A seconda delle risposte si aprono davanti a noi due possibilità di riflessione. Se siamo inclini a ritenere che ad un dato momento della nostra storia è la sostanza stessa della Chiesa che è andata deteriorandosi fino a non essere più riconoscibile, allora difficilmente si potranno evitare le vie del sincretismo e dell'irenismo. Se, invece, riteniamo che abbiamo ricevuto in modo diverso, in un contesto culturale diverso, in una tradizione ecclesiastica diversa, la stessa nozione di Chiesa allora diventerà compito nostro riscoprire la volontà del Signore per la nostra epoca. La seconda scelta è la sola che ci interessa in questo lavoro e ci sembra giusto e doveroso giustificarla come un atto di fede che rischiamo dinnanzi a Dio al momento in cui desideriamo soffermarci per intelligere. Credo ut intelligam.
ALCUNI ASPETTI DEL PROBLEMA
Riprendiamo ora l'argomento del sorgere iniziale delle divergenze sulla nozione di Chiesa.
La prima Riforma, quella dei Valdesi e degli Hussiti, ha ritenuto di poter individuare questo punto nella così detta rivoluzione costantiniana. L'identificazione del potere civile con la causa della fede cristiana ha decisamente cambiato il volto delle comunità e della loro funzione profetica. L'istituzione ha avuto il sopravvento sul carisma.
La seconda Riforma, quella del XVI secolo, non ha colto l'importanza della posizione assunta dalla prima Riforma e, nonostante le proteste degli Hussiti presso Bucero, si è continuato a riconoscere allo stato e ai principi lo Jus reformandi. La seconda Riforma ha fissato, invece, il momento della divergenza fondamentale al IV secolo col cessare del consenso sulle formulazioni dei concili (1).
Oggi si trovano altre risposte che dovranno essere attentamente vagliate. Si è parlato, per esempio, della formula di Ireneo: " Ubi enim ecclesia, ibi et Spiritus Dei; et ubi Spiritus Dei, illic ecclesia et omnis gratia " (2). La seconda parte è accettabilissima dal protestantesimo e costituisce quasi una bandiera di riconoscimento per la Riforma del XVI secolo. La prima parte, invece, rappresenterebbe, per un certo settore del protestantesimo italiano, un punto di dissenso in materia ecclesiologica: l'oggettivazione dello Spirito Santo nella Chiesa. In questa prospettiva l'oggettivazione trova sul suo prolungamento una sostituzione della Chiesa allo Spirito.
Un'altra dimensione del problema mette in rilievo la necessità di distinguere tra Tradizione apostolica e tradizione sub-apostolica. Alla prima va riconosciuta la funzione di norma normans e alla seconda quella di norma normata. La mancata chiarezza di distinzione tra le due tradizioni, anzi la tendenza ad identificarle ha dato origine a modi diversi d'intendere la Chiesa.
Si propone, infine, all'attenzione degli studiosi, l'esame del duplice mandato del Signore per il tempo successivo alla sua ascensione: quello rivolto agli apostoli e quello che riguarda l'invio dello Spirito Santo. Indagare sul rapporto di questo duplice aspetto della volontà del Cristo, costituisce certamente uno dei compiti più interessanti, per la nostra generazione, in tema di ecclesiologia.
Forse prima di procedere è bene fare ancora altre due precisazioni di carattere generale. Il protestantesimo non rifiuta alla Chiesa la qualifica di mediatrice. Certo s'intende questa qualifica in modo diverso da quello cattolico, ma un discorso valido su questa diversità potrà essere veramente chiarificatore una volta riesaminati i temi fondamentali dell'ecclesiologia a cui abbiamo fatto cenno (3).
Bisogna, in secondo luogo, tener presente che, in genere per il protestantesimo, l'ecclesiologia non fa parte delle discipline teologiche sistematiche, ma piuttosto di quelle pratiche. Lutero diceva, infatti, in una formula nella quale tutto il protestantesimo si riconosce: "Tota vita et substantia ecclesiae est in verbo Dei " (4).
NOTE
(1) AMEDEO MOLNÀR: "Elementi ecclesiologici" della prima Riforma", Protestantesimo, Roma, n. 2 1964.
(2) JEAN JACQUES VON ALLMEN: Prophètisme sacramentel, Delachaux et Niestlè, Neuchatel, 1964, p. 18.
