Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

 LA FINE DI “QUESTO” MONDO NELLE RELIGIONI INDIANE

in Le monde des religions, 16, pp. 36.37

Non si tratta di fine del mondo, ma piuttosto di “fine di un mondo”, della scomparsa di una manifestazione che, come tutto ciò che esiste, è intaccata dall'effimero

            Trasportiamoci mentalmente verso il XXV° secolo: Alla fine di un conflitto terribile l'umanità è quasi ridotta al nulla. Gli uomini sopravvissuti a questa guerra spaventosa sono come animali, rintanati in rifugi sommari, incapaci di qualsiasi pensiero spirituale. La fine del mondo? No, appena un anticipo della fine del nostro mondo. Tale è lo scenario profetico annunciato dall'insegnamento del Kalachakra, o

la Ruota del Tempo, attribuita al Buddha e largamente diffusa nel Tibet.

            Contrariamente alle tre grandi religioni monoteiste, le grandi spiritualità indiane, l'induismo e il buddismo, propongono una lettura del passare del tempo e dell'avvenire del mondo che si iscrive in un quadro relativo, senza vero inizio, né vera fine. Così non esiste Creazione: il principio del mondo si iscrive in una concezione larga, continua, ciclica, fondata sulla credenza nell'esistenza di grandi ere cosmiche, i kalpa. Ugualmente, non esiste un universo, ma una moltitudine di universi, ciascuno con il suo ritmo proprio: a ogni istante ognuno degli universi si trova a una tappa della sua esistenza che gli è specifica.

            La durata attribuita a un ciclo varia da una tradizione all'altra, ma è sempre straordinaria, e si esprime in milioni di generazioni umane. Bisogna ricorrere a metafore o a immagini per tentare di concepirla. Un ciclo completo, cioè “un  giorno e una notte del dio Brahma”, dura più tempo di quel che occorrerebbe a un pezzo di seta di Benares per erodere una roccia gigantesca fino all'ultimo granello di polvere toccandola solo una volta ogni secolo.

Ciclo di degenerazione

            Secondo la tradizione vedica, specialmente nel Visnu Purana, un grande ciclo si divide in 71 periodi, i mahayuga, ognuno diviso in quattro piccoli cicli, gli yuga associati a metalli (oro, argento, rame, ferro) suddivisi a loro volta in cicli più brevi.Questi cicli ritmano l'apparizione dell'universo e poi la sua degenerazione. Non si parla mai di una Apocalisse, nel senso popolare di una fine del mondo; si tratta infatti della “fine di un mondo”, la scomparsa di una manifestazione che è intaccata, come tutto ciò che esiste, dall'effimero.

            Induismo e buddismo si trovano d'accordo ancora per affermare che ci troviamo ora in un ciclo di degenerazione. Il Visnu Purana, che fu probabilmente redatto verso il IV° secolo, sottolinea in maniera profetica che in quel tempo di declino “la legge sarà quella del ricco” e che “la violenza, l'inganno e l'immoralità” saranno la regola comune. Altro segno della decrepitezza del mondo: “le donne saranno ridotte a un oggetto sessuale” e “i vecchi cercheranno di comportarsi come giovani e i giovani perderanno il candore della giovinezza

            Il Kalachakra evoca anch'esso questo tempo degenerato. Nel prolungamento di quel che diceva la tradizione indiana, esso annuncia l'emergenza e poi l'espansione di una religione spiritualmente alienante e la perversione dei valori. Le forze del Bene radunate nel regno invisibile di Shambala, dovranno lottare contro gli eserciti del Male che già regneranno sulla metà del mondo. Una volta stabilita la pace,

la Terra ritroverà la concordia, ma non sarà che una sospensione prima di una nuova degradazione.

            La caduta infatti assomiglia a una lenta ma irresistibile discesa, fatta di alti e bassi. Alla fine arriverà il tempo del caos e dal caos emergerà un nuovo universo mediante un processo che può essere assimilato a una progressiva condensazione dei suoi elementi costitutivi: l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra…

            Secondo le tradizioni spirituali indiane nello scorrere delle tappe del ciclo la durata della vita umana diminuisce, passando dalle varie decine di migliaia di anni a una sola decina di anni prima della sommersione nel caos. Egualmente la statura degli essere umani diminuisce in maniera significativa, per raggiungere una trentina di centimetri. Nel periodo di degenerazione che conosciamo la durata della vita è di 100 anni.

Logica fatalista

            Una lettura filosofica permette di considerare questa percezione dello scorrere del tempo in una maniera più larga. Le età dell'oro sono caratterizzate dalla spiritualità, la dolcezza, la longevità, l'armonia, mentre i periodi di degenerazione si distinguono per la confusione, cioè l'inversione dei valori fondamentali del Bene e del Male, dell'utile e del nocivo. Insomma, le epoche di crescita corrispondono a uno spazio esteriore e interno aperto; al contrario nelle epoche di decadenza aumenta la riduzione fisica, mentale e spirituale man mano che cresce il materialismo. La “fine del mondo” è quindi il risultato di un soffocamento del mondo, ultima tappa di un ripiegamento completo su di sé.

            La diminuzione della statura rimanda a una riduzione dello spazio e quella dell'età a un ristringimento del tempo. L'epoca contemporanea corrisponde a questi dati. Il nostro spazio si riduce, da una parte perché i nostri mezzi tecnici permettono di dominarlo, dall'altra perché l'occupazione umana della Terra non cessa di allargarsi. Se la durata della vita, essa, non cessa di allungarsi, contrariamente a quel che appare nelle tradizioni buddista e induista, la qualità del tempo vissuto diminuisce. Alle società tradizionali che ritmavano il tempo in generazioni, in stagioni, le società moderne oppongono un tempo sezionato, suddiviso, in cui l'unità non è più una vita, ma il secondo. L'umanità moderna perde dunque la distanza con il mondo, perde la visuale offerta dal ritmo lento della vita in cui l'uomo “ha il tempo”.

            L’inversione dei valori segue la stessa logica. Il ciclo di degenerazione che attraversiamo porterà l’uomo a perdere la spiritualità, o almeno ad allontanarsi da una spiritualità liberatrice. Invece le fedi “mondane”, quelle che lasciano libero corso all’attaccamento e al desiderio, non smetteranno di svilupparsi. La percezione del Bene conoscerà una deriva animata da un ripiegamento su di sé che condurrà le persone o le società ad autoproclamarsi i soli detentori del Bene: il Male diverrà così banale da non potersi più distinguere dal Bene, in quanto la confusione si sarà instillata nel corso delle generazioni.

            Se in questa logica ciclica appare un fatalismo sicuro, poiché il nostro universo è irrimediabilmente colpito dalla distruzione, l’interesse spirituale non deve essere trascurato. La degenerazione e il caos derivano dal fatto che l’uomo ha preso in mano il mondo al solo scopo di soddisfare il suo desiderio di dominazione. Dopo i periodi fasti in cui lo spirito era al centro dell’esistenza, la nostra era è quella in cui l’uomo è al centro delle sue preoccupazioni, si percepisce come la pietra angolare del mondo, la vetta di una piramide sostenuta dall’egocentrismo. Ne dimentica la base, non sa più che egli non è che una parte di un Tutto retto da leggi che lo superano, perché sono al di là della sua percezione dello spazio e del tempo.

Laurent Deshayes

Dottore in storia, ricercatore aggregato al CHRIA dell'Università di Nantes, Uscirà in aprile 2006: Découverte au Bouddhisme (Plon).

Lunedì, 02 Aprile 2007 00:48

La Passione nei quattro Vangeli


La Passione nei quattro Vangeli

Ognuno dei quattro Vangeli contiene un racconto dettagliato della passione di Gesù.Confrontando le quattro versioni compaiono punti in comune che fanno pensare ad uno schema narrativo di base. Eppure, ogni testo possiede la sua originalità, sia sul piano letterario sia su quello teologico. Cerchiamo di rintracciare a poco a poco i tratti comuni e le differenze. L’analisi paziente ci farà scoprire la ricchezza della riflessione delle prime comunità cristiane su queste scene a lungo meditate.

La prima caratteristica di questi capitoli è il posto primario che

la Passione occupa negli scritti evangelici. Il numero dei versetti dedicati al ricordo degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme è impressionante, rapportato alla lunghezza dei singoli Vangeli. Di più, questo racconto è alla fine di ogni percorso, e ciò dà ai quattro Vangeli l'aspetto di un racconto della Passione e Risurrezione preceduto da una lunga introduzione.

Cronaca di una morte annunciata

Tutti gli astanti che partecipano all’esperienza della proclamazione della Passione in un'assemblea sono colpiti dalla sua coerenza drammatica. Una certa «suspence» è predisposta; il destino di Gesù si sviluppa da un episodio all'altro fino a condurlo alla morte Gli evangelisti invitano anche a interessarci di altri personaggi: Pietro e Giuda, il gruppo dei discepoli, le donne che hanno seguito Gesù, e la stessa folla. Numerosi episodi vengono situati in funzione delle ubicazioni istituzionali nella città di Gerusalemme. La cronologia è concisa: le indicazioni sono a volte annotate in funzione del calendario liturgico giudaico all'avvicinarsi della Pasqua. Certi rimandi all'interno dello stesso racconto rafforzano l’impressione di un gioco tragico che procede a poco a poco verso la sua conclusione: per esempio, l'annuncio fatto da Gesù del rinnegamento di Pietro, con la menzione del canto del gallo.

Queste pagine drammatiche sono state preparate da alcuni elementi disposti nei capitoli precedenti. Il lettore, infatti, non è stato avvertito soltanto dagli espliciti annunci di Passione, morte e risurrezione fatti da Gesù (cf Mc 8,31; ecc.), ma anche da un certo numero di indizi che orientavano verso questo finale. Così si può leggere dopo l'episodio di una guarigione, operata di sabato: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire» (Mc 3,6). Secondo Matteo, i discorsi di Gesù contengono ammonimenti così severi da provocare conflitti con il suo uditorio.

Luca conclude il racconto della tentazione di Gesù con la seguente precisazione: «Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13). L'appuntamento è fissato. E Luca invita il suo lettore a cogliere il legame con questo episodio quando presenta il complotto contro Gesù: «Allora Satana entrò in Giuda, detto Iscariota, che era nel numero dei Dodici... (Lc 22,3-4). Giovanni, da parte sua, colloca sin dall'inizio del ministero di Gesù l'episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme, insistendo sulla parola di Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Un inciso precisa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,13-22).

Avvenimenti riletti nella fede

Anche se la forma letteraria è quella di un racconto, non si tratta di una raccolta di aneddoti. In certi accenti si percepiscono le preoccupazioni delle comunità cristiane all'interno delle quali sono nati i testi. Lo stesso lettore è invitato a farsi coinvolgere. Per esempio, il ruolo svolto da Giuda, il rinnegamento di Pietro, e ancora l'abbandono di Gesù da parte dei suoi intimi costituiscono altrettanti inviti a interrogarsi sulla propria fedeltà di discepoli nei riguardi del Maestro. Negli Atti degli Apostoli,

la Passione di Cristo servir in modo esplicito da modello al racconto del martirio di Stefano. Bisogna pure tener conto della portata di certe notizie riguardanti il potere romano o le autorità del popolo giudaico, quando si conoscono i problemi posti alle Comunità cristiane nascenti.

