Sfuggenti, scontrosi, scorbutici: i padri del deserto sono stati spesso dipinti così, senza dimenticare, ovviamente, l’elenco delle stranezze e delle bizzarrie, la barba irsuta, le povere vesti di stracci o di pelle di pecora, il comportamento “asociale” di questi uomini che vivevano in una grotta, si nutrivano di erbe e di radici e sceglievano talvolta la sommità di una colonna per trascorrere in penitenza i loro giorni. L’apologo dell’ex brigante e del governatore sembra confermare i clichè di tanta letteratura. I padri del deserto evitano la compagnia degli uomini, si negano all’incontro. Eppure, secondo dom Lucien Regnault, che a questi solitari ha dedicato quarant’anni di studio, la loro misantropia è solo apparente, la loro “asocialità” una maschera o, piuttosto, uno schermo, una forma di difesa contro le lusinghe del mondo, una prova di umiltà.
Monaco benedettino dell’abbazia Saint-Pierre di Solesmes, in Francia, dom Regnault ha pubblicato nella prestigiosa collana “La vie quotidienne” delle edizioni Hachette, La vie quotidienne des Pères du désert en Egypte au IV siècle (“La vita quotidiana dei padri del deserto nell’Egitto del IV secolo”): una piccola enciclopedia sui comportamenti, le abitudini, l’abbigliamento, l’alimentazione, il lavoro, la preghiera dei primi anacoreti, discepoli di Antonio e di Macario.
E il libro è già alla seconda ristampa, segno di un interesse che sembra contagiare le giovani generazioni.
I padri del deserto incuriosiscono, affascinano. E, al di là del folclore che accompagna inevitabilmente nella descrizione di artisti e scrittori, le loro storie, al di là di quell’alone tra il pittoresco e l’esotico che circonda, nell’imagerie popolare, la loro vita, hanno ancora qualcosa da dire agli uomini d’oggi. «In un mondo stordito dal rumore, agitato, trepidante, le loro parole proclamano il valore della solitudine, della calma, del silenzio», spiega dom Regnault. «In una società che apprezza solo le ricchezze, i beni di consumo e i piaceri effimeri, esse ricordano le beatitudini evangeliche».
Ma chi sono questi atleti dell’esilio, ebbri di Dio, testimoni di assoluto?
«Noi conosciamo forse troppo bene», risponde lo studioso benedettino, «l’immagine di Antonio alle prese con ogni tipo di draghi e di mostri o quella di Girolamo in preghiera accanto a un leone, l’immagine di Onufrio che per nascondere la sua nudità ha solo la sua lunga capigliatura, l’immagine di Simeone lo stilita, di Macario in meditazione con un teschio tra le mani, di Pafnuzio che cerca di strappare Taide ai suoi amanti. Ma queste immagini, e chissà quante altre, sono spesso solo caricature che nascondono l’essenziale».
Per cogliere l’”essenziale”, dom Regnault si è tuffato nello studio degli Apophtegmata Patrum, i detti o sentenze dei padri, curandone la traduzione francese; per due anni, a più riprese, ha abbandonato la quiete di Solesmes e il suo canto gregoriano (celebre in tutto il mondo) per un’altra quiete e altri canti, altre tradizioni religiose: quelle del monastero copto di San Macario nell’egiziana “Valle del Salnitro” o Wâdi el Natrûm, dove, una numerosa comunità vive nello spirito dei primi padri del deserto, di Antonio e di Pacomio. Immersione necessaria per sbarazzarsi di ogni residuo romantico e sperimentare la vita in una terra arida e sterile, in quella «spaventosa nudità della solitudine», in quella «desolata tristezza delle sabbie» descritta nel IV secolo da Giovanni Cassiano nelle sue Collationes. una delle prime testimonianze sul monachesimo delle origini.
