Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lavoro e riposo

Dall’idolo dell'efficienza
alla pura azione di Dio

di Severino Dianich

Tutte le cose che il cristiano fa sono realtà dedicate a Dio specie se sono dirette al bene dei fratelli. L’efficienza rappresenta oggi il criterio base del lavoro; ma se essa diventa un idolo, dobbiamo opporgli la pura adorazione di Dio, la contemplazione. E’ sintomatico che l’azione liturgica raggiunga il suo scopo non per la nostra efficienza ma solo per grazia.

Tutti coloro che sul nostro pianeta, nelle più diverse culture e civiltà possono godere di un giorno, ogni sette, libero dal peso del lavoro dovrebbero sentirsi debitori verso Mosè, o chi per lui nell’Antico Testamento ha inventato l’istituzione della settimana e del sabato. «Domani è sabato, riposo assoluto consacrato al Signore», disse Mosè ispirato da Dio in Es 16,23. Non che gli altri giorni, quelli dedicati al lavoro, non debbano essere consacrati al Signore, ma così il tempo dell’uomo resta scandito dal ritmo armonioso del lavoro e del riposo, dell’azione e della contemplazione.

Gesù ha infranto il confine fra luoghi profani e luoghi sacri, fra tempo sacro e tempo profano. La sua azione più sacra, nella quale è culminata la sua opera sacerdotale di redenzione dell’umanità, fu compiuta nella profanità più brutale, quella della sua uccisione come di un delinquente condannato a morte: fuori del tempio della città santa, come fuori del tabernacolo e dell’accampamento - dirà la Lettera agli Ebrei - venivano bruciati i resti degli animali sacrificati.

Allo stesso modo tutte le cose che il cristiano fa, unito a Cristo, nell’adempimento del suo dovere sono atto sacerdotale, realtà sacra degna di essere dedicata a Dio. Anche se siamo soliti chiamare “giorno del Signore” il giorno della festa, questo non significa che i giorni del lavoro non siano di Dio e non debbano essere vissuti come sacri e dedicati a lui.

Il lavoro e l’efficienza

È dovere fondamentale di ogni uomo guadagnarsi il pane lavorando. San Paolo lo dice espressamente: «Chi non vuoi lavorare neppure mangi» (2Ts 3,10). Ora il primo criterio in base al quale giudicare il valore del lavoro e, quindi, anche quella dignità per la quale può essere dedicato a Dio, è il criterio dell’efficienza: l’azione vale in quanto uno realizza lo scopo che si era proposto, e questo dipende dalla scelta e dall’utilizzazione, compiuta in base alle competenze possedute, di un mezzo adeguato al fine inteso. E qualcosa di molto razionale, ben calcolato, che richiede il possesso dell’arte o del mestiere.

Non ci si stupisca se questo carattere così umano, quasi economico, debba essere considerato in ordine al rapporto con Dio: tanto la vita cristiana manifesta la presenza del suo amore fra gli uomini quanto i credenti alla sequela di Cristo compiono realmente e concretamente il bene dei fratelli e della società. La più pura e religiosa delle intenzioni non redime dal fallimento l’opera compiuta con inettitudine, sì che non raggiunga lo scopo al quale dalla sua stessa natura era destinata. L’offerta prescritta dall’antico rituale di Israele doveva essere perfetta: «Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno» (Es 12,5): non si dona a Dio un animale zoppo! Gesù a sua volta ha detto che ci giudicherà se noi, incontrandolo nella persona dell’uomo affamato, gli avremo dato da mangiare; non ha detto: Avevo fame e avete pregato per me (cf Mt 25,35s). Solo nel caso in cui l’insuccesso colpisca dal di fuori, imprevedibile e accidentale, l’opera attinge un altro valore, quello dell’assimilazione al Cristo in croce e allora sarà la sofferenza del fallimento ad essere degna di essere offerta a Dio.

Proprio perché siamo particolarmente tentati di ridurre tutto il valore della nostra vita unicamente all’efficienza, le cui possibilità vengono esasperate dalle tecniche prodigiose di cui siamo dotati, oggi più che mai abbiamo bisogno di un’alternativa. Quando il lavoro diventa il tempio e l’efficienza tecnologica un idolo, abbiamo bisogno di opporgli la pura adorazione di Dio, non come ritorno al sacro, ma proprio come desacralizzazione delle sacralità mondane.

Azione e contemplazione

L’alternativa ci è stata offerta da Mosè (Dt 5,12-15): «Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bue né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato». Di sabato tutto si arrestai si interrompe il lavoro di ognuno, dell’israelita, dello schiavo, del forestiero, della bestia e si entra nello spazio di Dio che ha liberato Israele dalla schiavitù del lavoro al servizio del faraone. La quiete universale è il luogo della libertà, là dove Dio agisce, mentre l’uomo è libero dall’obbligo, dal calcolo, dalla fatica. Così ogni sabato è in qualche maniera una teofania: il grande universale riposo rende vuoto lo spazio e il tempo e in questo vuoto il divino può manifestarsi.