Lo spazio dato ai riferimenti scritturali è un altro indizio di questa rilettura nella fede: è considerevole, in particolare per il libro di Salmi, e in tutti e quattro i Vangeli. Spesso assume la forma di citazioni poste in bocca allo stesso Gesù.

Com’è avvenuto nel resto del Vangelo, tutte queste pagine sono state scritte alla luce della Risurrezione di Cristo. Ed è assai significativo constatare che i narratori non hanno cancellato gli aspetti più crudi: la sofferenza di Gesù, la sua solitudine (compresa quella davanti al Padre), il suo scontrarsi con l'incomprensione, la gelosia, la violenza.

Le quattro passioni sviluppano una stessa trama

Confrontando le quattro versioni della Passione nei Vangeli, si può constatare che è abbastanza facile metterle in parallelo. Ciò appare chiaro da tutte le edizioni sinottiche. Lo stesso Giovanni, che nel resto del suo Vangelo presenta una struttura chiaramente diversa dagli altri tre, qui li segue abbastanza da vicino. Per questa sezione si potrebbe parlare di «quattro Vangeli sinottici», cioè che può essere colta nel suo insieme a colpo d'occhio. Questa osservazione vale dall'entrata di Gesù in Gerusalemme, e ancor più dal suo arresto. Si possono persino rilevare un certo numero di convergenze tra Luca e Giovanni. E ciò potrebbe suggerire una preistoria della tradizione che sarebbe sfociata in due grandi correnti: una avrebbe dato origine alle versioni di Matteo e Marco, l'altra a quelle di Luca e Giovanni.

È difficile precisare quale fosse il tenore del racconto più antico; probabilmente quello di Marco è il più vicino agli eventi. Certi commentatori pensano a un primo «racconto breve», il cui inizio sarebbe costituito dall'episodio dell'arresto di Gesù. In seguito sarebbe stato sviluppato per dare origine a un racconto più lungo, comprendente, come prologo, un certo numero di episodi che attualmente troviamo prima dell’arresto.

Marco: lo «shock» dei fatti

Il racconto dì Marco, il meno sviluppato, ci presenta i fatti in modo sconcertante. Marco fa risaltare il paradosso della Croce di Cristo e, attraverso la narrazione, esprime la sua teologia, senza fare lunghi discorsi e senza troppi interventi personali nel corso del testo.

Tutto il suo Vangelo è una rivelazione dell'identità di Gesù. Il primo versetto orienta già la lettura in questo senso: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (Mc 1,1). A più riprese ritorna l'interrogativo: «Chi è dunque costui?» (Mc 4,41; 1,27; 6,14-16; ecc.). E Gesù manifesta una netta reticenza nell'affermare il suo titolo messianico, ed impone il silenzio al riguardo (Mc 1,34.44; 3,12; 5,43). Una tappa importante si raggiunge quando Pietro, rispondendo a una domanda posta da Gesù, afferma: «Tu sei il Cristo». Gesù ripete il suo comando al silenzio (8.30), ma subito «cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare» (Mc 8,31).

La croce, rivelazione dell'identità di Cristo

La Croce costituirà la tappa definitiva di questa rivelazione di Gesù. Davanti al Sinedrio Gesù viene interrogato dal Sommo Sacerdote che gli chiede se egli è «il Messia, il Figlio del Benedetto». La sua risposta è la seguente: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra dell'Onnipotente e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). Questa risposta lo trascinerà alla condanna a morte per bestemmia. Nel Vangelo di Marco, il titolo Figlio di Dio e quello di Figlio dell'uomo sono esplicitamente legati non soltanto alla nozione di gloria, ma anche al tema del pericolo e della morte. La scena della crocifissione lo conferma. La professione di fede del centurione ai piedi della croce viene riportata in questi termini: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Secondo Marco è il modo con cui Gesù è morto che farà riconoscere in lui il Figlio di Dio. E questo riconoscimento viene fatto da un centurione dell'esercito romano.

La presentazione paradossale di Gesù in Marco si manifesta anche per il modo con cui viene trattata la figura del re. Di fronte a Pilato, il titolo di «re dei Giudei» è al centro del dibattito. Alla domanda, postagli da Pilato al riguardo, Gesù risponde con riserva: «Tu lo dici» (Mc 15,2). La scena seguente e gli insulti della coorte riprendono il tema della regalità sul registro dello scherno: veste purpurea, corona di spine, saluti, prostrazioni, ecc... (Mc 15,6-20). Marco mette di nuovo il suo lettore davanti allo «shock» delle immagini e dei fatti.

Dati propri a Marco

In Marco troviamo alcuni tratti assenti negli altri Vangeli. Descrivendo la preghiera del Getsemani, è il solo a trascrivere il titolo aramaico 'Abbà che Gesù rivolge al Padre suo (Mc 14,36). Durante la fuga dei discepoli, è l'unico Vangelo a ricordare l'episodio del giovane che, abbandonato il lenzuolo di cui era rivestito, fuggì via nudo (Mc 14,51-52). I commentatori sottolineano sovente il carattere personale di questo dettaglio: è forse un ricordo autobiografico? Altri pensano piuttosto a un significato simbolico, il gesto poteva evocare il rito del battesimo. Marco segnala che Simone di Cirene era il padre di Alessandro e Rufo (Mc 15,21).  Si può supporre che questi nomi fossero conosciuti dai primi destinatari del suo Vangelo. È ancora il solo a parlate del coraggio di Giuseppe di Arimatea che chiede a Pilato il corpo di Gesù (Mc 15,43): forse qui si può trovare un'eco di situazioni difficili vissute da alcuni cristiani dell'epoca. 

Matteo: potenza di Cristo

Nella Passione secondo Matteo, Gesù appare come il Figlio di Dio che attraversa la prova con potenza. Sin dai primi versetti del capitolo 26, annuncia: «Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso». E nel Getsemani, durante l’arresto, fa notare a colui che aveva colpito di spada il servitore del sommo sacerdote: «Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio e mi darebbe più di dodici legioni di angeli?» (Mt, 26,53) Ma allo stesso tempo coglie l'occasione per dare un saggio insegnamento: «Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada» (Mi 26,52). Matteo è il solo a citare queste parole di Gesù. La potenza caratterizza anche le manifestazioni che seguono la morte di Gesù. Matteo ricorre ad alcune immagini che fanno parte degli scenari apocalittici e degli scritti profetici quando descrivono i fenomeni degli ultimi giorni (Mt 27,53-57). In questo modo egli accomuna nel suo racconto la morte e la risurrezione di Gesù.

Matteo sottolinea assai più di Marco e con più insistenza il compimento delle Scritture. Alla fine della scena dell'arresto, il narratore interviene per notare: «Tutto questo è avvenuto perché si adempissero le Scritture dei profeti» (Mt 26,56). Nella descrizione degli insulti rivolti a Gesù in croce (Mt 27,43), solo lui riprende certe espressioni dell'Antico Testamento, in particolare Sal 22,9 e Sap 2,18-19.

Un racconto segnato dai conflitti della sua epoca

Il contesto della vita delle comunità legate a Matteo traspare nel modo di riportare certi episodi. Il conflitto e la rottura tra i discepoli di Cristo e le autorità giudaiche vengono sottolineati nel suo Vangelo. Soltanto in esso leggiamo la dichiarazione della folla a Pilato: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (Mt 27,25). L’espressione dev'essere interpretata unicamente nel suo contesto: essa non deve giustificare una qualsiasi chiamata in causa della totalità del popolo giudaico durante i secoli. Queste parole vengono pronunciate durante una scena riportata dal solo Matteo (Mt 27,24-26): Pilato prende dell'acqua e si lava le mani, compiendo un gesto la cui portata simbolica è assai significativa per chi conosce

la Bibbia e la tradizione giudaica. Matteo è ancora il solo evangelista a prendere atto di una voce che circolava tra i giudei ,riguardo al corpo di Gesù rubato dai discepoli (27,62-66 e 28,12-15). Si possono anche notare i termini con cui Matteo presenta Giuseppe di Arimatea: «Era diventato anche lui discepolo di Gesù» (27,57). Egli usa qui lo stesso verbo che utilizzerà quando parlerà dell’invio in missione fatto dal Risorto in 28,19: «Ammaestrate (= fate miei discepoli) tutte le nazioni».

Altri dati propri a Matteo

Tra gli elementi narrativi riportati unicamente da Matteo, si possono notare le molte informazioni concernenti l'itinerario di Giuda. Egli ricorda la somma convenuta per il tradimento: «trenta monete d'argento» (Mt 26,15; 27,3.5.9). Questa corrisponde al prezzo di uno schiavo secondo Es 30,21-32. Interrompe il racconto della comparizione di Gesù davanti a Pilato per raccontare la morte di Giuda, in termini assai diversi da quelli di At 1,16-22. Infine conviene notare che, nel racconto matteano dell'ultima Cena, Gesù dà il senso della sua morte: egli parla del suo sangue versato per la moltitudine «in remissione dei peccati», cioè «per ottenere il perdono dei peccati» (Mt 26,28).

Luca: un lavoro da scrivano

Il testo di Luca appare, secondo l’espressione usata nel suo prologo (Lc 1,1-4) come «un resoconto ordinato». La sua arte di scrittore emerge nel modo in cui egli presenta gli attori del dramma, con la loro evoluzione psicologica e spirituale. Nel suo racconto possiamo seguire passo dopo passo il cammino di Pilato che prima si informa delle accuse portate contro Gesù e poi dà inizio all'interrogatorio sul suo titolo di re.

Luca accorda maggior spazio all'espressione dei sentimenti di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione» confida, introducendo l'ultima Cena (Lc 22,15). La descrizione della sua angoscia al monte degli Ulivi è commovente (Lc 22,40-46). Egli parla di un sudore che «diventò come gocce di sangue». Le relazioni tra Gesù e Pietro sono evocato con delicatezza: nell'avvertimento espresso in 22,31-32, Luca ricorda la preghiera di Gesù per Pietro. Nel momento del rinnegamento, riferisce che Gesù «guardò Pietro» (Lc 22,61)

Presentazione drammatica dello scontro finale

Questo Vangelo è costruito intorno al cammino di Gesù verso Gerusalemme: e non è un caso se è ancora lui ad offrire la più lunga descrizione della via della Croce (23,26-32). In quest’occasione, il Cristo si rivolge con parole dure alle figlie di Gerusalemme che lo seguono. Nel Vangelo di Luca,

la Passione è raccontata come un grandioso dramma che oppone Gesù alle potenze del Male. Luca 22,3 fa riferimento al ruolo di Satana nel tradimento di Giuda. Poi apostrofa quelli che si avvicinano per arrestarlo dicendo: «Questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Durante tutto il suo racconto, si percepisce l'affetto del discepolo Luca nei riguardi di Gesù. Ci tiene ad affermarne l'innocenza. Pilato, secondo Luca, per quattro volte lo proclama innocente (Lc 23,4.14.15.22). Anche uno dei malfattori riconosce che Gesù «non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Alla morte di Gesù, il centurione ravvisa in lui «un giusto» (Lc 23,47). Questo paradosso del giusto messo alla pari degli assassini è ricordato da Gesù evocando la figura del Servo di Dio in una citazione di Isaia. Dopo un solenne avvertimento ai discepoli, annuncia: «Vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: “E fu annoverato tra i malfattori”. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine» (Lc 22,37). Solo Luca riporta queste parole di Gesù.

