Il valore teologico del sincretismo
nella teologia pluralista
di Alfonso Soares
Questo testo vuole evidenziare, nel modo più schematico possibile, il valore teologico del sincretismo religioso, inserendolo nella dinamica divino-umana della rivelazione. Tenterò di suggerire alle lettrici e ai lettori che il sincretismo è la rivelazione di Dio in atto, considerando che non esiste altro modo di accedere al mistero se non facendolo a poco a poco, in forma frammentata, fra avanzamenti e retrocessioni, luci ed ombre (...).
Di che stiamo parlando e perché insistete su un termine controverso come questo?
Molti termini si contendono l'attenzione della teologia pluralista in questi tempi di incalzante dialogo. Esiste l'ecumenismo (la fede cristiana celebrata fra le varie Chiese in un culto comune), il dialogo interreligioso (la convivenza armoniosa fra tutte le religioni) e perfino il dialogo afro-interreligioso. Quest'ultimo si può intendere a partire da due esperienze. La prima, come avvicinamento alle religioni afroamericane ((Candomblé in Brasile; Vodu ad Haiti; ecc.) è, per un verso, quella di penetrare sempre più nella vita e nella teologia di queste tradizioni; e, per altro verso, quella di impedire che esse siano ignorate o trascurate nelle discussioni ufficiali sul dialogo interreligioso. La seconda esperienza è a partire dalla realtà afro così come si incontra all'interno del cristianesimo: in questo caso si tratterebbe di conquistare sempre maggiore spazio interno per l'espressione e l'attuazione delle differenze culturali nelle Chiese cristiane (. ..).
Oltre a quelli citati, è necessario prendere in considerazione altri termini:
Macroecumenismo, che, ratificato nell'Assemblea del popolo di Dio (Quito, 1992), viene apprezzato dai gruppi popolari, in particolare dagli Operatori della Pastorale per i Neri/e. Implica un ecumenismo dalle frontiere flessibili, basato sull'esperienza delle comunità;
Dialogo Intrareligioso, che coincide con quella che prima è stata definita come seconda maniera di vivere il dialogo afro-interreligioso (...);
Inculturazione, che è attualmente il termine più usato dalla Chiesa cattolica (...). Su questo, hanno trovato un consenso i "conservatori" e i "progressisti". Ed è proprio qui il pericolo: due persone che difendono l'inculturazione magari stanno parlando di realtà o prospettive diametralmente opposte. Nel caso specifico delle comunità culturali autoctone, in genere per inculturazione si intende una costruzione che gli stessi soggetti stanno facendo nel loro proprio contesto a partire dalle sollecitazioni che il Vangelo opera nelle loro tradizioni culturali. Per la gerarchia cattolica, invece, l'inculturazione dovrebbe essere il canale tramite il quale la Chiesa ritorna all'ideale di una cultura cristiana, valorizza e rinnova la sua cultura tradizionale. Questo uso ambiguo è preoccupante. (...) Prendiamo il caso della religiosità afro, per esempio: cos'è l'inculturazione per queste culture? Perché, dopo tutto, quello che sta proponendo recentemente la Chiesa lo facevano già i neri secoli fa, e questo viene definito sincretismo. Di più: attualmente si parla di dialogo fra cristianesimo e religioni di origine africana. Questo costituisce già un passo avanti, a parte il fatto che ci sono voluti 500 anni per riconoscere il Candomblé come religione. Ma in quali termini intraprendere questo dialogo se il 90% dei membri del Candomblé è costituito già da cattolici?
Irreligionare, parola nuova e brutta per una vecchia sfida, che già doveva essere sottintesa nel termine inculturazione: ogni religione si trasforma a partire da sé, attraverso il contatto che stabilisce con le altre; è necessario permettere che la religione si trasformi al ritmo delle crisi, delle scoperte e degli scambi che effettua con le altre religioni. (...) Una comunità religiosa accoglie un'altra religione, assimilando quello che le sembra più appropriato e scartando quello che non le conviene. Come ho affermato in altre occasioni, il popolo irreligiona quello che può o vuole accogliere della nuova tradizione che viene da fuori. Di fatto, molti praticanti della tradizione degli Orixàs, dell'Umbanda, del Vudù, della Santeria o di altre variabili religiose della nostra eredità indigena e africana, si sentono sinceramente cattolici. Accolsero (molte volte obbligati, vale la pena ricordarlo) nelle loro tradizioni di origine l'inserimento cristiano, depurarono quello che sembrava loro inumano o senza senso, mescolarono quello che non aveva molta importanza e finirono per mantenere intatto quello che ritenevano positivo e arricchente per la propria cosmovisione originaria. Se osserviamo attentamente, tutto ciò non differisce in nulla da quello che si conosce con il nome di sincretismo.