«E stato un ritorno alle radici, un ritorno alle sorgenti per comprendere le ragioni di un’avventura che ha influenzato come poche altre la storia della Chiesa», racconta dorn Regnault, tra i libri della ricca biblioteca di Solesmes. «Noi oggi immaginiamo a fatica l’impatto che la testimonianza dei primi eremiti ebbe sui cristiani del IV secolo e sulla cultura monastica successiva. Antonio e i suoi discepoli indicarono una strada nuova, un modo di vivere la radicalità dell’Evangelo che certo poteva apparire eccentrico e stravagante, ma che in realtà era una risposta all’invito rivolto da Gesù al giovane ricco: “Va, vendi quel che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. La loro influenza è stata molto forte in Palestina, in Siria, in Grecia, in Russia, grazie alla traduzione degli apoftegmi in tutte le lingue. Ma anche in Occidente, dove il loro insegnamento è penetrato soprattutto a opera di Cassiano, molti fondatori o riformatori di ordini religiosi si sono ispirati in qualche modo alla vita dei padri, a cominciare da san Benedetto e fino ai discepoli di Charles de Foucauld”.
Frutto di una lunga frequentazione e di uno studio che col passare degli anni si è trasformato in autentica familiarità senza nulla perdere del necessario rigore scientifico, il libro di dom Regnault sulla Vita quotidiana dei padri del deserto non è un catalogo di aneddoti edificanti o una raccolta di quadretti deliziosamente naïf, ma un ritratto a tutto tondo dei primi anacoreti, una ricostruzione che pone in primo piano la profonda umanità dei discepoli di Antonio e, talvolta, il loro umorismo, a dispetto di un ostinato luogo comune che descrive i padri come uomini tristi, perennemente ossessionati dal peccato. L’autore ha attinto a tutte le fonti disponibili, dalla Vita di Antonio, comunemente attribuita ad Atanasio di Alessandria, alla Storia lausiaca di Palladio (così chiamata perché dedicata a Lauso, ciambellano dell’imperatore Teodosio Il), dagli scritti di Cassiano, di Girolamo, di Isaia di Scete e di Evagrio alla monachorum in Aegypto, diario di viaggio, inchiesta, reportage di un gruppo di monaci palestinesi in visita, durante l’inverno 394-395, presso i loro confratelli egiziani. E quando le informazioni si sono rivelate insufficienti è ricorso all’immaginazione, cosa che lo storico è obbligato a fare ogniqualvolta «le tracce del passato, soprattutto quelle lasciate dai poveri o dalla vita quotidiana, sono leggere e discontinue», come ha scritto Georges Duby, capofila della cosiddetta “nuova storiografia” francese. Immaginazione e non invenzione, perché tutto in questo libro affascinante è passato al vaglio di un rigoroso metodo critico. I padri del deserto ci appaiono, così, più vicini, liberati dal folclore e dalle diableries, le diavolerie, che tanto hanno ispirato la fantasia degli artisti.
Dom Regnault, in che cosa consiste l’originalità dei padri del deserto e l’attualità del loro insegnamento?
«Non certo nel loro aspetto esteriore o nel loro ascetismo. I padri del deserto sono stati senza dubbio formidabili asceti e grandi mistici, hanno fatto miracoli e sfidato i demoni: questo è vero, ma secondario. La loro particolarità o, piuttosto, il loro carisma è un altro ed è espresso dallo stesso appellativo di ”abba”, cioè padre. Antonio e i suoi discepoli hanno esercitato un’autentica paternità spirituale vivendo in maniera eroica il messaggio evangelico, E’ questo all’origine della loro fecondità. Quanto al senso del loro messaggio per gli uomini del nostro tempo, direi che i padri del deserto indicano, con la loro vita apparentemente inutile, i valori dell’interiorità e della gratuità in un mondo alla ricerca della produttività e dell’efficacia a tutti i costi; la loro esistenza povera e austera è una sfida alla comodità e alla facilità che sembrano regnare dappertutto.
Considerati a lungo come fanatici o stravaganti, i padri vengono oggi studiati con interesse da storici, filosofi e sociologi. E lo storico inglese Peter Brown, specialista di sant’Agostino e del mondo tardo-antico, vede nei loro apoftegmi ”una collezione senza eguali di saggezza proverbiale”, “l’ultimo prodotto, e uno dei più grandi, della letteratura sapienziale dell’antico Medio Oriente”.