In questo spazio vuoto ha luogo la liturgia domenicale. Anch’essa a suo modo è un’azione che richiede una sua efficienza: tanto per banalizzare, in chiesa l’impianto di amplificazione deve funzionare. Ma la liturgia è essenzialmente contemplazione fine a sé stessa. Non c’è un vero e proprio scopo da raggiungere né, se ce lo volessimo prospettare, alcun mezzo per verificarne il raggiungimento. Non si dà nessuna proporzione fra mezzo e fine: cosa è mai una genuflessione, un canto, una lettura o lo stesso mangiare il pane eucaristico rispetto alla comunione col Signore e tra i fratelli che l’eucaristia promette e realizza?

Guardini a suo tempo, in buona compagnia con Ruizinga e Ugo Rahner, ci ha insegnato il valore di questo momento nel quale l’homo faber cede il posto all’homo ludens, l’azione alla contemplazione, la tecnica alla dossologia, l’impegno operativo alla preghiera. L’ostentata interruzione del lavoro, cioè di quei processi di attività nei quali gesti e cose vengono misurati in base alla loro utilità, per riposare nello spazio dell’”inutile”, giocare nella celebrazione e nella lode di Dio, libera la comunità dalla tensione dell’efficienza e la apre all’accoglienza della pura azione di Dio. Nella tacitazione dell’attività umana si rende udibile la voce del “totalmente Altro” e si fa percettibile la sua presenza. Così appare chiara la coscienza di fede della comunità che percepisce il rito sacramentale come una pura actio Dei. Il sacramento, infatti, non raggiunge il suo scopo per la mia efficienza, ma solo per grazia. L’evidente e clamorosa nullità dell’azione liturgica, semplice gioco rituale, esprime la purezza dell’attesa che Dio si manifesti e sia lui solo a operare in noi.

* docente emerito della Facoltà teologica di Firenze

(da Vita Pastorale, aprile 2007)

Bibliografia

Guardini R. Lo spirito della liturgia, Morcelliana 1980, Brescia;
Dotolo C. (ed.), Teologia e sacro. Prospettive a confronto, Dehoniane 1995, Roma, pp. 55-75;
Heschel A.J., Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Garzanti 2001, Milano;
Maggiani S., “Riposo sabatico e festa” in Servitium 30 (1996), pp. 578-588;
De Gennaro O. (cur.), Lavoro e riposo nella Bibbia, Dehoniane 1987, Napoli;
Augé M., La domenica: festa primordiale dei cristiani, San Paolo 1995, Cinisello Balsamo.

Venerdì, 30 Novembre 2007 23:26

La culla del qawwali (Djénane Kareh Tager)

Dal XIV secolo la tomba del grande sufi Nizamuddine raduna musulmani e indù in un fervore che non viene meno. Canti qawwali e preghiere si mescolano per onorare la memoria del maestro.

Venerdì, 30 Novembre 2007 23:09

Dialogare per convivere (Gaetano Parolin)

Un convegno organizzato all'Urbaniana dai missionari Scalabriniani

Dialogare per convivere

di Gaetano Parolin

Il pluralismo non costituisce una minaccia all’identità. La persona è libera di definire se stessa, moltiplicando le appartenenze. Nessuna società è esplosa a causa delle differenze culturali.

Il nostro è diventato il tempo dei muri, il tempo delle frontiere. Ma è anche il tempo di una grande e diffusa mobilità. Se i muri esterni sono difficili da abbattere, quelli interni non sono meno pericolosi. Sono i muri dell’incomprensione, dell’intolleranza, dell’indifferenza. Quando permangono questi muri, il dialogo diventa difficile e, senza dialogo, è impossibile convivere. Oggi l’Europa, compresa l’Italia, è interessata da una crescita senza precedenti dei flussi migratori e dalla presenza di minoranze etniche sempre più differenziate e spesso non cattoliche. Le migrazioni chiedono che si progetti una società nuova, in cui si allargano gli spazi di appartenenza e si riducono quelli dell’esclusione, una società fondata non sulla difesa di culture contrapposte, ma sull’incontro, sul dialogo che favorisce la relazione, lo scambio, il rapporto.

L’opinione pubblica pensa che le difficoltà della convivenza derivino dalla diversità culturale e religiosa, che le migrazioni accentuano. Ma cos’è la cultura, cos’è la religione? È proprio impossibile dialogare tra credenti che mantengono richiami diversi all’Assoluto? L’appartenenza religiosa è un intralcio alla costruzione della convivenza?

Per riflettere su questi temi, la Fondazione Scalabrini, lo Scalabrini international migration institute (Simi) e il Centro studi emigrazione Roma (Cser) hanno organizzato il 28 novembre, in occasione del 119° anniversario di fondazione della congregazione dei missionari scalabriniani e come atto accademico del Simi, il convegno Migrazioni e società: Dialogare per convivere. Il convegno ha avuto luogo presso la pontificia università Urbaniana, nella stessa mattinata in cui papa Benedetto XVI partiva per la Turchia.

