Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 21 Giugno 2006 22:50

Divina Liturgia di rito bizantino

Testo in italiano della Divina Liturgia (celebrazione eucaristica) di rito bizantino.

Nato in Dalmazia nel 1866, visse sino al 1942, quasi sempre a Padova. Ultimo di dodici figli, pareva uno "scarto umano": piccolissimo, claudicante, pronunzia difettosa, sempre malaticcio; cosa mai avrebbe potuto realizzare? Ma lo sguardo di Dio era su di lui per farne un capolavoro di bellezza e di forza spirituale. La nobiltà d'animo suppliva all'aspetto fisico.

L’esilio a Babilonia
Crogiolo del monoteismo
di Thomas Römer *


Gli autori biblici che ci hanno trasmesso la testimonianza della loro fede in Yahwè, solo Dio d'Israele e dell'universo, non hanno fatto ricorso a concetti astratti. Il fatto di professare un solo Dio era divenuto per loro questione di vita o di morte…

Nel 597, l'esercito babilonese investì Gerusalemme. L'intellighenzia e l’establishment della città sono deportati a Babilonia (secondo Ger 52,28, sarebbero state deportato 3023 persone, tra le quali il re Ioiachin e il personale della sua corte). Dieci anni più tardi, la città è distrutta, le mura rase al suolo e il tempio incendiato. In questa occasione ebbe luogo una seconda deportazione (Ger 52,29 indica 832 abitanti di Gerusalemme). Alcuni testi biblici (per esempio 2 Re 25,21) danno l'impressione che il regno di Giuda fosse in quel tempo completamente svuotato della sua popolazione. Ma in realtà solo un 10/15 per cento della popolazione fu esiliato. La popolazione rurale rimase in gran parte nel paese e beneficiò della politica di ridistribuzione delle terre praticata dai Babilonesi (2 Re 25,12; Ger 39,10). Il fatto che i testi biblici si interessino maggiormente degli esiliati che di quelli rimasti nel paese si spiega facilmente. Sono i deportati o i loro discendenti che sono alla base della maggior parte dei testi dell'Antico Testamento, specialmente di quelli che danno una risposta monoteistica agli avvenimenti del 597/587.

Non possiamo sottovalutare lo shock provocato dalla distruzione di Gerusalemme. La distruzione del tempio, la deportazione della famiglia reale e l'occupazione del paese da parte di una potenza straniera significavano la radicale messa in discussione della religione ufficiale di Giuda. Essa era caratterizzata dalla venerazione di Yahwè come Dio nazionale (senza escludere i culti di altre divinità) attorno ai tre pilastri fondamentali: tempio, re e territorio. Ora, una tale religione nazionale diventava da quel momento impossibile. Nelle sue categorie mentali, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione della sua classe dirigente non poteva essere interpretata che come l'abbandono di Giuda da parte di Yahwè (Ez 8,12), o come la debolezza di Yahwè, incapace di difendere il suo popolo contro i Babilonesi e i loro dèi (Is 50,2). È in questo contesto che va delineandosi la confessione di Yahwè come unico vero Dio.

Le risposte monoteiste alla crisi dell'esilio

I Giudei esiliati elaboreranno tre risposte monoteiste alta crisi dell’esilio. Un primo gruppo di scribi, che vengono chiamati deuteronomisti (si ispirano allo stile e alla teologia del libro del Deuteronomio), pubblicano una storia di Israele e di Giuda, che si estende dall'epoca di Mosè (Deureronomio) sino alla caduta del regno di Giuda (2 Re 24-25). Questa storiografia spiega la catastrofe dell'esilio con l'incapacità del popolo e dei suoi capi a conformarsi alle leggi di Yahwè. Nel Deuteronomio, Israele è messo costantemente in guardia contro il pericolo della venerazione di altre divinità. Come in tutto il corso della sua storia, il popolo e i suoi re hanno venerato altri dèi (2 Re 17,l6-20); la collera di Yahwè li ha alla fine consegnati ai Babilonesi. I testi deuteronomisti che predicano la venerazione esclusiva di Yahwè non riflettono ancora un «monoteismo teorico», poiché gli altri dèi non sono negati nella loro esistenza. Essi, al contrario, rappresentano un enorme pericolo per Israele. Solo nei testi deuteronomisti più tardivi (probabilmente dell'inizio dell'epoca persiana) si trovano enunciati che celebrano Yahwè come unico Dio: «Sappi dunque oggi e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra; e non ve n'è altro» (Dt 4,39). Il monoteismo deuteronomista si afferma in un discorso di esclusione. Riconoscere Yahwè come il solo e vero Dio comporta un atteggiamento di intolleranza e di rifiuto verso gli altri popoli (cf specialmente Dt 7).

In compenso, l'elaborazione del credo monoteista nei testi sacerdotali del Pentateuco avviene in modo più universalistico. Il Dio di Israele è dapprima il Dio che si prende cura dell'umanità intera (Gn 1; 9,1-17: l'alleanza concerne i discendenti di Noè, cioè tutta l'umanità). Gli autori sacerdotali non esitano, per designare Yahwè, a ricorrere al nome divino arcaico «El Šaddai» (Gn 17). Questa divinità fu venerata in Mesopotamia e, nell'epoca persiana, ira qualche tribù proto-araba. Il monoteismo sacerdotale comporta allora una certa dose di sincretismo, e Yahwè è diventato il Dio dell'universo attraverso l'assimilazione di diversi epiteti divini e attraverso l'integrazione della religiosità popolare. La riflessione monoteista più spinta si trova nel Deutero-Isaia (Is 40-55). Essa si sviluppa in una raccolta di oracoli anonimi che celebrano l'ingresso del re persiano Ciro a Babilonia nel 539 a.C. Al contrario dei testi deuteronomisti e sacerdotali, la riflessione del Deutero-Isaia propone una «dimostrazione teorica» del monoteismo, e ne costituisce in seguito l'estensione in seno al canone veterotestamentario. Tutti i popoli sono chiamati a riconoscere che non c'è altro Dio che Yahwè (Is 45,6). Tutte le altre divinità non sono che chimere, «legna da bruciare» (Is 44,15). Si ironizza sul commercio di statue di divinità la cui sola utilità è di arricchire gli artigiani: «I fabbricatori di idoli sono tutti vanità e le loro opere preziose non giovano a nulla. Chi fabbrica un dio e fonde un idolo senza cercarne un vantaggio?» (Is 44,9-10). Questa affermazione dell'unicità di Yahwè - spesso identificato dal Deutero-Isaia con El (cf 43,12) - è presentata conte una sorta di rivoluzione teologica. La rivelazione di Yahwè come Dio unico di tutti i popoli e dell'universo equivale ad una nuova rivelazione: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19). L'elaborazione di una fede monoteista si comprende allora come una risposta degli intellettuali ebrei agli sconvolgimenti degli anni 597/587. Ma sarebbe errato interpretare questa fede in Yahwè esclusivamente come uno sviluppo interno al giudaismo.