Nella vita di Antonio è detto che, per la straordinaria affluenza di eremiti, «il deserto divenne una città». Quanti erano i primi monaci?
«Prima della fine del IV secolo, la località di Nitria contava, secondo Palladio, cinquemila monaci e le Celle, altro importante centro monastico, circa seicento. Per quanto riguarda Scete, non abbiamo nessuna cifra, ma sappiamo che dopo la morte di Antonio, nel 356, abba Sisoes, discepolo del grande Macario, considerava che gli eremiti fossero troppo numerosi e per questo se ne andò a vivere da solo in un altro luogo. Alcuni anacoreti, come Pafnuzio, soprannominato “bufalo”, “bue solitario”, perché, secondo Cassiano, “godeva di abitare sempre nella solitudine, ne aveva un desiderio, per così dire, innato”, sceglievano di inoltrarsi nei luoghi più inospitali. Altri come abba Poemen si lamentavano nel “sovraffollamento” di eremiti e di gente che veniva a interrogarli e a chiedere consigli. Ma rari furono i padri del deserto che trascorsero tutta la loro vita in completa solitudine.
Sì, il deserto fu davvero una città, la città di coloro che volevano “abbracciare una vita celeste”, come dice Atanasio; ma una città scomoda, dove mancava spesso il minimo vitale. Del resto, secondo le parole di abba Abramo, era questa l’aspirazione degli asceti: “Avremmo potuto sistemare le nostre celle sulle rive del Nilo e avere l’acqua a portata di mano, avremmo così evitato la fatica di andare a cercarla a quattro miglia di distanza; avremmo potuto scegliere la facilità e la fertilità dei giardini... Ma abbiamo disprezzato queste comodità. A tutti i piaceri del mondo, noi preferiamo la vita in questo arido deserto”».
Quali erano le origini degli anacoreti e che cosa li spingeva nel deserto?
«I testi più antichi sono avari di dettagli, ma nella stragrande maggioranza i padri del deserto erano contadini. Antonio aveva ereditato più di cento ettari di terra e quindi si può supporre che non li coltivasse da solo. Macario di Alessandria, nella sua giovinezza, era stato venditore ambulante di frutta secca e di dolciumi. I due fratelli Paisio e lsaia erano figli di un ricco mercante di origine spagnola. Giovanni di Licopoli era stato carpentiere, Apelle fabbro, Apollonio negoziante. Tra i monaci vi era anche uno scriba come Dioscuro e un calligrafo come Marco. Non tutti, come si vede, erano illetterati. Alcuni erano stati schiavi. Altri, terribili briganti, come Apollo, Patermuthios o Mosè l’Etiope, che nel deserto cercavano il perdono di Dio, vivendo in penitenza.
Non si deve pensare che la maggior parte dei padri avesse chi sa quale passato da espiare. Macario, per esempio, si rimproverava un peccato di gioventù che oggi ci farebbe sorridere: facendo pascolare i buoi con altri ragazzi, aveva raccolto e mangiato un fico che era stato rubato dai suoi compagni.
Che cosa cercavano questi uomini nel deserto? E’ stato detto che, finita l’epoca dei martiri, essi esprimevano in questa forma la loro contestazione alla pace costantiniana, al rischio delle compromissioni col potere. E non si può negare che in taluni vi fosse, sia pure in maniera implicita, una simile motivazione. Ma gli apoftegmi ci danno altre risposte. Il deserto era il luogo della prova, della lotta contro le insidie del demonio e dell’incontro con Dio. Arsenio diceva: “Se noi cerchiamo Dio, egli ci apparirà; e se noi lo tratteniamo, resterà con noi”. E ancora: “Fuggi gli uomini e sarai salvo”. Nel deserto i primi anacoreti cercavano, dunque, le “cose di Dio”, liberi dalle preoccupazioni del mondo. Ma i padri avevano piena coscienza che si poteva essere santi anche tra la folla, in città. Antonio, per esempio, indicava a modello di santità un medico che dava il superfluo ai bisognosi e ogni giorno cantava l’inno trisagio con gli angeli; e un ciabattino di Alessandria che cominciava e terminava le sue giornate dicendo: “Tutti gli abitanti di questa città, dal più piccolo al più grande, entreranno nel Regno dei cieli a motivo delle loro opere di giustizia e io solo riceverò il castigo per i miei peccati”.