Un riferimento per la vita dei credenti

Luca invita il lettore a meditare queste scene. Si tratta di condividere l'atteggiamento di perseveranza, di pazienza e di perdono, che fu di Cristo. Tra gli elementi che gli Atti riprendono dalla Passione di Gesù per descrivere il martirio di Stefano si può notare la preghiera per i persecutori: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60; cf Lc 23,34). Le ultime parole di Stefano sono un'eco delle parole di Cristo che cita il Sal 31: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46; cf At 7,59). Il tema dello Spirito è particolarmente caro a Luca.

Altri dati propri a Luca

Nel suo modo di presentare

la Passione come punto di riferimento per la vita del credente, si constata un'altra particolarità lucana: egli insiste assai meno di Marco e Matteo sul venir meno dei discepoli. All'annuncio del tradimento di Giuda, non riferisce le terribili parole di Gesù che sarebbe stato meglio se non fosse mai nato. Durante 'arresto, non parla della fuga dei discepoli. E, al monte degli Ulivi, trova una spiegazione dell'atteggiamento di coloro che circondano Gesù: «dormivano per la tristezza» (Lc 22,45).

Solo Luca parla di Gesù davanti a Erode (Lc 23,6-12). L'episodio si conclude con una nota ironica del narratore: «In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici» (Lc 23,12), un tema che sarà ripreso in At 4,25-27. Infine, possiamo evidenziare la bella formula pronunciata da Gesù durante l'ultima Cena: «E io preparo per voi un Regno, come il Padre l'ha preparato per me» (Lc 22,29).

Giovanni: l’ora del dono e della glorificazione

Nel quarto Vangelo, il racconto della Passione è preparato da lunghi discorsi di Gesù. Egli «sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre», compie un gesto che viene presentato come un atto di amore «sino alla fine» (Gv 13,1). Egli prega in questi termini: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il figlio tuo glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che tu gli hai dato» (Gv 17,1-2). I. de

La Potterie fa notare che Giovanni «pone l'accento su ciò che, nella Passione, lascia già trasparire la luce di Pasqua e tende verso la risurrezione» Ci fa contemplare un Gesù sovranamente libero, cosciente di ciò che gli sta capitando, che affronta gli eventi con solennità.

La sua Passione è un mettere in pratica quello che egli stesso aveva annunciato con l'immagine del pastore che dà la vita per le sue pecore: ed ha il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo; questo è il comando che ha ricevuto dal Padre (Gv 10,14-18). Egli si comporta con coraggio e si mostra provocatore nei confronti di coloro che lo interrogano, il Sommo Sacerdote o Pilato. A quest'ultimo, precisa che la sua regalità non è di questo mondo. 

L'evangelista si colloca esplicitamente sul registro della testimonianza e dell'invito alla fede, rivolgendosi in questo modo ai suoi lettori: «Chi ha visto ne ha dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero perché anche voi crediate» (Gv 19,.35). Questa nozione di verità, cara all'evangelista, costituisce il punto focale della discussione tra Gesù e Pilato. Costui però conclude il dialogo con il celebre interrogativo: «Che cos'è la verità?» (18,38).

Giovanni ama fare appello a espressioni il cui senso va oltre il livello del significato che possono dare gli attori del dramma.

Così il lettore, avvertito, ha il diritto di dare un senso assai forte ai due titoli che Pilato attribuisce a Gesù quando lo presenta alla folla: «Ecco l'uomo» (Gv 19,5) ed: «Ecco il vostro Re» (Gv 19,14). A proposito del titolo di re, Giovanni nota che Pilato, a chi gli fa osservare che il titolo della scrittura posta sulla croce può prestarsi a equivoci, lascia il testo tale e quale, dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto» (Gv 19,22).

Anche nel racconto della Passione l'ironia di Giovanni trova il modo di manifestarsi. Così riferisce che quelli che consegnarono Gesù a Pilato non entrarono nella casa del governatore romano «per non contaminarsi e poter mangiare

la Pasqua» (Gv 18,28).

Altri dati propri a Giovanni

Benché si avvicini molto ai Sinottici, Giovanni conserva una certa originalità. Nel racconto dell'ultima Cena, non menziona la parola sul pane e il vino, ma riporta la lavanda dei piedi (Gv 13,1-11). Così, non parla della preghiera di Gesù nel Getsemani, ma in 12,27-28 possiamo ritrovare alcuni elementi di questo dialogo patetico con il Padre, fatto in presenza della folla. Alla comparizione di Gesù davanti a Caifa aggiunge quella davanti ad Anna, suo suocero (Gv 18, 12-13.19-24). Solo Giovanni ricorda le parole di Gesù in croce con le quali Gesù affida sua madre al discepolo che egli amava (19,26-27). E descrive in dettaglio un intervento dei soldati per non lasciare in croce i corpi durante il sabato. Non rompono però le ossa di Cristo, ma solo lo colpiscono al costato con un colpo di lancia.

Questa scena diventa esplicitamente oggetto di un'interpretazione simbolica in relazione alle citazioni della Scrittura (Gv 19,31-37). Infine la cronologia del quarto Vangelo non concorda esattamente con quella degli altri evangelisti. Essa ha come scopo di far coincidere la morte di Gesù con l'immolazione dell'agnello pasquale da parte dei giudei.

Michel Berder

Professore al Seminario interdiocesano di Vannes

E al SIET di Bretagne-Mayenne

Da “Il mondo della Bibbia” 32

Ecco, io sono con voi tutti i giorni,

fino alla fine del mondo (Mt 28,20)

Uno degli aspetti essenziali dell’Eucaristia è costituito dal permanere della presenza di Cristo in mezzo a noi, sotto le specie del pane e del vino: da qui deriva il grande fascino, e la somma venerazione della chiesa. I due ultimi documenti sull’Eucaristia di Giovanni Paolo II ritornano a più riprese su questa dimensione del mistero eucaristico: l’Eucaristia, presenza salvifica di Gesù alla comunità dei fedeli, è quanto di più prezioso la chiesa possa avere nel suo cammino nella storia (EdE § 9). E ancora: con tutta la tradizione della chiesa, noi crediamo che, sotto le specie eucaristiche, è realmente presente Gesù. L’Eucaristia è mistero di presenza, per mezzo del quale si realizza in modo sommo la promessa di Gesù di restare con noi fino alla fine del mondo (MND § 16, passim).

Alla luce di questo dimorare di Gesù, per mezzo del Santissimo Sacramento, in mezzo a noi, si potrebbero rileggere alcune pagine della Scrittura per cercare di risalire alle prime manifestazioni e quindi alle radici di questa tenace volontà di comunione di Dio con gli uomini, evidenziando come in essa raggiungano il loro compimento alcune dinamiche constanti e fondamentali della rivelazione. 

La Sapienza

All’inizio della Bibbia, il gesto creatore (Gen 1-2) descrive l’iniziativa originaria di Dio che suscita l’esistenza di tutte le cose,  e al loro vertice l’uomo, come propria immagine e somiglianza (come suo figlio, si potrebbe dire, secondo Gen 5,3). I libri sapienziali, meditando sulla creazione, vedono a questo inizio primordiale del dono di Dio la mediazione della Sapienza (Pr 8,22-31; cf 3,19-20; Sir 24), presente accanto a Lui prima che esistesse qualsiasi altra opera delle sue mani, come architetto,  come artefice (Pr 8,30). Il carattere avvincente e misterioso della Sapienza personificata, induce a intuire già nell’AT una specie di rigonfiamenti interno – secondo quanto ha  scritto P. Beauchamp – nell’assoluto monoteismo ebraico; ma al di là della questione propriamente esegetico-teologica sollevata dall’immagine e dalla lettera del testo, interessa qui focalizzare l’attenzione sul v. 31: la mia gioia è stare con i figli dell’uomo (come traduce incisivamente la Vulgata: deliciae meae esse cum filiis hominum). La Sapienza media la relazione di Dio con gli uomini, e gode di permanere con loro (cf. Sir 24,11; Bar 3,38-4,1).

Come è noto, il NT  riprende la concezione veterotestamentaria della Sapienza per introdurre al mistero del Verbo di Dio nei testi  di Gv 1,1.3.14 e Col 1,15-20 e per contemplarne la centralità nel piano della salvezza. Fermiamo tuttavia la nostra attenzione su un solo aspetto di questa dinamica: la volontà di comunione di Dio che essa implica. Non si tratta infatti di una dimensione insolita o innovatrice che viene così messa in luce: il Dio della rivelazione ebraico cristiana viene identificato, fin dalle prime pagine della Genesi, attraverso la relazione interpersonale che instaura con il suo popolo ( il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri) che va costituendo, chiamandone i capostipiti di là dal fiume Eufrate (Gs 24,2; Dt 26,4), e liberandolo dalla schiavitù con la sua mano potente e il braccio teso (Sal 136,2: Ger 32,21; Ez 20,33,34).

La relazione di appartenenza reciproca che egli instaura con la sua tenace volontà di comunione è illustrata dalla frequenza delle cosiddette formule di alleanza  [Io sono (sarò) il vostro Dio e voi siete (sarete) il mio popolo (miei):  Es 6,7; Lv 26,12; Dt 7,6, ecc.]. Il Signore è un Dio vicino (Dt 7,4; cf. 30,14; Ger 23,23), che abita in mezzo ai suoi (Dt 6,15; 7,21; Ez 37,26-27) e ripete sono, sarò con te dovunque andrai, ai singoli e al popolo, soprattutto nei momenti di prova (cf. Gen 26,24; 28,15; Es 3,12; Dt 2,7; 31,6.8.13; Gs 1,5.9; Gdc 6,12.16 ecc.). E’ questo uno degli aspetti che caratterizzano il Dio della Bibbia, in confronto alle forme di religiosità dell’Antico Medio Oriente o altre fedi anche monoteistiche: non è solo l’annuncio e la memoria della irruzione del Dio Trascendente nella storia, ma la sottolineatura della presenza, dell’accompagnamento, dell’esser con – nelle migrazioni, nei pericoli della guerra e delle traversie dell’esistenza, nelle difficoltà e nelle angosce del vivere  - che Egli manifesta nei confronti di coloro che si è scelto.