Condizioni propizie alla fede monoteista

Nel VI secolo a.C. il monoteismo era per così dire «nell'aria». In Grecia, i filosofi presocratici (come Senofane) criticano il pantheon popolare e difendono l'unicità della divinità. L'ultimo re babilonese Nabonide (550-539) restaura i templi del dio lunare Sin a Ur e a Harran e sembrava voler fare di Sin il dio unico dell'impero babilonese. Il clero di Marduk, ferocemente contrario a questo tentativo, si alleò al re persiano Ciro e gli consegnò nel 539 a.C. la città di Babilonia. Ciro si presenta, in un testo propagandistico, come l'eletto di Marduk mandato per pacificare l'universo. Il testo del «cilindro di Ciro» somiglia alla celebrazione di Ciro come messia di Yahwè in Isaia 40 e seguenti.

L'universalismo monoteista del Deutero-Isaia gli permette di presentare Ciro come Messia di Yahwè ispirandosi alla propaganda del re persiano. L'influenza persiana sull'elaborazione del monoteismo giudaico si accrescerà sotto Dario e i suoi successori che introdurranno il culto di Ahura Mazda come religione ufficiale dell'impero achemenide.

Le origini della venerazione di Ahura Mazda e del suo profeta Zoroastro sono ancora poco conosciute. Sappiamo in compenso che i sovrani achemenidi hanno adottato le dottrine di Zoroastro e che hanno legittimato il loro impero facendo riferimento al «grande Dio». Il riferimento ad Ahura Mazda è onnipresente nelle iscrizioni reali: «Ahura Mazda è il grande re che ha creato questa terra. che ha creato quel cielo, che ha creato l'uomo, che ha creato il bene per l'uomo, che ha fatto Dario re, unico re su molti». Si può qualificare la religione ufficiale dell'Impero persiano come «monoteismo inclusivo», perché gli Achiemenidi erano in genere tolleranti verso le credenze delle popolazioni sottomesse. Bisognava semplicemente che gli dèi di queste fossero «compatibili» con Ahura Mazda. È degno di nota che la pubblicazione della Torâ (il Pentateuco), che diventa il fondamento del giudaismo monoteista dell’epoca persiana, sia fatta da Esdra, un emissario della corte achemenide. In 7,12, Esdra è chiamato «scriba della legge del Dio del cielo». Questo titolo si applica tanto ad Ahura Mazda quanto a Yahwè. In Esd 7,26, la legge del Dio di Esdra equivale alla legge del re persiano. Ne consegue che l'elaborazione del monoteismo ebraico trovò condizioni favorevoli nel contesto dell'impero achiemenide. D'altra parte nessun testo dell'Antico Testamento lascia trasparire qualche ostilità nei confronti dei Persiani. La fede in Yahwè, l'unico Dio, non è tuttavia una semplice interpretatio judaica del culto di Ahura Mazda. Perché, al contrario della religione di Zoroastro che è caratterizzata da una fortissima opposizione tra il Dio del bene e le forze del male, la fede biblica ha resistito al dualismo. Certo, Satana fa qualche breve apparizione in alcuni racconti della Bibbia ebraica (Gb 1; 1Cr 21,1), ma in modo marginale e rimanendo inferiore a Yahwè. Un testo del Deutero-Isaia si legge inoltre proprio come un rifiuto dei dualismo della religione persiana: «Io sono il Signore [Yahwè] e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene [in ebraico šalom] e provoco la sciagura; io, il Signore [Yahwè], compio tutto questo» (Is 45,6-7).

Le conseguenze della rivoluzione monoteista sul giudaismo

La presa di coscienza dell'universalità di Yahwè pose ai teologi dell'epoca esilica e postesilica il seguente problema: come conciliare l'affermazione che Yahwè è da un lato il Dio del cielo e della terra, e dall'altra che egli intrattiene una relazione privilegiata con un solo popolo? La risposta si trovava nella forte affermazione dell'elezione di Israele-Giuda da parte di Yahwè. I testi del Deuteronomio che risalgono ai secoli VI-V a.C. insistono sul legame tra creazione ed elezione (Dt 4,32-40; 10,14-15). All'epoca della monarchia, il solo re era l'unto, l'eletto di Yahwè, ma in epoca più tarda, è l'intero popolo che si è sostituito al re. L'idea dell'elezione permise così al giudaismo di inscrivere il particolare nell'universale.

La scoperta che la fede in Yahwè non aveva bisogno né di uno spazio preciso (il tempio o la terra), né di una istituzione politica (la monarchia) permetterà al giudaismo di vivere dappertutto nel mondo, nella diaspora. La Legge, la Torâ, che contiene tutto ciò che è necessario per vivere la propria fede in Yahwè, Dio dell'universo e Dio d'Israele, divenne una «patria portatile». Come già diceva l'esegeta Julius Wellhausen: «Il Diluvio dell'esilio che minacciava di sommergere gli Israeliti si è trasformato per loro nel bagno di una nuova nascita».

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

Lezione Seconda
Fede, teologia, storia della salvezza



1. La fede in rapporto alla teologia


Se consideriamo la teologia come atto dell’uomo, essa può essere indicata con l’espressione classica di intellectus fidei, intelligenza della fede. La teologia in questo senso soggettivo suppone la fede e la luce della fede: essa nasce quando la fede, mediante un movimento di appropriazione e di riflessione intellettuale, muove verso una conoscenza delle cose credute (fides quaerens intellectum), senza cessare per questo di essere fede. 

Un dialogo coraggioso, aperto, franco, sensibile e umile... con l'umanità contemporanea, con la ragione umana, le scienze... con tutto quanto concerne la giustizia sociale, i diritti umani, la solidarietà con i poveri... Un dialogo che sa ascoltare, dibattere, discernere e assimilare ciò che di buono e vero, giusto e umanamente degno viene proposto dall'interlocutore.