Migrazioni e dialogo interculturale

La prima parte del convegno, dedicata al tema Migrazioni e dialogo interculturale, ha visto gli interventi di Milena Santerini, ordinaria di pedagogia sociale e interculturale presso la Facoltà di scienze della formazione della Cattolica di Milano (Le culture tra identità e dialogo), e di Adel Jabbar, sociologo dei processi migratori e interculturali, dello Studio Res di Trento (Luoghi, processi e intrecci: per una lettura interculturale).

Milena Santerini ha ricordato le due dialettiche che lo scalabriniano p. Antonio Perotti, grande studioso e precursore degli studi interculturali, aveva già identificato: la dialettica diversità-coesione, diritto alla differenza e diritto alla somiglianza e la dialettica tradizione-libertà, memoria-futuro. Si tratta, in pratica, di conciliare «le radici e le ali», l’identità e il dialogo, differenza e somiglianza, per favorire l’integrazione degli immigrati, ma soprattutto per dare alla pedagogia e all’educazione interculturale un ruolo nuovo, in vista della coesione sociale in una società plurale.

L’integrazione dei migranti e delle loro culture si presenta come un processo complesso, ancora in fase di definizione. Le politiche migratorie possono essere restrittive, i modelli di integrazione possono andare in crisi, ma questo non significa che l’integrazione sia impossibile. Quella che stiamo vivendo è, invece, una crisi di significato, di motivazioni della gestione della diversità culturale. Più che nei fatti, è nell’immaginario che si sta radicando la paura degli immigrati. La presenza di culture altre non rappresenta la balcanizzazione della società. Bisogna smentire la paura che il pluralismo culturale costituisca necessariamente una minaccia all’unità e all’identità nazionale.

È necessario, però, rivedere il nostro concetto di cultura e superare una visione oggettivistica, statica, quasi si trattasse di un pacchetto di valori, di significati, validi per un gruppo di persone in un determinato territorio. In realtà, la cultura è in se stessa intercultura, e ogni persona interpreta in modo originale la cultura a cui appartiene. È necessario valorizzare le differenze, ma senza irrigidirle nel determinismo, né affidarle al caos dell'indeterminismo. La persona è libera di definire la propria identità, moltiplicando le appartenenze. Nessuna società è esplosa a causa delle differenze culturali. Quando sono gestite bene, esse producono una convivenza pacifica. Il problema sono piuttosto le disuguaglianze di tipo socio-economico, politico, territoriale, che usano le differenze sociali per affermare l'immaginario simbolico-conflittuale. La cultura è dialogo, è apertura. La differenza è bella, ma deve tendere alla somiglianza.

All’approccio pedagogico di Milena Santerini è seguito quello sociologico di Adel Jabbar. Jabbar ha ricordato il sistema “mondo” come quadro in cui collocare l’analisi del fenomeno migratorio. Il sistema mondo è caratterizzato da quattro circolazioni che si intrecciano: l’aspetto economico-finanziario, la dimensione mediatica, gli stili di vita sempre più omologati, la politica delle superpotenze. La coesione sociale che preveda l’inclusione degli immigrati, non può prescindere dalla decostruzione dell’immaginario culturale che, in Europa, è legato alla prima modernità e all’affermazioni degli stati nazionali. Gli spazi sociali cambiano e per questo abbiamo bisogno di nuovi strumenti di analisi e nuovi approcci. Dobbiamo passare da un approccio comunitarista, che esalta la propria identità e nega quella altrui in senso fondamentalista, ad un approccio di tipo universalista, che considera la cultura come interculturale per definizione. L’intercultura è un metodo finalizzato ad estendere la democrazia, l’inclusione e la partecipazione. Per questo è necessario lavorare nei contesti e negli spazi vitali di partecipazione, quali le parrocchie, gli oratori, i gruppi giovanili, la scuola.

Migrazioni e dialogo interreligioso

La seconda parte del convegno è stata dedicata al tema Migrazioni e dialogo interreligioso e post-secolare. Sono intervenuti P. Justo Lacuna-Balda, professore ordinario al Pisai (Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica) che ha parlato su Alcuni aspetti del dialogo interreligioso: identità, lingue, culture, Adnane Mokrani, teologo islamico presso il Pisai e la pontificia università Gregoriana (Promesse e difficoltà del dialogo islamo-cristiano oggi) e Gaspare Mura, professore ordinario di filosofia presso la pontificia università Urbaniana (L’etica dell’alterità nella cultura contemporanea).

P. Justo Lacuna-Balda, dopo aver ricordato il giorno memorabile nella storia della chiesa, per la visita in Turchia di Benedetto XVI, ha sottolineato i tre aspetti essenziali di ogni identità religiosa: i testi e le scritture, la tradizione e la storia, la comunità e l’autorità religiosa. Ci sono poi i riti, le liturgie e i calendari: sono i simboli, gli usi, le tradizioni in cui ci si riconosce e ci si identifica. Ogni identità religiosa passa, inoltre, attraverso due binari, le lingue e le culture. Per entrare in dialogo, è fondamentale conoscere l’identità profonda di ogni religione altra e gli aspetti in cui si esprime. In ogni forma di dialogo interreligioso c'è, poi, un compito comune: mettere al centro di ogni incontro la persona e la sua dignità, tenendo presente il fatto che ogni religione può dare un suo contributo. P. Justo ha sottolineato più volte che il dialogo interculturale e interreligioso si sviluppa sulla base di una forte e robusta identità. Forte e robusta, ma non rigida e chiusa.

