Per la sua situazione geografica il Tibet è all’incrocio di molteplici influssi sia autoctoni sia esterni che si riflettono nelle credenze trasmesse nella sua cultura. Se per lungo tempo l’Occidente ha creduto di vedere nel buddhismo tibetano un culto magico-tantrico, o anche un buddhismo deformato o degenerato, è perché non si è compreso che, a differenza del cristianesimo o dell’islam legalista, che si sono disfatti risolutamente delle vecchie credenze e religioni, il buddhismo al contrario le ha affiancate o addirittura integrate, dovunque si sia impiantato. Per questo non rinuncia ai suoi testi canonici e dottrinali usciti dalla parola del Buddha e del lignaggio dei suoi successori. Questi testi rimangono la norma canonica dei principi e delle conoscenze proprie al buddhismo, come l’impermanenza dei fenomeni, il karma, l’interdipendenza, le rinascite successive nel ciclo delle esistenze dolorose (samsara) e il fine della liberazione e del Risveglio.
Divinità protettrici del territorio
Dovunque un Asia, a cominciare dall’India dove il Buddha si è guardato dal rigettare gli dei o i semidei del bramanesimo, il buddhismo ha dunque integrato le credenze anteriori, senza, per questo, esaltarle, e nel Tibet non ha fatto eccezione. Anzi il tantrismo gli ha permesso di integrare nei suoi rituali elementi di credenze o di riti antichi, come altrettanti metodi secondari destinati a creare condizioni favorevoli alla pratica buddhista. Si pensi a Padmasambhava che, secondo la tradizione, ha domato, nel sec.VIII, le divinità ostili del territorio per farne delle divinità protettrici votate alla preservazione della dottrina buddhista. Ugualmente il Bon, quale si presenta a partire dal sec. IX, è la convergenza di credenze e di pratiche autoctone, di una religione detta “Bon del Zhang Zung, venuta dalle regioni dell’Ovest, e di un insieme coerente di dottrine buddhiste che servono da matrice concettuale e organizzativa per integrare tale diversità. Ne è risultata una successione graduale e metodica di nove vie, di cui le prime quattro riuniscono tutto quello che si potrebbe qualificare come credenze sciamaniche o animiste (astrologia, divinazione, trattamento delle malattie e degli ostacoli legati agli spiriti, armonizzazione dei luoghi, cerimonie funebri), e le altre cinque sono decisamente buddhiste (voti dei laici, voti monastici, tantra esterni, tantra interni e dzochen). Nelle scuole buddhiste tibetane di origine indiana o nel Bon ufficiale, nulla di tutto questo è confuso o mescolato, ma al contrario attesta la cura di preservare e utilizzare ogni mezzo rituale utile agli esseri, senza contraddire la visione buddhista. Ciò non esclude qualche deviazione, come la famosa storia di Milarepa, che in giovinezza si dedica alla magia nera, prima di consacrarsi alla via del Risveglio. I testi scritti da eminenti maestri tibetani denunciano spesso gli yogin sviati o avidi di poteri magici. Infine accanto a elementi ”normalizzati” dal buddhismo e dal Bon, si deve anche considerare l’esistenza di una religione popolare che mescola volentieri credenze non buddhiste e apparenze buddhiste, senza la preoccupazione di conformarsi a una coerenza dottrinale.
