Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 18 Aprile 2007 01:20

Bernardo di Chiaravalle (Franco Gioannetti)

Bernardo di Chiaravalle (1090-1153)

di P. Franco Gioannetti


La vita

Bernardo di Chiaravalle nacque nel 1090, terzo di una nobile famiglia borgognona. Suo padre era Tescelin le Saur, signore di Fontaine-lès-Dijon e sua madre Aleth di Montbard. Dopo aver goduto di un’ampia formazione culturale presso i canonici di Chatillon, nel 1112 (secondo altri autori nel 1113) entrò nel monastero di Citeaux, che era stato fondato inizialmente nel 1098, come monastero riformato, dai benedettini, e che era noto per il suo straordinario rigore. Bernardo aveva convinto trenta parenti e amici a fare con lui lo stesso passo. Già nell’estate del 1115 fu mandato a capo di dodici monaci per fondare un altro monastero, Chiaravalle, di cui fino alla morte, avvenuta nel 1153, fu abate. Un’ascesi esagerata lo fece ammalare tanto gravemente che nel 1118 fu costretto a ritirarsi per un anno in una capanna sul terreno del convento, per recuperare le energie. Anche per il resto della vita sarà afflitto da gravi dolori di stomaco. Nello stesso anno incominciò la lunga serie di circa settanta altre fondazioni di monasteri.

A partire dal 1128 si coinvolse sempre più in faccende di politica ecclesiastica. Al concilio di Troyes fece da segretario e un anno più tardi fece da mediatore in una contesa tra Ludovico il Grosso e il vescovo di Parigi, mentre nel 1129/30 fece da mediatore tra Ludovico VI e l’arcivescovo di Sens. Quando, a partire dal 1130, due papi Innocenzo II e Anacleto II, rivendicavano, l’uno contro l’altro, il diritto di sedere sulla cattedra di Pietro, Bernardo prese partito per Innocenzo II. Al concilio di Etampes, nel 1130, conquistò Ludovico VI e i vescovi francesi al suo candidato. Re Lotario e il clero tedesco poco dopo s’unirono a questa decisione, e nel 1130/31 Bernardo convinse anche il re d’Inghilterra a riconoscere Innocenzo II. Nel marzo del 1131 s’incontrarono il papa e re Lotario, il quale voleva utilizzare la crisi del papato per indurre il Papa all’abolizione del concordato di Worms e per riacquistare il diritto di investitura dei vescovi. Ma l’energico intervento di Bernardo impedì il realizzarsi di questo desiderio.

Nei 1133 Bernardo, invitato dal Papa, intraprese un lungo viaggio attraverso l’Italia. Fece da piacere nella guerra tra Pisa e Genova e fu presente all’incoronazione imperiale di Lotario a Roma. Nel 1137 fu chiamato a Roma a fare opera di mediatore tra il Papa, imperatore e il re di Sicilia. Nel 1140, al concilio di Sens, grazie all’influenza di Bernardo furono condannati gli scritti di Pietro Abelardo. Nel 1143 l’abate di Chiaravalle fece opera di mediazione nella guerra tra il re Ludovico VII e il Conte di Champagne. Nello stesso anno Papa Innocenzo II gli rimproverò di immischiarsi troppo nella politica.

Nel 1145 un monaco di Chiaravalle fu eletto Papa col nome di Eugenio III. Chiaravalle da allora divenne sempre più il centro delle decisioni di politica ecclesiastica. Nella primavera del 1153 riuscì ad accomodare gravi tensioni politiche a Lothringen. Poi, tornato in patria, se ammalò e morì il 20 agosto. Nel 1174 fu dichiarato santo.

L’Opera - Influsso sugli ordini religiosi e sulla chiesa

La movimentata vita esterna di Bernardo sembra porsi in forte contrasto con la sua opera di monaco e il suo insegnamento di mistico. L’uomo che per alcuni decenni diede la sua impronta, in maniera determinante, alla storia dell’Europa, viveva allo stesso tempo con dedizione e convinzione la vita monacale, in modo tale da entusiasmare molte persone. La riforma iniziata nel monastero di Citeaux deve a lui in gran parte il proprio successo.

Ma l’attività di riforma di Bernardo, all’interno della chiesa, non era limitata al suo ordine. Egli divenne maestro della vita monastica in genere. Ciò che disse sul ruolo della regola di Benedetto e sull’autorità dell’abate e su questioni ascetiche condusse a riforme in molti monasteri benedettini. Inoltre contribuì col consiglio e con l’azione, al rinnovamento di altri ordini canonici e religiosi. Promosse l’ordine cavalleresco dei Templari e nelle diocesi portò come vescovi monaci di Citaux e Chiaravalle.. Sviluppò una dottrina sull’uso delimitato del potere e si diede da fare perché essa, nelle diverse guerre del suo tempo, avesse effetti mitiganti. S’impegnò energicamente per la riforma del clero, lo stile di vita dei prelati, e della curia romana.

Tutto questo era legato al tempo in cui operava e alle sue convinzioni, e in ciò trovava anche i propri limiti. La sua dottrina spirituale e mistica invece ha continuato a far sentire i suoi effetti lungo i secoli.

Scritti

I testi relativamente più spontanei di Bernardo sono le sue Epistolae (Ep.), di cui sono state conservate circa 500; vanno dal 1116 al 1153. Diciamo “relativamente” perchè già durante la vita di Bernardo furono organizzate in una prima raccolta e rielaborate da Bernardo stesso per la pubblicazione. L’indagine scientifica recente ha appurato come tutte le letture, e gli scritti di Bernardo siano stati continuamente rivisti e stilisticamente affinati, con la precisa intenzione di renderli adatti alla pubblicazione. Di conseguenza l’impressione che costituiscano documenti spontanei per lo più inganna. Le lettere di Bernardo trattano tutti gli argomenti pensabili, da brevi chiarificazioni obiettive e organizzative sugli scritti politici, fino a consigli spirituali e ad ampie trattazioni di carattere teologico-mistico (ad esempio Ep. 11 sull’essenza e i gradi dell’amore; Ep. 77, che è un trattato teologico sul battesimo).

Anche attraverso le sue prediche possiamo avere con lui un incontro molto personale. Esse costituiscono oltre la metà della sua opera. Con i suoi monaci viveva molto intensamente, attingendo alla Bibbia e in sintonia con le stagioni liturgiche; e ciò comportava l’esegesi continua e viva mediante la predicazione, un servizio che talvolta sovraccaricò Bernardo di lavoro, ma egli espletò sempre con appassionata dedizione. Ci sono tramandate all’incirca 120 prediche singole sulle festività dell’anno liturgico e dei santi, due brevi serie di prediche sulla pericope dell’annunciazione di Lc 1, 26-38 e sul Salmo 90 (91) e circa 500 brevi testi, abbozzi, e frammenti di testi, di cui 125 sono raccolti col titolo Sermones de diversis. Tutti questi testi si riferiscono sostanzialmente alla vita monastica e mistica, i discorsi politici di Bernardo non ci sono stati conservati.

Le prediche più note e importanti sono i Sermones super Cantica Canticorum (Cant.,) che iniziò nel 1135 come commento continuo ai singoli versetti del Cantico dei cantici di Salomone e che portò avanti, con interruzioni, fino alla morte. Però è arrivato soltanto fino a 3, 1. I cistercensi inglesi Gilberto di Hoiland (morto nel 1172) e Giovanni di Ford (1140-1214) hanno proseguito questo commentario con 48 e rispettivamente 120 altre prediche, fino all’ultimo versetto del Cantico dei cantici. In questi Sermones super Cantica Canticorum, ai quali ha lavorato accuratamente per vent’anni, Bernardo sviluppa, nei termini più vivi e profondi la sua dottrina, basata sull’esperienza, del cammino verso Dio dell’anima che cresce fino a diventarr sposa della Parola divina, unita al Cristo in un matrimonio mistico.

La maggior parte delle numerose trattazioni di Bernardo sono fondamentalmente lunghe lettere, scritte da lui in risposta a determinante questioni postegli. Nel 1125 Bernardo, dietro richiesta dell’amico Guglielmo di Saint-Thierry, scrisse per lui il suo primo trattato di una certa dimensione, l’Apologia. Si tratta di un dibattito - a tratti molto polemico - sullo stile cluniacense della vita monastica; i Cistercensi infatti avevano adottato, nella architettura e nell’arte, uno stile più sobrio e severo. De moribus et officiis episcoporum sorse tra il 1126 e il 1128; era destinato alla arcivescovo di Sens, che si era convertito a una vita ispirata alla riforma gregoriana della chiesa. Con il De baptismo, scritto nel 1138, Bernardo rispondeva ad alcune questioni di Ugo di san Vittore, e l’Epistola de erroribus Petri Abelardi, scritta verso il 1140, era una lettera a Papa Innocenzo II, nella quale, con parole talvolta troppo aspre, stigmatizzava il suo avversario teologico. Già tra il 1126 e il 1135 aveva dedicato a Guglielmo di Sanit-Thierry il trattato dogmatico De gratia et libero arbitrio. Menzioniamo ancora, per amore di completezza, la Vita s. Malachiae, composta tra il 1148 e il 1152, su Malachia arcivescovo di Armah in Irlanda, in amico intimo di Bernardo, che era morto nel 1148, e il trattato De praecepto et dispensatione, scritto prima del 1143/44, destinato ai benedettini di Chartres, che gli avevano rivolto una serie di domande sulla regola di san Benedetto, i poteri dell’abate e la libertà di coscienza dei monaci.

Una delle sue prime opere - scritta prima del 1124/25 - è sorta da discorsi del giovane abate ai suoi monaci sul capitolo settimo della regola di san Benedetto. Essa descrive “i gradi dell’umiltà” e porta il titolo di De gradibus humilitatis et superbiae (De grad.). L’opera offre una presentazione della mistica, che contiene già in nuce tutto ciò che l’uomo più maturo svilupperà negli ultimi Sermones super Cantica Canticorum. Poco dopo – nel 1125 .- scrisse al priore della grande Certosa una lettera sull’amore a Dio (Ep. 11), che più tardi integrò nella trattazione De diligendo Deo (Dil.), un opera con l’esperienza fondamentale della sua vita personale e il centro principio della sua mistica:

Il motivo per cui dobbiamo amare Dio è semplicemente Dio stesso e la misura è senza misura (Dil. I, 1), poiché facilmente gli uomini diventano capaci di un amore più grande, quando si rendono conto che essi stessi sono amati ancora di più (Dil. III, 7).

Accenni a questo centro dell’esperienza dell’essere amati e dell’amare, si trovano in altri due scritti di Bernardo: nel De consideratione (Consid.) e nel De conversione (Convers., 1140), un’edizione ampliata dei discorsi di Bernardo al clero di Parigi.

La dottrina mistica

Con la sua mistica Bernardo si trova alla soglia che conduce dall’era patristica a quella moderna. Detto da un lato “l’ultimo padre della chiesa)” egli è anche uno dei primi mistici “moderni”. L’aspetto “moderno” della sua spiritualità consiste non in una teoria nuova, “moderna”, poiché di fatto egli continua a rifarsi a temi e concetti tradizionali, ma in un modo nuovo, molto personale, di dare espressione alle proprie esperienze e di suscitare nei suoi lettori e uditori esperienze corrispondenti.

È importante notare che Bernardo si muove nella corrente di un nuovo stile di pietà, che s’era imposto in Europa già prima di lui, a partire dalla metà del secolo XI. Caratteristico di questo nuovo stile era un modo diverso di accostarsi a Gesù Cristo. Fino ad allora c’era stata in primo piano l’adorazione della divinità di Cristo, com’era comune nell’ambito romanico e bizantino (e com’è di fatto comune fino ad oggi nelle chiese ortodosse). Se là l’uomo si poneva in adorazione, con sacro timore, da solo e soprattutto in comunità, nella celebrazione liturgica, alla presenza del Figlio di Dio sovrano universale, per implorare la partecipazione alla sua grazia divina e alla sua gloria e partecipare così già adesso alla liturgia celeste dei redenti, ora invece l’attenzione dei cercatori di Dio si rivolgeva al destino terreno di Gesù Cristo. Adesso il singolo abbracciava con amore affettivo il Servo di Dio povero e sofferente, riconoscendolo come immagine della propria vita povera e penosa, e trovava nella sequela di lui la via alla redenzione. Se prima il centro era costituito dalla celebrazione liturgica ora invece si nutriva l’ideale dell’imitazione del Gesù povero, che nell’obbedienza, nell’umiltà e nella dedizione indefessa, compie la volontà del Padre celeste e che la compassione per i suoi fratelli uomini muove a condividere le loro sofferenze e la loro morte, fino alle ultime conseguenze.