Il teologo islamico Adnane Mokrani, forte della sua esperienza islamica e cristiana, ha presentato il dialogo come una dimensione essenziale, come centro di ogni esperienza religiosa. Il dialogo è una spiritualità, un modo di essere e di agire, non una necessità o una funzione strategica, diplomatico-politica. Il dialogo è apertura all’Altro che permette l’apertura ad ogni altro. Vi sono, infatti, due tipi di religiosità, quella della relazione, dell'ascolto, del servizio, e quella del potere, del dominio, dell’esclusione.

Il principale ostacolo al dialogo è l’egoismo, la paura dell’altro, la voglia di dominarlo. Il primo peccato, per il Corano, è l’egoismo. Il ruolo della religione è quello di liberarci dall'ego individuale e collettivo. Il razzismo religioso, il fondamentalismo, è esclusivismo, orgoglio nazionalistico. Il dialogo è forza liberante, un pellegrinaggio culturale che non cambia la religione di una persona, ma aiuta a capirla meglio con gli occhi dell’altro. Il dialogo è, soprattutto, incontro di persone. E l’incontro con le persone, ha mediato l’esperienza cristiana di Adnane, l’ha aiutato ad approfondire la sua fede islamica.

L’“altro” non ti è estraneo

Gaspare Mura ha presentato un’analisi dell’alterità nel pensiero contemporaneo. Il paradosso è evidente. Da una parte è un tema chiave, dall'altra deve confrontarsi con alcune filosofie che riducono l'“altro” ad un paradosso filosofico e portano all’indifferenza verso di lui. Non solo l’alterità, ma anche l’identità oggi sembra smarrita. Si parla, infatti, di identità nomade, in continuo cambiamento. Ma – come direbbe Gabriel Marcel –: «Se l'altro mi è estraneo, anch'io divento estraneo a me stesso». Lévinas, il più importante filosofo che ha teorizzato l'etica dell'alterità, giunge ad affermare che l'etica precede l'ontologia. L'altro è un “tu” che posso comprendere, un volto che mi interpella continuamente, un volto che reclama giustizia. In realtà, il mio rapporto con l’altro è un rapporto triadico io-Egli-tu. Dove l’«Egli» consente un rapporto non di possesso, ma di giustizia, perché Egli custodisce il mistero del volto.

C’è, poi, un altro tipo di alterità che la nostra civiltà sta vivendo, un nuovo nomadismo, non di carattere fisico, ma esistenziale. C’è un bisogno di migrazione, di “sentirsi” altrove, che ci aiuta a leggere le migrazioni stesse e a farne un paradigma. La mobilità, l’apertura, il cosmopolitismo, la flessibilità, l’erranza, costituiscono un nuovo stile di vita, dove patria è il mondo.

a) Il convegno Migrazioni e società: dialogare per convivere ha sottolineato alcune convergenze importanti: il dialogo costituisce la verità e il centro stesso di ogni cultura e di ogni religione;

b) la diversità e la differenza non sono dimensioni antitetiche, ma i poli dialettici di ogni unità e coesione sociale;

c) le migrazioni, che portano in casa l’altro per eccellenza, lo straniero, diventano la cartina di tornasole che rivela la civiltà di un paese e la cattolicità della chiesa.

(da Settimana, n. 46, dicembre 2006)

La Nostra aetate vista da un musulmano

di Adnane Mokrani


Un teologo tunisino valuta positivamente la dichiarazione conciliare del 1965 ed evidenzia come, malgrado difficoltà e contraddizioni, il dialogo islamo-cristiano, in questi quarant’anni, ha fatto dei passi in avanti. Anche alcuni vogliono chiuderlo proprio ora che, a poco a poco, sta maturando i suoi frutti.

La Nostra aetate èstata un passo davvero importante nella storia dei rapporti islamo-cristiani. Infatti, il terzo paragrafo del testo conciliare è interamente dedicato a tale problema: «La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra che ha parlato agli nomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si èsottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce... Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, e a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà».