Sincretismo. Quando lo menzioniamo, il primo impulso è di pensare a qualcosa di degradato, a un difetto di produzione (...). In realtà il cristianesimo ufficiale, clericale, asettico non è mai esistito nella vita reale. Quello che esiste sono i contatti religiosi che si stabiliscono tra gruppi e individui con forme diverse di dialogo. (...). In definitiva, è un lavoro di Sisifo cercare di contenere la fame religiosa delle persone nella sfera di certi ingredienti e condimenti, soprattutto se teniamo conto di questi tempi postmoderni, di laicità estrema da un parte e di abbondante offerta di significanti religiosi dall'altra. (...)
Il sincretismo è sempre stato e continua ad essere presente nelle relazioni storiche tra le religioni
(...) Il cristianesimo, per essere una religione universalista, non può sfuggire al sincretismo, dal momento che si è assunto la responsabilità di contenere, fin dal principio, tutta la pluralità esistente nel genere umano. La sua principale argomentazione per tale pretesa si fonda sulla certezza che la rivelazione di Dio all'umanità abbia raggiunto in Gesù di Nazareth un livello di profondità senza pari, prima o dopo tale evento (pienezza della rivelazione). C'è qui l'eccellenza e, al tempo stesso, il tallone d'Achille di tutta la storia del dogma cristiano. Come si può conciliare l'assoluto di Dio che si rivela con l'inevitabile relatività del mezzo utilizzato e dei suoi risultati? ... Lo sforzo popolare di unire divinità di diversa provenienza e, in alcuni casi, contraddittorie nel seno di una stessa esperienza religiosa, non avrà alcuna somiglianza con la geniale formulazione simbolico-teorica del dogma trinitario, che cerca di raggiungere il difficile equilibrio tra la convinzione monoteista e l'esperienza del molteplice nella divinità? Da un punto di vista antropologico-pastorale, perché dovrebbe essere sospetto "offrire un culto" agli antenati e agli elementi della natura (Orixàs) quando le devozioni mariane e il culto dei santi cattolici sono considerati positivamente e appaiono pedagogicamente importanti? (...)
È un fatto che la gerarchia cattolica contemporanea, per quanto con più pudore che in passato, continua a interrogarsi sulla miglior forma per combattere la spiritualità sincretica. In fondo, lo fa per una questione di potere. Da parte loro, indifferenti alla controversia, grandi segmenti della popolazione dei nostri Paesi continuano ad offrire un culto alle loro divinità e ad osservare alcuni riti cristiani, pienamente convinti che tali modi di comprendere e di praticare la religione siano sicuramente cattolici ...).
Il sincretismo è, prima di tutto, una pratica che precede le nostre opzioni teoriche e bandiere ideologiche
(. . .) In primo luogo, si tratta di riconoscere il sincretismo de factu; solo dopo può avere un senso la domanda su cosa potremmo apprendere teologicamente da questo dato reale. (.. .) Tollerato dalla pratica pastorale in nome della carità cristiana, il sincretismo è ripudiato nelle dichiarazioni e nei documenti ufficiali. Fortunatamente, questi ultimi anni sono stati caratterizzati da una timida revisione di questa posizione.
D'altro lato, sarebbe ingenuo non tener conto che molte delle pratiche sincretiche vissute dalla nostra gente sono il prodotto della forma violenta con cui il cristianesimo si e imposto in tutta l'America Latina, di modo che ai popoli non sono rimaste che abitudini distorte, camuffate e frammentate delle loro tradizioni. Per questo sono promettenti i movimenti che oggi hanno ripreso queste tradizioni ancestrali evitando di pagare pegno ai rituali cristiani/cattolici. (...)