L’effetto di questo nuovo stile di pietà era la ricerca, da parte di tutti e ovunque, di un nuovo stile di vita corrispondente, che fosse caratterizzato dalla povertà, dalla semplicità, dall’ascesi rigorosa e dal lavoro fisico. Allo stesso tempo in Occidente si riprese conoscenza dell’antica tradizione monastica orientale, che diede al movimento, caratterizzato dalla ricerca di povertà tipico del secolo XI, un forte tratto eremitico. Presero vita così gli ordini, tuttora esistenti, dei certosini e dei camaldolesi. I cistercensi divennero invero, non da ultimo per influsso di Bernardo, un ordine il cui tratto più caratteristico è un’intensa vita comune, ma allo stesso tempo la loro pietà era improntata da un interesse per il singolo, e tutte le istruzioni spirituali si rivolgevano al singolo, ruotavano attorno al suo rapporto intimo con Dio e alle sue esperienze personali con lui, descritte ora con un nuovo interesse e con una nuova sensibilità psicologica. In questo periodo era molto letto Agostino stesso, che nelle sue Confessioni si presentava in maniera convincente con i tratti della personalità singola.

All’inizio del cammino spirituale c’è per Bernardo la riflessione su di sé, il bilancio sobrio del proprio essere all’interno e all’esterno. Egli si esperimenta come l’uomo complesso, pieno di tensioni, contraddittorio. “Io sono la chimera del mio secolo. Non vivo né la vita di un monaco, ne quella di un laico. Da tempo ho rinunciato alla condizione di vita claustrale, ma non all’abito”. (Ep. 250, 4). Egli riconosce che la vera e propria povertà dell’uomo consiste nella sua inquietudine interiore:

Chi è più povero di spirito di colui che nel proprio spirito non trova alcun luogo di riposo, alcun luogo dove posare il capo? (Convers. VII, 12).

Per interpretare teologicamente questa condizione di alienazione Bernardo si serve dei concetti tradizionali: l’uomo – egli dice – si trova in regione dissimilitudinis, nella terra della di dissomiglianza. Bernardo creò una visione esistenziale e teologico-salvifica, etica: l’uomo – osserva – diventa “dissimile” attraverso il peccato, la disobbedienza a Dio. È caratteristico della sua mistica il fatto che in lui a svolgere il ruolo decisivo sia l’orientamento della sua volontà: unione con Dio significa sostanzialmente diventare uno con il volere di Dio nell’amore.

In ultima analisi a partire da questo dato si può ricondurre la sua vita a un denominatore comune. La sua molteplice attività si può far risalire tutta all’unica fondamentale decisione di voler fare continuamente quello che Dio s’aspetta da lui. La mistica nel senso di Bernardo è di conseguenza il rapporto intenso e personale col tu di Dio e l’obbedienza senza condizioni e nei confronti di questo tu, la disponibilità indefessa a donarsi. L’estasi mistica perciò in Bernardo è fondamentalmente un’estasi d’obbedienza. Ciò conferisce alla sua vita e alla sua dottrina una grande vitalità e pluriformità d’aspetti, e una vicinanza costante all’uomo e alla politica, poiché quando egli per brevi momenti viene totalmente rapito in Dio, nell’estasi, “quello stesso amore che lo chiama, lo strappa violentemente dall’estasi per mandarlo ai fratelli” (Dil. X, 27).

Questo vivere e agire ispirati dalla pienezza dell’amore rappresenta la condizione finale. Di solito l’uomo esperimenta soprattutto la propria fragilità. Bernardo si serve anche qui di formulazioni tradizionali, quando spiega che l’uomo creato “ad immagine e somiglianza di Dio” (in imaginem et similitudinem Dei, secondo Gn 1, 26) mediante la disobbedienza del peccato ha perso la propria somiglianza (similitudo) con Dio. Ma i segni della sua dipendenza da Dio sono rimasti in lui indelebili: egli resta immagine (imago) di Dio, soprattutto grazie alla sua indistruttibile volontà libera (libertas a necessitate), che però ha smarrito la capacità di libera scelta (liberum consilium), e la forza di fare ciò che sceglie di fare (liberum complacitum). Bernardo invita a riflettere profondamente sullo sforzo sistematico per conoscere se stessi. Allora l’orgoglio, sviluppatosi per mancanza di una sufficiente valutazione di sé, svanisce, e allo stesso tempo si disinnesca la disperazione latente che proviene da una mancanza di conoscenza di Dio

Il peccato è per natura un ridursi dell’uomo al proprio volere e potere, è voluntas propria. L’uomo deve essere attento a non ripiegarsi su se stesso nella contemplazione del proprio ombelico e nell’incapsulamento in sé, che è proprio il contrario della vera conoscenza di sé. L’uomo incurvato geme “sotto il peso insopportabile della sua volontà propria, invece di portare il giogo dolce e il peso soave dell’amore” (Ep. 11,5), che “non cerca ciò che è utile soltanto a sé, ma ciò che è utile a molti” (Ep. 11,4).

L’ottimismo di Bernardo e la sua psicologia e pedagogia diventano chiari là dove spiega come persino nell’amore egoistico (amor carnalis) del peccatore si nasconde un frammento di verità. Questo amore – egli sostiene - rappresenta il primo grado, anche se del tutto inadeguato, di quell’amore, che l’uomo deve imparare. Amarsi e preoccuparsi del proprio io corrisponde ad un istinto sano. Si tratta però di liberare quest’amore di sé dalla propria ristrettezza e dal proprio stato di schiavitù nella bramosia (cupido), in cui nella sua miopia cerca costantemente, con mezzi errati, una gratificazione svariata e illusoria. Tale amore dev’essere dilatato e “ordinato” in funzione di un amore senza confini e di un’esperienza di essere amati senza confini.

Da una valutazione sobria e obiettiva di sé Bernardo si ripromette la possibilità di diventare sensibili nei confronti di altri uomini, poiché si scopre che siamo tutti compagni di destino.

Lo sguardo alle proprie necessità apre lo sguardo alle necessità degli altri; e grazie a ciò che soffre egli stesso, l’uomo diventa capace di condividere le sofferenze altrui (De Grad. V, 18).

La voluntas propria può svilupparsi dunque un po’ alla volta sino a diventare voluntas communis. Quanti sanno soffrire con gli altri, “estendono la propria simpatia ai loro simili. Mediante l’amore si conformano talmente con loro, da sentire come proprie forze e debolezze le forze e le debolezze loro” (De grad. III, 6).

L’uomo che impara a guardare al di là di sé, può scoprire un terzo, che condivide la propria povertà e allo stesso tempo ha in sé la possibilità di andare al di là dei propri limiti: il Dio fattosi povero in Gesù Cristo. Sì, da che Gesù è diventato uno di noi, la nostra miseria e la nostra pena ci uniscono a lui.

Bernardo fa esperienza di grande pena, malattia, afflizione e tentazioni: “Mi accade quello che è accaduto a Gesù Cristo, il che mi rende molto simile a lui e mi unisce con lui”. La “mistica della passione” che ne deriva cerca la totale identificazione con Cristo, che si è fatto in tutto simile a lui. “Transformamur cum conformamur (siamo trasformati diventando simili a lui)” (Cant. 62,5). Così, al centro della pietà bernardiana c’è la meditazione sulla vita e sulla passione di Gesù Cristo. A Bernardo interessa soprattutto di Gesù il suo atteggiamento di fondo, il suo modus (Cant. 11,3) di comportarsi: il suo donarsi sino in fondo (exinanitio), il suo spogliarsi completamente, la sua umiliazione e l’umiltà, il suo servire, la sua obbedienza.

La vita di Gesù Cristo, per colui che la segue, ha un’efficacia sacramentale, trasformante. Diventare uguali a Gesù comporta la comunione di destino, l’unione con lui, la redenzione, l’aprirsi ad una nuova vita. Bernardo cita volentieri il passo biblico di 1Cor 6,17.

Quanto più l’uomo riflette e legge su Gesù Cristo, quanto più lo prega e gli obbedisce, tanta più confidenza acquista in lui, e un po’ alla volta Dio lo illumina sensibilmente. La conseguenza è che egli trova sempre più gusto in Dio. E una volta che ha gustato quanto è buono il Signore, giunge al primo grado dell’amore, dove ama Dio non più per se stesso ma per lui. In questa condizione si resta a lungo. E non so se un uomo in questa vita possa arrivare tanto lontano da amare (in un grado successivo) se stesso soltanto più per amore di Dio (Dil. XV, 39).

Durante quel lungo tempo che costituisce la maggior parte, la parte quotidiana, della vita, l’uomo – secondo l’esperienza di Bernardo – può trovare Dio specialmente nella sacra Scrittura. La Bibbia ha per lui addirittura un carattere sacramentale, tanto che la sua dottrina spirituale sulla Scrittura, i sacramenti in senso stretto (che sono per lui ovviamente il fondamento) passano fortemente in secondo piano, sorprendentemente, in favore dell’incontro vivo con Dio nella sua parola.

Quando sento come i miei sensi vengano aperti alla comprensione della sacra Scrittura, o come la luce della sapienza sgorghi dal mio intimo, o come la luce mi venga riversata dall’alto e mi si aprono con essa i ministeri, o come il cielo mi apra per così dire il suo seno incommensurabilmente ampio e faccia traboccare il mio spirito con una pioggia abbondante di sollecitazioni e riflessioni, allora non dubito che lo Sposo è presente. Questi sono infatti i tesori della parola, e dalla sua pienezza noi riceviamo tutto questo (Cant. 69,6).

La Bibbia divenne l’elemento vitale di Bernardo. La forma linguistica della Vulgata latina (la traduzione ufficiale della Bibbia in quel tempo) era talmente penetrata nella sua carne e nel suo sangue, che egli parlava letteralmente il “dialetto” della Bibbia. Non è possibile infatti staccare i modi di dire e le formulazioni bibliche, come citazioni, dalle sue parole proprie.

Al suo senso giovanneo per la Parola, Bernardo associa una predilezione per la mistica di Cristo caratteristica di Paolo. A sua volta unisce tale mistica alle immagini e al testo del Cantico dei cantici veterotestamentario. Con una sensibilità addirittura femminile, vive e descrive il suo io come anima che aspira a Dio, e i canti del desiderio, della ricerca e del ritrovamento tra sposo e sposa diventano per lui canti del suo amore per Dio. Questo linguaggio ispirato all’amore sponsale non soltanto conferisce alla mistica bernardiana il suo calore e la sua poesia umana; esso esclude anche ogni tentazione di dissolvimento della persona in un “divino” impersonale: la sua mistica è essenzialmente di natura dialogica.

L’essenziale sta nel tendere verso di lui con grande desiderio; non lo si raggiunge con la ragione, ma diventando conformi a lui (Cant. 69,2).

Sotto questo profilo Bernardo si è sempre mantenuto interiormente estraneo a quel confronto critico e distanziato con la sacra Scrittura e il dogma che incominciava a diventare caratteristico dei maestri contemporanei nelle scuole. Anzi, lo avvertì come pericoloso e, con una passione non sempre rispettosa delle regole della correttezza e dell’obiettività, combatté maestri come Abelardo e Gilberto de Poitiers.

La cultura senza l’amore si gonfia; l’amore senza la cultura si smarrisce. La sposa della Parola non può essere stupida. Ma il padre non sopporta neanche una sposa gonfia d’orgoglio (Cant. 69,2).

Occorre menzionare altri due aspetti della mistica di Bernardo: il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa e la sua devozione a Maria. Bernardo può essere dichiarato un mistico marcatamente “ecclesiale”, poiché per lui Cristo e la sua chiesa “sono due in una carne sola” (Cant. 27,7). La chiesa è il corpo mistico di Cristo, in cui il singolo fedele è incorporato; e nella misura in cui vive nella chiesa e con la chiesa, diventa egli stesso sposa di Cristo. Ciò spiega il suo impegno instancabile per la chiesa concreta sulla terra, le cui ferite egli avvertiva come ferite di Cristo e come ferite inferte a se stesso.

La devozione a Maria assume, nell’insieme del pensiero e della fisionomia spirituale di Bernardo, un suo spazio proprio, non del tutto integrato nella sua mistica orientata in senso rigorosamente cristocentrico. Egli parla relativamente di rado di Maria e non apporta alcun contributo nuovo e originale alla dottrina tradizionale della chiesa su di lei. Tuttavia, il poco che ha esposto su Maria è talmente buono ed è formulato in termini così personalizzati che potè dare l’impulso allo sviluppo della successiva pietà mariana.

Il titolo che gli è stato dato è Doctor marianus ma lo caratterizzerebbe ancora meglio il titolo di Doctor caritatis. Egli ha vissuto una via, o meglio la via dell’amore per Dio e per gli uomini, che ha percorso fino alle altezze dell’esperienza possibile su questa terra, là dove

il servo buono e fedele viene introdotto nella gioia del suo Signore (Mt 25,21) e si berrà dalla pienezza della casa di Dio (Sal 36,9). Egli allora in una maniera mirabile dimenticherà per così dire completamente se stesso, scomparirà addirittura a se stesso concretamente, per entrare totalmente in Dio. Da allora sarà unito a lui e sarà un solo spirito (cf. 1Cor 6,17) (Dil. XV, 39).

Le esperienze estatiche che Bernardo descrive ricorrendo a espressioni quali raptus (essere trasportato) e excessus (uscire di sé), risultano, in termini del tutto logici, come il compimento della sua dottrina sull’amore. Esse non sono accompagnate da alcuna circostanza insolita, ma rappresentano la condizione dell’amore perfetto, una fusione totale di tutte le percezioni e gli sforzi nell’amore di Dio che tutto abbraccia:

L’amore è sufficiente a se stesso. Dove subentra l’amore, strappa a sé tutte le altre sensazioni e aspirazioni e le fa prigioniere. Per questo l’anima che ama, ama davvero, e non sa fare altro che amare (Cant. 83,3).