un passo decisivo nell'umanizzazione dei rapporti inter-personali ed inter-comunitari. L'altro non èpiù l'assente, lo sconosciuto, il nemico (dichiarato o non), ma un essere umano, che ha – anche lui – qualcosa a che fare con Dio. Questa dignità recuperata ha dato un grande impulso al dialogo; anzi il documento non solo ha nominato l'islam, ma èarrivato fino al riconoscimento delle radici comuni, senza negare le differenze. il frutto di un'epoca: èstato scritto subito dopo l'indipendenza dell'Algeria nel ’62, e un po’ prima delle grandi manifestazioni del '68. Era un'epoca di cambiamento, di liberazione coloniale e culturale, grandi speranze ed ideali, e anche un tempo di riconciliazione tra la Chiesa cattolica e il mondo. C'era una certa teologia di liberazione e di speranza. Nostra aetate, poi, èanche il frutto di un secolo di un orientalismo positivo (meno imperialistico), di compassione e solidarietà, di sforzi di persone come il teologo francese Louis Massignon, che hanno amato i musulmani e hanno servito la cultura islamica. un indicatore importante per conoscere i movimenti del dialogo intra-religioso, cioè le tensioni implicite in ogni religione: tra destra e sinistra, riformisti e conservatori, spirituali e canonisti... Il documento èstato una copertura per tante iniziative cattoliche nel campo del dialogo, ha dato mano libera, una giustificazione valida (davanti agli esitanti) per tanti che cercano di lavorare per la pace, la giustizia e la fratellanza universale. I centri e gli istituti interreligiosi ed islamo-cristiani nel mondo sono in maggioranza cristiani, e le capacità organizzative della Chiesa cattolica, storicamente e tradizionalmente, sono più stabili e radicate, e questo dà ai cattolici un vantaggio notevole come intermediari e punto d'incontro tra le diverse religioni. diversa: sembra che la gente sogni il passato e non il futuro, il ventunesimo secolo èsegnato dal ritorno delle religioni, quelle vere ed autentiche, delle rivendicazioni identitarie che esprimono la paura dell'altro e la mancanza di fiducia in sé, la neo-teologia della paura e del dominio. Quelli che vedono nel dialogo un pericolo per la missione e per l'unicità della verità, cercano di ridurlo ad una mera attività diplomatica di relazioni estere. In questo percorso variabile della nostra storia contemporanea, si inseriscono l'accoglienza e la ricezione della Nostra aetate. Quello che sembrava ormai acquisito per sempre, si mostra fragile e superficiale, soprattutto dopo l'11 settembre. Quello che si diceva prima a bassa voce per timore di essere indicati come razzisti e xenofobi, oggi si esprime a voce alta e con tono di sfida (Oriana Fallaci è, in proposito, un esempio eloquente).

Cosa si può fare? Abbiamo perso veramente per sempre un occasione storica? Direi di no; come musulmano trovo tre motivi validi per non tornare indietro:

1. Nonostante il disinteresse apparente dei musulmani verso l'iniziativa cattolica, ci sono cambiamenti lenti ma notevoli. Esiste una nuova generazione crescente di musulmani, in tutto il mondo, interessata agli studi cristiani e al dialogo, anche se non ha un vero appoggio logistico (se escludiamo la Fondazione Nostra aetate) e si basa su sforzi personali. La crisi intraislamica èpiù acuta, èvero, e il dominio del pensiero tradizionale e conservatore ancora efficace, ma i cambiamenti radicali nella storia avanzano sotterranei e sottili. Anche se però, proprio oggi, alcuni parlano di ritiro dal dialogo!

2. Dopo il fallimento dei nazionalismi e degli islamismi, c'è un bisogno estremo di democrazia e di libertà nel mondo islamico, e il dialogo (quello interreligioso incluso, ma non solo) èil mezzo efficace della democratizzazione. E non si può immaginare una vera democrazia senza libertà religiosa. In questa lotta, l'Occidente sembra paradossalmente oggi meno democratico e più fissato sul problema dell'identità.

In tutti questi anni si ècreata una cultura di dialogo (non importa se minoritaria), e vi èuna generazione di musulmani e di cristiani dedita al dialogo ed all'impegno sociale per la pace e la giustizia; malgrado i dubbi delle persone di poca fede, dunque, non siamo ridotti al nulla, c'è una base solida su cui costruire, e la fede dialogica èottimistica per natura. Nostra aetate èstata un passo decisivo da continuare a sviluppare, andando avanti verso nuovi orizzonti, perché, chi non va avanti, resta indietro necessariamente.

(da Confronti, gennaio 2006, p. 29)

Un concetto con il quale si possono delineare questi nostri ultimi decenni è certamente quello di crisi. Questo concetto ormai è stato applicato ad ogni branca del sapere e ad ogni campo dell'agire umano. Si parla costantemente di crisi delle ideologie, crisi delle istituzioni, crisi della politica, crisi del sindacato, crisi della famiglia, crisi dei valori. Ma anche di crisi della ragione.

Domenica, 25 Novembre 2007 19:29

Il sacramento del battesimo

Il battesimo prende posto come l’evento più importante e fondamentale della vita cristiana nella coscienza di tutte le confessioni cristiane, esso è un sacramento ecumenico. Questa fede si basa sulla testimonianza unanime degli scritti neotestamentari e della tradizione ininterrotta.

Domenica, 25 Novembre 2007 19:01

Preghiere ortodosse. Le preghiere del mattino

Illumina gli occhi della mia mente ed apri le mie labbra perché studi le tue parole, comprenda i tuoi comandamenti, adempia la tua volontà, canti a te nella confessione del cuore e inneggi al tuttosanto tuo Nome, Padre e Figlio e santo Spirito, ora e sempre e nei secoli dei secoli.

