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Giovedì, 24 Febbraio 2005 00:14

Verità della Bibbia (Gaetano Castello)

Verità della Bibbia

di Gaetano Castello



Molte volte il credente, leggendo alcune pagine della Sacra Scrittura, si trova di fronte a problemi di coerenza apparentemente insolubili tanto da determinare in alcuni la scelta di un'adesione piena a ciò che si legge, in altri la scelta di una definitiva «emancipazione» che relega la Bibbia tra i libri di credenze ormai passate e insostenibili.

Verità delle scienze e verità della Bibbia

Le acquisizioni scientifiche moderne, in ogni campo del sapere, rivelano infatti l'incongruenza tra alcuni passi della Bibbia e le posizioni della scienza. Come sostenere che la creazione e il frutto a dell'attività divina descritta nei primi capitoli della Genesi? In Gn 1 si parla della creazione dell'universo e dell'uomo in sei giorni, mentre la scienza parla di intere epoche, di milioni di anni di gestazione per ogni trasformazione, verificatasi nel cosmo, dalla sua origine all'apparizione dell'uomo, recentissima se misurata in termini di milioni di anni. E come si potrà sostenere la creazione dell'uomo come trasformazione di un po' di fango attraverso un soffio divino di fronte alla fondata, benché discussa, teoria dell'evoluzione delle specie?

Domande sulla coerenza della Bibbia con la verità oggettiva dei fatti vanno oltre l'ambito delle scienze naturali coinvolgendo questioni storiche e conoscenze geografiche. Non solo. Alcune domande nascevano anche tra gli antichi lettori della Bibbia che si imbattevano in discordanze interne alla stessa Bibbia, talvolta interne alla stessa narrazione, come è il caso del «diluvio universale» di Gn 6-9.

Eppure la fiducia nella Bibbia come Parola ispirata da Dio stesso quindi «inerrante», come si usava dire fino a prima del Concilio vaticano II, non è mai crollata. In ogni tempo si è cercato di spiegare le incongruenze di cui si è detto proponendo diverse soluzioni. Così gli antichi rabbini sostenevano che le cose sarebbero risultate chiare, alle menti incapaci di comprendere, con il ritorno di Elia che avrebbe spiegato le apparenti discordanze (per es. quelle tra Ezechiele e la Torà). I Padri della Chiesa e gli antichi scrittori cristiani sottolinearono spesso l'aspetto di «mistero» intrinseco alla Parola di Dio, che la rendeva solo apparentemente incongruente. Spesso si indicò la soluzione nella lettura «allegorica» della Bibbia, sottolineando il fatto che le notizie, la descrizione di fatti, avevano in realtà come vero scopo la rivelazione di una realtà superiore, spirituale, di fronte alla quale la coerenza della historia o della littera biblica diventava del tutto secondaria. Benché questo principio della «lettura spirituale» della Bibbia abbia dominato nell'antichità cristiana e nel Medio Evo, l'esigenza di risposte più precise e soddisfacenti ai problemi che nascevano dal confronto tra Sacra Scrittura e scienza divenne sempre più pressante fino a determinare una vera e propria crisi allorché, con l'era moderna, si verificò quel progresso di conoscenza che determinò il superamento dell'antica, unificata concezione dell'uomo e del cosmo.

Il caso più noto, emblematico di questa crisi, è quello di Galileo Galilei con il problema dell'eliocentrismo. L'antica concezione tolemaica veniva minata e con essa la base su cui alcune affermazioni bibliche potevano essere spiegate. Che senso avrebbe avuto a quel punto il comando di Giosuè «fermati o sole» (Gs 10,12-14), se la scienza poteva dimostrare che a girare era la terra e non il sole? Emergeva con drammaticità il problema che avrebbe dominato la coscienza dell'uomo moderno: proseguire nel cammino scientifico con la forza della ragione avrebbe voluto dire abbandonare le antiche concezioni sull'uomo e sul mondo di cui tanti riflessi appaiono anche nella Bibbia? Già sant' Agostino aveva affermato che il Signore «voleva fare dei cristiani, non degli scienziati», una affermazione che sarà ripresa e sviluppata da Galilei nella sua Lettera a Cristina di Lorena del 1615.