L’influsso esercitato da Bernardo

Gli scritti di Bernardo erano molto diffusi già quando lui morì. Fino ad oggi ci sono stati conservati più di 1500 manoscritti, quasi la metà dei quali redatti durante la sua vita. Sono sopravvissuti a tutte le catastrofi, in una quantità che è unica nella storia della letteratura. I suoi interessi politici e teologici sono stati dimenticati presto, ma la sua teologia ha continuato a far sentire la sua influenza nell’ordine dei Cistercensi e, nei secoli XII e XIII, ha ispirato altri numerosi autori. Da essa prese vita nel secolo XIII la devozione e la mistica del cuore di Gesù. La teologia di Bernardo, che parte dall’esperienza del singolo, e il suo concetto di esperienza, influenzarono i teologi francescani del secolo XIII, il cui ordine è sorto nella seconda ondata di quel movimento incentrato sulla povertà che s’era avviato nel secolo XI e che aveva anticipato il suo ideale spirituale della sequela del Gesù povero di Nazareth. Alessandro di Hales e Bonaventura citano abbondantemente le opere di Bernardo (Cant. 43,4). La devozione a Gesù, sviluppata in maniera così convincente da Bernardo, ha ispirato il poeta che ha composto l’inno Jesus dulcis memoria, e che nei secoli successivi ha impresso la propria impronta in maniera determinante sulla devotio moderna sviluppatasi attorno a Geert Groote e ai Fratelli della vita comune, nel secolo XV.

Tra i mistici domenicani renani del secolo XIV, a subire fortemente l’influsso di Bernardo fu soprattutto Enrico Susone. Martin Lutero ha molto apprezzato Bernardo, a cui deve stimoli essenziali: l’amore per la parola di Dio, il rapporto tra conoscenza di sé e conoscenza di Dio, la priorità data al singolo, il richiamo alla propria esperienza nella teologia.

Furono gli autori spirituali francesi dei secoli XVII e XVIII a recuperare un’immagine più sobria del santo. Jean Mabillon nel 1667 curò un’edizione completa di tutte le opere autentiche di Bernardo. Nelle controversie del periodo sul giansenismo e nei dibattiti tra Fénelon e Bossuet, tutti i partiti si richiamavano a Bernardo. Bérulle e gli spiritualisti della scuola francese si sentivano imparentati spiritualmente con lui. Pascal ha imparato da Bernardo a prendere sul serio il “cuore” e le sue ragioni, e ha fatto proprio il “Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato” del De dirigendo Deo di Bernardo.

Nel secolo XIX Bernardo divenne per gli apologeti una riprova lampante della potenza dello spirito della pietà medievale, mentre i suoi avversari elevarono Abelardo, contro cui lui aveva così aspramente combattuto, a figura simbolo delle lotte contro l’oscurantismo della chiesa. Adolfo van Harnack dichiarò che negli scritti di Bernardo si può trovare nel modo più chiaro “il genio religioso del secolo XII”. Nel 1895 l’abbé Elphège Vacandard, con la sua opera in due volumi sulla vita di Bernardo, tuttora insuperata, ha posto il fondamento per una sua biografia storicamente obiettiva. E nel 1934 è stato Etienne Gilson a proporlo alla teologia con un libro sulla sua mistica.

Nell’ambiente di lingua tedesca questi stimoli ad una edizione delle opere di Bernardo e ad una presentazione della sua vita storicamente e spiritualmente seria e all’altezza dei tempi non hanno trovato fino ad oggi chi li accogliesse e li portasse avanti. Manca una traduzione completa che renda accessibili le sue opere in lingua tedesca. L’edizione in tedesco delle sue prediche, in sei volumi, risale all’inizio degli anni 30. C’è, è vero, tutta una serie di studi di dettaglio e alcuni romanzi popolari su Bernardo, ma la riscoperta dei grandi mistici è diventata feconda sino ad ora soltanto in ambiente di lingua francese e che di recente in quello di lingua inglese e italiana.

L’approvazione delle convivenze non distruggerà certamente la famiglia e la società. Ne siamo persuasi perché le realtà naturali quando vengono buttate fuori dalla porta rientrano dalla finestra.

Arte e liturgia

Simbolismo dell'acqua e oggetti collegati

di Micaela Soranzo

Gesù, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: "Dammi da bere". [...] Ma la samaritana gli disse: "Come mai tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?". [...] Gesù le rispose: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: ‘Dammi da bere!’, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva"» (Gv 4,6-10).

Il vangelo della samaritana, anche se si legge solo nel ciclo A, è emblematico del tempo di Quaresima, poiché già Sacrosanctum Concilium 109 metteva in evidenza il carattere battesimale, accanto a quello penitenziale, proprio di questo tempo liturgico. Nell’episodio, infatti, l’acqua stagnante del pozzo di Giacobbe, immagine della purificazione legale dei giudei, si oppone all’acqua viva del battesimo, tanto che spesso iconograficamente la forma ottagonale, esagonale e talvolta cruciforme del pozzo richiama in modo evidente il fonte battesimale. Nel colloquio con la samaritana Gesù sottolinea la differenza sostanziale tra l’acqua comune del pozzo e l’acqua che egli dà: «Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà mai più sete» (Gv 4,14).

Senz’acqua non esiste vita. Nella tradizione ebraica e cristiana l’acqua è legata all’origine della creazione: è la sostanza-madre dalla quale venne creato il mondo, ma, per la sua mancanza di forma, è anche immagine del caos, delle condizioni esistenti prima della creazione del mondo. Prima che fosse creata la luce «le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2). L’acqua può essere creativa o distruttiva, sorgente di vita o di morte: tutto l’Antico Testamento esalta il segno di benedizione dell’acqua, poiché «un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino» (Gen 2,10) e il Signore ha fondato la terra sui mari «e sui fiumi l’ha stabilita» (Sal 24,2), anche se constata la sua forza distruttiva nel diluvio e nel passaggio del Mar Rosso.

È naturale che una civiltà agraria come Israele vedesse nell’acqua la manifestazione dell’azione divina: l’acqua che cade sulla terra arida non è solo segno di fertilità, ma soprattutto della benevolenza di Dio. Ciò appare con evidenza in Ezechiele (47,1-12); l’acqua che scorre verso oriente, cioè verso la luce, il sole di Cristo, sgorga dal tempio: «Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà, [...] perché quelle acque dove giungono risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà». L’acqua viva evoca la divina Sapienza e lo Spirito: «Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; [...] metterò dentro di voi uno spirito nuovo. [...] Vi libererò da tutte le vostre impurità» (Ez 36,25-29).

Gesù si fa conoscere dalla samaritana come il Signore della vita: non c’è dubbio sulla funzione non solo purificatrice, ma anche salvatrice dell’acqua: l’acqua del battesimo porta a una nuova nascita. Il miracolo della sorgente operato da Mosè (Es 17,6) diventa modello della fonte di salvezza fatta scaturire da Cristo per i fedeli, e per questo è spesso raffigurato nelle catacombe con significato sacramentale. Lo stesso Giovanni nell’Apocalisse, riecheggiando Ezechiele, descrive l’Agnello che conduce i salvati «alle sorgenti della vita» (Ap 7,7). Il trono di Dio e dell’Agnello è il vero luogo dal quale scaturisce il fiume con l’acqua di vita (Ap 22,1).

Anche la lavanda dei piedi degli apostoli da parte di Gesù, prefigurata da quella di Abramo ai tre angeli, non è solo un esempio di umile servizio, ma è simbolo del battesimo degli apostoli in preparazione al banchetto eucaristico. Su un sarcofago del IV secolo ad Arles la lavanda dei piedi è raffigurata in contrapposizione alla lavanda delle mani di Pilato, riproponendo così iconograficamente l’ambiguità del segno dell’acqua.

L’elemento "acqua" riveste fondamentale importanza in tutta la liturgia e assurge alla dignità di sacramento quale materia del battesimo: dal IV secolo in poi, inoltre, si consacra appositamente l’acqua del battesimo per distinguerla dall’acqua santa. Il primo accenno a quest’ultima si trova negli Atti apocrifi di Pietro (200) e poi negli Atti di Tommaso (232). È accertato che in Oriente già dal III secolo si usava un’acqua consacrata come aiuto per i malati e protezione dai demoni. I recipienti per l’acqua che si trovavano alle porte delle chiese più antiche, e che si ritennero acquasantiere, possono aver contenuto anche semplice acqua per la purificazione. Dal VI secolo in poi l’uso dell’acqua santa è molto diffuso: si aspergono anche le case, i generi alimentari, i cadaveri. Nell’antichità cristiana troviamo, inoltre, ben radicata l’usanza della lavanda delle mani prima di accingersi alla preghiera. Il rito del lavabo è molto antico e trae origine dalla Scrittura; in Es 30,18-23 Dio ordina a Mosè di collocare un bacino tra il tabernacolo e l’altare in cui Aronne e i figli avrebbero dovuto lavarsi le mani e i piedi prima di accostarsi all’altare.

Nel IV secolo a Gerusalemme la messa sacrificale aveva inizio quando il diacono porgeva l’acqua al celebrante e ai presbiteri che circondavano l’altare, così sin dall’inizio il significato simbolico dell’abluzione era messo in risalto. Un’amplificazione importante di questo rito si ha nella messa etiopica: dopo aver scoperto sull’altare le offerte, il celebrante si lava le mani, però non se le asciuga subito, ma si volta e spruzza verso il popolo l’acqua che gli è rimasta sulle dita, pronunciando parole di ammonimento contro chi è indegno di accostarsi alla mensa del Signore.

Il simbolo della purificazione è stato determinante nei riguardi delle abluzioni della liturgia: una lavanda delle mani prima di indossare le vesti liturgiche fa già parte, nelle fonti del primo Medioevo, dello svolgimento dell’Ordo missae. Prima di entrare nella basilica e partecipare ai sacri riti ci si lavava i piedi e la faccia, ma soprattutto le mani, poiché in esse sarebbe stata ricevuta l’eucaristia. Così dice Paolino: Cantharus intrantumque manus lavat amne ministro.

Per questo, al centro dell’atrio della basilica cristiana, come già nel quadriportico delle case romane, vi era una fontana o cantaro. Ma fin da allora si sentiva la necessità di purificare lo spirito oltre che di pulire il corpo e perciò fu introdotto l’uso di benedire l’acqua e di aspergere con essa i fedeli che entravano in chiesa. Un’iscrizione greca, ripetuta spesso in antichi vasi per contenere l’acqua benedetta dice: «Lava i tuoi peccati e non il tuo viso».

Papa Leone IV (IX secolo) prescrisse che ogni domenica, prima della messa, il sacerdote benedicesse l’acqua e con quella aspergesse i fedeli. Avveniva però che non tutti erano in chiesa all’inizio della messa e allora fu introdotto l’uso di porre un recipiente di acqua benedetta all’ingresso della chiesa in modo che i fedeli ritardatari potessero aspergersi da sé. Tale è l’origine del segno di croce che si fa con l’acqua benedetta all’ingresso in chiesa.

L’acquasantiera è documentata per la prima volta nel IX secolo. Essa doveva essere collocata vicino alla porta ed essere di modeste proporzioni per non gareggiare in ampiezza con il fonte battesimale. In origine era per lo più in marmo o in pietra, non molto profonda e sorretta da un pilastrino o da una colonnina o addossata a un pilastro della chiesa anche se poi san Carlo prescriverà che sia ben staccata dalla parete e con un decoroso aspersorio con setole appeso alla vasca con una catenella ben lavorata, poiché prendere l’acqua benedetta direttamente con le mani era considerato un atto irriguardoso. In epoca romanica le acquasantiere furono spesso realizzate con materiale di riuso, come capitelli, colonne, cariatidi, mentre nel periodo gotico raggiunsero dimensioni monumentali e forme più articolate ispirate dalla stessa architettura e vennero decorate con rilievi e statue. Nel Rinascimento prevalsero due tipologie, quelle a piastrino con vasca a bacino liscio e quelle a mensola a forma di conchiglia, che nell’iconografia cristiana è simbolo di castità e fecondità a un tempo. Con lo stile barocco e rococò assunsero forme più elaborate, ricche di decorazioni e figure in marmi policromi: le loro dimensioni divennero imponenti.

L’acquasantiera mobile è una variante poco diffusa dell’acquasantiera fissa. Il suo uso nacque attorno al X secolo dall’esigenza liturgica di consentire a coloro che non avevano potuto partecipare all’aspersione domenicale di segnarsi con l’acqua benedetta ed eventualmente di utilizzarla per le devozioni private, incrementando così la diffusione delle cosiddette "acquasantiere domestiche" o "pensili".