(3) JOSEPH L. HROMÀDKA: Theology between Yesterday and Tomorrow, The Westminster Press, Filadelfia, 1957, p. 37. EMIL BRUNNER: Die Cristliche Lehre von Gott, Dogmatik I, p. 22.
(4) T. F. TORRANCE: Kingdom and Church, Oliver and Boyd, Edimburgo, 1956 p. 55.
L'ECCLESIOLOGIA VALDESE PRIMA DELLA RIFORMA
Si è stati tentati di dire che la prima Riforma non aveva un carattere teologico, ma questo giudizio risente eccessivamente di preoccupazioni intellettualistiche. Quando si cerca di capire l'incontro di Dio in Cristo si fa sempre della teologia. Abbiamo già notato che una delle caratteristiche della prima riforma era la protesta contro la Chiesa costantiniana. Infatti Valdesi ed Hussiti si qualificarono "fideles in Romana ecclesia donationem Costantini spernentes", i fedeli che nella Chiesa romana disprezzano la donazione di Costantino (5). Strettamente collegata a tale presa di posizione, la "radice" della protesta valdese: "Libere praedicare secundum gratiam nobis a Deo collatam" (6).
Naturalmente la libertà del predicare comportava la libertà dell'ascolto. Non sarebbe stata concepita una presenza assicurata mediante la costrizione del braccio secolare. Essere liberi predicatori dell'Evangelo, in quei tempi decisamente improntati alla rivoluzione costantiniana, significava essere pronti ad accettare la sofferenza, a pagare di persona e, se era necessario, con la propria vita. Dal Sermone sul monte veniva loro la forza della loro predicazione e della loro consolazione, per cui la sofferenza assumeva la caratteristica di una nota ecclesiae. Dal Sermone sul monte rilevavano ancora tutta la contradditorietà di una Chiesa costituita che non esitava a ricorrere alla costrizione il più delle volte violenta e brutale. "Veritas odium parit" dicevano i valdesi facendo proprio un detto di Tacito (7).
La dottrina della giustificazione per fede non occupa un posto molto evidente nelle affermazioni della prima Riforma, anzi non è difficile accusarla di un certo semipelagianesimo.
Il principio scritturale occupa, invece, un posto di primaria importanza anche se viene interpretato seguendo inclinazioni biblicistiche. La loro critica evangelica era a volte superficiale. Respingevano l'insegnamento abituale sul purgatorio sui santi e su Maria.
L'accento sul sola gratia era messo in luce dalla loro professione di povertà.
Tra i sacramenti conservavano la penitenza. La Santa Cena veniva celebrata con pane, vino e pesci a ricordo di alcuni episodi narratici dagli Evangeli.
"Secondo il Miegge, i caratteri tipici della prima Riforma sono:
1) " l'ispirazione evangelica nel senso dei Sinottici, soprattutto del Sermone sul Monte ",
2) una tendenza rigorista più o meno ascetica,
3) "uno stato d'animo donatistico", che non riconosce la validità di sacerdoti indegni,
4) ispirazione, profezia, entusiasmo, visuali apocalittiche, attesa millenaristica e in quest'attesa, aspirazioni al rinnovamento sociale.
Il Miegge afferma che " non vi è nessuna ragione che la nostra fedeltà alla Chiesa valdese post-Chanforan (8) ci faccia dimenticare il movimento valdese pre-Chanforan. Vi sono forse nella Riforma medievale dei motivi capaci di una risonanza più viva, nel momento storico in cui viviamo, del tema, per quanto necessario e altissimo, della giustificazione per fede; vi è un dinamismo soprattutto che dovrebbe essere ritrovato; e vi sono anche le condizioni ambientali favorevoli, come è dimostrato dall'intensa fermentazione di movimenti spontanei di natura schiettamente popolare, ai margini delle chiese evangeliche costituite. Rappresentare nei loro confronti la solidità teologica, la continuità ecclesiastica, come facciamo, polarizzare la loro eventuale cristallizzazione verso organizzazioni stabili, è anche certo una missione di moderati, di adulti, di beati possidentes: è possibile che l'eredità dei discendenti di Valdo e dei Barbi si riduca a questo?" (9).
NOTE
(5) A. MOLNÀR: art. Cit., p. 72.
(8) Località dove si riunì il Sinodo che decise l'adesione dei valdesi alla Riforma.