Il cammino, come è facile immaginare, non è stato facile. La condanna di Galileo da parte della Chiesa sembrava sancire la rottura tra scienza e fede, tra verità scientifica e verità della Bibbia come qualcosa di inevitabile. La verità, almeno così sembrava ai più, doveva essere ricercata e trovata scegliendo l'una o l'altra via: la fede, con la Bibbia «inerrante», o la scienza moderna, con i suoi tentativi e le sue verità.








Tentativi di soluzione

Non sono mancati tentativi di riconciliazione, come la cosiddetta teoria del «concordismo» che, di fronte alla teoria evoluzionistica di Darwin, propose di leggere il dato biblico sulla base delle conoscenze scientifiche attuali: così, per es., i sei giorni del racconto di creazione (Gn 1) andavano in realtà compresi come sei diverse epoche geologiche...

Ma la via da seguire sarà un'altra e verrà faticosamente indicata da chi, mantenendo la fede nella Bibbia come Parola di Dio, la affronterà senza rinunciare all'intelligenza critica, alle esigenze della ragione. Alla base di questo atteggiamento che si interroga sul significato, la destinazione, gli ambiti relativi alla lettura della Bibbia e alla ricerca scientifica, vi è la coscienza di fondo che la parola di Dio è parola divino/umana. Eppure, nonostante questi presupposti, altre vie imboccate dovevano risultare insufficienti. La proposta che maggiormente ebbe successo alla fine del secolo scorso, e che può apparire a prima vista convincente, è che la Bibbia è «inerrante» in tutte quelle parti che riguardano l'ambito della fede e della morale. Naturalmente una tesi del genere si scontra con il principio antichissimo e sempre ribadito che l'intera Bibbia è ispirata da Dio.







La via giusta


La via giusta per affrontare il problema della «verità» della Bibbia venne imboccata proprio grazie ad una maggiore apertura verso acquisizioni scientifiche in campo letterario che solo con fatica e tra mille perplessità iniziali furono utilizzate per la comprensione della Sacra Scrittura. Studiosi della Bibbia, soprattutto tedeschi, già dal secolo scorso fecero osservare come l'insieme dei libri che costituiscono la Bibbia appartenessero a «generi letterari» diversi, non solo, perciò, al genere «storico». Si può facilmente intuire quali fossero le conseguenze di un simile approccio all'insieme delle Sacre Scritture. È come se il lettore di quest'articolo, leggendo un qualunque libro della sua biblioteca, non avesse altro modo di leggerlo se non come libro di storia, assegnando lo stesso valore ad un romanzo, ad una novella, ad un saggio e così via.

Si pensi, per esempio, al libro biblico di Giona, il riluttante «profeta» chiamato da Dio a predicare la conversione dei peccati agli abitanti di Ninive, città simbolo della perversione dei costumi. Giona rimase per tre giorni, secondo quella narrazione, nel ventre di un pesce (Gio 2,1), per essere poi rigettato all'asciutto (Gio 2,11). Le difficoltà a considerare «storico» un simile fatto sono evidentemente enormi. Così è se non si considera che quel libro, con il suo meraviglioso messaggio di perdono divino per tutti gli uomini, non solo per gli israeliti, appartiene al genere letterario della «novella profetica» di cui si apprezza soprattutto l'aspetto didattico, l'insegnamento sulla misericordia di Dio e sull'universalità della salvezza che attraverso la novella di Giona si intende dare agli israeliti.

Ancora più chiaro per tutti noi è il caso del libro dell' «Apocalisse». Movimenti, sètte, persone di ogni tempo ne hanno frainteso e ridotto il messaggio, interpretando il libro alla lettera, come una sorta di «prima visione» di ciò che materialmente accadrà alla fine del mondo. Non hanno cioè considerato, ne lo fanno tutt'oggi i Testimoni di Geova, che il libro delle «Rivelazioni» appartiene al genere letterario «apocalittico-profetico». Caratteristica fondamentale del genere apocalittico, molto diffuso all'inizio dell'èra cristiana, è quella di utilizzare cifre, immagini, colori, descrizioni simboliche. Il lettore che voglia comprenderne il messaggio è chiamato innanzitutto a decodificare quei simboli, non ad assumerli semplicemente come la descrizione, in anteprima, di ciò che accadrà, che rimane un mistero.