Più usato, invece, è il secchiello per l’acqua benedetta; di forma e dimensioni variabili, è dotato di un manico per il trasporto, il cui uso è attestato dalle fonti a partire dal IX secolo, ma i più antichi esemplari che possediamo sono quelli in avorio del X secolo, detti "situle". Deriva dalla "secchia" o "brocca per il vino" attestata già in epoca romana. È un manufatto prezioso arricchito da decorazioni a rilievo suddivise in registri o entro elementi architettonici. Generalmente è d’avorio a sezione circolare. Uno degli esempi più antichi è la situla di Gotofredo (ora al duomo di Milano) di epoca ottoniana (X secolo). Unitamente al secchiello vi è l’aspersorio, strumento liturgico per l’aspersione con l’acqua benedetta. Nei primi tempi del cristianesimo si utilizzava per l’aspersione un ramoscello di alloro o issopo, ma anche olivo o mirto, con allusione al Salmo 50,9: asperges me hyssopo. La forma del bastone col ciuffo di setole fissate a un manico d’argento o di avorio sembra risalire al XIII secolo.

I riti purificatori con l’acqua benedetta, sia delle mani, sia degli oggetti che vengono a contatto con le specie consacrate, erano fatti con appositi contenitori. Spesso si trattava di una coppia di vaschette distinte per non mescolare l’abluzione delle mani prima della consacrazione dell’ostia con la successiva purificazione del calice. Solo dopo il concilio di Trento, con la regola di bere l’acqua della purificazione del calice, decadde la funzione delle vaschette appaiate.

L’uso del bacile legato alla cerimonia dell’abluzione è menzionato dal IV secolo. Il lavabo delle mani del celebrante avveniva prelevando l’acqua dal bacile con una coppetta oppure versandola da una brocca. Tali recipienti furono assai diffusi nell’alto Medioevo e spesso non si distinguevano da quelli di uso profano se non per eventuali elementi decorativi. Dal XVI secolo il bacile, accompagnato dalla brocca, venne a costituire un servizio unitario, detto "servizio da lavabo", il cui uso durante la messa era riservato agli alti prelati o al sacerdote in cerimonie particolari, poiché durante la messa ci si lavava le mani con l’acqua delle ampolline. Solitamente è di metallo, più o meno prezioso, lavorato a cesello o a sbalzo con motivi vegetali e di carattere simbolico, più raramente zoomorfi e antropomorfi, mentre già il Cerimoniale episcoporum del 1600 vietava la croce e le figure dei santi.

Nel tardo Medioevo si usa prevalentemente l’acquamanile o "brocca figurata". Realizzati in bronzo, ottone o rame, avevano generalmente forma di animali, reali o fantastici (leoni, cavalli, chimere, grifoni), di teste umane o gruppi, come san Giorgio e il drago; poggiavano direttamente sulle zampe. Il loro uso è documentato dalle fonti fin dal V secolo, ma i primi esemplari noti di fattura occidentale risalgono al XII secolo. Dal XV secolo questa particolare tipologia decade, soppiantata da altre forme di brocca.

In questo periodo si usano anche i bacili gemelli, simili per forma e decorazione, incastrabili l’un l’altro; il bacile inferiore era destinato a ricevere l’acqua versata dal superiore fornito di un beccuccio spesso a testa di animale. Gli esemplari più preziosi sono in rame dorato e smalto di Limoges del XIII e XIV secolo. Infine vi era il vasetto per la purificazione, che conteneva l’acqua nella quale il sacerdote si purificava le dita dopo aver toccato extra missam le sacre specie. L’oggetto veniva posto sul gradino dell’altare, a sinistra del tabernacolo, con accanto il purificatoio, e poggiava su un piattino.

Attualmente l’aspersione con l’acqua benedetta non è più segno di purificazione, ma vuol essere un richiamo al nostro battesimo e proprio con questo significato è stata anche introdotta nel nuovo Rito del matrimonio. Anche l’aspersione con cui si consacra una chiesa o un altare rappresenta il battesimo; infatti la preghiera tratta dal Rito della dedicazione dice: «Padre santo, [...] benedici e santifica quest’acqua che verrà aspersa su di noi e sulle pareti di questo tempio, perché sia segno del lavacro battesimale che ci fa in Cristo nuova creatura e tempio vivo del tuo Spirito». È vero che già Durando nel suo Rationale (XII secolo) affermava, a questo proposito, che la triplice aspersione con issopo all’interno e all’esterno della chiesa rappresentava la triplice immersione del battesimo, ma specificava che l’acqua benedetta aveva tre significati: serviva per scacciare il demonio, per purificare la chiesa, perché tutte le cose terrene sono corrotte e macchiate dal peccato, e per togliere ogni maledizione, perché la terra ricevette la maledizione a causa del frutto del peccato, mentre l’acqua non fu mai maledetta.

Un’ultima riflessione va all’acquasantiera. Non è menzionata nei "Praenotanda" al Messale romano e neppure nelle Note pastorali della Cei sulla progettazione delle nuove chiese e sull’adeguamento di quelle antiche, ma è comunque presente in tutte le chiese, anche le più recenti. C’è da chiedersi, allora, quale significato abbia oggi la presenza di un oggetto che, nato per necessità funzionali, ha assunto nei secoli altri significati, pur restando quasi immutato nella forma. Resta, comunque, che il segno di croce con l’acqua benedetta è un "fare memoria" del proprio battesimo, non è un gesto devozionale o scaramantico: ma quanti ne sono veramente consapevoli?

(da Vita Pastorale, 3, 2007)

Fasi della cultura europea d'oltralpe

GASPARO CONTARINI (1483- 1542)*

di Renzo Bertalot



Premessa

Il 31 ottobre è stata firmata la Dichiarazione Comune sulla giustificazione per fede tra cattolici e luterani. Il contenuto del documento pone fuori campo le scomuni­che reciproche emerse sull'argomento specifico durante il XVI secolo.

Dobbiamo essere molto grati ai numerosi storici che, a proposito di Gasparo Contarini, hanno indagato sull'e­volversi di due momenti principali: la prima metà del XVI secolo e la seconda metà del XX secolo. Si tratta di un lavoro non sempre facile non solo dal punto di vista della ricerca meticolosa negli archivi, ma anche per quan­to riguarda le intuizioni e i confronti. Si può rimanere ammirati per le convergenze che segnalano una buona soggettività piuttosto che un'impossibile oggettività. Ciò non toglie che a volte sorgano perplessità e ci si trovi costretti a sospendere il giudizio.

Quando si parla di Gasparo Contarini bisogna tenere presente che i suoi scritti sono stati spesso manipolati e corretti anche da persone eminenti come il cardinale Morone e il vescovo Beccadelli, tra gli altri. Bisogna muo­versi con molta cautela o addirittura saper sospendere il confronto. (1)

La figura e la testimonianza di Gasparo Contarini pas­sano dal XVI secolo al nostro come segnali di una lunga attesa la cui attualizzazione oggi non è poi così lontana dal nostro orizzonte immediato.

È un fatto che per molti anni i protestanti coltivarono la speranza di vedere la Serenissima affiancarsi alla Riforma e diventare così la "Ginevra italiana". Anche Giordano Bruno ritenne Venezia capace di adoperarsi in tal senso. Non mancarono certamente gli inviti e le sollecitazioni degli ambasciatori stranieri. Lo stesso Filippo Melantone scrisse ai Veneti nel 1539 e forse addirittura al Senato della Repubblica nel 1541. Pola era ormai una città a maggio­ranza luterana e a Padova si calcolava la presenza di seimi­la cosiddetti luterani. A Venezia sembrava che circolassero quarantamila copie del Beneficio di Cristo ritenuto il cate­chismo della Riforma protestante. Vi furono almeno due sinodi organizzati dagli anabattisti. In quel tempo molti teologi italiani passarono alla Riforma e divennero titolari di prestigiose cattedre in Inghilterra, Germania e Svizzera. Ma ben presto i Riformatori al di là delle Alpi dovettero rendersi conto che i principi italiani non avevano sufficien­te autorità per introdurre la Riforma nei loro paesi. (2)

A - La vita

Gasparo Contarini nacque a Venezia il 16 ottobre 1483 (è una curiosità storica notare che Lutero nacque poco dopo: il io novembre 1483) La sua vita fu determinata particolarmente dall'esperienza del sabato santo (24 apri­le) del 1511. In quel giorno prese coscienza della giustifi­cazione per grazia mediante la fede: "Et compresi vera­mente che io fessi tutte le penitenze possibili e molto più ancora, non seria bastante ad una gran zonta, non dico meritar quella felicità ma satisfar le colpe passate [...] Solum fatigar se dovemo in unione con questo nostro capo con fede, con speranza e con quel poccho de amor che potemo. Che quanto a la satisfacion di i peccati fati e in i quali la fragilità umana casca, la passion sua è e stà sufficiente et più che bastante". (3)

L'argomento fu ripreso con gli amici Tommaso Giustiniani e Vincenzo Querini. Insieme costituirono una "pia comunità", ma mentre i due compagni scelsero la vita contemplativa ritirandosi nell'eremo di Camaldoli, Contarini preferì dedicarsi alla vita attiva. (4)

Contarini seguì l'iter scolastico di tutte le famiglie patrizie veneziane. Studiò a Padova con Pomponazzi prendendo in seguito le distanze dal maestro. Rifiutò l'in­dirizzo aristotelico padovano a favore dell'umanesimo toscano in vista di una nuova filosofia. In sintonia con il bassanese Lazzaro Bonamico, lasciati Aristotele, Avicenna e Pomponazzi, puntò verso il platonismo fio­rentino. Intanto Contarini si affermava nella carriera poli­tica e diplomatica: nel periodo 1518-1535 è ambasciatore della Serenissima, consigliere ducale e membro del Consiglio dei Dieci; è inviato più volte a Ferrara e a Roma; nel 1521 incontra Tommaso Moro in Inghilterra; viene nominato ambasciatore plenipotenziario presso Carlo V in Germania; è presente alla Dieta di Worms, e forse incontra Lutero. (5)

Nel 1525 il fratello di Gasparo Contarini è vittima dell'inquisizione: fu trovato a trasportare Bibbie e libri di Lutero insieme a mercanti veneziani. Gasparo Contarini, nel 1529, rifiutò di consegnare a Carlo V e a Ferdinando d'Asburgo i "luterani" veneti in nome della libertà. Dopo il sacco di Roma (1527) e l'umiliante pace di Barcellona (1529), una Canossa alla rovescia, tocca a Gasparo Contarini il compito di rappacificare il prigio­niero Clemente VII con Carlo V In quell'occasione il patrizio veneziano ricorda al papa, in quanto pastore, di anteporre ad ogni preoccupazione l'interesse per la vera chiesa: lo stato temporale è un'altra cosa, "riguarda i principi"

Gasparo Contarini era un autodidatta in teologia, ma leggeva quotidianamente la Sacra Scrittura nel testo lati­no e greco: Non considerava eretiche le interpretazioni bibliche fatte da Savonarola, la cui scomunica riteneva ingiusta. (6)

Il 21 maggio 1535 Gasparo Contarini viene eletto car­dinale da Paolo III Farnese. Il 23 ottobre 1536 è nomina­to vescovo di Belluno: non riceverà mai la consacrazione episcopale, sarà invece ordinato nel 1537. Nel 1536 Paolo III lo chiama a presiedere il Consilium de emendanda ecclesia. Il 9 marzo dell'anno seguente Contarini presen­ta, legge e spiega al pontefice il testo definitivo del docu­mento, esponendo giudizi piuttosto negativi, oltre che sulla curia romana, anche su Erasmo. Nel 1540il Contarini (discepolo di Ignazio che allora era sospetto di eresia) contribuisce all'approvazione della Compagnia di Gesù e l'anno successivo è nominato legato pontificio all'incontro di Ratisbona. I protestanti lo accoglieranno come un "eroe". (7)

Il 29 maggio scrive al cardinale Alessandro Farnese che è necessario concedere il calice ai laici durante l'eu­caristia e il matrimonio ai preti, altrimenti si rischia il pas­saggio di molti cattolici tedeschi al luteranesimo Il 22 giu­gno scrive ancora al cardinale Alessandro Farnese dichia­randosi deluso dei colloqui di Ratisbona. Intanto il 27 maggio Gasparo Contarini era stato sconfessato dal con­cistoro di Roma.

Il 25 luglio 1542 viene istituito il tribunale dell'inquisi­zione (simile a quella spagnola) sotto la direzione del car­dinale Gian Pietro Carafa futuro papa con il nome di Paolo IV: il Contarini è accusato di luteranesimo e rele­gato a Bologna. Lì incontra Bernardino Ochino che vole­va salutarlo e che viene consigliato di non presentarsi a Roma dove era stato convocato. In una delle ultime lette­re al cardinale Pole scriveva: "Il fondamento dello edifi­cio dei Luterani (cioè la salvezza per fede) è verissimo, né per alcun modo dovem dirli contra, ma accettarlo come vero et cattolico, immo come fondamento della religione cristiana". (8)

Gasparo Contarini muore a Bologna tra le braccia del segretario Ludovico Beccadelli, mentre circolano insi­stenti le voci che sia stato avvelenato per mandato dallo stesso Paolo III. Fu sepolto a Venezia alla Madonna dell'Orto. Più tardi le sue ossa furono rimosse a causa di restauri. Rimane tuttavia un suo ricordo, una pietra tom­bale e il suo busto, opera di Alessandro Vittoria.

Con il 1542 e con l'inquisizione termina l'epoca tanto attesa e travagliata delle riforme e inizia quella della Controriforma e della confessionalizzazione del cristiane­simo occidentale.