Lo scisma nella Chiesa Russa
fra il passato e il futuro
di Vladimir Zelinskij


Oltre alla Russia che occupa la settima parte del pianeta, da quasi 90 anni ne esiste un’altra, dispersa su tutta la terra. Queste due Russie non sono separate da confini territoriali, ma piuttosto da quelli ideologici; ciò che fu imposto come verità indiscutibile all’interno del paese non aveva nessun fascino per i suoi figli che si trovavano fuori. L’opposizione tra la “Russia rossa” e la ”Russia bianca” (se ammettiamo tale divisione schematica) ha trovato il proprio riflesso anche nel mondo ecclesiale, presentandosi come divisione netta e secca tra il Patriarcato di Mosca e la Chiesa Ortodossa Russa all’estero.

“All’estero” non è un termine geografico e nemmeno politico. E’ la denominazione ecclesiale creata nel 1921 in Serbia dai quei vescovi e sacerdoti della Chiesa Russa che insieme a due milioni di profughi hanno lasciato la Russia dopo la Rivoluzione del 1917. Ma a differenza dei greci che, cacciati nello stesso periodo dall’Asia Minore, avevano il proprio capo ecclesiale nel Patriarcato di Costantinopoli, i russi non potevano rivolgersi al patriarca di Mosca poiché si trovava sotto la mortale pressione esercitata da parte del regime – che per gli emigrati era il male assoluto, sanguinario. Così, in una situazione inaspettata per l’Ortodossia, che da millenni si appoggiava all’ecclesiologia della Chiesa locale sul territorio di una nazione, è nata una Chiesa con il suo gregge oltre le frontiere e che voleva salvaguardare a qualsiasi prezzo il suo carattere nazionale, non confluendo in altre Chiese locali. (1) Un altro punto del proprio programma era (ed in modo implicito rimane anche oggi) il restauro della monarchia con la famiglia imperiale Romanov nel momento in cui finalmente fosse finito il giogo bolscevico.

Il Patriarcato di Mosca che viveva sotto questo giogo fu costretto a reagire, tagliando con la Chiesa all’estero. Ma per quest’ultima un atto simile non aveva nessun valore; lo scisma era già iniziato. Nel 1931, la partecipazione di una diocesi russa - che rimaneva ancora sotto la giurisdizione del Patriarcato - alle preghiere interconfessionali celebrate a Londra in difesa della Chiesa perseguitata in Russia, portò il metropolita Serghij, capo della Chiesa di Mosca, a sospenderla a divinis. Per rimanere nella canonicità questa diocesi chiese l’omoforo (la protezione ecclesiale) di Costantinopoli. Così, oltre delle frontiere dell’URSS, si sono formate tre “Chiese-sorelle” russe in contrasto tra di loro - quella di Mosca, quella di Costantinopoli e quella all’estero, diffusa soprattutto in America, in Germania ed in Australia.

Per lunghi anni la Chiesa all’estero è rimasta fuori della comunione con la famiglia delle Chiese ortodosse canoniche, considerando se stessa come l’unica autentica Chiesa Russa: a differenza di quella a Parigi, che era scappata “sotto i greci” e, soprattuto, contro quella di Mosca che era diventata schiava di un regime ateo e blasfemo. Questo spirito, non privo dell’orgoglio di essere gli ultimi depositari della “Santa Rus”, ha creato una certa immagine di Chiesa vera, “pulita e ideale”. I suoi vescovi portano i titoli di Shiangai, di New-York, di Berlino, di Sidney, di Cannes, ma la loro bandiera è sempre russa-russa, non macchiata dal collaborazionismo con il nemico di Dio. Quando nel 1974, subito dopo il suo esilio forzato dall’URSS, il grande scrittore Soljenitsyn si è rivolto al III Concilio della Chiesa Russa all’estero con un suo appello all’unità ecclesiale in ambito russo, il metropolita Filaret, all’epoca suo capo, nella sua risposta ha ricordato una santa di San Pietroburgo del XVIII secolo, Xenia, una “pazza in Cristo”. Una volta venne al mercato e trovò una grande botte di miele; improvvisamente lei la rovesciò, tra lo stupore del popolo. Ma sul fondo di quella botte c’era un topo morto. Così, ha detto Filarete, è anche la Chiesa di Mosca; i dogmi, i riti, i sacramenti mandano profumi come miele, ma sotto c’è un topo morto: la sottomissione al regime dell’anticristo.

E quando la sottomissione non c’è più? Quando al posto dell’anticristo rosso ne è venuto un altro, “democratico” e variopinto, con il quale la Chiesa almeno non è più costretta a collaborare? Dopo il crollo del comunismo, per 15 anni questa domanda si è posta nella coscienza del clero e dei fedeli della Chiesa “bianca”. Finalmente, nel maggio scorso, il suo IV Concilio, riunito a San Francisco, ha proclamato solennemente la fine dello scisma. Più precisamente: del suo intento di ristabilire la comunione eucaristica con la Chiesa-Madre. Non si tratta di “tornare all’ovile” nel senso amministrativo, perché materialmente e giuridicamente la Chiesa all’estero vuole rimanere indipendente, ma piuttosto della riconciliazione canonica e spirituale. Questa decisione ha portato tanta gioia in alcuni ortodossi della Russia e dell’estero e ha provocato una certa amarezza in altri. Perché? La sfiducia nei confronti della Chiesa di Mosca è diventata parte dell’ideologia dei “zarubezniki” (seguaci della Chiesa al’estero), la propria ragione d’essere. La Chiesa di Mosca, affermano costoro, non ha ancora espresso un pentimento pubblico per il proprio “serghianesimo”. (2) Un peccato non rigettato si nasconde e può essere ripetuto. Già con i primi segni di avvicinamento fra Mosca e “l’estero”, quest’ultimo si è diviso in due, fra i partigiani e gli oppositori dell’unione. Ma il “serghianesimo” è comunque del passato e “i vitalibani” (3) - che vanno ripetendo che da Mosca “può mai venire qualche cosa di buono?” - sono una misera minoranza. Invece il problema che divide davvero le due parti della Chiesa Russa porta il nome ecumenismo. Nell’ottica della Chiesa all’estero il Patriarcato di Mosca non solo fa, ma anche confessa l’ecumenismo, cioè partecipa alla paneresia. L’ecumenismo è stato ufficialmente scomunicato negli anni ‘70 dal già citato metropolita Filarete. Questo anatema non solo rimane in vigore, ma anche rivela il tenore dell’anima di una Chiesa che da decenni ha vissuto con la coscienza di essere l’unica guardiana della verità in un mondo immerso nelle proprie colpe, nelle corruzioni e nelle cadute. Il documento finale del Concilio di San Francisco finisce con un concitato appello a Mosca (“col dolore nel cuore” davanti allo spettacolo del peccato della Madre) di uscire dal Concilio Ecumenico delle Chiese. In pratica, di rompere con l’ecumenismo.