Questa attenzione al genere letterario non toglie nulla alla verità del messaggio comunicato dai testi, anzi, è l'unica via per non confondere i modi di espressione con il messaggio della salvezza. Una via obbligata per distinguere il messaggio di salvezza rivelato all'uomo non solo attraverso la descrizione degli interventi di Dio nella storia (il re Davide, gli eroici Maccabei), ma anche attraverso racconti più antichi (le origini del mondo e dell'uomo di Gn 1-11, la vicenda di Giobbe o quella di Giona recuperati dall'autore sacro come mezzi per comunicare all'umanità il progetto salvifico di Dio.







La verità... per la nostra salvezza


Dalla fine del secolo scorso gli interventi di alcuni Papi sull'argomento servirono a porre degli argini a quei tentativi di soluzione alla questione della «verità della Bibbia» ritenuti insufficienti. Dalla Providentissimus Deus di Leone XIII alla Divino Afflante Spiritu di Pio XII si apriva definitivamente la strada al nuovo modo di accostare la Bibbia, mantenendo la fedeltà al principio dell'Ispirazione divina e dunque della Verità proposta da Dio all'uomo per la sua salvezza, ed aprendo il campo ad una maniera scientificamente «critica» di affrontare la Scrittura. Si giunse, così, all'accoglienza di quanto proprio le scienze letterarie offrivano agli studiosi di Sacra Scrittura per chiarire il problema: «Quindi l'esegeta cattolico, per rispondere agli odierni bisogni degli studi biblici, nell'esporre la Sacra Scrittura e nel mostrarla immune da ogni errore, com' è suo dovere, faccia pure prudente uso di questo mezzo, di ricercare cioè quanto la forma del dire o il genere letterario adottato dall'agiografo possa condurre alla retta e genuina interpretazione; e si persuada che questa parte del suo ufficio non può essere trascurata senza recare gran danno all'esegesi cattolica» (Providentissimus Deus, cf. Enchiridion Biblicum 560).

Respinte le soluzioni teologiche insufficienti, i Padri del Concilio Vaticano Il, al n. 11 della Dei Verbum, hanno presentato l'argomento in questi termini: «poiché dunque tutto ciò, che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Scritture».

Viene indicato così, dal Magistero più alto della Chiesa, che la soluzione non sta nel limitare il principio della verità biblica a una determinata parte della Sacra Scrittura, ma nell'assumere nei suoi confronti la corretta prospettiva; nel considerare, insomma, la vera finalità per la quale essa fu consegnata all'uomo.

Quella del Concilio è una parola che orienta credenti, esegeti, teologi, sgombrando il campo dai tanti equivoci a cui può condurre una maniera semplicistica o teologicamente insufficiente di parlare della «verità della Bibbia».
Sulla base dell'affermazione conciliare, che riprende ciò che è presente in maniera semplice nella fede del credente, giudeo e cristiano, appare più chiaro che la Parola di Dio, senza tentativi di armonizzazioni odi giustificazioni rispetto alle moderne conoscenze scientifiche, permette all'uomo di ogni tempo di cercare risposte alle sue domande ultime, non tanto sullo svolgimento di alcune vicende storiche, ma sul senso della storia, non sul come sia nato l'uomo e la donna ma sul mistero dell'origine, sul significato dell’esistenza e sul destino dell’uomo.


(da Parole di Vita)


Pubblicato in Bibbia

La morale cattolica ha conosciuto una dottrina della guerra giusta, codificata in tutti i manuali di teologia morale e in tutti gli interventi della S. Sede dalla fine del XVI sec. fino al concilio Vaticano II. Con il concilio tale dottrina viene dismessa, al più alto livello magisteriale.

Pubblicato in Tematiche Etiche
Venerdì, 04 Febbraio 2005 01:08

La prova e l'obbedienza (a cura di Mario Maritano)

La prova e l'obbedienza
a cura di Mario Maritano




Ambrogio, discendente di una nobile famiglia romana, nato a Treviri (337/339) diede ottima prova di sé come consularis Liguriae et Aemiliae, cioè come governatore dell'ltalia settentrionale con sede a Milano. Così, pur essendo ancora catecumeno, fu acclamato vescovo di Milano dal popolo, quando egli intervenne per sedare i tumulti alla morte del suo predecessore nel 374. Iniziando il suo ministero episcopale, egli distribuì i suoi beni ai poveri, si dedicò ad una vita ascetica e si applicò agli studi teologici. Svolse un'intensa attività pastorale, sociale, a favore dei più poveri. Si rivelò abile e deciso soprattutto nel difendere la religione cattolica contro i pagani e gli eretici; affermò l'indipendenza della Chiesa di fronte allo Stato. Scrisse molte opere esegetiche, dogmatiche, morali-ascetiche, discorsi, lettere e inni.