B - Ratisbona 1541

Quando Gasparo Contarini arrivò a Ratisbona come legato pontificio fu accolto da tutti con molta fiducia e grande entusiasmo. Filippo d'Assia gli mandò persino la banda musicale per far "gran festa". (9) A proposito della giustificazione, la discussione cadde sul duplice aspetto, della giustizia imputata e della giustizia inhae­rens: non l'una senza l'altra. (10) Si tratta del dono gratui­to di Dio in Cristo e delle opere che promanano dalla radice della fede in vista della santificazione. La tra­sformazione dell'uomo deriva dalla fede, dono di Dio, e non da noi. Questo primo tentativo non piacque, per motivi diversi, né ai protestanti, né ai cattolici, né a Gasparo Contarini.

Dopo un'interruzione, gli uni e gli altri si trovarono d'accordo nel sottoscrivere la formula che descrive la giu­stificazione per "fede viva ed efficace". (11)

Calvino, scrivendo a G. Farel, considerò il testo "un risultato notevole": "nulla v'è contenuto che non si trovi nei nostri scritti", ma il suo collaboratore rimase piutto­sto perplesso. (12) Per Mattia Flacio Illirico, storico del pro­testantesimo, approvando l'accordo, definì Gasparo Contarini un "eroe". (13) Anche Lutero rimase stupito e disse che se i cattolici accettano la giustificazione come "fondamento capitale" egli è pronto a baciare i piedi al papa. (14)

In quei giorni circolava pure un testo segreto, il cosid­detto "Libro di Ratisbona", che non facilitò affatto il pro­seguimento della discussione.

Passando ad altri temi Melantone, Bucero e Contarini non trovarono accordo sulla transustanziazione sia come presenza di Cristo realiter et personaliter sia come "mutazione mistica". I contrasti non furono superati. Oltre alle difficoltà meno compromissorie sui sacramen­ti caddero anche le proposte di eliminare i monasteri, il celibato dei preti, la confessione auricolare e di dare il calice ai laici. Melantone si dimostrò intransigente sul primato. (15)

Ratisbona era ormai un fallimento e Contarini scrisse la sua delusione al cardinale Alessandro Farnese.

Certamente lo zoccolo duro del contesto teologico e politico non favorì gli accordi. Non era possibile trarre le conseguenze neppure sulle convergenze, le quali si anda­vano evidenziando, a proposito della giustificazione. Da parte cattolica si è anche detto che Gasparo Contarini fece in modo di far ricadere la colpa della rottura sui pro­testanti, a causa della loro "falsità". (16) Ciò nonostante, Ratisbona fu un occasione di dialogo che venne meno in un periodo in cui l'attesa e la speranza per la riforma della chiesa erano molto appassionanti, coinvolgenti e signifi­cative in tutta l'Europa. Wittenberg, Ginevra e Roma pre­sero le loro rispettive distanze da Ratisbona gettando un'ombra paralizzante sulla richiesta di convocazione di un concilio.

Nel 1542 Paolo III decise di avviare anche in Italia l'in­quisizione richiamandosi allo schema spagnolo. Sarà il car­dinale Carafa ad occuparsene direttamente e personalmen­te. Si profilano all'orizzonte il Concilio di Trento e l'età della confessionalizzazione del cristianesimo europeo.

Tuttavia l'incontro di Ratisbona segnò i secoli futuri e particolarmente quello attuale.

Il 31 ottobre 1999 ad Augusta, città storica del prote­stantesimo, venne firmato l'accordo tra cattolici e lutera­ni sulla giustificazione. Veramente i tempi di Dio non sono scanditi in base ai nostri calendari. Intanto risorgono la voce e gli scritti dei massimi rappresentanti a Ratisbona. L’augurio è di iniziare il Terzo Millennio con "fede viva ed efficace". La fatica e la perseveranza di Gasparo Contarini costituiscono certamente una vittoria su di un tragico silenzio plurisecolare e un'occasione pro­pizia per tutto il cristianesimo.

Note

* Il testo è ripreso e adattato da una conferenza tenuta all'Ateneo Veneto il 23 ottobre 1999. Cf. R. Bertalot, Gasparo Contarini (1483-1542), contesto e attua­lità della giustificazione per fede, in Ateneo Veneto, Venezia, 1999, pp. 206-218.

1) Lutero parlò della giustificazione "passiva" cioè del dono di Dio in Cristo, assolutamente incondizionato da parte umana. Parlò in seguito della giustificazione "imputata" da Dio in Cristo, cioè come sentenza divina a carattere giuridico. Anche per il riformatore tedesco le opere sono necessa­rie, servono a riconoscere la salvezza: senza le opere la fede è falsa e non giu­stifica, sarebbe una farsa o meglio una "fanatica astrazione, una pura vanità e un sogno del cuore" (V. Subilia, La giustificazione per fede, Paideia, Brescia, 1976, p. 201). Nel XIV secolo i movimenti pauperistici catari, albigesi e val­desi si opposero alle indulgenze e sostennero la giustificazione per fede. Cf. E. Le Roy, Storia di un paese: Montaillou, Milano, 1991, pp. 409 ss. Pietro Speziali (1478-1554) trattò l'argomento della giustificazione per fede nel 1512: "prima che il nome di Lutero fosse noto quando ancora non si era pro­nunciato" (E. Comba, I nostri protestanti I, Claudiana, Firenze, 1895, pp. 222 ss.). La sua opera Dei gratia, rimasta inedita, è conservata alla Biblioteca Nazionale Marciana, Codd.Lat. III, 59 (=2275) e 151 (=2152), del secolo XVI, (il secondo autografo è pervenuto dal Consiglio dei Dieci nel 1787) descritti da G. Valentinelli, Biblioteca manuscripta ad S. Marci Venetiarum. Codices mss. Latini II, Venetiis 1869, pp. 110-111 (ringrazio il dr. Gian Albino Ravalli Mondoni per quest'ultima segnalazione). S. Caponetto, La Riforma protestante nell'Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino, 1992, p. 62. Anche Giacomo Lefèvre (1455-1536), iniziatore della Riforma in Francia insegnò la giustificazione per fede tre anni prima di Lutero: così V. Vinay, La Riforma protestante, Paideia, Brescia, 1970 pp. 270-276.

2) Comba, I nostri protestanti I, pp. 42.227 e 248; A. Stella, Correnti ere­ticali nel Cinquecento, in P. Gios (a cura), Storia religiosa del Veneto. Diocesi di Padova, Giunta Regionale del Veneto - Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1996, pp. 519-542; G. Cozzi, I rapporti tra Stato e Chiesa, in G. Gullino (a cura), La Chiesa di Venezia tra Riforma Protestante e Riforma Cattolica, Ed. Studium, Venezia, 1990, pp. 28 ss.; D. Cantimori, Umanesimo e religione nel Rinascimento, Einaudi, Torino, 1975, pp.183-188; F. Ambrosini, Storie di patrizi e di eresia nella Venezia del '500, Franco Angeli, Milano, 1999, pp. 212-218; R. Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto, Università di Sassari, Sassari, 1993, pp. 75 ss.

S. Tramontin, Tra Riforma cattolica e Riforma protestante, in S. Tramontin (a cura), Storia religiosa del Veneto. Patriarcato di Venezia, Giunta Regionale del Veneto - Gregoriana Libreria Editrice, Padova, 1991, p. 100.

4) A. Stella, Spunti di teologia contariniana e lineamenti di un itinerario religioso, in E Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, Atti del Convegno, Venezia 1-3 marzo 1985, Venezia, 1988, p. 152; E. Massa, Gasparo Contarini e gli amici tra Venezia e Camaldoli, in Ib., p. 72.

5) A. Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, in Lutero e la Riforma, Vicenza, 1985, p. 79; 5. Tramontin, Profilo di Gasparo Contarini, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, p. 24; G. Fragnito, Gasparo Contarini tra Venezia e Roma, in Ib., pp. 107 ss.; E. Gleason, Le idee della riforma della chiesa in Gasparo Contarini, in Ib., p. 129. Nel febbraio 1525 Carlo V fu informato dell'arrivo in un porto del regno di Granada di tre galere veneziane cariche di libri di Lutero. Il governatore del luogo sequestrò le navi e fece arrestare capitani ed equipaggi. (così Caponetto, La Riforma protestante, p. 56).

6) Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, pp. 79 ss.; Bertalot, Dalla Teocrazia al laicismo, p. 52; Tramontin, Profilo di Gasparo Contarini, pp. 26-30; Stella, Spunti di teologia contariniana, pp. 152 ss; G. Fragnito, La Bibbia al rogo, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 51; Cozzi, I rapporti tra Chiesa e Stato, p. 18.

7) G. Spini, Storia dell'età moderna, vol. I, Torino 1965, p. 173; K. Heussi, G. Miegge, Sommario di storia del cristianesimo, Claudiana, Torino, 1960, p. 172; P. Prodi, Intervento, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, pp. 208 ss.

8) Tramontin, Tra Riforma cattolica e Riforma protestante, p. 101; Tramontin, Profilo di Gasparo Contarini, p. 17; Caponetto, La Riforma pro­testante, p. 119 e Spini, Storia dell'età moderna, p. 199. Il cardinale Pole tra­scorse in Inghilterra il resto dei suoi giorni e si fece sostenitore della restau­razione cattolica. Interessante è la scoperta fatta Hubert Jedin nel 1943. Si tratta di trenta lettere di Gasparo Contarini che si trovavano presso il mona­stero camaldolese di Frascati. Purtroppo molte di queste furono manomesse per eliminare le ambiguità nei confronti della dottrina tridentina emergente: A. Marranzini, I colloqui di Ratisbona, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, p. 192; Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, pp. 76 ss. Per ulteriori dettagli sulle opere e sul pensiero di Gasparo Contarini cf. Bertalot, Gasparo Contarini; contesto, pp. 211-213.

9) Stella, Gasparo Contarini e i gruppi evangelici veneti, p. 80.

10) P. Ricca, Intervento, in Cavazzana Romanelli (a cura), Gasparo Contarini e il suo tempo, p. 230.

11) Marranzini, I colloqui, pp. 175 ss.

12) Ricca, Intervento, p. 236; Vinay, La Riforma protestante, p.60.

13) Cozzi, I rapporti tra Stato e Chiesa, p. 32.

14) Marranzini, I colloqui, p. 174. Nella "Libertà del cristiano" Lutero si rivolge a papa Leone X chiamandolo "Santissimo Padre in Dio". Non va tut­tavia dimenticato che, negli Articoli di Smalcalda del 1537, il papa era descritto come l'Anticristo, cf. E. Campi, Il Protestantesimo nei secoli, vol. l, Claudiana, Torino, 1991, pp. 84s. Anche da parte protestante vi furono delle riserve sul concetto luterano della giustificazione. M. Bucero, Riformatore a Strasburgo, e U. Zwingli, Riformatore a Zurigo, lo ritenevano "amorale", cf. A. E. McGrath, Il pensiero della Riforma, Claudiana, Torino, 1991, p. 97. Gli anabattisti descrivevano la "giustificazione" luterana come "un'indulgenza plenaria" cf. Subilia, La giustificazione per fede, p. 297.

15) Marranzini, I colloqui, pp. 182ss; Prodi, Intervento, p. 219. Cf. Caponetto, La Riforma protestante, p. 121. Carlo V concesse in seguito che a Strasburgo si sperimentassero sia il calice ai laici sia il matrimonio dei preti, ma il tentativo ebbe i giorni contati, cf. Caponetto, Id., p. 179.

16) Prodi, Intervento, p. 216.

Venerdì, 06 Aprile 2007 20:53

Paure e speranza (Faustino Ferrari)

Le speranze restano vaghe. Le idee giuste non cadono dal cielo, ma hanno bisogno di gambe per camminare e di braccia per poter essere realizzate.

 LA FINE DI “QUESTO” MONDO NELLE RELIGIONI INDIANE

in Le monde des religions, 16, pp. 36.37

Non si tratta di fine del mondo, ma piuttosto di “fine di un mondo”, della scomparsa di una manifestazione che, come tutto ciò che esiste, è intaccata dall'effimero

            Trasportiamoci mentalmente verso il XXV° secolo: Alla fine di un conflitto terribile l'umanità è quasi ridotta al nulla. Gli uomini sopravvissuti a questa guerra spaventosa sono come animali, rintanati in rifugi sommari, incapaci di qualsiasi pensiero spirituale. La fine del mondo? No, appena un anticipo della fine del nostro mondo. Tale è lo scenario profetico annunciato dall'insegnamento del Kalachakra, o

la Ruota del Tempo, attribuita al Buddha e largamente diffusa nel Tibet.

            Contrariamente alle tre grandi religioni monoteiste, le grandi spiritualità indiane, l'induismo e il buddismo, propongono una lettura del passare del tempo e dell'avvenire del mondo che si iscrive in un quadro relativo, senza vero inizio, né vera fine. Così non esiste Creazione: il principio del mondo si iscrive in una concezione larga, continua, ciclica, fondata sulla credenza nell'esistenza di grandi ere cosmiche, i kalpa. Ugualmente, non esiste un universo, ma una moltitudine di universi, ciascuno con il suo ritmo proprio: a ogni istante ognuno degli universi si trova a una tappa della sua esistenza che gli è specifica.

