La dottrina buddhista mira essenzialmente all’eliminazione della sofferenza e all’ottenimento di una felicità stabile: due risultati di cause che sono costituite dalle azioni negative e positive compiute dagli esseri. Per questo karma (la parola significa volizione e azione), accumulato sotto forma di impronte depositate sulla loro coscienza, gli essere ordinari trasmigrano senza libertà nei sei stati di esistenza del samara, fino a che riescono a sottrarvisi. Aspettando di giungervi, i fedeli si danno a radunare le cause di una rinascita felice, in cui sarebbero riunite le condizioni di una pratica più ambiziosa. In questa prospettiva, o per assicurarsi il successo di una impresa in questa vita, l’essenziale delle attività religiose consiste nell’accumulare meriti, compiendo azioni virtuose.
La “presa di rifugio”
Nella vita quotidiana, la pratica più corrente è la “presa di Rifugio” accompagnata da prostrazioni in un tempio, davanti a uno stupa (un tchorteni in tibetano) che contiene le reliquie di un buddha o di un grande maestro,o anche in casa propria, davanti all’altare domestico, a volte una semplice tavola di legno sulla quale sono collocati gli oggetti di devozione. Come tutte le pratiche, questa, per essere una pratica del dharma (la dottrina) buddhista, deve essere presieduta da una motivazione pura, quale la ricerca di una prossima esistenza favorevole, la liberazione dal samsara o la speranza del Risveglio. Ogni mattina, appena alzato, il fedele riordina questo altare per “invitare”, nelle condizioni migliori, il “campo di accumulo di meriti”, cioè i buddha e i boddhisattva, maestri del lignaggio e divinità protettrici. Vi dispone o rinnova le offerte materiali, che sono di otto specie: acqua da bere, acqua per abluzioni, fiori, incenso, luce, profumo, nutrimento, musica (rappresentata da uno strumento). In pratica una semplice tazza d’acqua può servire: l’essenziale è che l’offerta sia pura, cioè acquisita onestamente.
Il fedele procede poi a una “presa di Rifugio”, che consiste nell’affermazione della sua fede nella capacità dei Tre Gioielli – il Buddha, il dharma, il sangha (la comunità) – di permettere la eliminazione definitiva della sofferenza e l’ottenimento di una felicità stabile. Meditando immaginerà nello spazio davanti a sé la presenza reale degli oggetti di rifugio, cioè “il campo di accumulo”: al centro il buddha Sakyamuni; davanti a lui il maestro principale sotto la sua forma propria o sotto quella di un buddha differente (Vajradhara, Manjusri, ecc.) e, intorno, i diversi lignaggi di maestri, la folla dei buddha, bodhisattva, pratyekabuddha, ahrat, eroi e protettori specifici del buddhismo tibetano. Dovrà anche immaginare, intorno sé, i suoi genitori, i suoi parenti come anche tutti gli esseri del samsara che hanno le loro proprie sofferenze. Dovrà anche ravvivare in sé le cause del rifugio: la sua fiducia nei Tre Gioielli, il suo desiderio di sfuggire alle sofferenze e, in quanto mahayanista, la sua compassione verso tutti gli esseri. E penserà che in seguito dagli oggetti di rifugio emanano flutti di nettare e di luce che lo purificano da tutte le colpe verso di loro, eliminano tutti gli ostacoli alle sue realizzazioni e gli conferiscono tutte le loro qualità.
D’altronde le prostrazioni di omaggio costituiscono un elemento centrale delle pratiche tibetane. Il termine tibetano che le designa (phyag tshal) significa alla lettera “inclinarsi”. L’omaggio fisico si rende per tre volte di seguito, in due maniere. La prima maniera , la più spettacolare, consiste nell’allungarsi a terra in tutta la propria lunghezza: è la grande prostrazione (brkyang-phyag) praticata da fedeli che instancabilmente fanno così dei pellegrinaggi e il giro dei santuari. La seconda maniera (bskum-phyag) consiste nel toccare la terra in cinque punti: le mani, le ginocchia, la testa. Prima di toccare il suolo o di allungarsi, il praticante, in piedi, congiunge le mani all’altezza del petto, poi le porta o in tre punti, in cima alla testa, all’altezza della gola e davanti al petto, oppure in quattro punti, aggiungendo la fronte. Questi gesti sono simbolici: per le mani giunte, la destra corrisponde al Metodo (compassione, ecc.), la sinistra alla Sapienza. Congiungerle rappresenta l’unione del metodo e della Sapienza. Portarle alla cima della testa simboleggia il futuro ottenimento del unishnisha (protuberanza cranica, segno di un buddha); davanti alla fronte, quello dell’urna (la mèche arrotolata nel senso delle lancette di un orologio, che spunta fra le sopracciglia di un buddha); davanti alla gola, l’ottenimento della Parola di un buddha e davanti al cuore quello dello spirito di un buddha.