Questa dinamica che attraversa tutto l’Antico Testamento trova il suo culmine, e insieme un compimento addirittura inimmaginabile, secondo la concezione ebraica nel mistero dell’Incarnazione. E il Verbo divenne carne e mise la tenda in noi, recita letteralmente il testo greco di Gv 1,14, sulla scia di Sir 24,8 ( fissa la tenda in Giacobbe e in Israele prendi possesso della tua eredità; cf. v. 11). L’essere  con diventa essere in.

In altri termini, l’incarnazione del Verbo in cui culmina il dono di Dio agli uomini,  non è fine a se stessa né costituisce un evento isolato, chiuso e delimitato nella persona di Cristo. L’idea-forza che soggiace all’annuncio evangelico è che l’incarnazione continua il suo effetto e la sua dinamica nei credenti. La finalità della rivelazione del Verbo è, a partire dall’origine, trascinare, coinvolgere in Lui  tutti uomini nella relazione con il Padre (Gv 1, il18),  perché essi siano il luogo della sua presenza.

È questo il mistero tenuto nascosto dai primordi del tempo e rivelato da Dio ai suoi santi, secondo le parole di San Paolo: Cristo in voi, speranza della gloria (col 1,26). San Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena, sviluppa il tema in varie modulazioni e secondo differenti prospettive, ripetendo l’invito: Rimanete in me (gv 15, 4.5.6.7.9.10; cf. 14, 20) perché Gesù vuole introdurre i suoi nella mirabile immanenza reciproca  che egli vive con il Padre (17, 21.23. 24 -26).

Il banchetto della Sapienza

Ma ritorniamo alla dimensione più specificamente eucaristica in questo mistero, riprendendo alcuni testi veterotestamentari che l’annunciano, la prefigurano e la preparano. La prospettiva di gratuità ed apertura universale del dono di Dio appare esplicitamente come invito a un banchetto nel convito che la Sapienza personificata offre ai poveri di Spirito in Pr 9, 1-6 (cf. Sir 24,19-21) lo stesso invito, rivolto agli esuli in Babilonia, ritorna in Is 55,1-2 come figura di riconciliazione, per la partecipazione ai beni della nuova alleanza.  In dimensione escatologica (cf. Is 25,6), la stessa immagine viene utilizzata per i tempi messianici, rappresentati come la celebrazione di un convito comunionale di Dio con gli uomini. Questo complesso simbolico si pone in continuità con la gioia festiva dei sacrifici di comunione che esprimevano sacramentalmente la partecipazione allo stesso principio vitale -  l’alimento del sacrificio -  da parte di Dio e dei credenti presenti alla celebrazione liturgica (Es 24,10-11; Dt 16,13-15; 1 Sam 9,13: Ne 8,10-12).  

Nel Nuovo Testamento, il tema viene ripreso e approfondito nelle rappresentazioni evangeliche del festino di nozze del proprio Figlio a cui il Padre invita tutti gli uomini (Mt 8,11; 26,29; 22,2-10; Lc 14,15-24; Ap 19,9; ecc.). Modulano la stessa raffigurazione simbolica, pur, sviluppandone alcune risonanze particolari, anche i racconti sinottici delle moltiplicazione dei pani e dei pesci (mc 6,30-44; 8,1-9; Mt 14,13-21; 15,32-39). Il significato propriamente eucaristico di questi segni viene ampliato teologicamente in Gv 6, nel discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao sul Pane di Vita (Gv 6,22-58). Qui l’immagine della convivialità di Dio con noi si dilata e si approfondisce attraverso il tema del pane del cielo che Dio dà, in continuità con il dono della manna nel deserto (Es 16; Sap 16,20-29; Sal 78,24-25; 105,40; ecc.).

La rappresentazione di Dio che provvede il nutrimento ad ogni creatura è correlativa alla sua potenza creatrice, come illustrano vari testi dell’antico testamento (Sal 104, 13.16.28; ecc.). Sul versante dell’uomo, la simbologia della fame e della sete, che indica l’anelito verso ciò che assicura la sopravvivenza, sono evocate insieme per indicare che la vera vita è data attraverso la Parola di Dio (Dt 8,3; Am 8,11). Il Signore è, quasi per definizione, Colui che sazia (Sal 16,11; 17,15; 22,27; 34,11; 37,19; 63,6; 65,5; 78,25; 90,14) in quanto Egli stesso è la Vita dei suoi (Dt 30,,20: perché Lui è la vita). Il primo principio e l’ultimo compimento del vivere – e quindi del desiderio, in senso realistico e spirituale – è il Dio Vivente, fonte dell’acqua viva (Ger 2,13;  Sal 42-43; 63,2; 143,6; cf. Ez 47,1; Gl 4,18; Zc 14,8; ecc.).

Nel NT, le stesse immagini e la stessa terminologia vengono riprese in riferimento a Gesù e allo Spirito che egli dona, nel sacrificio di sé stesso  (Gv 4, 14; 7, 37-39); sacramentalmente, ciò avviene in ogni celebrazione della Eucaristia, dove il Pane di Vita eucaristico sazia la nostra fame e la nostra sete (Gv 6, 35; cf Sir 24, 20) infondendo in noi la vita eterna (Gv 6, 33.50. 51). Qui, le figure conviviali ed escatologiche evocate in precedenza trovano un punto di sintesi e si articolano con la dimensione della comunione -  immanenza reciproca. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui (Gv 6, 56; 14 20. È in tal modo che Egli,  eminentemente, permane in noi. San Paolo descriverà la presenza di Cristo in colui che crede in Lui (Gal 2,19) creando perfino dei nuovi termini nella lingua greca del tempo e moltiplicandoli liberamente, per descrivere l’esistenza cristiana come vita con Lui, per Lui, in Lui (cf Rm 6, 4-8; 8, 16-32; Ef 2, 5-6; 3, 6; Fil 3, 10-11.21; Col 2, 12-13; 3, 1-4;  2 Tim 2,11-12).

La vita, dono nell’incontro comunionale 

Le linee evidenziate qui dal principio della creazione, attraverso la mediazione della Sapienza, fino all’Incarnazione e al festino escatologico celebrato nella pienezza dei tempi, illustrano essenzialmente la volontà di comunione che il Dio con noi (Immanuel: Is 7, 14; 8, 8.10; Mt 1,23) persegue nella sua relazione salvifica (cf. Ap 21,3: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”). Questa dinamica tende alla diffusione/condivisione della vita di Dio, che scaturisce dall’incontro con Lui ( cf. Gv 10, 10: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza).  

Vorremmo sottolineare qui come la vita nasce dall’incontro: originariamente, dalla Parola di Dio, che costituisce l’altro di fronte a sé  (Gen 1-2) e che il NT, sviluppando Pr 8, vede compiersi nella mediazione di Cristo,per Cristo e in vista di Cristo  (Col.1,16). L’apostolo Giovanni, contemplando al vertice della creazione il Verbo di Dio fatto carne, annuncia, in dimensione comunionale, che in Lui era la Vita, e la Vita era la luce degli uomini (Gv 1,4; Gv 1,2: la Vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta… la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi). 

La vita viene identificata con la persona stessa di Gesù Cristo, che ci conduce al Padre: Io sono la via, la resurrezione e la vita (Gv 11,15). E’ per Lui, secondo la 1 Gv, che noi viviamo:  Dio ha mandato il suo  unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui  (1 Gv 41, 9). Una mediazione non solo metafisica o teologica, ma esistenziale, concreta, sovranamente libera: Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a Chi vuole…. Come il Padre possiede la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di possedere la vita in se stesso (Gv 5, 21.26). Chi crede nel Figlio ha la vita eterna (Gv 3, 35). 

L’incontro con Dio da cui scaturisce la vita, si dà quindi per e nella comunione con il Figlio suo (Gv 6, 57: Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me; cf. Gv 1,1-13). Attraverso di lui, siamo introdotti fin d’ora, per grazia, nell’incontro dell’amore frontale del Padre e del Figlio e dello Spirito, inizio dell’essere. 

Il mistero eucaristico, nel già e nel non ancora del nostro pellegrinaggio nel tempo, è la modalità sacramentale in cui tale dinamica continua esplicitamente a coinvolgere tutti e ciascuno; in esso si compie  quella immanenza reciproca che costituisce l’essenza, il vertice della esperienza umana e cristiana:Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi (Gv 14,19-20).

A cura di Sr. Germana Strola O.C.S.O.

Lunedì, 02 Aprile 2007 00:28

Pasqua primavera del mondo

Declinata su quattro verbi: svegliarsi, alzarsi, correre e respirare, questa solennità coniuga il risveglio della natura con l’azione dello Spirito che rinnova ogni cosa e dà origine a un’esistenza filiale. Il tempo pasquale è tempo propizio per respirare a pieni polmoni lo Spirito e per correre senza risparmio sulla via che è Cristo.

La questione dei trattamenti di fine vita (non esclusa l’eutanasia), per quanto estremamente delicata, esige oggi, per essere adeguatamente affrontata, l’elaborazione di nuovi criteri di giudizio...

Queste riflessioni scritte in occasione del Congresso di Nuova York, Scienza e Religione, avevano lo scopo di segnalare il terreno sul quale tutti gli uomini desiderosi di progredire potrebbero incominciare a capirsi e ad aiutarsi reciprocamente prima di universi in una stessa verità.

Giovedì, 29 Marzo 2007 02:23

Testimoni di speranza (g.f.)

(g.f.)

«Sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi». Lo stile additato dalla Prima lettera di Pietro è il medesimo che la Chiesa italiana ha messo al centro del Convegno ecclesiale nazionale in programma a Verona dal 16 al 20 ottobre, sul tema «Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo».

Dialogo ecumenico

Spiritualità e mistica: frontiere esigenti

di Andrea Pacini

Il dialogo della spiritualità è formalmente riconosciuto come un livello importante attraverso cui si è chiamati a sviluppare il dialogo interreligioso. A questo esorta il documento Dialogo e annuncio. Al dialogo della spiritualità sono riconducibili, tra le altre, le iniziative promosse dall’Interfaith Monastic Dialogue negli Stati Uniti o, a livello locale, il dialogo orante attuato dai monaci trappisti di Tibhirine con i membri di una confraternita sufi algerina, di cui rimane memoria nei loro scritti.

Tuttavia, accanto a tali esperienze di alto livello, non si può non notare la diffusione di un generico richiamo al dialogo a partire dall’esperienza spirituale che presenta non poche ambiguità: spesso prende infatti la forma di una sorta di invito al superamento della dottrina che divide, a favore di un incontro a un livello più profondo, spesso denominato "mistico". Ma proprio sulla mistica occorre un chiarimento.

In effetti una corretta comprensione del dialogo della spiritualità rimanda certamente all’esperienza religiosa vissuta dai seguaci delle diverse tradizioni religiose e rinvia al ruolo della mistica come ambito di dialogo. Per muoversi in tale prospettiva occorre essere consapevoli che la dimensione mistica rappresenta il nucleo fondamentale di ogni tradizione religiosa specifica.