            La durata attribuita a un ciclo varia da una tradizione all'altra, ma è sempre straordinaria, e si esprime in milioni di generazioni umane. Bisogna ricorrere a metafore o a immagini per tentare di concepirla. Un ciclo completo, cioè “un  giorno e una notte del dio Brahma”, dura più tempo di quel che occorrerebbe a un pezzo di seta di Benares per erodere una roccia gigantesca fino all'ultimo granello di polvere toccandola solo una volta ogni secolo.

Ciclo di degenerazione

            Secondo la tradizione vedica, specialmente nel Visnu Purana, un grande ciclo si divide in 71 periodi, i mahayuga, ognuno diviso in quattro piccoli cicli, gli yuga associati a metalli (oro, argento, rame, ferro) suddivisi a loro volta in cicli più brevi.Questi cicli ritmano l'apparizione dell'universo e poi la sua degenerazione. Non si parla mai di una Apocalisse, nel senso popolare di una fine del mondo; si tratta infatti della “fine di un mondo”, la scomparsa di una manifestazione che è intaccata, come tutto ciò che esiste, dall'effimero.

            Induismo e buddismo si trovano d'accordo ancora per affermare che ci troviamo ora in un ciclo di degenerazione. Il Visnu Purana, che fu probabilmente redatto verso il IV° secolo, sottolinea in maniera profetica che in quel tempo di declino “la legge sarà quella del ricco” e che “la violenza, l'inganno e l'immoralità” saranno la regola comune. Altro segno della decrepitezza del mondo: “le donne saranno ridotte a un oggetto sessuale” e “i vecchi cercheranno di comportarsi come giovani e i giovani perderanno il candore della giovinezza

            Il Kalachakra evoca anch'esso questo tempo degenerato. Nel prolungamento di quel che diceva la tradizione indiana, esso annuncia l'emergenza e poi l'espansione di una religione spiritualmente alienante e la perversione dei valori. Le forze del Bene radunate nel regno invisibile di Shambala, dovranno lottare contro gli eserciti del Male che già regneranno sulla metà del mondo. Una volta stabilita la pace,

la Terra ritroverà la concordia, ma non sarà che una sospensione prima di una nuova degradazione.

            La caduta infatti assomiglia a una lenta ma irresistibile discesa, fatta di alti e bassi. Alla fine arriverà il tempo del caos e dal caos emergerà un nuovo universo mediante un processo che può essere assimilato a una progressiva condensazione dei suoi elementi costitutivi: l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra…

            Secondo le tradizioni spirituali indiane nello scorrere delle tappe del ciclo la durata della vita umana diminuisce, passando dalle varie decine di migliaia di anni a una sola decina di anni prima della sommersione nel caos. Egualmente la statura degli essere umani diminuisce in maniera significativa, per raggiungere una trentina di centimetri. Nel periodo di degenerazione che conosciamo la durata della vita è di 100 anni.

Logica fatalista

            Una lettura filosofica permette di considerare questa percezione dello scorrere del tempo in una maniera più larga. Le età dell'oro sono caratterizzate dalla spiritualità, la dolcezza, la longevità, l'armonia, mentre i periodi di degenerazione si distinguono per la confusione, cioè l'inversione dei valori fondamentali del Bene e del Male, dell'utile e del nocivo. Insomma, le epoche di crescita corrispondono a uno spazio esteriore e interno aperto; al contrario nelle epoche di decadenza aumenta la riduzione fisica, mentale e spirituale man mano che cresce il materialismo. La “fine del mondo” è quindi il risultato di un soffocamento del mondo, ultima tappa di un ripiegamento completo su di sé.

            La diminuzione della statura rimanda a una riduzione dello spazio e quella dell'età a un ristringimento del tempo. L'epoca contemporanea corrisponde a questi dati. Il nostro spazio si riduce, da una parte perché i nostri mezzi tecnici permettono di dominarlo, dall'altra perché l'occupazione umana della Terra non cessa di allargarsi. Se la durata della vita, essa, non cessa di allungarsi, contrariamente a quel che appare nelle tradizioni buddista e induista, la qualità del tempo vissuto diminuisce. Alle società tradizionali che ritmavano il tempo in generazioni, in stagioni, le società moderne oppongono un tempo sezionato, suddiviso, in cui l'unità non è più una vita, ma il secondo. L'umanità moderna perde dunque la distanza con il mondo, perde la visuale offerta dal ritmo lento della vita in cui l'uomo “ha il tempo”.

            L’inversione dei valori segue la stessa logica. Il ciclo di degenerazione che attraversiamo porterà l’uomo a perdere la spiritualità, o almeno ad allontanarsi da una spiritualità liberatrice. Invece le fedi “mondane”, quelle che lasciano libero corso all’attaccamento e al desiderio, non smetteranno di svilupparsi. La percezione del Bene conoscerà una deriva animata da un ripiegamento su di sé che condurrà le persone o le società ad autoproclamarsi i soli detentori del Bene: il Male diverrà così banale da non potersi più distinguere dal Bene, in quanto la confusione si sarà instillata nel corso delle generazioni.

            Se in questa logica ciclica appare un fatalismo sicuro, poiché il nostro universo è irrimediabilmente colpito dalla distruzione, l’interesse spirituale non deve essere trascurato. La degenerazione e il caos derivano dal fatto che l’uomo ha preso in mano il mondo al solo scopo di soddisfare il suo desiderio di dominazione. Dopo i periodi fasti in cui lo spirito era al centro dell’esistenza, la nostra era è quella in cui l’uomo è al centro delle sue preoccupazioni, si percepisce come la pietra angolare del mondo, la vetta di una piramide sostenuta dall’egocentrismo. Ne dimentica la base, non sa più che egli non è che una parte di un Tutto retto da leggi che lo superano, perché sono al di là della sua percezione dello spazio e del tempo.

Laurent Deshayes

Dottore in storia, ricercatore aggregato al CHRIA dell'Università di Nantes, Uscirà in aprile 2006: Découverte au Bouddhisme (Plon).

Lunedì, 02 Aprile 2007 00:48

La Passione nei quattro Vangeli


La Passione nei quattro Vangeli

Ognuno dei quattro Vangeli contiene un racconto dettagliato della passione di Gesù.Confrontando le quattro versioni compaiono punti in comune che fanno pensare ad uno schema narrativo di base. Eppure, ogni testo possiede la sua originalità, sia sul piano letterario sia su quello teologico. Cerchiamo di rintracciare a poco a poco i tratti comuni e le differenze. L’analisi paziente ci farà scoprire la ricchezza della riflessione delle prime comunità cristiane su queste scene a lungo meditate.

La prima caratteristica di questi capitoli è il posto primario che

la Passione occupa negli scritti evangelici. Il numero dei versetti dedicati al ricordo degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme è impressionante, rapportato alla lunghezza dei singoli Vangeli. Di più, questo racconto è alla fine di ogni percorso, e ciò dà ai quattro Vangeli l'aspetto di un racconto della Passione e Risurrezione preceduto da una lunga introduzione.

Cronaca di una morte annunciata

Tutti gli astanti che partecipano all’esperienza della proclamazione della Passione in un'assemblea sono colpiti dalla sua coerenza drammatica. Una certa «suspence» è predisposta; il destino di Gesù si sviluppa da un episodio all'altro fino a condurlo alla morte Gli evangelisti invitano anche a interessarci di altri personaggi: Pietro e Giuda, il gruppo dei discepoli, le donne che hanno seguito Gesù, e la stessa folla. Numerosi episodi vengono situati in funzione delle ubicazioni istituzionali nella città di Gerusalemme. La cronologia è concisa: le indicazioni sono a volte annotate in funzione del calendario liturgico giudaico all'avvicinarsi della Pasqua. Certi rimandi all'interno dello stesso racconto rafforzano l’impressione di un gioco tragico che procede a poco a poco verso la sua conclusione: per esempio, l'annuncio fatto da Gesù del rinnegamento di Pietro, con la menzione del canto del gallo.

Queste pagine drammatiche sono state preparate da alcuni elementi disposti nei capitoli precedenti. Il lettore, infatti, non è stato avvertito soltanto dagli espliciti annunci di Passione, morte e risurrezione fatti da Gesù (cf Mc 8,31; ecc.), ma anche da un certo numero di indizi che orientavano verso questo finale. Così si può leggere dopo l'episodio di una guarigione, operata di sabato: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Secondo Matteo, i discorsi di Gesù contengono ammonimenti così severi da provocare conflitti con il suo uditorio.

Luca conclude il racconto della tentazione di Gesù con la seguente precisazione: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13). L'appuntamento è fissato. E Luca invita il suo lettore a cogliere il legame con questo episodio quando presenta il complotto contro Gesù: «Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici... (Lc 22,3-4). Giovanni, da parte sua, colloca sin dall'inizio del ministero di Gesù l'episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme, insistendo sulla parola di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Un inciso precisa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,13-22).

Avvenimenti riletti nella fede

Anche se la forma letteraria è quella di un racconto, non si tratta di una raccolta di aneddoti. In certi accenti si percepiscono le preoccupazioni delle comunità cristiane all'interno delle quali sono nati i testi. Lo stesso lettore è invitato a farsi coinvolgere. Per esempio, il ruolo svolto da Giuda, il rinnegamento di Pietro, e ancora l'abbandono di Gesù da parte dei suoi intimi costituiscono altrettanti inviti a interrogarsi sulla propria fedeltà di discepoli nei riguardi del Maestro. Negli Atti degli Apostoli,

la Passione di Cristo servir in modo esplicito da modello al racconto del martirio di Stefano. Bisogna pure tener conto della portata di certe notizie riguardanti il potere romano o le autorità del popolo giudaico, quando si conoscono i problemi posti alle Comunità cristiane nascenti.

Lo spazio dato ai riferimenti scritturali è un altro indizio di questa rilettura nella fede: è considerevole, in particolare per il libro di Salmi, e in tutti e quattro i Vangeli. Spesso assume la forma di citazioni poste in bocca allo stesso Gesù.

Com’è avvenuto nel resto del Vangelo, tutte queste pagine sono state scritte alla luce della Risurrezione di Cristo. Ed è assai significativo constatare che i narratori non hanno cancellato gli aspetti più crudi: la sofferenza di Gesù, la sua solitudine (compresa quella davanti al Padre), il suo scontrarsi con l'incomprensione, la gelosia, la violenza.

Le quattro passioni sviluppano una stessa trama

Confrontando le quattro versioni della Passione nei Vangeli, si può constatare che è abbastanza facile metterle in parallelo. Ciò appare chiaro da tutte le edizioni sinottiche. Lo stesso Giovanni, che nel resto del suo Vangelo presenta una struttura chiaramente diversa dagli altri tre, qui li segue abbastanza da vicino. Per questa sezione si potrebbe parlare di «quattro Vangeli sinottici», cioè che può essere colta nel suo insieme a colpo d'occhio. Questa osservazione vale dall'entrata di Gesù in Gerusalemme, e ancor più dal suo arresto. Si possono persino rilevare un certo numero di convergenze tra Luca e Giovanni. E ciò potrebbe suggerire una preistoria della tradizione che sarebbe sfociata in due grandi correnti: una avrebbe dato origine alle versioni di Matteo e Marco, l'altra a quelle di Luca e Giovanni.

È difficile precisare quale fosse il tenore del racconto più antico; probabilmente quello di Marco è il più vicino agli eventi. Certi commentatori pensano a un primo «racconto breve», il cui inizio sarebbe costituito dall'episodio dell'arresto di Gesù. In seguito sarebbe stato sviluppato per dare origine a un racconto più lungo, comprendente, come prologo, un certo numero di episodi che attualmente troviamo prima dell’arresto.

Marco: lo «shock» dei fatti

Il racconto dì Marco, il meno sviluppato, ci presenta i fatti in modo sconcertante. Marco fa risaltare il paradosso della Croce di Cristo e, attraverso la narrazione, esprime la sua teologia, senza fare lunghi discorsi e senza troppi interventi personali nel corso del testo.

Tutto il suo Vangelo è una rivelazione dell'identità di Gesù. Il primo versetto orienta già la lettura in questo senso: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). A più riprese ritorna l'interrogativo: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41; 1,27; 6,14-16; ecc.). E Gesù manifesta una netta reticenza nell'affermare il suo titolo messianico, ed impone il silenzio al riguardo (Mc 1,34.44; 3,12; 5,43). Una tappa importante si raggiunge quando Pietro, rispondendo a una domanda posta da Gesù, afferma: «Tu sei il Cristo». Gesù ripete il suo comando al silenzio (8.30), ma subito «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31).

La croce, rivelazione dell'identità di Cristo

La Croce costituirà la tappa definitiva di questa rivelazione di Gesù. Davanti al Sinedrio Gesù viene interrogato dal Sommo Sacerdote che gli chiede se egli è «il Messia, il Figlio del Benedetto». La sua risposta è la seguente: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra dell'Onnipotente e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). Questa risposta lo trascinerà alla condanna a morte per bestemmia. Nel Vangelo di Marco, il titolo Figlio di Dio e quello di Figlio dell'uomo sono esplicitamente legati non soltanto alla nozione di gloria, ma anche al tema del pericolo e della morte. La scena della crocifissione lo conferma. La professione di fede del centurione ai piedi della croce viene riportata in questi termini: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Secondo Marco è il modo con cui Gesù è morto che farà riconoscere in lui il Figlio di Dio. E questo riconoscimento viene fatto da un centurione dell'esercito romano.