Nel suo libro De Abraham, Ambrogio presenta la figura del patriarca come un modello di vita cristiana (ricordo che il vescovo di Milano in quest'opera si rivolge ad adulti che dovranno ricevere il battesimo). Abramo, nel suo peregrinare e nel suo agire in piena fiducia e obbedienza a Dio, diviene il modello del cristiano che progredisce spiritualmente, abbandonando una vita frivola e peccaminosa, e nelle prove e nelle tentazioni si mantiene fedele a Dio.

La prova e l'obbedienza

1,2,4. Abramo è messo alla prova come un uomo forte, è incoraggiato come un uomo fedele, stimolato come un uomo giusto e quindi "partì, secondo la parola del Signore e con lui partì Lot" (Gen 12,4). È ciò che si proclama tra le sentenze dei sette sapienti: "épou Theô", cioè "segui Dio".

Abramo con i fatti anticipò le sentenze dei sapienti, e, seguendo il Signore, uscì dalla sua terra. Ma poiché la sua terra precedentemente era un'altra, cioè la regione dei Caldei, dalla quale uscì Terach, padre di Abramo, che migrò a Carran, e poiché Abramo condusse

via con se suo nipote, mentre gli era stato detto: "Esci dalla tua parentela", (Gen, 12,1) consideriamo se per caso "uscire dalla sua terra" non significhi uscire da questa terra, cioè dalla dimora del nostro corpo, da cui uscì Paolo, che disse: "La nostra patria è nei cieli" (FiI 3,20), e dalle attrattive e dai piaceri del corpo, che - disse - sono come congiunti della nostra anima, la quale necessariamente soffre insieme al corpo, finché rimane ad esso strettamente vincolata. Perciò dobbiamo uscire dal modo di vivere terreno, dai piaceri mondani, dalle abitudini e dalle azioni della vita passata, in modo che cambiamo non solo i luoghi, ma anche noi stessi. Se desideriamo unirci a Cristo, abbandoniamo le cose corruttibili (1,2,4).

1,8,66. Dio mise alla prova Abramo quando gli ordinò di uscire da Carran e lo trovò obbediente. Lo mise alla prova quando Abramo liberò il nipote confidando nella forza della fede, quando non prese nulla del bottino (di guerra), quando Dio promise a lui, ormai vecchio, un figlio - infatti avendo egli cento anni, sebbene considerasse ormai inariditi gli organi di riproduzione di Sara, tuttavia credette e non ebbe esitazioni grazie alla fede, sebbene potesse averne a causa della sterilità e della vecchiaia (della moglie) -, lo mise alla prova sollecitando la sua ospitalità. Dopo averlo così provato, Dio reputò Abramo più forte nel sopportare ordini più impegnativi e più pesanti.

Da questo esempio impariamo che una persona è messa alla prova da difficoltà reali, è tentata invece da difficoltà create appositamente e fittizie. Dio infatti non voleva che il padre immolasse il figlio, ne che facesse questa offerta, dato che procurò una pecora da sacrificare invece del figlio, ma tentava Abramo nel suo affetto di padre (cf Gn 22,1-18), per vedere se anteponesse i comandi di Dio al figlio e diminuisse la forza della sua devozione, in considerazione del suo affetto paterno.

Ambrogio, Abramo 1,2,4 e 1,8,66

Pubblicato in Bibbia
Venerdì, 04 Febbraio 2005 00:49

Immagini di Abramo nel Nuovo Testamento

Immagini di Abramo
 nel Nuovo Testamento



Citato 73 volte nel Nuovo Testamento contro le 80 di Mosè e le 59 di Davide, Abramo è una delle più importanti figure cristiane. Lo era già negli scritti ebraici della stessa epoca. Alcune tradizioni neotestamentarie non fanno che riprendere tratti del personaggio già chiari nel giudaismo antico, trasformandoli solo in parte. Tuttavia un autore come Paolo fa del patriarca una figura originale, poco compatibile con le letture ebraiche: Abramo è per lui il giusto per fede, quindi la persona che crede in Gesù Cristo.