L’appello non è ancora condizione sine qua non. Ma può diventarlo.

La storia dell’attività ecumenica del Patriarcato di Mosca è abbastanza breve, ma a modo suo drammatica. L’ecumenismo non era neanche pensabile nel periodo della persecuzione aperta e sanguinaria (1918-1943). E nemmeno al tempo della “protezione” staliniana. Nel 1948, quando Stalin volle fare dell’Ortodossia il proprio baluardo contro il Vaticano, l’ecumenismo fu risolutamente rigettato. Ma nel 1961, al culmine della persecuzione krusceviana, il Patriarcato entrò nel Consiglio Ecumenico delle Chiese - naturalmente con il permesso dello Stato (4) che trovava utile per sé continuare la propria politica anche con le mani e con le voci ecclesiali. La Chiesa da parte sua voleva semplicemente sopravvivere e mostrare la sua presenza sull’arena internazionale. Così il rapporto con le altre Chiese (le trattative teologiche con i luterani, i cattolici e gli anglicani) andava di pari passo con il servizio reso allo Stato in modo pubblico (“la lotta per la pace”, nella sua versione sovietica) ed anche in segreto (attraverso l’infiltrazione del KGB nell’ambito ecclesiale). Dopo il crollo dell’URSS questo ecumenismo è andato in crisi, crisi che è diventata poi più acuta con il problema del proselitismo cattolico, l’invasione delle sette, ecc. La Chiesa di Mosca, però, in nessun caso vuole irrigidirsi nella posizione “via, lontano da me” (Mt 25,41) nei confronti di tutto il mondo etero-ortodosso.

Ma ci sono anche altri punti caldi di discussione. Chi sarà il rappresentante degli ortodossi russi fuori Russia? Il vescovo di New-York, per esempio, sarà designato da Mosca o dalla Chiesa all’estero? Oppure le strutture parallele rimarranno come prima (oltre alla Chiesa ortodossa Americana, anche quella di origine russa)? A chi deve appartenere la proprietà della Chiesa all’estero in Terra Santa e che Mosca considera come sua? Ma il problema più aspro è quello delle decine di parrocchie della Chiesa all’estero create dopo il crollo dell’URSS, che si trovano all’interno della Russia (e anche dell’Ucraina). La loro identità stessa si trova in un’opposizione accanita a Mosca. Loro si sono già pronunciati contro qualsiasi unione col Patriarcato.

Ma è proprio l’ecumenismo che rimane il punto più cruciale del disaccordo. Certo, la Russia può arrabbiarsi contro tutti i proselitismi, congelare il dialogo, poi aprirsi di nuovo, rimproverare o abbracciare l’Occidente, ma il rapporto con esso, spesso difficile, è imprescrittibile alla cultura russa. Solo in Russia, però. Perché l’Europa, anche da nemica, fa parte della sua anima. Ma tanti russi all’estero (come molti convertiti all’ortodossia in Occidente) sono cresciuti con una nostalgia per l’”Eden dove voi non siete mai stati” (5) e con le spalle rivolte a quel deserto spirituale che li circonda in Occidente. “Per me la Francia è così estranea - mi disse in russo con un forte accento francese un vescovo della Chiesa all’estero - come qualsiasi altro paese del mondo”. Se questi atteggiamenti persistono nei prossimi anni, è più probabile che l’ecumenismo della Chiesa Russa faccia un passo indietro. Sì, ma fino al momento in cui la coscienza della cattolicità fraterna - che la luce di Cristo illumina - deve prevalere sull’ossesione di ricercare ovunque eresie. La storia, anche se oggi si discosta da quella luce, deve riscoprirla di nuovo nell’unità.

Note

1) Formalmente, la base ecclesiale della formazione della Chiesa all’estero è stato un decreto del 1920 del patrirca Tichon che ha concesso alle diocesi separate dall’autorità centrale durante la guerra civile il permesso di autogestirsi da soli.

2) Dal nome del metropolita Serghij (Stragorodsky) che nel 1927, sotto la pressione del regime e dello scisma interiore, dopo gli arresti di molti vescovi, intervenne con una sua famosa Dichiarazione nella quale proclamava non solo la lealtà della Chiesa ad un sistema nemico di Dio, ma in pratica anche la sua sottomissione morale.3) Dal nome del vecchio metropolita Vitalij che presiede la parte più “dura” della Chiesa all’estero.

4) A quell’epoca non si poteva neanche riparare una vecchia cinta intorno ad una chiesetta di campagna; immaginarsi l’entrata di tutta la Chiesa Russa nel CEC!

5) Dalla poesia di M.Tsvetaeva, poetessa russa.

Teologia ufficiale e religione popolare
di Thomas Römer *



La maggior parte dei testi dell'Antico Testamento proviene da un piccolo numero di intellettuali che tentarono, durante e dopo l'esilio babilonese, di riformulare la fede yahwista. Facendo questo, non si curarono affatto delle preoccupazioni degli «Ebrei medi», la maggior parte dei quali era rimasta in Palestina.

La distinzione tra «religione ufficiale» e «religione popolare» si è imposta da tempo alla sociologia della religione. Per conoscere la religione popolate ebraica di allora, lo storico deve leggere l’Antico Testamento tra le righe e prendere in considerazione documenti extrabiblici.

Lo studio dei nomi propri

I nomi che i genitori scelgono per i loro bambini sono un buon indicatore della religione popolare. Nell’antichità, questi nomi sono quasi tutti teofori, fanno cioè riferimento ad una divinità di cui essi esprimono un'attitudine, un'azione, o un augurio che gli si indirizza. L'Antico Testamento ha conservato, accanto a nomi teofori yahwisti (come Gionata: «YHWH ha dato»), numerosissimi nomi propri che si riferiscono a diverse divinità: Išba’al («Uomo di Ba'al»), Elqana («El ha creato»), Abram («Il Padre [l'antenato divinizzato] è innalzato»). Questi nomi non sono affatto un residuo dell' età arcaica. I testi biblici ed extrabiblici mostrano come nomi propri ebraici formati a partire da nomi di dèi stranieri sono ancora di moda nel periodo babilonese o persiano: Mardocheo («Che appartiene a Marduk»), Šinusur («Che Sin [Dio lunare] protegga»).