Allo stesso tempo, un nuovo cammino è iniziato, a fatica, ad opera dei settori cristiani più progressisti, tra i quali il movimento degli Operatori neri di pastorale (Apn) e le sue ramificazioni in America Latina e nei Caraibi. Maggioritariamente cattolici, essi intendono riscattare le tradizioni nere e riaffermare la propria identità culturale. E qui, inevitabilmente, emerge la questione di come affrontare il sincretismo de facto o la doppia appartenenza religiosa dei membri di questa comunità. Fino a che punto un cristiano può permettersi di avanzare nella ricerca delle sue autentiche radici africane? È possibile essere allo stesso tempo un nero cosciente e un cattolico? La questione è la stessa in qualunque latitudine: posso essere aimara e cristiano, hindu e seguace del Vangelo, cinese e partecipante alla funzione domenicale, bantu e credente nella resurrezione?
Una volta che si sia ammesso con tranquillità che tali connessioni si stanno realizzando nella pratica, possiamo passare al punto successivo: questa situazione reale di fatto, non fabbricata artificialmente per mero capriccio di alcuni teologi e teologhe, ci può insegnare qualcosa dal punto di vista non solo pastorale ma più specificamente teologico? (...)
Teologi come M. de F. Miranda preferiscono ancora usare il termine inculturazione a quello del sincretismo e affermano che è preferibile "seppellire per sempre questo concetto del mondo teologico, dal momento che oggi un corretto e ortodosso sincretismo riceve la denominazione di inculturazione, che non è gravata da letture negative del passato come avviene nel caso del termine sincretismo".
La doppia appartenenza religiosa è una delle possibili interpretazioni naturali del dialogo interreligioso
Se il termine non e unanime, perlomeno si verificano sensibili passi avanti per quanto riguarda l'accettazione o la tolleranza della realtà rappresentata dal vocabolo.
(...) Un profeta del dialogo tra le religioni, François de L'Espinay, sacerdote cattolico e ministro di Xangô (orixà della giustizia, giudice e guerriero, ndt) nel II Axé Opò Aganju, passò i suoi ultimi anni di vita a Salvador de Bahia (1974-1985). Arrivò ad essere scelto come mogbà (membro del consiglio di Xangô). "Il giorno in cui il pai-de-santo (autorità religiosa del Candomblé, ndt)mi chiese di far parte del consiglio, sapevo di dover passare per una iniziazione. Fu un grande problema. Non sapevo cosa fosse. Sarebbe andata contro il cristianesimo? Non rinnego nulla né del cristianesimo né del sacerdozio (...). Nel Candomblé io promisi fedeltà a Xangô. Ciò non allontana per nulla dalla fedeltà a Cristo".
Se questa pratica diventasse una regola, si domanderanno molti, come giustificare allora la mediazione della Chiesa o la sua funzione salvifica (Lumen Gentium 14)? Prevenendo questi interrogativi, François in quella occasione ponderava quanto segue: "Perché Dio dovrebbe esigere un contatto per mezzo di un traduttore e non direttamente con la sua parola? Egli si rivela come Padre. Ma un Padre non parla la lingua dei suoi figli? (...) Dio è più grande e più vivo. Non si racchiude in una formula rigida, non è prigioniero delle sue opzioni. Non fa discriminazioni tra i suoi figli. Nessuno può dire: 'È a me che si è rivelato e soltanto a me'”.
La Chiesa uscirà in questo modo ridimensionata? Sinceramente, se questo fosse il prezzo da pagare perché il Regno di Dio sia servito, ben venga. Dopo tutto, affermano che la Chiesa è il lievito e non la torta finale (...). François sarebbe stato d'accordo, giacché, secondo lui: "Basterebbe uscite dai nostri limiti cementati nell'esclusivismo, nella certezza di possedere l'unica verità, e ammettere che Dio non si contraddice, che parla sotto forme molto diverse e complementari le une alle altre e che ogni religione possiede un deposito sacro: la Parola che Dio ha annunciato loro. Ecco tutta la ricchezza dell'ecumenismo, che non deve limitarsi al dialogo fra cristiani". (...)
Un'esperienza ibrida può essere segno del disegno di Dio di comunicare se stesso
(...) Sua Santità Giovanni Paolo II, ricevendo in visita ad limina alcuni prelati brasiliani, ha indicato la religiosità popolare come tema importante e il sincretismo religioso come una delle principali minacce. Per il Santo Padre: 'la Chiesa cattolica guarda con interesse a questi culti, ma considera nocivo il relativismo concreto di una pratica comune di entrambi o della mescolanza di essi, come se avessero lo stesso valore, mettendo in pericolo l'identità della fede cattolica. La Chiesa si sente in dovere di affermare che il sincretismo è dannoso quando compromette la verità del rito cristiano e l'espressione della fede, a detrimento di una evangelizzazione autentica”.