Le tradizioni antiche che soggiacciono al Nuovo Testamento sono difficili da individuare, perché esse sono state rimaneggiate dai redattori. Indipendentemente dall’apporto dei redattori finali e delle loro accentuazioni teologiche, tuttavia possiamo ricostruirne alcune, le cui radici affondano nel giudaismo e senza troppi rischi farle risalire a Gesù. Per un ebreo, come per un cristiano del I secolo, Abramo è l’antenato, il padre del popolo di Israele, e la paternità è inoltre una qualità che egli condivide con Dio. Egli è citato per primo nella linea dei patriarchi, perché Dio si dichiara il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", formula recepita da Mosè nel roveto ardente e spessissimo ripresa in seguito (Es 3,16, citato in Mt 22,32 e paralleli; At 3,13; 7,32). Se ha lasciato il suo paese di origine, è stato per fondare un popolo e radicarlo in una terra (Gn 12,1 citato in At 7,2; Eb 11,8); i figli di Abramo formano in realtà il popolo destinatario delle promesse divine. I due cantici del vangelo dell’infanzia secondo Luca, quello di Maria e quello di Zaccaria, immersi in un’atmosfera anticotestamentaria, ricordano l’impegno che Dio si assunse di fronte ad Abramo con il popolo che doveva nascere da lui (Lc 1,55.73).

Ne consegue che ogni ebreo è figlio di Abramo, e che ogni ebrea ne è la figlia, come la donna curva che Gesù guarisce in giorno di sabato (Lc 13,16). Nelle due genealogie di Gesù, pur diverse l’una dall’altra, Abramo è citato come antenato del bambino (Mt 1,1-17; Lc 3,34). Se Matteo sfrutta l’informazione per insistere sull’appartenenza di Gesù al mondo ebraico, Luca, che la utilizza poco in questa direzione, tuttavia la fornisce;. essa fa parte del dato tradizionale cristiano. Non bisognerebbe tuttavia pensare che la filiazione da Abramo si riduca ad una situazione di fatto. Un ebreo del I secolo sa che essa è anche un divenire, e che non ci si può dichiarare figli di Abramo se non si vive della Torâ. L’alleanza stipulata con i patriarchi produce i suoi effetti soltanto se l’ebreo accetta questi padri come modelli. In vari momenti della sua crescita, l’albero dell’alleanza che ha le sue radici in Abramo ha avuto rami secchi, tra cui quelli che sono nati da Ismaele e da Esaù (At 3,25; Rm 9,7). Il primo libro dei Maccabei può scrivere: "Ricordate le gesta compiute dai nostri padri ai loro tempi e ne trarrete gloria insigne e nome eterno. Abramo non fu forse trovato fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?" (1 Mac 2,51-52).

I vangeli testimoniano le polemiche innescate a questo proposito con alcuni ebrei, sia da parte di Giovanni Battista che di Gesù (Mt 3,9 e parallelo; Gv 8,33-40). Non basta rivendicare per padre Abramo, bisogna vivere di conseguenza. Certi paria, come Zaccheo, si rivelano veramente "figli di Abramo", mentre questo titolo era loro negato da altri che, a torto, si consideravano più qualificati di lui a portarlo (Lc 19,9).

Antenato, origine, il padre Abramo è anche naturalmente colui che accoglie i suoi figli al termine del loro cammino. Con Isacco e Giacobbe egli presiederà al banchetto escatologico cui non dà diritto la nascita (Mt 8,11; Lc 13,28). E il seno di Abramo è il luogo in cui si ritrova il povero Lazzaro della parabola (Lc 16,22-30) mentre il ricco indifferente alla sua povertà ne è escluso. Questi luoghi escatologici del vangelo legati ad Abramo sono attestati nel giudaismo rabbinico (Esodo Rabba 25; Pesiqta Gabbati 43, 108b; b. Qiddušîn 72ab). Essi corrispondono ad immagini forse comuni nel giudaismo del I secolo, benché nessun altro testo ebraico, al di fuori dei vangeli, le riecheggi direttamente.



La rivoluzione paolina:
Abramo senza Mosè



Se la figura paterna di Abramo presentata dagli evangelisti e dagli Atti degli Apostoli si inserisce, nel suo complesso, in continuità con le tradizioni ebraiche dell’epoca, non si può dire lo stesso del modo in cui Paolo tratta il patriarca. Il testo del primo libro dei Maccabei, citato prima, presenta in realtà Abramo come un modello di giustizia, ma questa giustizia gli è valsa perché è stato fedele nella prova. La prova di cui si parla è quella del sacrificio, detto anche l’Aqeda (la legatura) di Isacco riferita al capitolo 22 della Genesi. È accettando di offrire in sacrificio l’unico figlio che Abramo, nelle tradizioni ebraiche più attestate, si è rivelato giusto e fedele. Anche il Nuovo Testamento è un’eco di questo nella lettera di Giacomo e nella lettera agli Ebrei (Eb 11,17): se Abramo fu considerato giusto, non fu per la sua sola fede, ma anche per le sue opere. La lettera di Giacomo scrive: "Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?" (Gc 2,21). Per questo meritò il bel titolo di "amico di Dio" (Gc 2,23; Co-rano 4,125).