A giudicare dalle raccolte di detti e sentenze dei padri, nel deserto vi era un continuo viavai di gente, gli asceti partivano in viaggio o si recavano a far visita ad altri anziani. La vita quotidiana doveva essere, però, più monotona e ripetitiva di quanto non traspaia dagli apoftegmi. Come si svolgeva la giornata dei monaci?
«Abba Poemen diceva che vi sono tre cose importanti: “Temere il Signore, pregare senza posa e fare del bene al prossimo”. Ritirandosi nel deserto, i discepoli di Antonio non cercavano chi sa quali distrazioni, ma la possibilità di dedicare ogni momento della vita alla salvezza dell’anima e all’incontro con Dio. Nella giornata dell’eremita vi era, quindi, una sapiente alternanza di lavoro e di preghiera, per vincere la noia che nasce fatalmente dalla ripetizione monotona degli stessi gesti. Significativo, a questo riguardo, è l’apoftegma che apre la serie alfabetica greca. Un giorno Antonio fu preso dallo sconforto e chiese al Signore: “Che posso fare nella mia afflizione?”. Poco dopo, vide un altro eremita che stava seduto a lavorare e che di tanto in tanto si alzava in piedi a pregare e poi di nuovo si metteva seduto a intrecciare corde. Era un angelo mandato per guidarlo e dargli forza. E Antonio, udendo l’angelo che diceva: “Fa così e sarai salvo”, capì in qual modo organizzare la sua vita. Il consiglio dell’angelo fu trasmesso da Antonio ai suoi discepoli e divenne pratica corrente: gli anacoreti trascorrevano buona parte del tempo nella loro cella a intrecciare corde, stuoie, panieri e a pregare. Ma, quale che fosse il lavoro manuale, l’importante era lasciare lo spirito libero per le cose spirituali. Ecco perché i padri accompagnavano talvolta il lavoro recitando brani delle Sacre Scritture. Poteva essere sempre lo stesso versetto, ripetuto incessantemente, o qualche brano più lungo. Molti anacoreti conoscevano a memoria interi libri della Bibbia. Abba Daniele, per esempio, era capace di recitare diecimila versetti al giorno.
Preghiera e lavoro: i padri del deserto hanno anticipato, in un certo senso, l’intuizione che è alla base della regola benedettina. Ma quali erano le loro occupazioni più frequenti?
«Oltre alle corde, alle stuoie e ai panieri fatti intrecciando canne, vimini e foglie di palma, i monaci preparavano reti per la pesca e per la caccia. Alcuni, più rari, lavoravano il papiro, si dedicavano alla calligrafia o copiavano antichi manoscritti.
All’inizio, gli eremiti vivevano ciascuno secondo una propria regola e un proprio orario. Poi, man mano, alcune consuetudini, come la preghiera del mattino e della sera (lodi e vespri) cominciarono a generalizzarsi, soprattutto a opera di Pacomio, e dei primi monaci cenobiti.
Ne deserto vi era una grande varietà di comportamenti e di abitudini, ma sopra ogni cosa gli anacoreti ponevano la loro “attività segreta”, la vita interiore, la ricerca di Dio, ventiquattro ore su ventiquattro, come illustrano numerosissimi apoftegmi. Il lavoro, l’ascesi, le dure condizioni di vita, tutto era finalizzato a questa “attività segreta”, visibile soltanto allo sguardo di Dio e dei suoi angeli».
A Solesmes è l’ora dei vespri. Prima di congedarmi, dom Regnault mi ricorda che la santità non consiste in chi sa quali imprese spettacolari, ma in gesti umili, come quelli dei padri del deserto, compiuti ogni giorno con amore. Diceva un anziano: «L’ape, dovunque vada, fa il miele; il monaco, dovunque si trovi, compie l’opera di Dio». «Nel deserto» conclude dom Regnault, «il miele» del monaco è la volontà dì Dio».