I teologi che hanno edito la Bibbia hanno mantenuto questi nomi che erano troppo diffusi e di cui certi elementi teofori (specialmente «El» e «Ab») potevano essere identificati con Yahwè. In alcuni casi, tuttavia, si è tentata una sorta di censura. Nei libri di Samuele, gli ultimi redattori hanno sostituito ad alcuni nomi in «Ba’al» la terminazione in «bošet»,: così Išba’al è diventato Išbošet («Uomo della vergogna»).

Le pratiche politeiste in epoca babilonese e persiana

Una grande parte della popolazione ebraica non deportata resta apparentemente attaccata alle pratiche politeiste. Parecchi testi che adottano la prospettiva della Golah (gli esuli a babilonia) criticano queste pratiche. Ezechiele (cap. 8) ci informa che, durante l'epoca babilonese, si celebrava a Gerusalemme il culto di Tammuz, un dio mesopotamico molto popolare la cui morte e resurrezione garantivano la fertilità del paese. Secondo lui, gli abitanti di Gerusalemme giustificavano le loro pratiche religiose col fatto che Yahwè avrebbe abbandonato il paese. Allo stesso modo, il culto di una dea chiamata la «regina del Cielo» era ancora molto diffuso al momento dell'esilio; si trattava di un culto familiare in cui le donne avevano il ruolo centrale. Il cap. 44 del libro di Geremia critica severamente questa venerazione.

I destinatari della critica per più si oppongono alla proibizione del loro culto:

«Anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla Regina del cielo e le offriremo libazioni come abbiamo già fatto... nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme. Allora avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedemmo alcuna sventura; ma da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo e di offrirle libazioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (vv. 17-18).

Bisogna dedurne che l'abolizione del culto della Regina del cielo (probabilmente la dea Ašerah) era ancora in piena discussione nel giudaismo dei secoli VI e V a.C. Un'interessante testimonianza della sopravvivenza di una religiosità popolare ci proviene dai documenti della comunità ebraica insediata ad Elefantina, un'isola situata sul Nilo nel sud dell’Egitto, che ospitava una guarnigione militare in epoca persiana. In questa comunità che aveva il suo proprio tempio, si è continuato ad associare a Yahwè (Yaho) una dea. Così, si prestava giuramento «per Yaho il dio, per il tempio, e per l'Anat di Yaho».

Altri dèi vi erano parimenti venerati sotto i nomi di Ašam-Betel e di Haram-Betel. A dispetto di queste pratiche che dovettero fortemente dispiacere alla nascente ortodossia di Gerusalemme e di Babilonia, gli Ebrei di Elefantina intrattenevano numerosi scambi epistolari con le autorità religiose di Gerusalemme. Sembra anche che pagassero un’imposta ecclesiastica.

Tra rifiuto e integrazione

Come si doveva gestire il permanere di una religiosità popolare a carattere politeista nel momento in cui gli artefici del giudaismo postesilico avevano ratificato nella Torâ la venerazione del solo Yahwè e l'osservanza dei suoi precetti? Erano possibili due atteggiamenti: la condanna della religione popolare, oppure la sua integrazione nel sistema della teologia ufficiale. Come ci accingiamo ad esaminare a proposito del culto degli antenati defunti, entrambi gli atteggiamenti hanno trovato codificazione nella Bibbia.

Il culto dei morti giuoca un ruolo importante nella maggior parte delle religioni dell'umanità. È così anche per le religioni del Vicino Oriente antico. Consistevano nel portare cibo o altre offerte ai defunti per mantenere la continuità tra le generazioni e per ottenere prosperità e protezione. Così certe tombe, specialmente quella di un antenato del clan o della tribù, rivestivano un carattere sacrale. Isaia (65,4) parla di persone che visitano i sepolcri durante la notte, cosa che attesta la pratica di un culto dei morti in epoca persiana. I redattori del Deuteronomio hanno reagito a questa pratica proibendola. I riti di lutto sono dichiarati illeciti (Dt 14,1), come l'offerta di cibo a un morto (26,14).

Di fronte a questa pedagogia repressiva, i redattori sacerdotali adottano una diversa strategia. Essi cercano di integrare la religiosità popolare nella fede yahwista dando alla prima un nuovo senso. In Gn 23, un autore di ambiente sacerdotale riferisce l'acquisto della tomba di Abramo, che era senza dubbio oggetto di culto. Descrivendo l'acquisto di questa tomba come un banale atto immobiliare la pietà popolare è da un lato presa seriamente, dall'altro è contemporaneamente trasformata. Poiché Dio non interviene in alcun momento in questa storia, il lettore è invitato a comprendere che se i gesti e i riti legati agli antenati sono importanti, le tombe patriarcali non hanno, in sé, alcun valore sacrale.

L'atteggiamento della teologia ufficiale nei confronti della religiosità popolare oscilla tra rifiuto e «recupero». Questo doppio atteggiamento si vede ancora, anche ai nostri giorni, nelle tre religioni monoteiste.

* Professore di Antico Testamento
Facoltà teologica dell’Università di Losanna

(da Il mondo della Bibbia, 47)

Martedì, 13 Giugno 2006 22:55

Gregorio Nisseno, Santo (Franco Gioannetti)

Gregorio Nisseno, Santo
di Franco Gioannetti



Uno dei grandi dottori che, nella seconda metà del secolo IV, diedero splendore alla Chiesa di Cappadocia. È speculativo, contemplativo, filosofo, mistico.

Nacque a Cesarea di Cappadocia nel 335 circa e morì nel 394 circa.

La sua giovinezza è piena di quei contrasti che sono caratteristici del suo tempo e del suo ambiente. La sua famiglia, benestante, che era stata perseguitata da Valerio per motivi di fede, ebbe su di lui un grande influsso. Ebbe una buona formazione culturale ed abbracciò la professione di Rettore.

Sotto l’influsso del fratello Basilio, che aveva iniziato un’esperienza monastica, seguito in questo dalla sorella Macrina, si avviò ad un approfondimento della vita cristiana attraverso lo studio della Scrittura e dei grandi Dottori che avevano lasciato la loro impronta culturale nella vita della giovane Chiesa.

