Ecumene

Sabato, 07 Agosto 2004 01:26

Il dialogo. Una lezione dal Movimento Ecumenico

Vota questo articolo
(0 Voti)

Intervento di Renzo Bertalot

L’incontro delle chiese nel dialogo ha marcato fortemente il nostro secolo e possiamo parlarne come di un momento caratterizzante, se non addirittura di un dono particolare del Signore al nostro cristianesimo attuale.

Là dove dalle chiese il dialogo è trapelato nelle società in cui si trovavano a vivere la loro fede cristiana si è imparato lentamente a trasformare le trincee in tavoli da lavoro, di discussione, di convergenza e anche di consenso. Abbiamo visto declinare la segregazione razziale negli Stati Uniti e nel Sud Africa. La stessa Irlanda nel suo travaglio secolare, ora sembra avere imboccato la via che pone al suo orizzonte una riconciliazione. Il dialogo ha lentamente trasformato le contrapposizioni politiche. È altrettanto vero che là dove questa fermentazione di idee non ha avuto luogo le trincee hanno ripreso il loro sopravvento e guerre fratricide hanno continuato ad insanguinare il mondo.
Il contrario del fascismo non è l’antifascismo. Anche Stalin era antifascista, ma non era certamente l’uomo del dialogo. Il contrario del fascismo è il dialogo e il dialogo esige la fine degli integralismi politici e religiosi. Troppa gente non ha ancora perso il vizio di andare in giro con un metro in tasca e misurando gli altri li trova sempre mancanti.
Fatte queste premesse passiamo ad analizzare alcune componenti della metodologia ecumenica del dialogo.

1. La rivoluzione copernicana

É una precisazione che ha ormai ampiamente circolato in Italia. L’indicazione di Papa Giovanni XXIII, che è necessario distinguere tra la verità e la formulazione della verità, sembra ormai armonizzarsi con il consenso unanime di quanti lavorano nell’area ecumenica. Il nostro modo di concepire e di esprimere la fede cristiana non va confuso con la Verità stessa. La Verità è Gesù Cristo; le nostre formulazioni si muovono nel tempo e nello spazio e sono soggette agli eventi storici, al mutare delle filosofie e ai condizionamenti locali. Il “par cum pari” proposto dal Concilio Vaticano II permette di mettere a confronto serio e fraterno le nostre formulazioni della verità senza perdere mai di vista l’orizzonte della verità.
Questa nuova prospettiva ci permette di uscire da un cristianesimo dalle forme tolemaiche che ci poneva al centro della costellazione della fede cristiana relegando tutte le altre manifestazioni alla nostra periferia. In questi casi la fede della minoranza assumeva le tinte dell’eresia; la polemica rintuzzava punto per punto tutte le contrapposizioni del malessere delle nostre divisioni. Si parlava di “ritorno” ora alla Bibbia, ora ai primi concili, ora alla sede di Roma. Il passaggio ad un modo copernicano di confrontarci e di dialogare poneva invece il Cristo al centro come la Verità, come il sole dal quale noi tutti riceviamo luce, calore e orbita. Dalla polemica si passava alla ricerca, al dialogo, alle convergenze, ai valori complementari e ai possibili consensi.
Non si è trattato di una ricerca al buio, dalle mete incerte e avventurose fatte di curiosità, di tendenze sincretistiche o ireniche, ma piuttosto di una ricerca ben orientata verso la confessione dalla fede comune nel comune Dio e salvatore Gesù Cristo. Cadeva l’integrismo e si apriva l’orizzonte verso l’integrazione. Cadevano le tendenze oblative (rinuncia a se stessi) e captative (assorbimento del diverso) per rendere disponibile la nostra specifica identità come metodo e come dialogo secondo il principio del “par cum pari”.
Sin dai tempi del Concilio vaticano II entrava in gioco il problema della “gerarchia della verità” e del loro “nesso” con il nucleo centrale della fede cristiana. Con l’andare del tempo si poteva anche riscontrare divergenza nell’ordine della “gerarchia da stabilire, ma è comunque un fatto che nei dialoghi cattolici-luterani si è riscontrato un consenso di massima che permette al dialogo di procedere speditamente e mette in atto il “par cum pari” prestabilito.