La presentazione paradossale di Gesù in Marco si manifesta anche per il modo con cui viene trattata la figura del re. Di fronte a Pilato, il titolo di «re dei Giudei» è al centro del dibattito. Alla domanda, postagli da Pilato al riguardo, Gesù risponde con riserva: «Tu lo dici» (Mc 15,2). La scena seguente e gli insulti della coorte riprendono il tema della regalità sul registro dello scherno: veste purpurea, corona di spine, saluti, prostrazioni, ecc... (Mc 15,6-20). Marco mette di nuovo il suo lettore davanti allo «shock» delle immagini e dei fatti.

Dati propri a Marco

In Marco troviamo alcuni tratti assenti negli altri Vangeli. Descrivendo la preghiera del Getsemani, è il solo a trascrivere il titolo aramaico 'Abbà che Gesù rivolge al Padre suo (Mc 14,36). Durante la fuga dei discepoli, è l'unico Vangelo a ricordare l'episodio del giovane che, abbandonato il lenzuolo di cui era rivestito, fuggì via nudo (Mc 14,51-52). I commentatori sottolineano sovente il carattere personale di questo dettaglio: è forse un ricordo autobiografico? Altri pensano piuttosto a un significato simbolico, il gesto poteva evocare il rito del battesimo. Marco segnala che Simone di Cirene era il padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21).  Si può supporre che questi nomi fossero conosciuti dai primi destinatari del suo Vangelo. È ancora il solo a parlate del coraggio di Giuseppe di Arimatea che chiede a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43): forse qui si può trovare un'eco di situazioni difficili vissute da alcuni cristiani dell'epoca. 

Matteo: potenza di Cristo

Nella Passione secondo Matteo, Gesù appare come il Figlio di Dio che attraversa la prova con potenza. Sin dai primi versetti del capitolo 26, annuncia: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». E nel Getsemani, durante l’arresto, fa notare a colui che aveva colpito di spada il servitore del sommo sacerdote: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio e mi darebbe più di dodici legioni di angeli?» (Mt, 26,53) Ma allo stesso tempo coglie l'occasione per dare un saggio insegnamento: «Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mi 26,52). Matteo è il solo a citare queste parole di Gesù. La potenza caratterizza anche le manifestazioni che seguono la morte di Gesù. Matteo ricorre ad alcune immagini che fanno parte degli scenari apocalittici e degli scritti profetici quando descrivono i fenomeni degli ultimi giorni (Mt 27,53-57). In questo modo egli accomuna nel suo racconto la morte e la risurrezione di Gesù.

Matteo sottolinea assai più di Marco e con più insistenza il compimento delle Scritture. Alla fine della scena dell'arresto, il narratore interviene per notare: «Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nella descrizione degli insulti rivolti a Gesù in croce (Mt 27,43), solo lui riprende certe espressioni dell'Antico Testamento, in particolare Sal 22,9 e Sap 2,18-19.

Un racconto segnato dai conflitti della sua epoca

Il contesto della vita delle comunità legate a Matteo traspare nel modo di riportare certi episodi. Il conflitto e la rottura tra i discepoli di Cristo e le autorità giudaiche vengono sottolineati nel suo Vangelo. Soltanto in esso leggiamo la dichiarazione della folla a Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). L’espressione dev'essere interpretata unicamente nel suo contesto: essa non deve giustificare una qualsiasi chiamata in causa della totalità del popolo giudaico durante i secoli. Queste parole vengono pronunciate durante una scena riportata dal solo Matteo (Mt 27,24-26): Pilato prende dell'acqua e si lava le mani, compiendo un gesto la cui portata simbolica è assai significativa per chi conosce

la Bibbia e la tradizione giudaica. Matteo è ancora il solo evangelista a prendere atto di una voce che circolava tra i giudei ,riguardo al corpo di Gesù rubato dai discepoli (27,62-66 e 28,12-15). Si possono anche notare i termini con cui Matteo presenta Giuseppe di Arimatea: «Era diventato anche lui discepolo di Gesù» (27,57). Egli usa qui lo stesso verbo che utilizzerà quando parlerà dell’invio in missione fatto dal Risorto in 28,19: «Ammaestrate (= fate miei discepoli) tutte le nazioni».

Altri dati propri a Matteo

Tra gli elementi narrativi riportati unicamente da Matteo, si possono notare le molte informazioni concernenti l'itinerario di Giuda. Egli ricorda la somma convenuta per il tradimento: «trenta monete d'argento» (Mt 26,15; 27,3.5.9). Questa corrisponde al prezzo di uno schiavo secondo Es 30,21-32. Interrompe il racconto della comparizione di Gesù davanti a Pilato per raccontare la morte di Giuda, in termini assai diversi da quelli di At 1,16-22. Infine conviene notare che, nel racconto matteano dell'ultima Cena, Gesù dà il senso della sua morte: egli parla del suo sangue versato per la moltitudine «in remissione dei peccati», cioè «per ottenere il perdono dei peccati» (Mt 26,28).

Luca: un lavoro da scrivano

Il testo di Luca appare, secondo l’espressione usata nel suo prologo (Lc 1,1-4) come «un resoconto ordinato». La sua arte di scrittore emerge nel modo in cui egli presenta gli attori del dramma, con la loro evoluzione psicologica e spirituale. Nel suo racconto possiamo seguire passo dopo passo il cammino di Pilato che prima si informa delle accuse portate contro Gesù e poi dà inizio all'interrogatorio sul suo titolo di re.

Luca accorda maggior spazio all'espressione dei sentimenti di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» confida, introducendo l'ultima Cena (Lc 22,15). La descrizione della sua angoscia al monte degli Ulivi è commovente (Lc 22,40-46). Egli parla di un sudore che «diventò come gocce di sangue». Le relazioni tra Gesù e Pietro sono evocato con delicatezza: nell'avvertimento espresso in 22,31-32, Luca ricorda la preghiera di Gesù per Pietro. Nel momento del rinnegamento, riferisce che Gesù «guardò Pietro» (Lc 22,61)

Presentazione drammatica dello scontro finale

Questo Vangelo è costruito intorno al cammino di Gesù verso Gerusalemme: e non è un caso se è ancora lui ad offrire la più lunga descrizione della via della Croce (23,26-32). In quest’occasione, il Cristo si rivolge con parole dure alle figlie di Gerusalemme che lo seguono. Nel Vangelo di Luca,

la Passione è raccontata come un grandioso dramma che oppone Gesù alle potenze del Male. Luca 22,3 fa riferimento al ruolo di Satana nel tradimento di Giuda. Poi apostrofa quelli che si avvicinano per arrestarlo dicendo: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Durante tutto il suo racconto, si percepisce l'affetto del discepolo Luca nei riguardi di Gesù. Ci tiene ad affermarne l'innocenza. Pilato, secondo Luca, per quattro volte lo proclama innocente (Lc 23,4.14.15.22). Anche uno dei malfattori riconosce che Gesù «non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Alla morte di Gesù, il centurione ravvisa in lui «un giusto» (Lc 23,47). Questo paradosso del giusto messo alla pari degli assassini è ricordato da Gesù evocando la figura del Servo di Dio in una citazione di Isaia. Dopo un solenne avvertimento ai discepoli, annuncia: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37). Solo Luca riporta queste parole di Gesù.

Un riferimento per la vita dei credenti

Luca invita il lettore a meditare queste scene. Si tratta di condividere l'atteggiamento di perseveranza, di pazienza e di perdono, che fu di Cristo. Tra gli elementi che gli Atti riprendono dalla Passione di Gesù per descrivere il martirio di Stefano si può notare la preghiera per i persecutori: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60; cf Lc 23,34). Le ultime parole di Stefano sono un'eco delle parole di Cristo che cita il Sal 31: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cf At 7,59). Il tema dello Spirito è particolarmente caro a Luca.

Altri dati propri a Luca

Nel suo modo di presentare

la Passione come punto di riferimento per la vita del credente, si constata un'altra particolarità lucana: egli insiste assai meno di Marco e Matteo sul venir meno dei discepoli. All'annuncio del tradimento di Giuda, non riferisce le terribili parole di Gesù che sarebbe stato meglio se non fosse mai nato. Durante 'arresto, non parla della fuga dei discepoli. E, al monte degli Ulivi, trova una spiegazione dell'atteggiamento di coloro che circondano Gesù: «dormivano per la tristezza» (Lc 22,45).

Solo Luca parla di Gesù davanti a Erode (Lc 23,6-12). L'episodio si conclude con una nota ironica del narratore: «In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici» (Lc 23,12), un tema che sarà ripreso in At 4,25-27. Infine, possiamo evidenziare la bella formula pronunciata da Gesù durante l'ultima Cena: «E io preparo per voi un Regno, come il Padre l'ha preparato per me» (Lc 22,29).

Giovanni: l’ora del dono e della glorificazione

Nel quarto Vangelo, il racconto della Passione è preparato da lunghi discorsi di Gesù. Egli «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre», compie un gesto che viene presentato come un atto di amore «sino alla fine» (Gv 13,1). Egli prega in questi termini: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato» (Gv 17,1-2). I. de

La Potterie fa notare che Giovanni «pone l'accento su ciò che, nella Passione, lascia già trasparire la luce di Pasqua e tende verso la risurrezione» Ci fa contemplare un Gesù sovranamente libero, cosciente di ciò che gli sta capitando, che affronta gli eventi con solennità.

La sua Passione è un mettere in pratica quello che egli stesso aveva annunciato con l'immagine del pastore che dà la vita per le sue pecore: ed ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo; questo è il comando che ha ricevuto dal Padre (Gv 10,14-18). Egli si comporta con coraggio e si mostra provocatore nei confronti di coloro che lo interrogano, il Sommo Sacerdote o Pilato. A quest'ultimo, precisa che la sua regalità non è di questo mondo. 

L'evangelista si colloca esplicitamente sul registro della testimonianza e dell'invito alla fede, rivolgendosi in questo modo ai suoi lettori: «Chi ha visto ne ha dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,.35). Questa nozione di verità, cara all'evangelista, costituisce il punto focale della discussione tra Gesù e Pilato. Costui però conclude il dialogo con il celebre interrogativo: «Che cos'è la verità?» (18,38).

Giovanni ama fare appello a espressioni il cui senso va oltre il livello del significato che possono dare gli attori del dramma.

Così il lettore, avvertito, ha il diritto di dare un senso assai forte ai due titoli che Pilato attribuisce a Gesù quando lo presenta alla folla: «Ecco l'uomo» (Gv 19,5) ed: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). A proposito del titolo di re, Giovanni nota che Pilato, a chi gli fa osservare che il titolo della scrittura posta sulla croce può prestarsi a equivoci, lascia il testo tale e quale, dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22).

Anche nel racconto della Passione l'ironia di Giovanni trova il modo di manifestarsi. Così riferisce che quelli che consegnarono Gesù a Pilato non entrarono nella casa del governatore romano «per non contaminarsi e poter mangiare

la Pasqua» (Gv 18,28).

Altri dati propri a Giovanni

Benché si avvicini molto ai Sinottici, Giovanni conserva una certa originalità. Nel racconto dell'ultima Cena, non menziona la parola sul pane e il vino, ma riporta la lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Così, non parla della preghiera di Gesù nel Getsemani, ma in 12,27-28 possiamo ritrovare alcuni elementi di questo dialogo patetico con il Padre, fatto in presenza della folla. Alla comparizione di Gesù davanti a Caifa aggiunge quella davanti ad Anna, suo suocero (Gv 18, 12-13.19-24). Solo Giovanni ricorda le parole di Gesù in croce con le quali Gesù affida sua madre al discepolo che egli amava (19,26-27). E descrive in dettaglio un intervento dei soldati per non lasciare in croce i corpi durante il sabato. Non rompono però le ossa di Cristo, ma solo lo colpiscono al costato con un colpo di lancia.

Questa scena diventa esplicitamente oggetto di un'interpretazione simbolica in relazione alle citazioni della Scrittura (Gv 19,31-37). Infine la cronologia del quarto Vangelo non concorda esattamente con quella degli altri evangelisti. Essa ha come scopo di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione dell'agnello pasquale da parte dei giudei.

Michel Berder

Professore al Seminario interdiocesano di Vannes

E al SIET di Bretagne-Mayenne

Da “Il mondo della Bibbia” 32

Ecco, io sono con voi tutti i giorni,

fino alla fine del mondo (Mt 28,20)

Uno degli aspetti essenziali dell’Eucaristia è costituito dal permanere della presenza di Cristo in mezzo a noi, sotto le specie del pane e del vino: da qui deriva il grande fascino, e la somma venerazione della chiesa. I due ultimi documenti sull’Eucaristia di Giovanni Paolo II ritornano a più riprese su questa dimensione del mistero eucaristico: l’Eucaristia, presenza salvifica di Gesù alla comunità dei fedeli, è quanto di più prezioso la chiesa possa avere nel suo cammino nella storia (EdE § 9). E ancora: con tutta la tradizione della chiesa, noi crediamo che, sotto le specie eucaristiche, è realmente presente Gesù. L’Eucaristia è mistero di presenza, per mezzo del quale si realizza in modo sommo la promessa di Gesù di restare con noi fino alla fine del mondo (MND § 16, passim).