Ma nel 370 il fratello Basilio, che era stato eletto vescovo di Cesarea e che aveva bisogno di persone di cui fidarsi, lo fece eleggere vescovo di Nissa, cittadina nel cuore dell’Asia Minore. Fedele alla fede di Nicea, fu perseguitato e fatto deporre da Demostene, vicario del Ponto, simpatizzante verso gli Ariani. Fu però riabilitato con gioia del popolo nel 378.

La morte del fratello Basilio, alla cui ombra era sempre vissuto, lo fece passare in primo piano. Fu incaricato di ispezioni nelle chiese del Ponto, dell’Acaia, della Palestina e dell’Arabia. A causa della sua vita culturale e spirituale, stimata da tutti, fu costretto a prendere posizione nelle controversie dottrinali. Morì nel 394.

Le sue opere sono di contenuto esegetico, letterario e spirituale; con, nel De vita Moysis, delle note di profonda mistica che influenzarono anche autori venuti dopo di lui. Nelle sue omelie in Cantica Canticorum sviluppa una mistica dell’estasi, dell’amore che apre nuovi orizzonti alla spiritualità. Il suo trattato De Beatitudinibus ha, nel capitolo sulla purezza del cuore, espressioni profondamente importanti per la vita spirituale.

Rilevante l’importanza dei suoi trattati di teologia, dove approfondisce il dogma e si sforza di renderne conto. I suoi trattati di spiritualità sono costituiti principalmente da commenti della S. Scrittura e poi da scritti strettamente spirituali. Tra questi emerge il De virginitate. Importanti anche i sermoni e le omelie.

La dottrina

Gregorio di Nissa è teologo nel senso più stretto del termine, nella misura in cui mistero di ha nella sua opera un posto considerevole. Qui, per motivi di spazio, tratteremo essenzialmente gli aspetti più inerenti questa rubrica: spiritualità e mistica.

La teologia spirituale di Gregorio N. è una conseguenza della sua teologia sacramentaria. Essa è, sotto l’azione dei sacramenti, lo sbocciare delle potenze divinizzate dell’anima. Secondo un’immagine a lui cara, Gregorio paragona le virtù dell’anima, vivificate dai sacramenti della Chiesa, gli alberi del Paradiso. Il Nisseno rappresenta la vita spirituale come un percorso dalla luce alle tenebre, in cui distinguere tre grandi vie:

  • La via della luce (i principianti): essa è caratterizzata dalla purificazione di tutti gli elementi estranei all’anima e dalla restaurazione dell’immagine di Dio in lei. In primo luogo bisogna lottare contro il pervertimento delle disposizioni sensibili o passioni; quindi raccoglimento ed unificazione in sè per repulsa delle cose sensibili e vane. Caratteristiche: il distacco da ogni vana preoccupazione, una profonda fiducia filiale. La purificazione ed unificazione dell’anima le permettono una prima conoscenza di Dio in lei.
  •  La via della conoscenza di Dio nello specchio dell’anima. È questo un aspetto essenziale della sua mistica, si tratta di una esperienza della grazia che Gregorio esprime con la dottrina dei sensi spirituali. Questa esperienza della grazia è una conoscenza di Dio; non conoscenza dell’essenza di Dio che è inaccessibile, ma esperienza della presenza di Dio che Gregorio chiama sentimento di presenza. Il fondamento di questa esperienza è la presenza della trinità nell’anima, mediane la grazia, la divinizzazione dell’anima è un’azione divina che comporta una vicinanza speciale di Dio ad essa. La conoscenza dello specchio è una conoscenza mediata, ove la presenza di Dio è conosciuta attraverso la sua azione sull’anima. Possiamo dunque avere un’esperienza di Dio in noi, ma man mano che progrediamo scopriamo che Dio trascende infinitamente tutto ciò che non possiamo conoscere.
  •  La terza via, la conoscenza di Dio nella tenebra; essa consiste nel comprendere che la vera conoscenza di Dio consiste “nel comprendere che Egli è incomprensibile”. Questo fino a comprendere che “trovare Dio consiste nel cercarlo incessantemente” e che “nel progredire sempre nella ricerca sta il godere veramente dell’amato”.
Gregorio porta l’anima a Dio per la via della spiritualità estatica dell’amore. Quindi la vera esperienza mistica è, nella tenebra, l’unione a Dio. Gregorio esprime con i termini: “sobria ebbrezza”, “sonno vigile”, “eros impassibile”. Dove Gregorio intende per “eros” la carità intensa, la follia dell’amore che strappa l’anima a se stessa per gettarla in Dio.

Fasi della cultura europea d'oltralpe

Mattia Flacio (1520-1575):
agli albori del luteranesimo *
di Renzo Bertalot


Venezia

Al di la delle Alpi si riteneva che la capitale della Serenissima potesse sponta­neamente aderire alla Riforma protestante e diventare così la “Ginevra Italiana”. (2) e Giordano Bruno rife­rendosi ad Enrico IV di Francia. Nel 1542 Bernardino Ochino scrisse al Senato della Repubblica (3) e nel 1545 Pier Paolo Vergerio già vescovo di Capodistria, passato al pro­testantesimo, invitò ufficialmente, a nome dei principi tedeschi, il doge Francesco Donà a prendere posizione a favore della Riforma. (4) Dal 1553 al 1562 Giovanni Andrea Ugoni continuò a sperare che Venezia accettasse l'invito rivoltole più volte. (5) Mattia Flacio, nel 1570, scrisse al Doge, (6) ma fu un'illusione.

I libri della Riforma ebbero un'ampia circolazione a Venezia che fu anche un centro di esportazione. Si calcola che circa quarantamila copie del Il Beneficio di Cristo, ritenuto il cate­chismo della Riforma, circolassero a Venezia. Si ritiene che sei­mila studenti, cosiddetti "luterani", frequentassero l'università a Padova. E seicentottanta danesi vi studiarono durante il XVI secolo. (7) Inoltre vi furono almeno due sinodi anabattisti.

Molti teologi italiani passarono alla Riforma e diven­nero titolari di prestigiose cattedre in Inghilterra, Germania e Svizzera.

Tuttavia per motivi di sangue blu e di famiglia, (8) vi furo­no anche molte esitazioni e ben presto i riformatori al di là delle Alpi dovettero rendersi conto che i principi italiani non avevano autorità sufficiente per introdurre la Riforma nei loro paesi. (9)

Bisogna tenere presente che le turbolenze dal punto di vista religioso si aggravarono e si complicarono con il 1547, anno della morte di Enrico VIII, di Francesco I e della sconfitta a Mühlberg della Lega di Smalcalda organizzata dai principi protestanti in funzione antiasburgica. (10)

Filippo Melantone (1497-1560)

Non è possibile richiamare il nostro tema senza che il nostro pensiero vada immediatamente a Melantone (gre­cizzato da Schwartzerdt), personaggio chiave del periodo accanto a Lutero.