Tra le caratteristiche salienti del rito armeno, sono da notare in particolare le seguenti: a) la celebrazione dell’Eucaristia col pane azzimo; b) la celebrazione, unica nell’intero mondo cristiano, senza commistione di acqua nel vino eucaristico; c) la celebrazione del Natale e dell’Epifania insieme; d) il significato cristologico del canto del Trisagio, sottolineata dall’aggiunta dell’acclamazione “che fosti crocifisso per noi”.

Superare la teologia della guerra giusta

di Emmanuel C. Mac Carthy *

Per gran parte della mia vita, certamente gli anni in cui indossavo l’uniforme di generale dell’esercito, pensavo in modo diametralmente opposto a quanto ora esporrò.

Il presupposto di queste riflessioni è che Cristo ha qualcosa d’importante da dirci sul modo di vivere la vita cristiana. Lo scopo è di ricercare la verità di Cristo, con la comunità dei cristiani e all’interno di essa. È un testo serio perché il problema è serio: si tratta della guerra e di ciò che Cristo attende nei suoi confronti da coloro che lo seguono. Non procede da uno spirito ostile verso qualcuno nella comunità cristiana. Ma vi sono fatti terribili e spiacevoli nella storia cristiana e nella vita cristiana di oggi, che dobbiamo esaminare. Abbiamo 1.600 anni di cristianità postcostantiniana che hanno giustificato la guerra e la violenza. Ogni secolo ha visto un crescendo di brutalità e di vittime della guerra. Una percentuale impressionante di queste distruzioni disumane può essere attribuita a coloro che si confessano cristiani, discepoli del Principe della pace.

Ma non fu sempre così. Durante i primi tre secoli del cristianesimo, la chiesa era nonviolenta. Poi, all’inizio del quarto secolo, accettò di collaborare, cioè di partecipare alla guerra e alla violenza del dittatore di Roma, allora non cristiano, Costantino; iniziò la costantinizzazione della chiesa.

Alla fine del ventesimo secolo, i cristiani continuano a uccidere e a costruire strumenti di morte, giustificando il tutto con la morale e la teologia, nel nome di Cristo. Ma è davvero questo che Gesù pensava per i suoi discepoli? Se non è così, come può la chiesa approvare che i cristiani accettino questo sistema?

IL COMANDAMENTO DI CRISTO

Certo sarebbe più confortevole per la comunità di Cristo, specie per chi esercita un ruolo di guida, dedicarsi solo ai problemi di giurisdizione episcopale. Ma questi non sembrano così pressanti come quello della giustificazione cristiana della violenza e della guerra in un mondo di distruzione tecnologica avanzata. Proclamare il Vangelo, ma facendo eccezione quando tocca le questioni centrali del nostro tempo, è tradirlo.

Il nemico di una nazione non è nemico di Dio. Il nemico di una persona o di un gruppo, chiunque esso sia, è un figlio di Dio, che dev’essere amato come Gesù lo ama. Gesù è Dio incarnato, è l’immagine del Dio invisibile. Non è solo una dimensione della vita cristiana: è la norma ultima per tutto l’agire del cristiano. E ha esplicitamente chiesto ai suoi seguaci di "osservare tutto quello che ha comandato" e di "amare come lui ha amato".

Il comandamento di Gesù "amate i vostri nemici" è sempre all’imperativo, al plurale e non conosce eccezioni. L’amore dei nemici, con Gesù per modello, è il contrario della morale comune. Si può dire con certezza, secondo gli esperti biblici, che l’espressione è dovuta a Gesù stesso. Risulta anche che è la più citata nei primi due secoli del cristianesimo. Non è dunque possibile sbagliarci: l’amore incarnato in Gesù, che i cristiani sono chiamati a condividere e ad imitare, è l’amore nonviolento verso tutti, nemici compresi.

Se Gesù Cristo è la norma ultima della condotta cristiana, risulta chiaro che vi sono degli assoluti etici nei comportamenti del discepolo cristiano. Per esempio, a chi deve cercare di "vivere Gesù Cristo", non è lecito l’omicidio di massa, cioè la guerra. Vi sono attività alle quali il cristiano non può partecipare, perché contrarie alla volontà di Dio rivelata da Cristo.

Osservo che non si tratta della sola guerra nucleare, ma del rigetto totale e senza equivoci, teorico e pratico, di ogni guerra. Nella vita e nell’insegnamento di Gesù non c’è nulla che possa far pensare che, mentre non è lecito incenerire un popolo con testate nucleari, sarebbe lecito incenerirlo con il napalm. È la guerra che il cristiano mette in questione, non solo la guerra nucleare.