Alla luce di questo dimorare di Gesù, per mezzo del Santissimo Sacramento, in mezzo a noi, si potrebbero rileggere alcune pagine della Scrittura per cercare di risalire alle prime manifestazioni e quindi alle radici di questa tenace volontà di comunione di Dio con gli uomini, evidenziando come in essa raggiungano il loro compimento alcune dinamiche constanti e fondamentali della rivelazione. 

La Sapienza

All’inizio della Bibbia, il gesto creatore (Gen 1-2) descrive l’iniziativa originaria di Dio che suscita l’esistenza di tutte le cose,  e al loro vertice l’uomo, come propria immagine e somiglianza (come suo figlio, si potrebbe dire, secondo Gen 5,3). I libri sapienziali, meditando sulla creazione, vedono a questo inizio primordiale del dono di Dio la mediazione della Sapienza (Pr 8,22-31; cf 3,19-20; Sir 24), presente accanto a Lui prima che esistesse qualsiasi altra opera delle sue mani, come architetto,  come artefice (Pr 8,30). Il carattere avvincente e misterioso della Sapienza personificata, induce a intuire già nell’AT una specie di rigonfiamenti interno – secondo quanto ha  scritto P. Beauchamp – nell’assoluto monoteismo ebraico; ma al di là della questione propriamente esegetico-teologica sollevata dall’immagine e dalla lettera del testo, interessa qui focalizzare l’attenzione sul v. 31: la mia gioia è stare con i figli dell’uomo (come traduce incisivamente la Vulgata: deliciae meae esse cum filiis hominum). La Sapienza media la relazione di Dio con gli uomini, e gode di permanere con loro (cf. Sir 24,11; Bar 3,38-4,1).

Come è noto, il NT  riprende la concezione veterotestamentaria della Sapienza per introdurre al mistero del Verbo di Dio nei testi  di Gv 1,1.3.14 e Col 1,15-20 e per contemplarne la centralità nel piano della salvezza. Fermiamo tuttavia la nostra attenzione su un solo aspetto di questa dinamica: la volontà di comunione di Dio che essa implica. Non si tratta infatti di una dimensione insolita o innovatrice che viene così messa in luce: il Dio della rivelazione ebraico cristiana viene identificato, fin dalle prime pagine della Genesi, attraverso la relazione interpersonale che instaura con il suo popolo ( il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri) che va costituendo, chiamandone i capostipiti di là dal fiume Eufrate (Gs 24,2; Dt 26,4), e liberandolo dalla schiavitù con la sua mano potente e il braccio teso (Sal 136,2: Ger 32,21; Ez 20,33,34).

La relazione di appartenenza reciproca che egli instaura con la sua tenace volontà di comunione è illustrata dalla frequenza delle cosiddette formule di alleanza  [Io sono (sarò) il vostro Dio e voi siete (sarete) il mio popolo (miei):  Es 6,7; Lv 26,12; Dt 7,6, ecc.]. Il Signore è un Dio vicino (Dt 7,4; cf. 30,14; Ger 23,23), che abita in mezzo ai suoi (Dt 6,15; 7,21; Ez 37,26-27) e ripete sono, sarò con te dovunque andrai, ai singoli e al popolo, soprattutto nei momenti di prova (cf. Gen 26,24; 28,15; Es 3,12; Dt 2,7; 31,6.8.13; Gs 1,5.9; Gdc 6,12.16 ecc.). E’ questo uno degli aspetti che caratterizzano il Dio della Bibbia, in confronto alle forme di religiosità dell’Antico Medio Oriente o altre fedi anche monoteistiche: non è solo l’annuncio e la memoria della irruzione del Dio Trascendente nella storia, ma la sottolineatura della presenza, dell’accompagnamento, dell’esser con – nelle migrazioni, nei pericoli della guerra e delle traversie dell’esistenza, nelle difficoltà e nelle angosce del vivere  - che Egli manifesta nei confronti di coloro che si è scelto.

Questa dinamica che attraversa tutto l’Antico Testamento trova il suo culmine, e insieme un compimento addirittura inimmaginabile, secondo la concezione ebraica nel mistero dell’Incarnazione. E il Verbo divenne carne e mise la tenda in noi, recita letteralmente il testo greco di Gv 1,14, sulla scia di Sir 24,8 ( fissa la tenda in Giacobbe e in Israele prendi possesso della tua eredità; cf. v. 11). L’essere  con diventa essere in.

In altri termini, l’incarnazione del Verbo in cui culmina il dono di Dio agli uomini,  non è fine a se stessa né costituisce un evento isolato, chiuso e delimitato nella persona di Cristo. L’idea-forza che soggiace all’annuncio evangelico è che l’incarnazione continua il suo effetto e la sua dinamica nei credenti. La finalità della rivelazione del Verbo è, a partire dall’origine, trascinare, coinvolgere in Lui  tutti uomini nella relazione con il Padre (Gv 1, il18),  perché essi siano il luogo della sua presenza.

È questo il mistero tenuto nascosto dai primordi del tempo e rivelato da Dio ai suoi santi, secondo le parole di San Paolo: Cristo in voi, speranza della gloria (col 1,26). San Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena, sviluppa il tema in varie modulazioni e secondo differenti prospettive, ripetendo l’invito: Rimanete in me (gv 15, 4.5.6.7.9.10; cf. 14, 20) perché Gesù vuole introdurre i suoi nella mirabile immanenza reciproca  che egli vive con il Padre (17, 21.23. 24 -26).

Il banchetto della Sapienza

Ma ritorniamo alla dimensione più specificamente eucaristica in questo mistero, riprendendo alcuni testi veterotestamentari che l’annunciano, la prefigurano e la preparano. La prospettiva di gratuità ed apertura universale del dono di Dio appare esplicitamente come invito a un banchetto nel convito che la Sapienza personificata offre ai poveri di Spirito in Pr 9, 1-6 (cf. Sir 24,19-21) lo stesso invito, rivolto agli esuli in Babilonia, ritorna in Is 55,1-2 come figura di riconciliazione, per la partecipazione ai beni della nuova alleanza.  In dimensione escatologica (cf. Is 25,6), la stessa immagine viene utilizzata per i tempi messianici, rappresentati come la celebrazione di un convito comunionale di Dio con gli uomini. Questo complesso simbolico si pone in continuità con la gioia festiva dei sacrifici di comunione che esprimevano sacramentalmente la partecipazione allo stesso principio vitale -  l’alimento del sacrificio -  da parte di Dio e dei credenti presenti alla celebrazione liturgica (Es 24,10-11; Dt 16,13-15; 1 Sam 9,13: Ne 8,10-12).  

Nel Nuovo Testamento, il tema viene ripreso e approfondito nelle rappresentazioni evangeliche del festino di nozze del proprio Figlio a cui il Padre invita tutti gli uomini (Mt 8,11; 26,29; 22,2-10; Lc 14,15-24; Ap 19,9; ecc.). Modulano la stessa raffigurazione simbolica, pur, sviluppandone alcune risonanze particolari, anche i racconti sinottici delle moltiplicazione dei pani e dei pesci (mc 6,30-44; 8,1-9; Mt 14,13-21; 15,32-39). Il significato propriamente eucaristico di questi segni viene ampliato teologicamente in Gv 6, nel discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao sul Pane di Vita (Gv 6,22-58). Qui l’immagine della convivialità di Dio con noi si dilata e si approfondisce attraverso il tema del pane del cielo che Dio dà, in continuità con il dono della manna nel deserto (Es 16; Sap 16,20-29; Sal 78,24-25; 105,40; ecc.).

La rappresentazione di Dio che provvede il nutrimento ad ogni creatura è correlativa alla sua potenza creatrice, come illustrano vari testi dell’antico testamento (Sal 104, 13.16.28; ecc.). Sul versante dell’uomo, la simbologia della fame e della sete, che indica l’anelito verso ciò che assicura la sopravvivenza, sono evocate insieme per indicare che la vera vita è data attraverso la Parola di Dio (Dt 8,3; Am 8,11). Il Signore è, quasi per definizione, Colui che sazia (Sal 16,11; 17,15; 22,27; 34,11; 37,19; 63,6; 65,5; 78,25; 90,14) in quanto Egli stesso è la Vita dei suoi (Dt 30,,20: perché Lui è la vita). Il primo principio e l’ultimo compimento del vivere – e quindi del desiderio, in senso realistico e spirituale – è il Dio Vivente, fonte dell’acqua viva (Ger 2,13;  Sal 42-43; 63,2; 143,6; cf. Ez 47,1; Gl 4,18; Zc 14,8; ecc.).

Nel NT, le stesse immagini e la stessa terminologia vengono riprese in riferimento a Gesù e allo Spirito che egli dona, nel sacrificio di sé stesso  (Gv 4, 14; 7, 37-39); sacramentalmente, ciò avviene in ogni celebrazione della Eucaristia, dove il Pane di Vita eucaristico sazia la nostra fame e la nostra sete (Gv 6, 35; cf Sir 24, 20) infondendo in noi la vita eterna (Gv 6, 33.50. 51). Qui, le figure conviviali ed escatologiche evocate in precedenza trovano un punto di sintesi e si articolano con la dimensione della comunione -  immanenza reciproca. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui (Gv 6, 56; 14 20. È in tal modo che Egli,  eminentemente, permane in noi. San Paolo descriverà la presenza di Cristo in colui che crede in Lui (Gal 2,19) creando perfino dei nuovi termini nella lingua greca del tempo e moltiplicandoli liberamente, per descrivere l’esistenza cristiana come vita con Lui, per Lui, in Lui (cf Rm 6, 4-8; 8, 16-32; Ef 2, 5-6; 3, 6; Fil 3, 10-11.21; Col 2, 12-13; 3, 1-4;  2 Tim 2,11-12).

La vita, dono nell’incontro comunionale 

Le linee evidenziate qui dal principio della creazione, attraverso la mediazione della Sapienza, fino all’Incarnazione e al festino escatologico celebrato nella pienezza dei tempi, illustrano essenzialmente la volontà di comunione che il Dio con noi (Immanuel: Is 7, 14; 8, 8.10; Mt 1,23) persegue nella sua relazione salvifica (cf. Ap 21,3: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”). Questa dinamica tende alla diffusione/condivisione della vita di Dio, che scaturisce dall’incontro con Lui ( cf. Gv 10, 10: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza).  

Vorremmo sottolineare qui come la vita nasce dall’incontro: originariamente, dalla Parola di Dio, che costituisce l’altro di fronte a sé  (Gen 1-2) e che il NT, sviluppando Pr 8, vede compiersi nella mediazione di Cristo,per Cristo e in vista di Cristo  (Col.1,16). L’apostolo Giovanni, contemplando al vertice della creazione il Verbo di Dio fatto carne, annuncia, in dimensione comunionale, che in Lui era la Vita, e la Vita era la luce degli uomini (Gv 1,4; Gv 1,2: la Vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta… la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi). 

La vita viene identificata con la persona stessa di Gesù Cristo, che ci conduce al Padre: Io sono la via, la resurrezione e la vita (Gv 11,15). E’ per Lui, secondo la 1 Gv, che noi viviamo:  Dio ha mandato il suo  unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui  (1 Gv 41, 9). Una mediazione non solo metafisica o teologica, ma esistenziale, concreta, sovranamente libera: Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a Chi vuole…. Come il Padre possiede la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di possedere la vita in se stesso (Gv 5, 21.26). Chi crede nel Figlio ha la vita eterna (Gv 3, 35). 

L’incontro con Dio da cui scaturisce la vita, si dà quindi per e nella comunione con il Figlio suo (Gv 6, 57: Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me; cf. Gv 1,1-13). Attraverso di lui, siamo introdotti fin d’ora, per grazia, nell’incontro dell’amore frontale del Padre e del Figlio e dello Spirito, inizio dell’essere. 

Il mistero eucaristico, nel già e nel non ancora del nostro pellegrinaggio nel tempo, è la modalità sacramentale in cui tale dinamica continua esplicitamente a coinvolgere tutti e ciascuno; in esso si compie  quella immanenza reciproca che costituisce l’essenza, il vertice della esperienza umana e cristiana:Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi (Gv 14,19-20).

A cura di Sr. Germana Strola O.C.S.O.

Lunedì, 02 Aprile 2007 00:28

Pasqua primavera del mondo

Declinata su quattro verbi: svegliarsi, alzarsi, correre e respirare, questa solennità coniuga il risveglio della natura con l’azione dello Spirito che rinnova ogni cosa e dà origine a un’esistenza filiale. Il tempo pasquale è tempo propizio per respirare a pieni polmoni lo Spirito e per correre senza risparmio sulla via che è Cristo.

La questione dei trattamenti di fine vita (non esclusa l’eutanasia), per quanto estremamente delicata, esige oggi, per essere adeguatamente affrontata, l’elaborazione di nuovi criteri di giudizio...