Mi sembra di capire che nel messaggio pontificio esista un margine di dialogo, dal momento che se ne deduce che se il sincretismo non compromette la verità del rito, ecc., questo sarà benvenuto. In definitiva, come ben sapeva il predecessore di Benedetto XVI, la verità del rito e l'esperienza della fede non sorgono da un momento all'altro, e un'autentica evangelizzazione presuppone un lunghissimo processo di incarnazione dello spirito evangelico nella vita delle persone e delle comunità. Inoltre, sembra che il papa riconosca che l'unico complesso di criteri che il popolo possiede per giudicare se il Vangelo è, di fatto, "una buona notizia" è la sua stessa cultura autoctona e, pertanto, che non può abbandonarla automaticamente per diventare "evangelico" (...).
In varie occasioni e già da molti anni, le implicazioni contenute nella pratica e nell'esempio di personaggi come L'Espinay hanno sfidato la fede, la spiritualità e il modo di fare teologia di molte persone. (...) Sembra facile riscattare il sincretismo come condizione sociologica di ogni religione: in definitiva, nessuna di esse, come fatto culturale, esiste indipendentemente dalle altre tradizioni delle quali è tributaria. Ma cosa bisogna dedurre teologicamente dall'opzione di un padre cattolico che non ha mai creduto necessario mettere a rischio la sua fede originaria per abbracciare la spiritualità degli Orixàs? Quale sarebbe la vera funzione della Chiesa in queste situazioni di sincretismo e di doppia appartenenza religiosa? Quali servizi ci si attendono dai cristiani in tali contesti? Guardare al bene del popolo equivale a convertirlo (nella sua totalità) ad un cristianesimo più ortodosso? Insomma, la salvezza-liberazione del popolo di Dio è sinonimo di adesione matura da parte delle persone a questa comunità chiamata Chiesa?
Per rispondere alle questioni poste dalla pratica di padre François così come alle tante persone che attualmente militano in diversi movimenti (macro-)ecumenici, la teologia cristiana dovrà rivolgere la sua attenzione a se stessa e ai fondamenti della fede cristiana, cioè alla possibilità e alle modalità dell'accesso umano alla presunta novità evangelica. Una discussione epistemologica realmente aperta potrà costruire una teologia della rivelazione più capace di includere nei suoi circuiti altre possibili risorse di autocomunicazione divina nella storia, altre interfacce della rivelazione.
Domandiamoci infine: esperienze come quelle del padre L’Espinay sono ancora propriamente cristiane, o si collocano in un'altra tradizione spirituale, che non è più cristiana né propriamente del Candomblé? Sarebbe un caso di "sincretismo di ritorno" (come suggerisce Pierre Sanchis), di inculturazione (come preferiscono molti) o di inreligionazione (vedi Torres Queiruga)? È una strategia rischiosa, conveniamo, per rifondare la plantatio ecclesiae o un gesto vissuto nella gratuità di chi non si aspetta niente in cambio?
Il sincretismo mostra che nessuna religione ha forze, permesso o mandato per esaurire il Senso della Vita
Il vantaggio di una parola controversa come sincretismo rispetto a inculturazione è che la prima mette immediatamente in evidenza dov'è il problema teologico-dogmatico: la rivelazione di Dio comporta evidenti ambiguità, errori e contraddizioni che devono essere spiegati come componenti essenziali e non come fallimenti circostanziali del processo dell'autocomunicazione divina con l'umanità. Come affermava il card. Lercaro già cinquant'anni fa: "bisogna essere prudenti pure di fronte ad errori flagranti, per rispetto alla propria (maniera umana di accedere alla) Verità" (...).
Allora, come leggere teologicamente ed ecclesiologicamente le esperienze sincretiche? Esempi come quello del padre François, che hanno fecondato tante buone esperienze profetiche e liberatrici nelle nostre comunità sono riusciti ad aprire le porte ad un cambiamento nell'autocomprensione cristiana? Una nuova categoria potrebbe essere utile per capire quello che sta succedendo a noi e a quanti ci stanno intorno. Mi azzardo ad introdurla nel dibattito: la fede sincretica. Penso che anche la teologia (fondamentale e dogmatica) più nuova non potrà non riconoscere, con l'ausilio delle scienze religiose, la condizione e i condizionamenti radicalmente umani dell'accesso a qualsiasi fede, religiosa o meno. (...) Di conseguenza, si può parlare di fede sincretica per identificate il modo stesso in cui una fede "si concretizza". Di fatto, non esiste una fede allo stato puro, essa si manifesta nella prassi.