IL MONDO HA BISOGNO DI VERI DISCEPOLI DI CRISTO

L’equilibrio del terrore è una morale che Cristo non ha mai insegnato. L’etica delle stragi di massa non c’è nell’insegnamento di Gesù. La storia della giustificazione della guerra è un continuo sfoggio di eufemismi: la strage di massa è chiamata "dimostrazione di forza" o "azione cautelare". Con questo tipo di linguaggio, il Principe della menzogna è invitato a nozze. Nella dottrina della guerra giusta, Gesù Cristo, che è il tutto della vita cristiana, è spiazzato. Potrebbe benissimo non essere mai esistito. La dottrina della guerra giusta non ha niente a che fare con la sua persona e il suo insegnamento.

Siamo chiari. Tagliare in quattro un capello a proposito della moralità dei tipi di strumenti usati ai fini della strage di massa, non è ciò di cui il mondo ha bisogno, da parte della chiesa. Ha invece bisogno della presenza di cristiani disposti a pagare di persona insieme a Cristo. Il mondo ha bisogno di cristiani che proclamino: "Il discepolo di Gesù non può partecipare alla strage di massa; deve amare come Cristo ha amato, vivere come Cristo è vissuto e, se necessario, morire come Cristo è morto, amando il proprio nemico".

Alcuni cercano di far apparire l’insegnamento di Gesù sulla nonviolenza ingenuo e ridicolo: come se la nonviolenza cristiana fosse un’interpretazione di Gesù e del suo insegnamento teologicamente semplicista, assurda e impraticabile. Cristiani con simili idee sembrano oggi essere la maggioranza nelle chiese. L’autentica nonviolenza cristiana viene raramente messa alla portata della comunità cristiana. Quando in chiesa, o in scuola o in seminario si presenta l’occasione di riflettere sull’amore nonviolento, lo si fa normalmente in termini così vaghi e superficiali da far pensare che nessuno, neppure Cristo in persona, saprebbe difendere una tale posizione.

LA CHIESA DEI PRIMI SECOLI

Eppure, durante i primi 300 anni, la chiesa ebbe dovunque una visione di Gesù e del suo insegnamento come nonviolenti. La chiesa insegnò questa etica di fronte ad almeno tre tentativi dello stato di liquidarla, nonostante i rischi di torture e di morte. Se mai c’è stato motivo di rappresaglie giustificate e di uccisioni difensive, nella forma di dottrina della guerra giusta oppure di rivoluzione violenta giusta, fu allora: le élites economiche e politiche di Roma miravano ad una politica di sterminio della comunità cristiana. Invece la chiesa insisteva senza riserve sul fatto che, disarmando l’apostolo Pietro, Gesù aveva disarmato tutti i cristiani. Questi continuavano a credere che Cristo era, come dice un’antica liturgia, "la loro fortezza e la loro forza", e poiché Cristo era tutto ciò di cui avevano bisogno in fatto di difesa e di sicurezza, non avrebbero cercato altro.

Quando venivano offerte ai cristiani delle occasioni di ammansire lo stato romano unendosi ai suoi eserciti, le respingevano, perché la chiesa primitiva vedeva un’incompatibilità totale tra l’amare come Cristo ama e l’uccidere. Il Dio della comunità cristiana non era Marte, ma Cristo. Era dunque Cristo, non Marte, a determinare il modo di vedere e di vivere del cristiano. Era Cristo, non Marte, che dava la sicurezza e la pace. Durante questi 300 anni, la chiesa continuava a diffondersi. Sopravvisse senza mai ricorrere alla guerra e alla violenza.

Nella chiesa primitiva nonviolenta nessuno disse che i cristiani dovessero ignorare il male o "lasciar correre". Il cristiano sapeva di dover lottare contro il male: ma doveva vincere il male con il bene; se fosse stato necessario, doveva persino "dare la sua vita" in questa lotta. Per la chiesa primitiva, il martirio era un’attività sociale vera e propria, al massimo livello.

LA "RESPONSABILITÀ SOCIALE" DEI PRIMI CRISTIANI

"Deporre la propria vita" (e non uccidere un’altra), rispondendo al male con il bene, era considerato atto supremo di responsabilità sociale. Si riteneva che il modo più efficace di essere socialmente responsabili era di rifiutare la collaborazione con il male sociale, la guerra e la strage di massa. E non era sufficiente opporsi al male a parole: era ritenuta condizione essenziale, nel proprio concreto, amare come Cristo ha amato, a costo anche di gravi pene, anche della vita.

Questa spiritualità cristiana primitiva, consistente nel parlare chiaro e nel pagare di persona, dista anni luce dall’etica ambigua di chi con le parole dice di essere contrario alla guerra, ma poi vi partecipa, in attesa che tutti siano d’accordo di non più parteciparvi. I nostri padri dei primi tre secoli sapevano che Gesù, loro Dio e Signore, non permetteva a nessuno dei suoi discepoli di sostituire la violenza all’amore; e allora parlavano e agivano con coerenza, da cristiani socialmente responsabili.