Questa pratica, che si pensa procuri grandi benefici, è molto popolare. Quando ci si allunga in tutta la lunghezza per la grande prostrazione si ottengono mille volte più meriti di quante sono le infime particelle del suolo contenute sulla superficie coperta dal corpo. Nessun Tibetano ignora le virtù di tale pratica e tutti vi si applicano con la massima devozione, anche senza essere sempre consapevoli del significato preciso dei gesti compiuti.
Mantra e mulini da preghiera
Senza dubbio la pratica più diffusa è quella della recita dei mantra, formule sacre dal potere quasi magico. Per i Tibetani un mantra autentico non può essere che in sanscrito. Man significa “spirito” e tra “proteggere”. Sono formule costituite da parole o da sillabe, con o senza senso, in relazione con un rituale e una divinità; esse vengono recitate il massimo numero di volte possibile allo scopo di accumulare meriti e di ottenere la purificazione dei propri Karma negativi, una protezione, una guarigione, una realizzazione spirituale qualunque o anche prosperità o progenie.
Per illustrare l’importanza della fede nella recita dei mantra, si racconta di un devoto che importunava un maestro per ottenere a ogni costo delle informazioni e che comprese male la frase con cui era stato rimandato (“vattene”); egli la meditò a lungo e la ripeté come un mantra e ne ottenne grandi poteri. La recita dei mantra può essere effettiva o, particolarità tibetana, essere operata con mezzi meccanici, grazie ai mulini da preghiera, delle ruote girate a mano sulle quali sono scritti dei mantra. Ne esistono sotto forma di enormi cilindri posti su degli assi verticali che i pellegrini fanno girare mentre compiono il giro dei luoghi santi. Altri sono azionati dall’acqua o agitati dal vento (bandiere di preghiera o rlung rta): a contatto con l’aria le invocazioni si disperdono nello spazio per il bene degli esseri.
Fra i mantra più popolari occorre citare quello del buddha Tchenrezi (“Om mani pad me hum”) che deve essere recitato meditando la Grande Compassione, quello del buddha di aspetto femminile Deulma – Tara in sanscrito (“Om tare tuttaré turé svaha”), che protegge dagli otto pericoli, o quello dell’essenza della perfezione della Sapienza (“Om gaté gatè paragaté parasamgaté bodhi svaha”), che evoca il risveglio di coloro che hanno “raggiunto l’altra riva”.
I Tibetani sono viaggiatori impenitenti e i pellegrinaggi rimangono sempre delle fonti molto popolari di meriti, sia nei luoghi illustrati dalle imprese del Buddha come Bodhgaya o Lumbini, o anche sul Jo-khang di Lhasa o il monte Kailash. Il culto delle reliquie, che ha inizio in India fin dalla morte del Buddha (e non è l’appannaggio del buddhismo tibetano), è accompagnato da circumambulazioni che consistono nel fare il giro dell’oggetto venerato alla sua destra, nel senso del cammino apparente del sole intorno alla terra. La stessa cosa vale per l’uso del “cordone di protezione” precedentemente benedetto e che aiuta a premunirsi contro i pericoli.
Esistono ancora molte altre pratiche pittoresche o profonde, ma ce n’è una, semplicissima, raccomandata a tutti coloro che nel Tibet o altrove professano la dottrina del Buddha: evitare, almeno, di nuocere a ogni essere. Chiunque esso sia.
Pierre Arènes *
(da Le monde des religions, n. 30, pp. 32-33)
* Professore, ricercatore associato al CNRS, ex membro del Consiglio scientifico del centro di studi tibetani dell’Istituto di estremo oriente del Collège di France, è autore di Liberté, égalité, fraternité, quel sens pour la tradition bouddhiste tibétaine?, À l’Orient Éditions, 2007)