(9) V. VINAY: "La prima e la seconda Riforma nel passato e nel presente della Chiesa Valdese", Protestantesimo, 3-4 1967, p. 139
DALLA RIFORMA PROTESTANTE AI GIORNI NOSTRI
In seguito alla Riforma del XVI secolo il movimento valdese si affiancò alle Chiese d'oltr’Alpe e rimane pertanto difficile rintracciarne delle caratteristiche particolari.
Il periodo delle persecuzioni riportò tuttavia alla ribalta l'antico mito dell'origine apostolica delle comunità che avrebbero custodito una disciplina ed una dottrina costantemente pure "senza interruzione e senza necessità di Riforma" (10).
Nel XIX secolo si tenta di riprendere il discorso ecclesiologico. Non si può, tuttavia, parlare di una creazione originaria di questo periodo; vi è piuttosto un connubio di elementi eterogenei: presbiterianesimo, congregazionalismo ed episcopalismo. In linea generale, prima del 1839, si dava al termine Chiesa due diverse interpretazioni: una indicante la congregazione locale e l'altra la Chiesa universale. Tra le varie comunità sparse v'è una comunione di fede, non d'istituzione (11).
Dopo il 1839 comincia, invece, ad affermarsi sempre più il principio istituzionale. Si registra una scarsa chiarezza ecclesiologica nel senso che non si intuisce con esattezza quali siano le fonti dell'autorità nella Chiesa: Sinodo o comunità locale. Le strutture organizzative funzionano "secondo principi dirigisti" che incontrano l'opposizione del crescente evangelismo italiano e che ostacolano una serena collaborazione all'interno del protestantesimo. Tra le varie tendenze in via di sviluppo ritroviamo quella indicata da una dichiarazione sinodale del 1855. Ad essa si richiamarono spesso gli spiriti più aperti e più sensibili alla particolare situazione italiana come Paolo Geymonat e Giorgio Appia. Il Sinodo dichiarò all'unanimità: "L'unico scopo della Chiesa valdese nel far annunciare l'evangelo fuori del proprio seno è di obbedire all'ordine del Signore "predicate l'evangelo ad ogni creatura" e di condurre le anime alla conoscenza e all'obbedienza di Gesù Cristo. Per conseguenza essa non ha alcuna pretesa d'imporre loro la sua propria forma ecclesiastica" (12).
Questa dichiarazione è stata più volte oggetto di riflessione teologica anche nel XX secolo. Lo stesso V. Vinay scrive: "L'annuncio dell'Evangelo crea le comunità e queste in obbedienza alla Parola udita e ricevuta stabiliscono la loro disciplina interna " (13). Le comunità evangeliche, sorte dalla predicazione, hanno avvertito inadatto un sistema ecclesiologico prefabbricato. Così ancora sul piano interdenominazionale, al momento del formarsi delle prime solidarietà e dei primi tentativi di collaborazione, v'era tutto da guadagnare nell'umile riconoscimento che l'unica Chiesa di Cristo si manifesta nella congregazione. E', quindi, più esatto parlare di comunità valdesi anziché di una sola Chiesa Valdese.
Una piena coscienza ecumenica al XX secolo dovrebbe mettere in risalto quello che V. Vinay chiama il carisma valdese: "un presbiterianesimo orientato verso il congregazionalismo" (14). Non è quindi a caso che oggi ricorre frequentemente, in seno alla Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane, il concetto di comunità locale come elemento ecclesiologico primario.
NOTE
(11) V. VIANY: "Ecclesiologia valdese ed evangelizzazione", Protestantesimo, n. 1 1958, p. 46.
(12) citato da UGO JANNY: Il Rinnovamento Cattolico dell'Italia e la Missione del Valdismo, Unitipografia Pinerolese, Pinerolo, 1932, p. 72.
(13) V. VINAY: "Ecclesiologia... ", art. cit., p. 41.
IL SACERDOZIO UNIVERSALE DEI CREDENTI
La rivalutazione odierna di questa nozione fondamentale della Riforma del XVI secolo ha ridato vita alle meditazioni sul tema ecclesiologico. Qual'è il rapporto che si costituisce tra i credenti, rivestiti di questo sacerdozio e dell'autorità ad esso relativa? Prima di poter rispondere a quest'interrogativo bisogna considerare due pericoli che si affacciano continuamente all'orizzonte: l'anarchia e il clericalismo.