2. L’unità nella diversità

Partendo dalla confessione di un solo Dio Trino che ci incontra con Padre, figlio, Spirito Santo, partendo da un solo Spirito che dispensa doni diversi, partendo da un solo corpo composto di membra diverse si poneva definitivamente un termine alla tentazione dell’uniformità. Non diventeremo tutti valdesi o tutti copti. Attendiamo nel contesto ecumenico una nuova pentecoste in cui lo stesso messaggio sarà compreso in lingue diverse. In altre parole l’ecumenismo attende una vittoria di Dio sul malessere delle nostre divisioni. E le vittorie di Dio hanno sempre il carattere di una sorpresa che sfugge anche alle nostre previsioni più serie. L’uniformità è addirittura stata descritta come un peccato contro lo Spirito Santo.
La nuova prospettiva comporta alcune precisazioni. Non si tratta di qualsiasi diversità, ma di diversità in quanto testimonianze a Gesù Cristo nostro dio e salvatore. L’orientamento ci impegna ad andare a scuola gli uni dagli altri, ma esige anche un passo ulteriore. Le diversità devono essere riconciliate, non possono, infatti, presentarsi come linee parallele che non si incontrano mai; si perderebbe di vista il fine del dialogo e della metodologia ecumenica. Di diversità se ne possono incontrare di vario tipo. Ve ne sono di facilmente componibili (come il battesimo), ve ne sono di diverso grado di tollerabilità (come la “presenza reale” nell’eucarestia), ma anche altre che si presentano alternative e quindi non facilmente risolvibili (come la questione del primato petrino recentemente sollevata con forza dall’enciclica Ut unum sint).
In vista della riconciliazione si muoveranno le prossime assemblee ecumeniche a cominciare da quella di Graz (Austria) che avrà luogo nel 1997 e che si pone sul prolungamento dell’assemblea di Basilea del 1989. un passo importante sembra profilarsi in attesa della prossima assemblea del Concilio Ecumenico delle Chiese che si riunirà nel 1998 in occasione del cinquantenario dalla sua fondazione.
Intanto la via intrapresa per mantenere fecondo il dialogo sembra concentrarsi sulla nozione “koinonia”, comunione. Già nel 1920 il Patriarca di Costantinopoli auspicava una comunione di Chiese “nonostante” la diversità. A livello mondiale il concetto registra ancora aspetti difficili da superare in quanto comporta l’esame di temi tutt’ora in discussione come il primato petrino. Ma questo non vuol dire che la comunione non possa crescere a livello locale per estendersi in maniera sempre più ampia liberando le chiese da pregiudizi anacronistici e facilitando la rilettura della comune storia del secondo millennio che è, per eccellenza, quello della divisione.
L’unità nella diversità permette di guardare in un modo nuovo anche il rapporto con gli ebrei e con le altra fedi viventi.
È stato detto che lo stesso Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe si rivolge al popolo di Israele e alle chiese in maniera diversa e impegna l’uno e le altre a servirlo in maniera diversa.
In questo stesso senso il metodo del dialogo sembra già espandersi oltre i confini tradizionali verso le fedi viventi. Certo non è possibile riferirci tutti agli stessi valori ultimi e ad una stessa confessione di fede (tuttora incompatibili gli uni con le altre), ma è possibile guardare insieme al piano orizzontale (in inferioribus e coram mundo) e parlare di impegni concreti come la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato...E’ possibile addirittura richiamarsi ad un principio comune: “Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te”.
In tutti i casi la metodologia ecumenica esige che l’altro presenti se stesso con le sue parole e con la sua testimonianza. Deve inoltre riconoscersi nella presentazione che, a volte, noi facciamo della sua posizione altrimenti il mancato riconoscimento sfocia inevitabilmente in una perdita di tempo per tutti e pone fine al dialogo intrapreso.