In quanto tale, il suo concetto generale dovrebbe piuttosto essere declinato nell’accezione plurale di "mistiche": proprio perché la dimensione mistica svolge il ruolo di riferimento esistenziale fondante e di orientamento fondamentale dell’esperienza religiosa proposta dalle diverse tradizioni, ogni religione ha una specifica espressione mistica, che riceve senso e conferisce senso all’interno della religione specifica.

Questa prima precisazione è fondamentale, perché riconduce la mistica alla sua realtà più vera: quella cioè di esprimere sul piano dell’esperienza religiosa vissuta l’orientamento più profondo sotteso alla specifica tradizione religiosa praticata.

Nello stesso tempo viene corretta una possibile interpretazione erronea della mistica, quella cioè di essere una sorta di religio perennis (religione perenne), che come un fiume carsico scorre nella vita spirituale dell’umanità ed emerge concretamente nelle religioni storiche. In effetti, nel rapporto religione/mistica è la religione specifica che ha la priorità: quest’ultima con la sua dottrina e i suoi precetti (spirituali e morali) definisce la visione di Dio (o Realtà assoluta), del mondo e della realtà, nonché l’orientamento dell’uomo in rapporto alla globalità dell’esistente, e quindi definisce l’orientamento mistico.

Le mistiche esprimono quindi la tradizione religiosa di riferimento; per questo si possono suddividere almeno in due grandi categorie rispetto alle religioni di cui sono espressione: le mistiche interpersonali e le mistiche fusionali.

Le mistiche interpersonali esprimono l’esperienza spirituale nelle cosiddette religioni profetiche (ebraismo, cristianesimo, islam), caratterizzate – sia pure con differenze tra loro – dalla fede in un Dio unico e "personale", con il quale l’uomo è chiamato a sviluppare un rapporto interpersonale, anche se le modalità e il termine ultimo di tale rapporto differiscono per le tre religioni.

Le mistiche fusionali sono espressione delle grandi religioni orientali (hinduismo, buddismo) la cui finalità è far compiere al soggetto l’esperienza della non dualità, ovvero di sperimentare la propria coincidenza con il "tutto esistente" (la realtà assoluta) in cui la consapevolezza individuale si annulla. Si tratta di due orientamenti spirituali molto diversi e ci si può chiedere fino a che punto esprimano una stessa esperienza: si tratta di una questione cui può rispondere solo un dialogo della spiritualità assunto in modo rigoroso.

All’interno delle cosiddette religioni profetiche occorre poi notare un accento forte sulla dimensione morale, che crea un campo di tensione con l’esperienza mistica. Nell’ebraismo la mistica cabalistica si è sviluppata in tensione con l’insegnamento rabbinico tradizionale, più preoccupato di offrire una formazione morale e religiosa di tipo normativo.

All’interno dell’islam ortodosso ufficiale la mistica (il sufismo) ha una collocazione problematica per almeno due motivi: per la possibile relativizzazione in termini di superamento del ruolo della legge (la shari’a), considerata mediazione ineludibile per attuare la sottomissione a Dio in cui consiste il nucleo della religione musulmana; e per l’orientamento finale che i maestri sufi propongono, ovvero l’esperienza dell’unione con Dio. Questo concetto è assai poco condiviso all’interno dell’ortodossia ufficiale, che radicalizza la categoria di tawhid, unicità, per la quale non si può definire il rapporto dell’uomo con Dio, assolutamente trascendente, nei termini di "unione".

Occorre infine evidenziare come all’interno del cristianesimo la mistica riceva un’accezione propria, in quanto si presenta come mistica cristologica: infatti coincide con l’esperienza stessa della fede cristiana, in cui "morale" e "mistica" sono funzioni interdipendenti dell’unica caritas. Ma la caritas, prima di essere esperienza morale e spirituale dell’uomo, è la stessa identità (natura) del Dio uno e trino, che precede ogni risposta ed esperienza umana e ne costituisce la condizione di possibilità («Dio ci ama per primo»).

La mistica è cristologica perché trova in Cristo il suo luogo personale di manifestazione e di esperienza: in lui, vero Dio e vero uomo, si attua in sommo grado la comunione tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio e l’amore dell’uomo. Propriamente parlando, la mistica cristiana coincide con la persona di Gesù, che nella sua unicità è mediatore universale della "comunione" tra Dio e gli uomini e tra gli uomini e Dio. Qui è l’essenza del mistero cristiano.

La mistica cristiana è dunque cristologica, perché implica la mediazione ineludibile di Cristo ed è suo "dono", e perché consiste nella trasfigurazione in Cristo della vita personale dei credenti, cioè assumere il pensiero, i sentimenti, l’amore, la volontà di Cristo. Ne consegue un rapporto indissolubile tra mistica e morale, e tra mistica e storia in prospettiva escatologica.

Poste queste troppo sintetiche precisazioni, nel considerare il rapporto tra le diverse mistiche in vista del dialogo interreligioso, occorrerà evitare con cura sia il sincretismo, cui rimanda ad esempio il concetto di religio perennis sopra menzionato, sia l’esclusivismo. Il sincretismo confonde ciò che è generale con ciò che ha valore supremo, ciò che è comune con ciò che è specifico, scambiando gli aspetti comuni con il sostrato ultimo. In definitiva finisce per dissolvere le identità delle diverse religioni con il rischio di "inventare" espressioni religiose nuove e quanto mai vaghe, di cui la galassia delle varie forme religiose riconducibili alla New Age sono un possibile tipo di espressione accanto ad altre di ispirazione esoterica.

L’esclusivismo è l’errore opposto, che implica il considerare le mistiche non cristiane in netta opposizione con la fede cristiana, vedendone solo gli elementi di differenza e sottoponendoli a un giudizio puramente negativo.

Si tratterà invece di valorizzare, pur nella loro differenza, gli orientamenti mistici presenti nelle diverse tradizioni religiose per avviare a partire da essi un dialogo di scambio e di riflessione sulle reciproche esperienze spirituali, verificandone la sintonia con i valori evangelici e avendo, da parte cristiana, il criterio cristologico come elemento fondamentale di valutazione e di discernimento.

In questa prospettiva il dialogo della spiritualità è certamente la frontiera più affascinante e significativa del dialogo interreligioso, ma proprio per questo rappresenta il livello più impegnativo e più delicato in cui il dialogo può spingersi, rispetto al quale occorre evitare ogni tipo di banalizzazione.

(da Vita Pastorale, n. 2, 2007)

Pasqua di Resurrezione: Le due Chiese

di Giovanni Vannucci

 

Leggiamo attentamente la pagina del Vangelo di questa domenica della Risurrezione (Gv 20, 1-9).

Maria di Magdala andò di buon mattino al sepolcro, trovò la pietra tombale ribaltata e la tomba vuota. Costernata corse da Simon Pietro e da Giovanni dicendo: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro!». I due discepoli di corsa andarono al sepolcro. Giovanni arrivò per primo, ma non vi entrò; Pietro, giunto dopo, entrò e vide le bende e il sudario deposti per terra. Allora entrò anche Giovanni e vide e credette.

Perché questa constatazione è fatta al singolare ed è riferita a Giovanni? Questa domanda non è una sottigliezza: trattandosi di un testo ispirato, nessun particolare è privo di significato, tanto più se si tiene presente che nel quarto Vangelo le narrazioni sono trasfigurate in simboli della vita e delle vicende della Chiesa.

La visione realistica che il Vangelo ha della natura umana non esclude la possibilità di una fede legata al compromesso; in due figure di apostoli ha tratteggiato due immagini: quella del discepolo che, pur sentendo il fascino di Cristo, è attratto dalle vedute umane, e quella del discepolo che non viene mai meno nella sua fedeltà all’amore: Pietro e Giovanni. Esse indicano le due costanti della storia della Chiesa.

Pietro è chiamato, come Giovanni, ad amare e a perdere la propria anima, ma non sempre riesce a liberarsi dai ragionamenti e a gettarsi allo sbaraglio della fede. «Pietro discese dalla barca e cominciò a camminare sulle acque. Davanti alla violenza del vento ebbe paura e principiando ad affondare gridò: “Signore, salvami!”. Gesù lo prese per mano e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”» (Mt 14, 29-31).

Due sono i poli che determinano la storia del singolo e di conseguenza di tutta l’umanità: l’uomo e Dio, il visibile e l’invisibile.

L’individuo che si orienta verso il polo-uomo, pone se stesso come centro dell’universo, padrone e ordinatore della storia. La sua azione tende a dominare la natura e la vita, escludendo ogni imponderabile che contrasti col principio della causalità razionale. E viene a trovarsi come Pietro sulla superficie delle acque, vive nel miracolo e lo scopre impossibile razionalmente, preso dal panico tenta di liberarsene costringendo l’orizzonte sconfinato della vita nel breve ambito delle formulazioni scientifiche o moralistiche.

L’anelito all’infinito è imbrigliato nella composta osservanza del dovere; la creatività ridotta alla ricerca delle leggi che regolano il mondo; le più ardenti ispirazioni abbassate alla richiesta del conforto e della sicurezza.

Tutto diventa ripetizione: i pensieri, le teorie, i costumi, l’arte. L’autorità assume il ruolo del rigido controllo dell’ordine costituito, accolto come perfetto e definitivo. L’ultima assise di questo tipo umano è la legge, la consuetudine, la staticità dei princìpi, il culto della lettera. Il regno di Dio non è più la tensione dei regni umani verso l’infinito oceano della vita divina, ma la monotona enunciazione di formule fisse, l’invariata ripetizione di tradizioni, entro le quali l’anelito a più vasta vita è spento nella sicurezza dell’invariabile.

L’uomo orientato verso il polo divino è proteso verso quelle realtà che, pur non avendo ancora raggiunto la loro forma, sono vive e operose nel visibile, e accendono nel cuore i più puri ideali. Davanti al sepolcro vuoto del Signore, egli osserva l’assenza della salma e crede nella Risurrezione. Per questa fede contro le apparenze egli diviene la figura e l’annunciatore delle realtà invisibili.

In lui tutto viene trasmutato: l’autorità diventa attento e rispettoso servizio dell’uomo; la legge tramonta per aprire il varco allo spirito; la terra non è più oggetto di conquista e di avidità, ma termine di un rapporto di amorosa dedizione; tutto egli vede e sente attraversato dall’ansia della risurrezione e della trasfigurazione; e adempie il suo compito di uomo come strumento per l’ascesa nello Spirito di tutto l’esistente.

Il brano evangelico di Gv 20, 1-9 ci rivela il duplice aspetto terreno della Chiesa: uno legato alla fede e al dubbio, alla ricerca dello Spirito e insieme alla necessità di costruire delle «tende» ove ingenuamente pensa di custodire il Signore. L’altro aperto all’infinito cammino del Signore, morto e risorto, del Signore che distrugge implacabile tutte le forme che attorno a Lui si densificano; abbatte i templi costruiti da mano d’uomo; cancella la lettera in nome dello Spirito; abolisce la forma che ha assunto nella morte in nome della Vita, che è sempre costellata da infinite risurrezioni.