Troviamo il primo particolarmente presente nel mondo settario che tende a suddividersi sempre più. L'esigenza della fedeltà alla Parola di Dio costringe la setta a rinunciare alla unità della Chiesa che si pone pertanto su un piano di secondaria importanza.
D'altra parte registriamo, soprattutto nei paesi latini come il nostro, un fenomeno d'incameramento dell'autorità del singolo a favore di chi lo rappresenta prima sul piano locale, poi su quello nazionale ed infine su quello internazionale. Una buona ecclesiologia protestante non può confondersi con queste soluzioni, cerca invece di tenersi ad eguale distanza tra l'anarchia e il clericalismo.
V'è quindi oggi tutto un lavoro da fare per ovviare al fatto che nel protestantesimo, sotto il pretesto della fiducia, si rinunci spesso alla propria autorità a favore di persone ritenute più qualificate teologicamente. Bisogna, in altre parole, combattere un certo fenomeno di assenteismo, che ci rende comodi e persino gradevoli, coloro che ci trasmettono le idee e ci istruiscono sul da farsi. Non è lecito nella prospettiva evangelica depauperare il battezzato della sua autorità per capitalizzarla in mani altrui. I concetti di collegialità e di sovrintetndenza, per esempio, si caricano spesso di un'autorità capitalizzata. Per evitare questo pericolo è necessario che ogni mandato, proveniente dal singolo credente ed espresso attraverso il voto, comporti una resa dei conti altrimenti esso si trasforma in un'abdicazione in favore di coloro che hanno messo le mani alle leve del potere.
Il protestantesimo ha saputo dare un esempio classico del suo modo di intendere l'autorità con la formulazione delle confessioni di fede. Esse sono l'espressione della disciplina ecclesiastica sul piano della riflessione teologica. In esse l'autorità dell'individuo è pienamente rispettata ed acquista la sua giusta componente comunitaria.
TEOLOGIA DELL'AGAPE
In altri settori della Chiesa Valdese si è andata sviluppando nell'ultimo dopo-guerra un'ampia ricerca sul piano comunitario. Essa fa capo all'opera svolta dal past. Tullio Vinay.
Il mondo conosce inesorabilmente una sola legge: "Mors tua vita mea". Il cristiano oggi, incarnando la predicazione del Cristo deve poter rovesciare questi termini: "Mors mea vita tua". Questo è il solo discorso serio sulla rivoluzione che si possa fare nel nostro tempo. Bisogna indicare agli uomini il nuovo mondo di Dio, il Regno di Dio, vivendo nella nostra città come coloro che servono. E' la via indicata dal Sermone sul monte, la "via di Cristo", la "via dell'agape". Nella Riforma del XVI secolo la koinonia e la diakonia si trovano a lato della giustificazione per fede. Oggi bisogna dar loro un posto centrale. L'istinto di conservazione è, nel nostro tempo, la più grande negazione della Chiesa, perciò il Sermone sul Monte diventa un vero discorso politico ed economico. E' necessario inaugurare una economia del dono. Da qui l'attualità di queste riflessioni. Nell'antica linea dell'ecclesiologia valdese si inserisce la critica alle garanzie richieste dalla società odierna, alla istituzionalizzazione ecclesiastica, alla critica costantiniana (15).
Il past. Tullio Vinay ha visto crescere e svilupparsi questi pensieri nell'organizzazione del "Servizio Cristiano " di Riesi. Bisogna rinunciare alla vita privata per mettere in comune tutte le proprie risorse a favore dei bisognosi. Diecine e diecine di persone hanno così trovato quel pane quotidiano che la vita negava loro. Tullio Vinay ha ben ragione di ricordare alle nostre comunità evangeliche che la loro scomparsa non turberebbe affatto la vita delle città nelle quali esse vivono. E' una grave, ma seria accusa al nostro esistere come Chiesa, un ricordarci, senza mezzi termini, che il sale diventa insipido e non è più buono a nulla. Certamente a Riesi non è così: la scomparsa del Servizio Cristiano sarebbe una grande perdita per la città.
La koinonia e la diakonia sono qui ben collegate. Infatti la comunione dei beni mette in evidenza l'inconsistenza di molti nostri discorsi sulla comunione fraterna che per la loro vaghezza si trasformano in menzogna davanti a Dio.
La koinonia non è tuttavia fine a se stessa, non è la costituzione di un'isola sperimentale, essa vuole innanzi tutto essere una diakonia, un servizio. Questa prospettiva che ingloba l'altro, colui per il quale Cristo è morto, qualifica la koinonia come predicazione, come rinvio al Sermone sul Monte.
