono nella visione marxista della storia e dei progetti: è una visione materialistica e atea per principio. Ma vi sono anche a volte interessi culturali per la figura di Cristo che possono dire qualcosa.

Vi sono sì - e ancora tantissimi - marxisti che negano storicità alla figura storica di Gesù, lavorando a smontare la credibilità dei testi e delle fonti. In questo più che Engels e Bauer, maestro indiscusso e caposcuola classico è Karl Kautsky, con l’opera Der Ursprung des Christentums, Kautsky spiega l’insorgere, il chiarificarsi e la definitiva fisionomia del cristianesimo non come derivante da Cristo (che non si sa se è esistito), ma da cause storiche; oppressioni, schiavitù, ribellione. Gesù è per lui un «ribelle», che ha tentato un colpo di stato; nell’orto degli olivi il gruppo (che era armato) era pronto al colpo di mano, da una posizione strategicamente importante. Ma la cosa fallì, anche per il tradimento di Giuda. Il Vangelo è «storicizzazione» di speranze rivoluzionarie che di fatto non si realizzarono. Subentrò invece l’istituzione, che a sua volta divenne potenza e oppressione. «Non fu la fede nella risurrezione del Crocifisso che ha creato la comunità e gli ha dato vigore; ma, al contrario, la vitalità della comunità creò la fede nella sopravvivenza del suo Messia»8.

Ci sono altri studiosi (non russi) che accettano la storicità (sostanziale) delle testimonianze, e vogliono trovare in Gesù un insegnamento che non sia monopolio del solo cristianesimo.9 Questi sono soprattutto coloro che sono chiamati neo-marxisti; da catalogare più come filosofi che critici storici. Fra questi vogliamo ricordarne alcuni.

E. Bloch (1885-1977); autore dell’opera in tre volumi Das Prinzip Hoffnung10. L’idea da tener presente è che, per Bloch, l’uomo è connotato dalla categoria del poter-essere, dalla continua tensione verso ili futuro. «Homo absconditus» è il titolo che egli usa; significa identità non ancora svelata (quindi in cammino, nomade), da inventare in un qualcosa non ancora realizzato. Nella religione, specie quella ebraico-cristiana egli scopre (come tanti altri marxisti) anche un’alienazione; ma soprattutto una tensione verso il futuro, il «regno», verso un avvenire migliore.

Gesù per Bloch non pare relegabile al dolce rabbi nazareno: egli è piuttosto un ribelle, colui che si mette contro ogni forma di schiavitù, pagando anche il prezzo di questa ribellione; che è la croce. La croce non è - come per i cristiani - «gesto supremo d’amore e di fedeltà» al Padre, ma viene dal di dentro dei conflitti: come ultimo segno di una ribellione allo statu quo che non può essere sopportato, ma che bisogna pagare con l’eliminazione fisica. Con plastiche immagini Bloch parla di Gesù come eschaton, come speranza mai domata, come Prometeo che ruba il fuoco agli dèi (e viene inchiodato sulla roccia), a favore dei poveri, o come «serpente» che invita «eritis sicut deus».

V. Gardavsky (cecoslovacco). Anch’egli sviluppa il concetto di Gesù come modello aperto di umanità e ricorre alla concezione veterotestamentaria dell’uomo come essere storico aperto, soggetto di azione creatrice, come Giacobbe incapace di sopportare il ruolo di secondogenito, e «lottatore» perfino contro Dio per strappargli la benedizione. Così appare come la massima incarnazione dell’ideale di un uomo dalle infinite possibilità, in continua esperienza di autotrascendimento. La sua riflessione è legata al momento politico della Cecoslovacchia del 1968

R. Garaudy (francese), filosofo marxista dissidente, oggi passato all’islam. Egli si muove sempre sulla linea dell’autotrascendimento. Per lui l’uomo ha per qualità primaria la capacità di autotrascendenza, la capacità di rompere il cerchio dell’ordine costituito, egli è libertà, progetto, creatività continua. Questa qualità/situazione di fondo è anche un’impresa da compiere: e questo lo porta a superare anche le strutture del socialismo storico. In Gesù si ritrova questa verità di un Dio che non si rassegna, ma con amore rischia, andando incontro al superamento continuo di ogni schema rigido. Nel suo morire e risorgere egli è appello al superamento di ogni limite, anche della morte, come annuncio che tutto è possibile. Ogni nostra azione rivoluzionaria e nuova rende vivente tra noi lui, Gesù di Nazaret.