(...) Potremmo perfino domandarci: dove si situa la cattolicità di queste esperienze/testimonianze di sincretismo conosciute, tanto nostre? Questo mi fa venire in mente la nota frase biblica: “Nella casa di mio padre ci sono molte dimore". Ispirandoci ad essa, il segno della cattolicità si amplia fino ad abbracciare una pluralità di esperienze che hanno in comune l'incontro con Gesù di Nazareth. Forse non tutte hanno generato o generano la sequela strictu sensu, ma nel cammino (di Emmaus?) hanno incrociato Gesù. La cattolicità non è proprietà esclusiva della istituzione Chiesa cattolica.
(...) Le esperienze sincretiche, malgrado le inevitabili ambiguità che accompagnano qualsiasi biografia o processo storico, sono anche variazioni di una esperienza d'amore (o, se vogliamo, eventi di grazia o di gratuità, o piuttosto di spiritualità). E dove c'è amore non c'è peccato. Perché il popolo do santo (del Candomblé) non si stacca dalla Chiesa e non si oppone ai suoi rituali? Forse perché, come afferma fra B. Kloppenburg, "sono quelli che più amano la Chiesa in America Latina, sebbene siano quelli che più si servono di essa”.
Mi compiaccio di ripetere che la storia della rivelazione divina è una storia di amore fra Dio e l'umanità, la quale ha per talamo la storia. Perché fa parte della rivelazione anche il modo in cui i popoli sono arrivati ai dogmi, cioè fra avanzamenti e retrocessioni, errori e successi, gesti amorosi e peccaminosi. Solo così possiamo capire come il complesso delle "rivelazioni" autoescludenti raccolte e mantenute le une accanto alle altre dai redattori biblici costituisca oggi, per una gran parte dell'umanità, la "Parola di Dio". Insomma, altre variabili possibili, a partire da una stessa intuizione originaria, si verificano in quello che per convenzione abbiamo chiamato Tradizione cristiana. È il caso della fede abramitica alla quale attualmente fanno riferimento tanto gli ebrei quanto i cristiani e i musulmani. E, se è così, il sincretismo può essere solo la storia della rivelazione in atto, visto che costituisce il cammino reale della pedagogia divina in mezzo alle invenzioni religiose popolari.
L'insistenza/audacia sincretica non desidera abbandonare nessuno dei due amori (cattolicesimo e candomblé; reincarnazione e messa domenicale; culto degli antenati e lotta evangelica contro le ingiustizie; viaggio astrale e via crucis). Li vuole tutti e due; è contraria alla monogamia. Se le chiediamo spiegazioni, offre quello che il poeta Drummond aveva denominato "le irragionevolezze dell'amore". Risposta talvolta disperante per la vecchia scolastica (giacché, come assicurava Vasconcelos, quando la gente racconta, sconcerta”), ma vitale per la mistica di ieri, di oggi e di sempre. Tutto questo è affascinante per chi sta vivendo tale esperienza, ma non per questo meno tremendo, dal momento che è un sapere che si assapora e che, a partire da qui, genera un nuovo potere oriundo di secolari contropoteri (gay, afrodiscendenti, donne, giovani).
Tuttavia, non c'è fretta di battezzare le varie esperienze religiose che andiamo tacendo: queste sono già valide di per sé e occupano il loro posto nel sorprendente mandala di risposte all'autocomunicazione di Colui/Colei che ci ha amato per primo/a. Per chi ha nel sangue le impronte della tradizione cristiana, qui non c'è niente di spaventoso, dato che il modo e il luogo dell'adorazione di Dio non sono importanti, se lo facciamo, come Gesù, in Spirito e Verità. Forse, alla fine, l'equilibrio più difficile, in questi tempi plurali, è quello di una sottile distinzione che dovremmo tenere a mente al momento di parlare di cattolicità: guardarci dal rullo compressore del "c'è posto per tutto", eclettico ritornello post moderno, e rivolgere il cuore al "c'è posto per tutti". Questo, sì, utopicamente evangelico ed evangelicamente plurale.
(Adista, n. 86, 02.12.2006, pp. 10-14)