Filippo Melantone nacque a Bretten il 16 febbraio 1497. A diciassette anni era già professore a Tubinga e in seguito insegnò ebraico e greco a Wittenberg collaborando con Lutero alla traduzione della Sacra Scrittura. Nel 1521 furono pubblicati i Loci communes rerum theologicarum (la prima opera dogmatica della Riforma) (11) che circolarono rapidamente in tutta Europa e costituirono la base di partenza dei circoli riformati italiani. Melantone si occupò anche di storia, di matematica, di astronomia e di scienze naturali.

Essendo Lutero bandito dall'Impero, toccò a Melantone presentare alla Dieta la Confessione di Augusta del 1530. Lutero l'aveva preventivamente appro­vata. In vista di salvare il salvabile la confessione si limitò a sottolineare gli "abusi" da rivedere. Melantone perciò fu considerato un uomo di compromesso.

Per quanto riguarda l'Italia sia i Loci che la Confessione Augustana trovarono l'epicentro della loro diffusione a Venezia, a Padova, a Modena, a Roma, a Napoli, a Siena e a Firenze. Abbiamo già ricordato che Melantone visitò Udine e Trieste e che nel 1539, da Norimberga, scrisse al senato della Repubblica Veneta.

I testi circolavano anche sotto il nome italianizzato di Ippofilo da Terra Nera. (12)

Melantone morì a Wittenberg il 19 aprile 1560 e fu sepolto accanto a Lutero nella chiesa del Castello.

Fu considerato, per la vastità del suo insegnamento e la riorganizzazione dell'educazione scolastica Praeceptor Germaniae, Praeceptor Scandinaviae, Praeceptor Europae e lo fu certamente anche dell’Italia nell'ambito della Riforma protestante. (13)

Mattia Flacio (1520-1575)

Mattia Flacio nacque il 3 marzo 1520 ad Albona qualche decina di chilometri a Nord-Est di Pola, città a maggioran­za luterana ai tempi del vescovo Pier Paolo Vergerio. Studiò a Venezia; fu particolarmente attento al Rinascimento. Andò a Basilea. Incontrò Gasparo Contarini a Ratisbona nel 1541 e poi si recò a Wittenberg dove aderì decisamente alla Riforma convintosi sulla giustificazione per fede. Ebbe la stima di Lutero ed ottenne la cattedra di ebraico e più tardi quella di Nuovo Testamento a Jena. (14)

Il 24 aprile del 1547 la Lega antiasburgica dei principi protestanti fu sbaragliata a Mühlberg. Con l'Interim di Augusta 1548 e poi di Lipsia, con la perdita dell'Elettore Maurizio passato nelle File di Carlo V, le imposizioni dei vin­citori passarono senza protesta. Non si menzionò la giustifi­cazione per fede. (15) La messa fu ristabilita ovunque (anche a Wittenberg, dove Lutero era morto nel 1546). Carlo V con­cesse effettivamente il matrimonio dei preti e il calice ai laici. L'esperimento fu tentato a Strasburgo, ma fallì. (16)

Non si parlò più di giustificazione in senso luterano, ma di giustizia infusa: la fede divenne una virtù e l'autori­tà tornava sub Petro.

Allora insorse energica­mente Flacio che divenne il capo dell'opposizione a Melantone e ai suoi sostenitori detti filippisti. La Riforma intanto si riafferma. (18)

Contro Melantone presero posizione molti teologi riformati. Lo stesso Calvino ritenne vergognoso l'atteg­giamento di Melantone. (19) Flacio era burbero di carattere e comunque intransigente sostenitore del dogmatismo luterano ortodosso. Lascia Wittenberg in rottura con Melantone. Nel 1562 gli muore la moglie; più tardi si risposerà. (20) Nel 1570 scrive al doge di Venezia invitando­lo ad abbracciare la Riforma: un'illusione. Visita Anversa. Il 12 marzo 1575 muore a Francoforte sul Meno.

Tra gli scritti di Mattia Flacio rimarranno significativi attraverso i secoli: la Clavis Scripturae Sacrae, un'opera siste­matica della riforma luterana del 1567 e le Centurie di Magdeburgo (1559-74), in tredici volumi (ne erano previsti sedici: uno per ogni secolo), frutto di molti viaggi e della consultazione di molti manoscritti. (21) Flacio cercò di stabili­re attraverso i secoli una catena di testimoni dell'Evangelo come autentica successione apostolica. In questa linea lodò anche i valdesi. L’opera segna la rinascita della storiografia. (22)

Mattia Flacio rimane una delle figure più significative della seconda generazione della Riforma protestante. (23)

La Formula della Concordia: dispute e conclusioni

Non è compito nostro soffermarci sulla Formula di Concordia. Essa è diventata uno dei libri simbolici della chiesa luterana e continua ad interpellare le chiese. (24) Raccoglieremo qua e là qualche spunto sulla contrapposi­zione che era venutasi a creare. La Concordia ha voluto esprimere un giusto equilibrio tra le parti. Intanto non va dimenticato che nel 1542 viene introdotta l'inquisizione di tipo spagnolo che porrà fine ad ogni tentativo di ade­sione alla Riforma in Italia. Inoltre sempre nel 1542 v'è la confluenza di calvinisti e di zwingliani nella Chiesa Riformata. Seguono il Concilio di Trento (1545), la scon­fitta antiasburgica dei principi protestanti (1547), gli Interim di Augusta e di Lipsia (1548-49), avallati senza protesta. (25) V'è notevole scompiglio dovuto alla restaura­zione della messa cattolica e il passaggio dell'elettore Maurizio alle file di Carlo V.

Melantone è visto come l'uomo del compromesso e della tolleranza, ma anche di velato sinergismo. È stanco della rabies theologorum. (26)Sull'eucaristia è accusato di criptocalvinismo per essersi avvicinato alle idee di Bucero e di Calvino. Sulla questione degli adiafora, degli elemen­ti dogmaticamente insignificanti, dimostra una certa apertura, ma Flacio, diventato il capo degli oppositori a Melantone interviene avvertendo che non bisogna mai cedere agli avversari. Occorre sempre riaffermate la Riforma.

La Formula della Concordia trovò una via di mezzo tra i contendenti.