Quando scrive questo, Giacomo testimonia una consolidata tradizione ebraica. Il suo testo è tuttavia segnato dalla polemica che conduce contro Paolo, che aveva della giustizia di Abramo una visione del tutto diversa. Per l’apostolo delle genti, il versetto biblico su cui si fonda principalmente la giustizia di Abramo è al capitolo 15 della Genesi: "Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia" (Gn 15,6), ben prima nel racconto della scena dell’Aqeda.

L’apostolo dedica ad Abramo due lunghi sviluppi, uno nell’epistola ai Galati (3,6-29), dove, rivolgendosi ad un pubblico tentato di sommare i comandamenti della Tora alle esigenze della vita in Cristo, Paolo insiste sul fatto che Abramo è colui che riceve le promesse divine, che queste promesse riguardano "la sua discendenza", e che il termine "discendenza" designa direttamente Cristo. Il termine "discendenza" è in realtà al singolare nel testo ebraico di Gn 12,7, come nella Settanta (Ga13,16). Cristo è dunque l’erede delle promesse fatte ad Abramo. La legge di Mosè, venuta "quattrocentotrenta anni" dopo il patriarca (Gal 3,18), non può annullare queste promesse. Di conseguenza, i comandamenti della legge ebraica non hanno peso nel processo di giustificazione del credente.

Nell’epistola ai Romani (4,1-16), gli accenti sono leggermente diversi, benché il messaggio sia complessivamente lo stesso. Paolo ricorda che Abramo fu dichiarato giusto dalla Scrittura subito dopo che Dio gli ebbe annunciato una discendenza numerosa come le stelle del cielo, nel capitolo 15 della Genesi (Gn 15,5-6). La circoncisione, figura della legge che sarebbe venuta attraverso Mosè, fu imposta da Dio soltanto più tardi, nel capitolo 17 dello stesso libro (Gn 17,10-14); ed egli superò la prova di essere stato pronto a sacrificare il figlio ancora più tardi, in Genesi 22. In altre parole: Dio dichiarò che Abramo era giusto indipendentemente dalla legge e indipendentemente dalla sua obbedienza. Non circonciso, Abramo era ancora in un certo senso pagano quando Dio lo dichiarò giusto. Questi eventi sono il fondamento della convinzione paolina che la giustizia di Dio è destinata a tutti – ebrei e pagani – grazie alla loro fede, indipendentemente dalla legge ebraica.

Il lettore moderno può essere fuorviato da questo modo di ragionare che gioca su dei particolari del testo biblico; esso è tuttavia perfettamente in linea con i criteri esegetici ebraici applicati nel I secolo. Un rabbi contemporaneo di Paolo avrebbe potuto discutere con lui di questi risultati, ma non contestare questo metodo di lettura. In un certo senso, il modo di ragionare paolino è anche straordinariamente moderno perché, nella lettera ai Romani come in quella ai Galati, Paolo tiene conto della relazione cronologica tra gli eventi: la legge è venuta dopo la promessa (mentre varie correnti del giudaismo del I secolo ritenevano che già Abramo e perfino Adamo praticassero la Tora); la giustizia del patriarca fu dichiarata dal testo sacro prima che fosse prescritta la circoncisione e prima che si fosse verificata l’Aqeda di Isacco. Prime da un punto di vista cronologico, la promessa e la giustizia nate dalla fede hanno la precedenza sugli altri eventi della storia della salvezza.

Si comprenderà così come molti ebrei non possano seguire Paolo sul suo stesso terreno, perché questo li condurrebbe a svalutare l’osservanza della Torâ, tesoro donato da Dio al popolo d’Israele. In questo, Paolo è uno dei maggiori artefici della futura frattura fra giudaismo e cristianesimo.