Allora, «se siamo risorti con Cristo» (Col 3, 1), poiché molto dolore è nella vita, accendiamovi molto amore; molto è il buio e il freddo, diveniamo luce e calore; molto è il disprezzo e la profanazione della vita, amiamola con forte e rispettoso amore. «Se siamo risorti con Cristo», affermeremo la vita contro la morte, lo Spirito contro la Legge, la Grazia come trionfo sul Peccato!



Giovanni Vannucci, in La vita senza fine, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, pp. 73-75.

Vladimir Solovëv alle soglie del XXI secolo

di Vladimir Zelinskij


Il profeta della riconciliazione

Vladimir Solovëv morì un secolo fa e noi dobbiamo misurare bene questa distanza. Sembra che lui sia vissuto in un altro mondo, ma sullo stesso territorio che si chiama oggi con una pretesa un po' orgogliosa, "l'Europa dall'Atlantico agli Urali". Infatti, egli era sempre in viaggio dall'Est e dall'Ovest del continente europeo. Era il tipico pellegrino russo, ma con una schiacciante erudizione, un ex-professore itinerante, un trovatore e un interlocutore della caparbia Signora Sofia, ma anche uno spiritoso che poteva nascondere nello scherzo ciò che è più santo e ciò che è più profano, un vagabondo instancabile in ricerca della Città Celeste sulla terra, un alchimista del pensiero, uno scolastico, ma anche un poe­ta visionario che sembra venuto dal Medioevo per camminare verso quel futuro che non vediamo neanche noi.

L’Europa, però, l'area geografica del suo pellegrinaggio, come concetto sto­rico e culturale, come carta dei valori comuni, bagaglio legislativo, simbolo dei diritti umani, non era neanche in progetto. La terra dall'Atlantico agli Urali era occupata dagli stati nazionali con i loro egoismi e patriottismi sfrenati in cui fer­mentavano le due guerre mondiali, e poi c'erano il comunismo e l'olocausto, che non erano ancora giunti a maturazione, ma che tuttavia erano già stati con­cepiti nel seno della cultura e della mentalità europea.

Solovëv non si è accorto di questi fermenti del XX secolo sul finire del XIX, come non ha previsto lo sviluppo delle ideologie e dei regimi. Non ha potuto immaginare il tragico ruolo del marxismo nel destino della Russia e, nel "Blut­und Bodenromantik" tedesco non ha indovinato le cellule di cancro che già sta­vano per crescere. Solovëv, per dire la verità, non ha nemmeno sentito la fiori­tura del simbolismo russo, di cui proprio lui, come poeta mistico, è diventato il padrino a pieno diritto. Nel suo Racconto dell’Anticristo, che contiene una cer­ta previsione del futuro, la guerra si fa ancora con le armi della campagna del 1877-1878 per la liberazione dei popoli ortodossi dal dominio turco. Ma ades­so che il XX secolo è già alle nostre spalle e il dominio ideologico appartiene alla storia passata, quasi come quello turco sull'Europa, noi scopriamo di nuovo il Solovëv-profeta, il precursore o l'uomo del presentimento geniale, più spiritua­le che letterale, delle cose che noi non abbiamo ancora raggiunto, ma che im­pariamo ancora a pensare e a sperare.

E non per caso abbiamo cominciato a parlare della nuova nascita dell’Euro­pa alle soglie del XXI secolo, perché davvero questo filosofo-pellegrino, studio­so rispettabile, studente permanente, cercatore della Sofia e dell’"Ewig-Wiebliche", "pazzo in Cristo" nel senso più nobile della parola, è diventato uno dei padri spirituali della nuova unità europea, colui che "prepara la sua strada", forse, senza conoscerla e allo stesso tempo uno dei primi a denunciare il suo ani­mo secolarizzato e privo di slanci ideali. Solovëv è riuscito ad assorbire e trasfor­mare in sé quasi tutto il patrimonio dello spirito europeo, filosofico, sociale, mistico, ad esprimerlo in un grandioso tentativo di sintesi degli elementi più contraddittori e inconciliabili. Questo tentativo porta, a mio avviso, un grande ed autentico vigore profetico che noi dobbiamo leggere con gli occhi della no­stra esperienza, della memoria e della speranza comune.

Si vuole sottolineare che questa lettura, che nasce dalla comprensione e dall'incontro nella fede condivisa, è ancora davanti a noi e dipende dal nostro coinvolgimento nelle cose che "si sperano e non si vedono" (cf. Eb 11,1). È vero che durante la sua breve vita Solovëv voleva fare il profeta e sentiva dall'infanzia la sua vocazione come missione ecclesiale, ma ciò che lui considerava come pro­fezia, coincideva con la sua opera che è ancora legata o condizionata dal tempo che fa il suo. Dopo la sua morte, però, Solovëv è diventato il pensatore russo, forse più famoso in Occidente, ma non molto ricordato in Russia; in ogni caso, mi sembra che lui non abbia ancora manifestato tutto il suo spirito, quello che nasce lentamente quando noi ci apriamo al suo messaggio principale.

Nonostante le numerose pubblicazioni (nel 1999 è iniziata la 4a edizione della sua Opera omnia in russo in 20 volumi), Solovëv non è molto letto nell'ambito ecclesiale e ai nostri giorni (cioè nel primo decennio di libertà di parola dopo il comunismo) suscita un interesse più accademico che religioso. Il suo spirito, in tutti i suoi scritti di filosofo, di poeta lirico, di pubblicista, di teologo, di critico letterario, di pensatore politico ed etico, è profondamente e intrinsecamente re­ligioso nel senso cristiano ed ecclesiale, ma, forse, la sua religione, quella dello Spirito Santo che avrebbe dovuto unire in sé Oriente ed Occidente (come lui confessò una volta nella lettera privata a V. Rosanov), non è ancora nata all'in­terno delle Chiese storiche. Per questo motivo se avessi dovuto parlare su Solovëv nella Russia d'oggi, avrei potuto dire ben poco, al di là di un paio di conferenze filosofiche, sostenute materialmente dall'estero.

Quella Russia tradizionalista che cerca la sua identità nel sogno del passato, che vive nella resistenza spirituale, visibile ed invisibile, con l'Occidente-invasore, con poche eccezioni, non è una grande lettrice ed ammiratrice di Solovëv che ha una fama, pesante ed ambigua, di occidentalista militante. Per quanto riguarda l'Occi­dente, soprattutto cattolico, che manifesta la sua particolare stima, interesse, perfi­no venerazione nei confronti del filosofo russo, esso vede in lui anzitutto un grande "araldo" dell'unità cristiana, solo uno dei primi orientali che osava "respirare a due polmoni", quello russo e quello romano. (Va ricordato anche che non è per caso che il termine, o piuttosto l'immagine, dei "due polmoni" appartiene a un altro grande poeta e pensatore russo: Vjačeslav Ivanov). Ci risulta che la tendenza che domina oggi nell'Ortodossia russa rigetti o semplicemente dimentichi Solovëv per lo stesso motivo per cui il mondo cattolico lo apprezza e lo elogia. Questo fatto ci dice soltanto che lo “spirito” o il messaggio profetico di Solovëv non si è ancora liberato dalla polemica.

Questo spirito o diciamo, il centro più profondo, a volte nascosto, della sua missione, che è anche ecclesiale in senso proprio, è il servizio della riconciliazio­ne nel suo significato iniziale, filosofico, ed ecclesiale. In qualunque sezione della sua opera grandiosa, la sorgente manifestata o celata rimane sempre il messaggio" dell'unità e della ricerca di una visione sintetica nella sua versione globale, che porta il nome della "divino-umanità".

La "divino-umanità", cioè la famiglia umana nel suo cammino verso Dio e nella sua trasfigurazione in Dio, secondo tutti i ricercatori del pensiero di Solovëv, non è soltanto il suo concetto centrale, ma la sorgente stessa della sua ispi­razione. Se noi togliamo questa idea di fondo, tutte le sue splendide speculazioni, come afferma lo storico della filosofia russa V. Zenkovskij, sem­brano un “mosaico” di idee eterogenee. La "divino-umanità" è un progetto uto­pistico, un sistema teologico, un sogno, una visione profetica, una filosofia mistica, ma soprattutto la radice e il cammino del suo pensiero ecclesiale che cercava il Dio Vivente nell'edificio delle "pietre vive" (cf. 1Pt 2,5). Ma l'inizio personale di questo cammino, come ritiene lo storico della teologia russa G. Florovskij, forse, con un po' di esagerazione critica, era "la ricerca della giustizia sociale". Certo, non si può spiegare tutta l'opera di Solovëv, che mi ricorda una costruzione incompiuta di una maestosa chiesa gotica, solo partendo dalla ri­cerca della giustizia, ma tutto il suo pensiero porta l'impronta della preoccupa­zione sociale, quando "misericordia e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno" (Sal 84,11), nell'edificazione della Città di Dio. Solovëv, che era fi­glio del più grande storico della Russia, cresciuto negli anni '60 del secolo XIX, cioè nel periodo del dominio del nichilismo e del positivismo, ha ereditato tutto il bagaglio materialistico-utopistico-ateo dell'intelligencija russa. Ma egli l'ha messo al servizio della fede e della divino-umanità.

"Tutta l'originalità dell'opera cristiana di Solovëv si vuol cercare nel fatto, scrive Berdjaev, che lui si è formato alla fede dei padri e ne è diventato un di­fensore dopo esser passato attraverso l'esperienza umanistica della storia nuova, dopo l'autoconferma della libertà umana nella conoscenza e nella costruzione sociale".

il positivismo volgare contro la vita mistica, l'atei­smo scandalizzante contro la pietà rituale, la salvezza collettiva nella protesta contro l'ordine pubblico e la salvezza personale nella devozione di stampo mo­nastico; la benedizione della realtà sociale tale quale era e la rivolta contro di es­sa; il canto della distruzione che va fino ai terrorismo individuale e poi fino al terrorismo di Stato e, dall'altro lato, l'elogio come virtù principale di un buon cittadino, l'umiltà e l'ubbidienza alla volontà di Dio che agisce nella gerarchia della società. Le radici spirituali di questo conflitto degli anni 60-70 del secolo XIX sono rivelate nei romanzi di Turghenev e Dostoevskij, soprattutto nei Fratelli Karamazov.