Sulla giustificazione Melantone e Flacio erano d'accor­do, in quanto la fede è madre e fonte di buone opere, ma non lo erano sulla necessità di buone opere per la salvez­za e sulla predestinazione. In materia di cooperazione la volontà non resiste, ma si adatta, ha quindi la capacità di una giusta decisione nonostante il peccato originale. Ma per Flacio Dio solo converte perché il peccato ha trasfor­mato sostanzialmente l'uomo in una immagine di Satana. La Formula della Concordia respinge sia i flaciani sia i sinergisti: lo Spirito Santo può illuminare l'uomo verso l'obbedienza e la cooperazione; si tratta di un inizio nuovo della vita anche se permangono imperfezioni. Chi cade non va ribattezzato, ma riconvertito.

I teologi luterani si trovavano divisi in sostanzialisti o accidentalisti. Ma il peccato come sostanza non trovò cre­dito e Mattia perse la cattedra a Wittenherg, da dove già erano stati cacciati i filippisti.

Il seguito nei nostri tempi

Per descrivere l'incapacità dell'uomo a salvarsi, la Formula delta Concordia afferma, secondo Flacio e giu­stamente secondo Barth, che l'uomo è truncus et lapis perché l'alleanza è irrimediabilmente rotta. Tuttavia per Barth l'alleanza non è abolita perché opera onnipotente di Dio. Dio continua a pronunciare il SI’ sull'uomo, ne assume la morte per vincerla. L’uomo pecca nel dominio di Dio che solo decide quel che l'uomo è. È sotto l'auto­rità della Parola anche come fallito. L'uomo muore davanti a Dio.

Non è possibile quindi considerare l’"ateismo ontolo­gico" di Flacio che fa dell'uomo l'immagine sostanziale del diavolo. Lo status corruptionis è una degenerazione della relazione. La colpa è una questione di orgoglio: un debito, una negligenza una mancanza e una confusione del rapporto. L’uomo è responsabile del dono ricevuto, ma non ha la libertà alla quale è chiamato; scatena così il caos. La sola riparazione sta nel perdono perché l'uomo non è senza Dio. Di fronte a questo mistero dell'onnipo­tenza divina bisogna fermarsi senza tirare in ballo l'onni­presente tentazione della religione. (27)

La discussione sulla "cooperazione", sulla "sostanza" e sulla «relazione" continuerà a travagliare, con accenti diversi a seconda delle epoche, la teologia dei secoli suc­cessivi. Allo scadere del XX secolo si possono intravede­re le luci antesignane di tempi nuovi. Si tratta della Concordia di Leuenberg, della Dichiarazione Congiunta sulla giustificazione per fede (28) e della Carta Ecumenica per l'Europa. Sono documenti collettivi che trovano un sempre più ampio consenso tra le chiese e le singole comunità che rivelano l'inutilità dei dialoghi captativi (proselitismo) o oblativi (perdita d'identità). La disponi­bilità al dialogo (al cambiamento) sembra aprire nuovi orizzonti lasciando sedimentare nelle biblioteche e negli archivi, a beneficio degli studiosi, la storia dell'incomuni­cabilità degli uomini e della divisione delle chiese.

Note

* Il presente testo è apparso in Studi Ecumenici, cf. R. Bertalot, Mattia Flaco: agli albori del luteranesimo, in Studi Ecumenici, 20 (2002), pp. 453-459.

1) S. Caponetto, Melantone e l’Italia, Claudiana Torino, 2000 p 19.

2) R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofa del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993.

3) S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1992, pp. 60 ss.

4) Id.

5) G. Gullino (a cura), La Chiesa di Venezia tra Riforma Protestante e Riforma Cattolica, Ed. Studium, Venezia, 1990; cf. S. Tramontin, Tra Riforma cattolica e Riforma protestante, in S. Tramontin (a cura), Storia religiosa del Veneto. Patriarcato di Venezia, Giunta Regionale del Veneto – Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1991, p. 100.

6) E. Comba, I nostri protestanti Il, Claudiana, Firenze, 1895, p. 383.

7) F. Melantone, Lettere per l'Europa, Claudiana, Torino, 2000, p. 46; cf. S. Caponetto, Benedetto da Mantova. Marcantonio Flaminio: Il Beneficio di Cristo, Claudiana, Torino 1975.

F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del '500, Franco Angeli, Milano, 1999. D. Cantimori; Umanesimo e religione nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1975, pp. 183-188.

10) Caponetto, La Riforma protestante, p. 229.

11) Melantone, Lettere, p. 24.

12) Caponetto, Melantone; pp. 7, 27, 55-59.

13) Melantone, Lettere, IVs,, 27, 46-55.

14) Comba, I nostri protestanti Il, pp. 361ss.

15) J. L. Neve, A History of Christian Thought I, The Muhlenberg Press, Filadelfia 1946, p. 295.

16) Caponetto, La Riforma protestante, p. 179.

Comba, I nostri protestanti II, p. 370; K. Heussi, G. Miegge, Sommario di storia del cristianesimo, Claudiana, Torino, 1960, pp. 215 ss.

18) Comba, I nostri protestanti II, p. 370.

19) Neve, A History, pp. 295s.

20) Comba, I nostri protestanti II, p. 381.

21) L. A. Loescher, Twentieth Century Enciclopedia of Religious Knowledge, Baker Book House, Grand Rapids 1955, voce Flacius,

22) Comba, I nostri protestanti Il, p. 376.

23) Loetscher, Twentieth, voce Flacius.

Tillich, Storia del pensiero cristiano, Ubaldini, Roma 1969, p. 265.

25) Neve, A History, pp. 295-304.

26) Cornba, I nostri protestanti II, pp . 368ss. pp. 375-390.

27) K. Barth, Dogmatique, vol. XVIII, Ed. Labor et Fides, Ginevra 1966, pp. 134ss.

28) R. Bertalot, Fasi della cultura europea d'oltralpe, Istituto di Studi Ecumenici, Venezia 2002, pp. 52-58.

Fa’ di me un arcobaleno di pace
di Dom Helder Camara

Signore, fà di me
un arcobaleno di bene e di speranza
e di Pace.
Arcobaleno che per nessuna ragione
annunci
le ingannevoli bontà,
le speranze vane,
le falsi paci.
Arcobaleno incarnato da te
quale annuncio
che mai fallirà
il tuo amore di Padre,
la morte del Tuo Figlio,
la meravigliosa azione
del Tuo Spirito, Signore.

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