Ha scritto in un saggio:

«Ogni qualvolta riusciamo a romperla con il nostro vivere di routine, con la nostra tendenza alla rassegnazione, con la nostra facilità a cedere, con le nostre alienazioni nei confronti dell’ordine costituito o della nostra meschina individualità, e grazie a tale rottura, riusciamo a compiere un atto creativo sia in campo artistico o scientifico; sia nell’azione rivoluzionaria o nell’amore: ogni qualvolta contribuiamo con qualcosa di nuovo alla realizzazione della vita umana il Cristo è vivente in noi; da noi e tramite noi si continua la creazione. La risurrezione si compie ogni giorno».

M. Machovec (cecoslovacco): ricordiamo di lui l’opera Gesù per gli atei. Egli parla con grande simpatia di Gesù, anche se utilizza le categorie teologiche post-bultmanniane (dalla cristologia diretta a quella indiretta), ma mette in dubbio un gran numero di dati evangelici. Egli legge la vicenda Gesù con un’ottica «marxista» attenta ai rapporti fra classi sociali.

Senza dubbio appare affascinato dalla personalità di Gesù, e ne sottolinea il tema della povertà-ricchezza che si associa strettamente anche con l’esaltazione dell’infanzia, come situazione non alienata, tempo di libertà e mitezza; amore-non violenza: un amore radicale che raggiunge una profondità straordinaria, come appare dal precetto dell’amore anche verso il nemico; lotta al fariseismo.

L. Kolakovski (polacco), fra l’altro autore di Senso e non senso della tradizione Cristiana. Presenta Gesù come un «profeta e un riformatore». Egli dice di muoversi da un punto di vista puramente filosofico, come laico, fuori delle chiese, attento al posto di Gesù nella cultura europea in generale (cita ad es. Pascal, Hegel, Kierkegaard, Nietzsche, ecc.). Individua nell’insegnamento di Gesù «cinque nuove regole»: abolizione della legge a favore dell’amore; non violenza. nei rapporti umani; non di solo pane vive l’uomo (cioè ci sono anche altri valori); abolizione dell’idea di popolo eletto (cioè Dio ora è accessibile a tutti); precarietà dell’esistenza umana.

Osservazioni. Per riuscire a capire l’interesse dei «neo-marxisti» per la figura storica di Gesù Cristo, non si deve dimenticare che essi si sono trovati di fronte alla crisi di «ispirazione» del marxismo, e al bisogno di riscoprire il soggetto, il senso della vita, la dimensione «trascendente» dell’uomo. Per questo il messaggio etico di Gesù, specie l’enfasi sull’amore, sull’uguaglianza, sul valore della persona, sulla resistenza al male fino a morire, li attrae e sembra loro un modello di «correzione» anche per il marxismo. Horkheimer direbbe che si tratta della «nostalgia del totalmente Altro», come nostalgia «di perfetta e consumata giustizia».

Di recente anche altri valori vengono presi in seria considerazione, come la pietà, il perdono, la misericordia, il peccato, l’amore, Lo ha dimostrato il simposio di Budapest (8-10 settembre 1986) su «Società e valori etici», organizzato dal Segretariato vaticano per i non credenti e dall’Accademia ungherese per le scienze.

Possiamo dire che queste considerazioni proposte dai neo- marxisti hanno un certo interesse e senz’altro hanno influito sulla cultura e sulla stessa teologia in tempi recenti.