3. L’unità e il rinnovamento

Chi all’inizio del secolo guardava alla composizione del cristianesimo poteva facilmente intravedere due orientamenti diversi. Il protestante guardava alla Chiesa Cattolica e vi leggeva una strenua difesa dell’unità tanto da lasciare il sospetto che qualsiasi tentativo di rinnovamento interno si prestasse a possibili scismi.
Nel versante opposto si poteva facilmente registrare il fenomeno contrario. L’insistenza sul continuo rinnovamento portava al moltiplicarsi delle divisioni. Si pagava volentieri e generosamente il presso dell’unità pur di non mancare all’appuntamento con nuove esigenze di riflessione teologica.
Ora la fatica ecumenica del nostro secolo ha cercato di mettere in evidenza che l’unità e il rinnovamento vanno di pari passo. Non si tratta di una alternativa, ma di un abbinamento indispensabile per la crescita della comunità cristiana. È quindi necessario lavorare ecumenicamente ad un livello più profondo, libero da timori e da ulteriori separazioni.
Alla base di queste intuizioni, v’è la riscoperta della Bibbia. L’unità è un dono dello Spirito alla Chiesa (Ef 4,3) e il rinnovamento è per esso pure un dono dello Spirito alla Chiesa (Tito 3,5). Non possiamo contrapporli a renderli alternativi senza danneggiare l’edificazione nello Spirito della comunità cristiana. Bisogna crescere nella vocazione ecumenica per non rendere captativa la nostra testimonianza: è necessario crescere contemporaneamente nella propria identità confessionale per non rendere oblativa la nostra specifica vocazione.
Questi orientamenti della metodologia ecumenica mettono a confronto e in assonanza, dal Concilio Vaticano in poi, l’esigenza protestante della chiesa “semper reformanda” e quella cattolica delle “perennis reformatio”. L’enciclica papale Ut unum sint, con occhio attento al primo millennio della nostra comune storia cristiana, vuole incoraggiarci in questo senso estendendo un invito “paziente” e “fraterno” al dialogo sul tema più aspro del contenzioso tradizionale: il primato petrino.

4. Dalla coesistenza alla proesistenza

Un altro aspetto della metodologia del dialogo ci viene suggerito da un nuovo tipo di rapporto che va instaurandosi tra le chiese. La coesistenza poteva sembrare soddisfacente al tramonto delle guerre di religione e nella fase illuministica delle nostre filosofie. In fondo si passava dalla contrapposizione più o meno violenta ad un nuovo tipo di rapporto più sereno. La possibilità di coesistere sembrava congelare le brutture del passato ed inaugurare un nuovo tipo di relazione. Ma la fatica ecumenica del nostro tempo ci impegna ora ad un ulteriore passo avanti: dalla coesistenza alla proesistenza. II passaggio è confortato dal rinvio e dal richiamo dell'apostolo Paolo alla integrazione: "Dio ha dato a ciascuna parte del corpo il proprio posto secondo la sua volontà. Se tutto l'insieme fosse una parte sola, dove sarebbe il corpo?" (1 Cor 12. 18-19).
Proesistenza vuole dire riscoprire la propria vocazione specifica per metterla al servizio dell'ecumene cristiana. Il pensiero dei pionieri va alla struttura unitaria del cattolicesimo (come centro cristiano del mondo più che come centro del mondo cristiano), alla spiritualità ortodossa e al suo modo di vivere la conciliarità; alla funzione di chiesa ponte esercitata dalla Chiesa Anglicana e infine all'attaccamento protestante alla Sacra Scrittura e ridare nuovo senso al primato della Parola.
Dai tempi della Conferenza di Losanna, organizzata da Fede e Costituzione nel 1927, le chiese avevano suggerito di andare a scuola le une dalle altre senza timore di cedimenti o di assorbimenti.
L'indicazione ridiventa attuale ed urgente con l'enciclica "Ut unum sint" in cui si prospetta la necessità della "proesistenza" e si auspica la cooperazione come "scuola di ecumenismo”. Tra questi orientamenti si ricorda il lavoro fin qui svolto insieme nell'area della Sacra Scrittura e della sua traduzione in lingue moderne.
La proesistenza è importante perché ci aiuta a superare un malessere abbastanza esteso all'interno dei rapporti ecumenici. Si tratta del proselitismo. E' un fenomeno sul quale è tornato più volte il Consiglio Ecumenico delle Chiese e che assume a volte forme molto aspre soprattutto là dove si vive ancora un cristianesimo pre-copernicano con forti marcature integriste e volte assume delle tinte evanescenti, ma non meno risentite come ferite intollerabili sul piano ecumenico: si tratta dei matrimoni misti e interreligiosi. Una maggiore consapevolezza della proesistenza promuove uno smussamento del fenomeno proselitistico che, in modo diverso nel tempo e nello spazio, travaglia ancora tutte le confessioni cristiane.