L'intelligencija russa dalla sua origine si è presentata come ordine, con il suo proprio monachesimo a rovescio, con il suo ascetismo, la sua dottrina, i suoi ri­ti, i suoi santi martiri, la sua scrittura sacra (dal "precursore" Büchner al “mes­sia” Marx). L'adolescente Solovëv è entrato con grande entusiasmo in quest'ordine dei servitori dell'umanità e, come uno degli eroi di Turghenev, ha cercato nei riflessi delle rane la risposta a tutte le domande della sua anima in­dagatrice. Successivamente ha trovato lui stesso una formula per questa "fede" nei riflessi: "Siamo discesi dalla scimmia, dunque, amiamoci gli uni gli altri". Ma verso i 20 anni, forse anche un po' prima, si convertì all'Assoluto e dopo la Facoltà di Scienze naturali, si iscrisse alla Facoltà di Lettere e quindi all'Accademia teologica. Le "conversioni" di questo genere, le fughe da un ordine ad un altro, non erano poi così eccezionali, ma questi passaggi si accompagnavano sempre ad uno “scuotimento della polvere" (Mt 10,14), ovvero ad una rottura spettacolare ed irreversibile con il campo rigettato. Solovëv fu il primo a speri­mentare la strada della riconciliazione delle due esperienze, delle due verità fino allora inconciliabili, perché anche in un altro campo egli ha potuto scorgere il seme evangelico, ancorché rinsecchito e calpestato.

Quando, molti anni dopo, nel suo libro La Russie et l’Eglise universelle, scrit­to in francese, leggiamo che i giusti atei hanno fatto il lavoro dei credenti passivi ed ingiusti, che tutto il progresso sociale è opera della gente che cercava la verità senza Dio e spesso contro Dio, riconosciamo subito il vecchio pathos dell'intel­ligencija russa, ma inserito nella visione ecclesiale e messo nello spazio del mes­saggio evangelico. Questo pensiero, dopo Solovëv, è diventato quasi un luogo comune, come il tentativo moralistico di costruire un ponte fra i due tipi di umanesimo: quello bizantino ortodosso, che parte dalla visione dell'uomo sal­vato per la sua vita in Cristo, tramite i sacramenti della Chiesa e la disciplina ascetica, e quello secolare che ha le sue radici nella cultura europea del XVII­-XVIII secolo, ma che ha ricevuto sulla terra russa uno slancio particolarmente forte. È l'umanesimo incarnato nella lotta per la giustizia sociale all'epoca di So­lovëv; oggi se ne può riconoscere il suo discendente nel liberalismo occidentale, nella charta dei diritti umani, nel concetto dell'Europa unita. Ma egli fu anche il primo ad avvertire che l'umanesimo che perde le sue radici in Cristo presta subito il suo "volto umano" all'Anticristo che non tarda ad occupare il suo po­sto.

Sì, il conflitto e l'opposizione fra i due campi esiste anche ai nostri giorni e nelle forme non meno acute che ai tempi di Solovëv e i due campi rimangono sempre in guerra ideologica. Solovëv ha percorso la strada verso la riconciliazio­ne non con un compromesso fra idee diverse, ma nella sua personale scoperta di un "altro" Cristo, ancora poco conosciuto. Si può dire che nel Cristo della fede tradizionale, egli ha rivelato il Cristo della coscienza e del dolore di Colui che "assunse la condizione di servo” (cf Fil 2,7) e che si trova sempre davanti al nostro sguardo spirituale, come modello che vive dentro di noi (con questa immagine Solovëv finisce il suo libro I fondamenti spirituali della vita). Ma egli vede lo stesso Cristo anche come principio dinamico della storia (nelle sue Le­zioni sulla Divinoumanità) e noi possiamo indovinare alcuni tratti che saranno sviluppati da Teilhard de Chardin. La rivelazione del Cristo inizia dentro di noi, nella nostra esperienza e nella nostra coscienza e abbraccia tutta la famiglia umana nel suo cammino verso la divino-umanità. Ma nell'ambito dell'essere eterno e divino il Cristo rimane il centro eterno spirituale dell'organismo uni­versale.

Sulla strada del pensiero speculativo Solovëv cercava sempre di costruire questo organismo che più tardi riceverà il nome dell'uni-totalità. Si tratta prima di tutto della sintesi della scienza, della filosofia e della religione. "Tutte le idee, essendosi legate fra di loro, sono partecipi all'idea dell'amore incondizionale che secondo la sua propria natura contiene all'interno di sé tutto l'altro, è l'espres­sione concentrata del tutto come unità" (Lezioni sulla Divinoumanità). Il progetto di Solovëv, che può sembrare utopistico, è di vedere, in questa unità che abbraccia tutto, la dinamica intrinseca dell'amore oppure della rivelazione del Cristo, non soltanto nell'anima umana, ma anche nella storia e nella società. In questo progetto si può riconoscere l'universalismo, ma anche lo spirito sognan­te tipicamente russo che parte dall'idea dell'umanità come un essere unico, come un organismo collettivo, soggetto dello sviluppo storico.

Questo organismo deve avere una conoscenza integrale - Solovëv usa questo termine della filosofia degli slavofili, ma con scopi opposti a quelli di qualsiasi particolarismo nazionale. Egli vuole trovare una sintesi, come dice nella sua pri­ma opera filosofica I fondamenti filosofici della conoscenza integrale, fra "le con­templazioni dell'Oriente e il lavoro speculativo dell'Occidente". Per esempio, sulle tracce di Schelling, Solovëv fa distinzione fra l'essere e l'essente e prende l'essente come l'inizio di ogni essere concreto. L'essere è l'inizio della pluralità, l'essente è l'origine dell'unità di tutto ciò che esiste. L'essente in assoluto porta in sé la forza positiva dell'essere, lo possiede e va chiamato "superessente”. Rifiu­tare il superessente vuol dire negare l'esistenza delle cose e del mondo come tale. Ma questa costruzione si realizza, per il giovane Solovëv, nel tentativo delta te­ologia trinitaria quando egli riferisce l'idea del «superessente" all'ipostasi del Pa­dre che rivela l'essere tramite il Logos o il Figlio, ma tutto l'essere torna all'unità nel Padre nello Spirito Santo. Così nasce il sistema della conoscenza integrale, in cui la speculazione puramente filosofica non può essere staccata dall'intuizio­ne teologica, caso motto caratteristico proprio nel pensiero religioso russo. Le idee di Solovëv cambiano durante tutta la sua vita, ma questa confusione che io preferirei chiamare "riconciliazione" tra i due filoni del suo pensiero, quello ra­zionale e quello intuitivo-mistico, rimane la costante della sua creatività.

Da filosofo (che non ha fatto in tempo a costruire il suo sistema, ma, si può dire, lo portava sempre in sé) Solovëv cercava di trovare la sintesi fra i vari tipi di conoscenza (empirico, mistico, razionale), da uomo di vocazione universalista ha creato il primo grande ponte fra il pensiero russo nella sua ricerca della verità della ragione astratta, basata sulla verità del cuore, e tutta la ricchezza del pensiero occidentale del passato ed anche della sua epoca. Peccato che la filosofia dominante del suo tempo fosse il positivismo, un avversario che non era sempre a livello delle sue ispirazioni. Egli cercava di superare il secolarismo del pensiero positivista e metafisico nell'idea slavofila della conoscenza, che potreb­be abbracciare tutta l'esistenza umana per date la priorità alta "vivente ed auten­tica comunione con l'Assoluto”. Infatti la conoscenza integrale sboccia nella vita integrale che, secondo V. Zenkovsky, è una sorta di “trasformazione dell'idea del Regno di Dio".

Il programma filosofico di Solovëv, cioè sintesi del pensiero occidentale con il pensiero ortodosso, non è ancora realizzato. Solovëv è diventato il precursore e il maestro di una grande scuola di pensatori russi, in cui alcuni hanno apertamente adottato le sue idee. L'opera più grande di P. Serghij Bulgakov si chiama Della divinoumanità. Bulgakov, P. Florenskij, S. e E. Tiubeckoj, L. Karsavin hanno svi­luppato la sua idea di Sofia; Nicola Berdaev ha invece ereditato i temi della crea­zione della vita nuova e dello spirito creatore rivolto alla sinergia con Dio. Semion Frank, un altro grande pensatore russo, purtroppo poco conosciuto in Occidente, può essere chiamato il discepolo di Solovëv in gnoseologia perché ha dato sviluppo alla sua idea della certezza dell'Incomprensibile (da Solovëv "l'idea di Assolu­to") come premessa della nostra conoscenza. Solovëv stesso è diventato come la radice di un grande albero filosofico, i cui frutti non sono ancora stati raccolti per­ché tutte le sue idee sono rimaste come sospese dopo la rottura con la cultura in­tellettuale e spirituale nel 1917. "La filosofia di Solovëv, dice il filosofo contemporaneo S. Chorugij, ha distrutto una barriera che impediva l'espressione del pensiero russo nella sviluppata forma filosofica. Essa ha dato inizio a un grande movimento di pensiero da cui sorge una pleiade di filosofi che svilupparono le sue idee senza riconoscere di esserne discepoli".

Il suo progetto della sintesi dei due tipi di pensiero che, forse, non è più attuale alla lettera, in quanto elaborato nei termini della filosofia del XIX secolo, rimane più che mai attuale nello spirito. La grande sintesi fra le due tradizioni intellettuali rimane un compito che tocca ogni generazione di pensatori religiosi in Russia, perché il loro pensiero porta sempre in sé lo stesso disegno: la costruzione di un sistema, o piuttosto di un'immagine intuitivo-razionale, della conoscenza aperta alla realtà divina, della visione organica dell'universo e della storia sulla base della filosofia occidentale trasformata nell'esperienza spirituale ortodossa o, in altre pa­role, la fonte dei principi astratti nella "conoscenza vivente". Il pensiero russo da Solovëv in poi si rivolge al pensiero occidentale più metafisico (nel caso di Solovëv si tratta prima di tutto di Spinoza e di Schelling) e lo legge a modo suo.

La visione della divino-umanità non ha potuto non includere la ricerca ap­passionata dell'unità cristiana. A parte il caso molto particolare di Caadaev o del principe Gagarin o di Pecerin (questi ultimi nel secolo XIX hanno dovuto lasciare la Russia per diventare religiosi cattolici in Occidente) o alcuni salotti aristocratici di S. Pietroburgo, nessun tipo di ciò che si chiama oggi ecumeni­smo era all'ordine del giorno all'epoca di Solovëv. L'ortodossia e il cattolicesimo si trovavano nella situazione di "guerra fredda" che, a ben guardare, continua anche oggi, nonostante le relazioni reciproche e una sorta di armistizio diplo­matico, sempre molto fragile. Alle soglie del XX secolo non esisteva nemmeno questo. Per poter predicare la sua idea della divino-umanità Solovëv dovette fare una doppia rottura: prima uscire dell'isolazionismo intellettuale dell'intelligencija russa per entrare nell'ambito religioso; quindi uscire dell'isolazionismo spirituale della sua epoca per proclamare l'idea dell'unità cristiana.