Armonia e bandiere di preghiera
Quali sono dunque le credenze esogene integrate nel buddhismo tibetano o da esso tollerate? Prima di tutto l’idea che un insieme di dei del territorio (yul lha) abita l’ambiente naturale e che l’uomo ha il dovere di mantenere con essi rapporti di buon vicinato. Si tratta anche delle “otto classi di dei e di demoni” fra cui si trovano spiriti delle acque (lu), signori del suolo (sadak), divinità montani, spiriti degli alberi (nyen) o delle rocce (tsen). L’uomo ospita nel suo corpo una forza vitale (sok), un’anima vitale (la) e cinque dei personali (go lha nga) che lo proteggono dalle aggressioni esterne. Così quando il la erra fuori dal corpo, perché afferrato da un demonio o in seguito a uno choc emozionale, si praticano dei rituali per richiamare il la. Infine la nozione antica del Cavallo del Vento (lungta), diffusa nel mondo tibetano, è materializzata mediante le bandiere di preghiera che ondeggiano al vento, che sono ritenute in grado di armonizzare i quattro elementi nell’uomo e nell’ambiente, per favorire fortuna e prosperità. Tutte queste credenze fanno parte di quel che si chiama la “religione senza nome” propria del Tibet ancestrale. Esse sono state integrate sia dal buddhismo, sia dal Bonpo attraverso l’astrologia e la medicina tibetana in rituali tantrici destinati a favorire la guarigione, a prolungare la vita, a proteggere le culture, a favorire la pace e la prosperità, persino a far cadere la pioggia.
Morte e possessione
Un altro gruppo di credenze comprende influenze religiose originarie della Persia antica. Tale è la tradizione dei funerali celesti, in cui il corpo del defunto è fatto a pezzi ed esposto all’aria libera per essere preda degli avvoltoi. Questa usanza, che richiama quella dei Parsi in India, si accorda con tutta naturalezza con il buddhismo, per il quale il corpo, residuo del karma, alla morte ritorna agli elementi. Dato che il Tibet è povero di boschi, questa pratica permette di evitare la cremazione, tanto corrente in India. Di origine senza dubbio zoroastriana è la credenza che l’uomo è accompagnato da un dio buono e da un demonio innato, che dopo la morte rendono conto dei suoi atti davanti al re Yama, il giudice dei morti. Essa compare, per esempio, nel Bardo Thodol, il Libro dei morti tibetano, che mostra un esempio di integrazione di elementi di origine esogena in un racconto in parte popolare (il giudizio dei morti), e in parte dotto (gli insegnamenti buddhisti sullo stato intermedio o bardo).
Infine si possono distinguere altri due tipi di credenze che inizialmente sono estranee al buddhismo e nonostante tutto sono presenti nel Tibet sotto una forma ritualizzata e buddhicizzata. La prima è la trance di possessione degli oracoli, come quella dell’oracolo di Stato di Nechung, consultato regolarmente dal dalai lama nei momenti di maggior crisi. Nella seconda si trova la curiosa tradizione sciamanica delle “ritornanti” o delok, delle donne che rimangono fino a una settimana in trance catalettico e al loro risveglio raccontano quello che hanno vissuto nel bardo e nelle terre pure dei buddha. Infine, comune ai popoli tibetani e birmani e trasposta nel buddhismo, la tradizione di guidare i morti non figura in origine nelle tradizioni buddhiche indiane. Essa appare dapprima nel Bon e fra i Nyungmapa prima di essere imitata nelle altre scuole. Nel contesto buddhico questa tradizione si manifesta come un insieme di rituali e di consigli rivolti personalmente al defunto per aiutarlo a liberarsi nei bardo.
Nessuna di queste credenze che sono state assimilate giustifica la reputazione di un buddhismo degenerato, tanto più che il budhismo tibetano può vantarsi di essere assai prolifico in esegesi e in filosofia buddhista del più alto livello, e di aver prodotto una quantità di commentari che spiegano il senso dei rituali, anche quando questi includono elementi esogeni. Il fascino per l’esotismo e alcune cerimonie tantriche, di cui si deve riconoscere spesso il carattere spettacolare e colorato, non dovrebbe occultare il carattere dotto del buddhismo tibetano. D’altronde, si potrebbe dire del cattolicesimo che è degenerato, col pretesto che tollera o assimila in Africa, in Brasile o altrove, delle usanze che non hanno nulla a che fare con il cristianesimo?
Philippe Cornu
(da Le monde des religions, n. 30, pp. 30-31)