5. Gli elementi non teologici


La storia ci ricorda che elementi non teologici sono stati più volte all'origine della divisione. Sarà quindi compito della metodologia del dialogo individuare questi elementi ed isolarli. La levata delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli ne sono un esempio recente. Ma non possiamo non citare le categorie classiche del nostro pensiero occidentale. Il Terzo Mondo non si ritrova con Aristotele e Platone; sono proposte "retoriche". Sono, invece, abituati a riflettere secondo altri principi che a noi sembrano "zoppi", ma dopo duemila anni chiedono ascolto e propongono una concretezza più vicina al vissuto quotidiano.
Non tutti gli elementi non teologici sono causa di divisione. La scienza della traduzione ha permesso negli ultimi trentanni di concentrarci insieme nelle traduzioni bibliche.
Le nuove convergenti sensibilità nei confronti dei diritti umani e dei problemi sociali hanno permesso di riflettere insieme in varie assemblee ecumeniche, di proporre orientamenti comuni a beneficio dei poveri e di dare voce a quelli che non ne hanno.
E' importante riprendere le indicazioni emerse dalla conferenza di Fede e Costituzione tenutasi a Lund nel 1952: occorre fare insieme e non più separatamente tutto quello che può essere fatto insieme. In questa prospettiva si pone pure l'esortazione alla cooperazione ecumenica indicata dall'enciclica Ut Unum Sint.

Conclusioni

Abbiamo tracciato le linee generali di una metodologia del dialogo. Si tratta di una pluralità di convergenze sensibili alla cultura del luogo e soprattutto alla tradizione dalla quale provengono. Dall'insieme si può avere un'idea della fatica intrapresa nel nostro secolo che lentamente ha trasformato le polemiche e le trincee del passato in tavoli di lavoro capaci di suscitare un confronto sereno e di lasciare intravedere future convergenze e consensi.
E' tuttavia necessario andare oltre al dialogo per dargli una motivazione concreta II dialogo non è altro che uno strumento, uno strumento benedetto che può essere visto come un dono di Dio nel nostro secolo, ma rimane uno strumento; potrebbe prolungarsi all'infinito, potrebbe trasformarsi in un dialogo di sordi Se è in grado di risvegliare le coscienze, non può garantire l’unita verso la quale ci siamo incamminati. La sua caratteristica è una provvisorietà dinamica. La motivazione concreta che lo sorregge è la fede che in esso ci impegna, è l'attesa di una nuova pentecoste che nello Spirito ci guarisca dal malessere delle nostre divisioni. È il credo Ut Intelligam (credo per comprendere) di Anselmo e la convinzione che le ragioni di Cristo per l'unità della Chiesa sono più forti delle nostre ragioni per rimanere divisi.

 

  (Testo trascritto da registrazione non rivisto dall'autore)

Letto 2401 volte Ultima modifica il Giovedì, 22 Settembre 2011 16:28
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Altro in questa categoria: Ecclesiologia valdese »

Search