Siamo abituati a pensare che, da teologo partigiano dell'unità Solovëv abbia proclamato un grande progetto di unione delle Chiese nella storia alla metà della sua vita e fuori della storia alla fine della vita. Ma questo è solo uno schema. Co­nosciamo la sua proposta di unire il Papa di Roma e l'imperatore russo, cioè il po­tere spirituale con quello temporale. Quando il Papa Leone XIII venne a sapere di questo progetto, esclamò: "Che bell'idea, ma sarebbe un miracolo se fosse rea­lizzata!". Ma "la lettera" di questa bell'idea è sicuramente fuori dal contesto stori­co, invece il suo “spirito” e più vivo che mai.

Rivolgiamoci per un attimo al suo Racconto dell’Anticristo, la sua opera più fa­mosa e conosciuta da tutti, per evidenziare un altro momento di cui Solovëv par­la, questa volta in modo allegorico. Egli racconta una bella storia sulla fine del mondo di cui sappiamo solo ciò che al detto nel Vangelo. Questa parabola serve non per rimandare l'incontro e l'unione delle Chiese, o delle tre grandi confessio­ni, fuori dal mondo e dalla storia umana, ma al contrario, per rendere questa unione più vicina e dentro la storia, per ricordarci che non occorre attendere l'An­ticristo in persona per trovarci in una sola Chiesa, ma dobbiamo assumere questa unione come un compito che non si può rimandare all'infinito, perché l'apoca­lisse nella spiritualità ortodossa è un avvenimento interiore. Il Racconto di Solovëv è rivolto prima di tutto agli Ortodossi, perché la figura dell'Anticristo rimane sempre attuale nella loro cultura e nella mentalità della Chiesa Orientale.

Questa figura ha in Russia una storia molto lunga. La paura dell'Anticristo, che è già venuto per distruggere la vera fede, fa una delle cause dello scisma del XVII secolo; qualche anno prima del Racconto, Constantin Leontiev, un altro brillante pensatore e intransigente oppositore di Solovëv, fece la profezia che sarà proprio la Russia che perde la fede a far nascere l'Anticristo. Il senso lette­rale del Racconto è forse opposto alla credenza dei "vecchi credenti" e di Leon­tiev, come a quella delle sette apocalittiche, ma lo spirito è lo stesso: quando la vera fede è "danneggiata", come dicevano i rascolniki, la minaccia dell'Anticri­sto diventa più attuale, poiché lui è già alle nostre porte. Ma per Solovëv la fede è danneggiata proprio dalla divisione, perciò l'unione delle Chiese non si fa per addizione di una Chiesa ad un'altra, ma per il riconoscimento reciproco fra tut­te le tradizioni apostoliche in un'unica Chiesa che, secondo lui, non è stata mai divisa nella sua essenza, nella sua origine in Cristo.

Il Racconto dell’Anticristo ha avuto una continuazione che non è ancora finita. Come è noto, nelle Tre conversazioni (il Racconto fa parte di questa opera) Solovëv ha apertamente polemizzato contro la dottrina di Tolstoj, contro il cosiddetto "tolstoismo", perché il suo Anticristo è "buono e geniale", è un gran benefattore, un amico dell'umanità. Dopo la rivoluzione, nella raccolta degli articoli dei filo­sofi russi sotto il titolo De profundis, Berdjaev, che in un certo senso è uscito dalla scuola solovioviana, nel suo saggio Gli spiriti della rivoluzione russa, ha dichiarato colpevole il moralismo tolstoiano per la follia della rivoluzione effettuata in nome del "bene dell'Anticristo". Qualche anno dopo, G. Fedotov, altro spirito brillante della cultura russa, nel suo articolo sull'Anticristo, scritto durante il periodo dell'emigrazione, contro Solovëv e contro Berdjaev, difendeva un'altra tesi: il bene dell'Anticristo è un bene-miraggio, un bene finto, un male che porta la ma­schera della beneficenza. L'esperienza della nostra epoca, soprattutto l'esperienza russa, potrebbe aggiungere che il bene dell'Anticristo è un bene puramente ideo­logico, il bene che esiste solo a parole e che fa sempre male nella realtà.

Il secolo XX, che può considerare Solovëv il suo vate, è diventato una grande fabbrica della falsificazione del bene e l'idea o l'immagine dell'Anticristo è così attuale come nel secolo XVII, all'epoca dello scisma dei vecchi credenti.

Anche ai nostri giorni nella cultura e pietà ortodossa c’è una reazione molto for­te e a volte un po' nevrotica contro l'Anticristo venuto dall'Occidente sotto la ma­schera del bene del liberalismo, permissivismo, capitalismo con i suoi numeri del codice fiscale che contiene la cifra apocalittica 666. Il Racconto di Solovëv continua, anzi include altri argomenti e riceve nuovi stimoli, ma il suo soggetto è il tema per­manente della storia russa, quella di ieri, quella di oggi, e molto probabilmente an­che quella di domani. Il problema formulato e a suo modo risolto da Solovëv è il seguente: il bene, o in altre parole tutta l'eredità dell'umanesimo secolare, staccato da Cristo, è condannato subito a diventare l'eredità dell'Anticristo; oppure il bene può essere autonomo, può servire l'uomo senza Cristo, può diventare "degno e giusto" anche nell'ambito secolare, privato della fede vera e salvifica?

Direi che questa domanda è tipicamente orientale, perché per l'Occidente di oggi il problema semplicemente non esiste. Chi, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, metterà in dubbio il valore in sé della democrazia, dei diritti uma­ni o della libertà di parola? La libertà come tale, cristiana o meno, è fuori discus­sione, mentre il dibattito ortodosso, che continua anche oggi, e soprattutto oggi, nell'epoca del liberalismo decaduto e peccaminoso, che è venuto per sostituire l'impero dell'Anticristo dell'utopia, fa sempre la stessa domanda quasi soloviovia­na: la libertà è il dono più avvelenato dello stesso nemico della nostra salvezza o il più difficile dono del Cristo? Questa era anche la domanda di Dostoevskij che è tornata ai nostri giorni con le profezie di Solovëv, con la polemica di Leontiev, di Berdjaev, di Fedotov fino ai pubblicisti dei nostri giorni.

La maggior parte dei lettori forse non si è accorta che il vero protagonista del Racconto non è l'Anticristo, che a me sembra una figura un po' schematica, ma proprio il Cristo, il Cristo vivo e confessato, presente nella fede dei tre grandi rappresentanti delle Chiese divise. Solovëv aveva un reale e profondo senso del Cristo durante tutta la sua attività ed egli è riuscito ad esprimere questo senso nella fede del Papa Pietro II, dello “starets" Giovanni e del professore protestan­te Pauli. Ma non è questo il punto più importante: il Racconto dell’Anticristo ci fornisce la testimonianza del suo personale incontro con Cristo, Messia e Sal­vatore, Colui che è, che era e che viene, secondo le parole dell'Apocalisse (1,4) e che era anche presente durante tutto il suo cammino. Il vero messaggio di Solovëv è il ritorno di Cristo e l'annuncio che l'umanità, per diventare divino-umanità, deve stare in guardia.

Da questo senso del Cristo apocalittico che è lo stesso Cristo storico, deriva anche “la conversione" di Solovëv a ciò che ai nostri giorni si chiama il dialogo con l'ebraismo. Si deve, a mio avviso, parlare proprio della conversione, come di un avvenimento spirituale nuovo, coraggioso e straordinario nella sua epoca. Non si tratta solo della difesa della popolazione ebrea della Russia dall'antise­mitismo, che cominciò a crescere proprio all'epoca di Alessandro III, perché la difesa dei perseguitati era come una sorta di obbligo morale per l'intelligencija russa. Ma Solovëv pone questo problema in altro modo. "Se i giudei, dice nel suo articolo Giudaismo e la questione cristiana, trattavano sempre i cristiani se­condo i principi della loro fede, i cristiani non hanno mai imparato a trattare i giudei nel modo cristiano. Perciò non esiste il problema ebreo, esiste solo il pro­blema cristiano" e la soluzione di questo problema è la conversione dei cristiani alla loro propria fede. Allora, secondo la profezia di Solovëv, gli ebrei entreran­no nella teocrazia cristiana quando i cristiani saranno uniti e così, secondo le parole di san Paolo, "tutto Israele sarà salvato" (Rm 11,26).

Si tratta non soltanto del dialogo sui “buoni rapporti", ma proprio dell'incontro religioso, dell'apertura dell'anima al confronto con tutto il patrimonio e il mistero dell'Antico Testamento. "Il trattato di Dio con Israele costituisce l'essenza della religione ebraica", dice Solovëv, un avvenimento unico nella storia religiosa dell'umanità. Il senso della storia d'Israele è la preparazione delle ani­me sante e dei corpi santi per l'incarnazione della Parola di Dio, ma questa sto­ria non può essere ridotta solo alla preparazione. Solovëv prevede la riconciliazione finale e cristiana tra il popolo d'Israele, fedele al Dio uno, e la Chiesa unita. Per questo motivo nella Russia di oggi Solovëv rimane il precur­sore del dialogo della riconciliazione che non è ancora iniziato. Il suo inizio ap­partiene, forse, al secolo futuro. Non si può dimenticare la tonalità profetica della sua morte prematura, con i Salmi recitati in ebraico negli ultimi momenti della sua vita.

ma il cen­tro della sua enorme attività intellettuale e del suo sforzo spirituale rimane sem­pre la visione, l'utopia, la costruzione o la profezia dell'unità e della riconciliazione delle cose e delle idee che sembrano più lontane. Il nucleo del suo messaggio è sempre l'incontro nel Cristo e col Cristo.

Da metafisico, Solovëv crea una grande sintesi fra la conoscenza integrale, la conoscenza che parte dal cuore che vive nella Parola di Dio, e tutta l'eredità del pensiero occidentale.

Da pensatore politico, Solovëv propone un progetto della società organica nel senso slavofilo e libero nel senso moderno ed attuale, ma fedele al Vangelo.

Da mistico, Solovëv costruisce il ponte fra la vita più intima della sua anima, ricercatrice della Sapienza di Dio, e la sua dottrina sofiologica, imbevuta dalla visione della bellezza del creato.

Da poeta, Solovëv si rivela a noi nel suo universo "notturno", che sembra così diverso dalla sua attività "diurna», rivolta alla Giustificazione del Bene nel pensiero speculativo e nella società, ma il "giorno" e la «notte" della sua anima riflettono lo stesso cielo, illuminato, come dice il suo verso, dal “Sole dell'amore”.

Da uomo del dialogo, Solovëv ha fatto il primo e grande passo intrinsecamente cristiano verso la riconciliazione con i giudei e anche con i musulmani.

Da portatore di pace, Solovëv prevede non soltanto la tanto sperata unità delle Chiese, ma anche la vittoria e il ritorno del Cristo, il mondo in cui "Dio sarà tutto in tutto".

Per tutte queste strade il pensatore russo si è mostrato il precursore che è ve­nuto per il suo paese prima del suo tempo, che fu e rimane ancora il tempo della divisione. Il secolo in cui si manifesterà la riconciliazione in Cristo, sarà anche il secolo del ritorno dei suoi profeti e dei suoi poeti e uno dei primi sarà il "pel­legrino" Vladimir Solovëv.