Il discorso non può fermarsi a questo punto. Lo vediamo progredire, ampliarsi e radicarsi nel messaggio cristiano. "Nella Europa del dopo guerra, un certo numero di non credenti arrivarono ad accettare la croce, ma non la risurrezione. Ma se Cristo non è risuscitato, nessuno ci può dire che il mondo del dono sia il mondo vero". La risurrezione porta un fatto nuovo. E' l'essenza del messaggio. Non aggiunge nulla ad esso ma dice che il mondo dell'Agape è il solo mondo vero. Senza risurrezione i fatti direbbero vero il mondo di Pilato; rimarrebbe tutt'al più qualche dubbio... La risurrezione di Cristo dichiara falso e provvisorio il mondo di Pilato, conferma il nuovo mondo di Cristo nel quale l'unica legge è quella dell'amore: la mia morte è la tua vita... Se l'Agape è il solo mondo vero, è la Verità Ultima. Non è solo verità teologica, ma anche politica, economica e sociologica. Entra in tutti i settori della vita umana. Allora ogni dottrina, ogni sistema, tutto dev'essere confrontato a questa Verità Ultima e tutto ciò che non regge al confronto con essa, con la croce, è solo provvisorio e corre verso il suo crollo. L'economia del profitto non può reggere, i suoi fondamenti sono falsi; la lotta di classe non ha niente a che fare con i rapporti umani che Cristo stabilisce. La via del rinnovamento del mondo, la rivoluzione sociale ha il suo metro nell'agape rivelata ed incarnata da Cristo sulla croce. E' la sola grande rivoluzione anche se non la si accetta perché si crede di avere una politica migliore" (16).
NOTE
(15) V. VINAY: "La prima e la seconda Riforma...", art. cit., pp. 142
(16) TULLIO VINAY: "Annunzio del Regno e rivoluzione sociale" Notiziario MIR, Movimento Internazionale della Riconciliazione, Roma, n. 4 1967, pp. 10 ss.
CONCLUSIONE
Abbiamo notato all'inizio che la nozione di Chiesa, nel pensiero valdese, non rientra nella sistematica, ma nella teologia pratica. Ciò non vuol dire che il discorso non sia teologico. Si è ritenuto, tradizionalmente, che i primi valdesi non avessero delle preoccupazioni di riflessione da qualificarsi con l'aggettivo austero di teologiche. Ma questa è una visuale assai ristretta della realtà. A. Molnàr l'ha messo in evidenza.
Quello che mi sembra debba essere messo in risalto è la capacità di dare alla predicazione un'espressione corrispondente alle esigenze dell'epoca, di dare cioè alla Chiesa una forma visibile non aliena dalla situazione storica. I valdesi accettano di vivere poveri di diritti e di beni nel Medioevo. La loro protesta va al di là di quella dei movimenti pauperistici del loro tempo. I valdesi sono riformati con i riformati del XVI secolo; costruiscono Chiese, formulano delle confessioni di fede, non certo per conformismo, ma come disponibili per una sempre nuova obbedienza alla Parola di Dio.
Nel mondo italiano del Risorgimento, a contatto con altre confessioni evangeliche, i valdesi si sottopongono ad un'altra verifica della loro ecclesiologia. Ne abbiamo rilevato il travaglio ed il contrasto.
Nell'attuale dopo-guerra si è rimessa in moto la riflessione su temi fondamentali della Riforma e della prima Riforma. Ricorre spesso il termine rivoluzione, sia per riportare l'autorità alla base, al sacerdozio universale dei credenti e alla comunità locale, sia per proclamare una teologia del dono e dell'agape alla luce della risurrezione.
Si è parlato di "carisma valdese", si è tentato di individuarlo per riscoprire il senso della propria vocazione. Forse, nonostante tutte le resistenze e le contraddizioni, comprensibili sul piano della storia, si potrebbe ancora aggiungere che nella sua peculiare ecclesiologia, la Chiesa valdese ha voluto soprattutto essere disponibile davanti alla Parola di Dio nei vari momenti della sua storia. Ci troviamo, insomma, di fronte ad un popolo "semper paratus doceri".
La nostra èra ecumenica costituisce pertanto un'altra occasione per verificare questo carisma tradizionale.