In concreto, la nonviolenza cristiana non era un ingenuo e sterile ricorso a un idealismo irrealistico. La nonviolenza cristiana è la volontà di Dio rivelata nella vita e insegnamento di Gesù Cristo. Le utopie sono sogni umani, l’insegnamento di Gesù è, invece, un mandato divino, al quale tutti i cristiani sono tenuti a prestare fede totale. Quando Dio parla, un’obbedienza incondizionata è la sola risposta giusta, perché la parola di Dio è potenza e saggezza. Obbedire alla volontà di Dio significa essere realisti e pragmatici. Mentre il rifiuto di obbedirgli è il colmo dell’ingenuità: è il non fidarsi della sua saggezza ad essere irrazionale. Adorare Cristo in pubblico, mentre in segreto si giudica come irrealistica la sua dottrina della nonviolenza, è aberrante.

C’è chi ritiene che Gesù abbia bisogno delle loro rettifiche, perché incapace di esprimersi a riguardo della violenza e dei nemici. Per loro il martirio come attività socialmente responsabile non ha senso, quando si hanno le possibilità di eliminare il nemico: ecco la dinamica operativa dell’etica che giustifica l’omicidio. Per i cristiani vicini a Gesù, invece, combattere la guerra con la guerra è partecipare al male e accrescerlo.

Siamo onesti: la ricerca di un Vangelo con delle scappatoie non ha senso. Non è la verità a motivare tale ricerca. È la paura; è lo spavento dinnanzi alla morte; è il rifiuto di credere che Cristo è risorto, e questo proprio attraverso la sua morte.

"RIVESTITEVI DI CRISTO"

A rendere il comandamento "amatevi come vi ho amato" possibile e ragionevole è la coscienza che Gesù è in mezzo a noi. La risurrezione di Cristo e la sua presenza tra noi confermano la verità e la forza del suo amore. Senza conversione alla fede nella persona di Cristo, la fede nell’etica di vita che egli proclama è insostenibile. Senza la risurrezione della sua persona, la fede nell’etica della sua croce di amore nonviolento è vuota. Ma se Cristo è risuscitato, allora questa croce dell’amore nonviolento è davvero la Via e la Verità.

Sapendo quante altre logiche cercano di imporsi, S. Paolo richiama al cristiano la necessità di "pregare senza sosta". Se si è uniti a Cristo nella preghiera, non si riesce più a giustificare la violenza e la guerra, come invece non dispiace a una certa teologia. Una continua coscienza della realtà di Dio come Amore è fondamentale in Gesù. È a questa coscienza che la preghiera ci converte, "rivestendoci del pensiero di Cristo".

Lo spirito di Cristo non è primariamente centrato sul rifiuto della violenza, ma sull’amore. Il centro di questo amore è la comunità di amore che abita dentro di noi, la Trinità. Una spiritualità veramente cristiana ci conduce a una presa di coscienza crescente del totale coinvolgimento della nostra persona e di tutta la creazione nella comunione d’amore che è la Trinità. Chi è impegnato a "rivestirsi del pensiero di Cristo", a vivere alla presenza del Dio-Amore, compassionevole, è inconcepibile che possa arrivare a giustificare la guerra e la violenza, tantomeno a parteciparvi.

La dottrina della guerra giusta è un tentativo di giustificare moralmente la strage di massa, che Gesù ha esplicitamente escluso dalla sua logica. È un cristianesimo senza Cristo. Giustificare la logica di Marte come compatibile con la sequela di Cristo è un abominio idolatrico, che continuerà a spargere caos e tragedie.

La scelta è tra il "rivestirsi del pensiero di Cristo" o no. Impossibile rimanere neutrali. Non è facile "rivestirsi del pensiero di Cristo", richiede conversione. Ma è il prezzo della pace sulla terra. Se non si accetta di pagare il prezzo della pace, si pagherà il prezzo della guerra. Se non si vuole assumere la "santa violenza" (o ascesi) di una vita di preghiera incessante, con la quale impossessarsi del Regno dei Cieli, si dovrebbe almeno avere l’onestà di non giustificare come cristiana la violenza, da cui i regni di questo mondo sono inevitabilmente condotti alla distruzione.

Da 1.600 anni il popolo di Dio è stato bloccato dalle giustificazioni cristiane al massacro di vite umane. Questo deve finire. La partecipazione cristiana alle barbarie della strage di massa è la negazione del Vangelo. La chiesa deve interdirsi di giustificare delle rappresentazioni false e grottesche di Cristo e della sua dottrina, in contraddizione con i suoi insegnamenti più chiari. Non c’è passo del Vangelo in cui Cristo dica che i suoi discepoli sono esenti dal seguirlo quando temono certe conseguenze. La sequela di Cristo include la fedeltà ai modi di agire di Cristo. Il suo cammino è quello della croce, è l’amore nonviolento, sempre.

Siamo chiamati dal Principe della pace a essere un popolo di pace. Dobbiamo essere testimoni pacifici della risurrezione, contenti di pregare senza tregua, di amare alla maniera di Cristo. Non si pretende nulla di più da noi. Non c’è bisogno d’altro da parte nostra.

* Sacerdote statunitense ed ex generale dell'esercito

(Centro per la nonviolenza cristiana di Baxter - USA. Pasqua 1982)

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