Tirando un po’ di conclusioni, possiamo dire che la linea neomarxista, sommata ad altri elementi filosofici, psicologici, culturali, e anche a specifici impulsi «teologici» - come quello di Bonhoeffer: Gesù come «uomo per gli altri» - ha trovato accoglienza e sviluppo (in termini più specificamente cristiani) in non poche riflessioni dei teologi attuali. Citiamo per tutte la «teologia della speranza», esplicitamente ispirata a Bloch, per attestazione dello stesso Moltmann.

Echi e analogie si ritrovano anche nella teologia politica, nella teologia della rivoluzione, in alcuni testi della teologia della liberazione (non i più noti). In particolare per quanto riguarda la comune preoccupazione di delineare una fisionomia di Gesù ricca di sovversività, vittima dei giochi e degli interessi dei potenti, simbolo di tutti gli oppressi della storia, ribelle che vuole e vive una prassi diversa, uomo che muore-risorge come supremo testimone dell’alterità, e la cui memoria rimane pericolosa e sovversiva. Di tutto questo avremo modo più avanti di offrire indicazioni maggiormente puntuali.

L’enfasi su Gesù «uomo libero e aperto» ha contagiato, per osmosi culturale, anche il linguaggio catechetico, gli schemi omiletici, perfino molti testi di meditazione. E questo è un interessante apporto della cultura attuale alla spiritualità cristiana. Ma dobbiamo fare attenzione a conservare completa la verità su Gesù Cristo e non ridurla solo ad alcuni, interessanti, stimoli prassiologici o antropologici.

Il dialogo interreligioso ha infine condotto a rileggere la verità che sta prima e oltre la formulazione «dogmatica» dei concili, per sceverare gli elementi ancora non «fissati» in formule, eppure preziosi e vitali. Perché anche a tutti i popoli e alle tradizioni sia concesso di «vedere Gesù» (cf. Gv 12,21) ed essere accolti da lui con il «giubilo nello Spirito», e così possano guardare a colui che, «innalzato da terra, attira tutti a sé» (cf. Gv 12,32), e credendo alla luce «diventare figli della luce» (Gv 12,36).

Il Cristo è destinato «a ricapitolare tutte le cose» (Ef 1,10), perché le ha riscattate col suo sangue sulla croce; ma anche perché tutto è stato «eletto in lui fin dalla fondazione del mondo» (Ef 1,4) e tutto esiste «in vista di lui» (Col 1,16s). Con l’incarnazione il Verbo ricapitola in sé, in modo visibile, il primato sul cosmo intero, che gli apparteneva in modo invisibile.

Le ricerche e i «cammini» delle religioni abramitiche, come le «vie» e i «sentieri» delle grandi religioni asiatiche o delle tradizioni a sfondo cosmico o animista, ci hanno fatto vedere quanto siano numerosi e preziosi i «semi del Verbo» e i segni di santità, e quanto numerosi siano coloro «che lo cercano con cuore sincero».

Di tutto questo Cristo è artefice e pienezza, spiegazione e fondamento, misteriosa presenza e talora anche figura deformata; rimane implicito soprattutto redentore e signore. Alla nostra epoca tocca «assecondare» gli impulsi dello Spirito, mediante il dialogo rispettoso e sincero, e condurre alla piena realizzazione questa signoria universale di Cristo (cf. GS 92).


Note

(8) KAUTSKY, Der Ursprung, p. 400

(9) Per una migliore e diretta conoscenza cf.: J.M. LOCHMAN, Gesù o Prometeo?, Cittadella, Assisi 1975; T. PRÖPPER, Jésus: raison et foui, Desclée, Paris 1978; I.FETSCHER-M. MACHOVEC, Marxisti di fronte a Gesù, Queriniana, Brescia 1976.

(10) Sono tre volumi editi a Berlino (est) negli anni 1954-1959. Tenere presenti anche Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971 e Religione in eredità, Queriniana. Brescia 1979.

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