Una figura complementare:
Abramo, l'ebreo, sottomesso a Gesù



Non si potrebbe chiudere questa carrellata senza presentare due altri lunghi passaggi del Nuovo Testamento che mettono in scena Abramo, entrambi successivi alle lettere di Paolo: uno si trova nella lettera agli Ebrei, l’altro nel vangelo di Giovanni. Oltre alla sezione sulla fede di Abramo in cui l’autore considera due momenti importanti della vita del patriarca, e cioè la sua partenza dalla terra d’origine e il suo sacrificio (Eb 11,8-19), la lettera agli Ebrei ne ricorda un altro: l’incontro con il re sacerdote Melchisedek (Eb 7,1-9). L’autore utilizza qui la tipologia. Melchisedek è typos di Cristo; il suo sacerdozio prefigura il sacerdozio della nuova alleanza. Quanto ad Abramo, egli è l’antenato di Levi, portatore lui stesso del sacerdozio ebraico. Ora il testo afferma che Abramo attribuì a Melchisedek "la decima di tutto", lo considerò cioè suo superiore e si sottomise a lui (Gn 14, 17-20). Trasferendo questo al rapporto tra Gesù e i sacerdoti ebrei, l’autore della lettera ne deduce la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio levitico, benché Gesù non fosse appartenuto, secondo la legge ebraica, ad una famiglia sacerdotale. Gesù corrisponde a Melchisedek, Abramo a Levi.

Di redazione ancora più tardiva, il vangelo di Giovanni dedica un lungo passaggio ad una polemica tra Gesù e coloro che l’evangelista chiama "i Giudei", nella quale interviene la figura di Abramo (Gv 8,33-58). Questi ultimi affermano all’inizio della discussione: "Il nostro padre è Abramo" (v. 39). Sino a questo punto, non è che una discussione diffusa, già richiamata, sul diritto di qualcuno di rivendicare Abramo per padre. La sfumatura propriamente giovannea si precisa tuttavia lungo lo svolgimento del racconto. Alcuni versetti più avanti, Gesù dichiara: "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò" (v. 56); poi: "In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono" (v. 58). Dichiarazione che i suoi interlocutori considerano blasfema e a conclusione della quale raccolgono pietre per scagliarle contro l’empio. Come appare da questo complesso sviluppo, il personaggio di Abramo cambia statuto: dalla figura paterna che è all’inizio della discussione, diventa una figura profetica la cui funzione è testimoniare la preesistenza del Figlio e di rallegrarsi della sua venuta.

Queste due ultime figure, presentate rispettivamente dalla lettera agli Ebrei e dal vangelo di Giovanni, hanno in comune che Abramo è sottoposto a Cristo: sottoposto attraverso la sua riverenza verso Melchisedek (Eb), sottoposto grazie alla gioia che egli prova nel "vedere" colui il cui nome è "Io sono" (Gv).

Modello per il credente di ogni origine (ebreo o pagano) secondo Paolo, Abramo avrebbe potuto diventare nel pensiero cristiano una pura figura di universalismo. Testi posteriori alle lettere paoline, e in particolare i vangeli di Matteo e di Giovanni come pure la lettera agli Ebrei, lo reinseriscono tuttavia nel giudaismo, col rischio di ridurne in parte la statura. Questa diversità ristabilisce un felice equilibrio. Paolo sceglie Abramo piuttosto che Mosè, Matteo al contrario valorizza Mosè e la sua legge. Giovanni tratta il patriarca come un profeta.

Gli autori del Nuovo Testamento si impadroniscono delle figure dell’Antico con grande libertà, contribuendo tutte a delineare i tratti di colui in cui essi trovano la loro pienezza, cioè Gesù Cristo.

Pubblicato in Bibbia

C'è da chiedersi: quali persone possono significativamente abitare questa stagione del "ritorno del sacro"? La risposta pare scontata: i "pellegrini dell'Assoluto".

Pubblicato in Bailamme

Raccontare e ascoltare racconti non è allora un simpatico diversivo, ma è nutrirsi di ciò che ci fa vivere in verità: il conformarsi al disegno di Dio sull'uomo...

Pubblicato in Teologia

Ghislain Lafont è, specialmente in ambito italiano, uno dei teologi cattolici più noti del panorama attuale.

Pubblicato in Teologia

lo accolgo teIl nuovo Rito del matrimonio.La benedizione di Dio precede la scelta della coppiadi Andrea Grillo


 

L'occasione della traduzione e dell'adattamento del nuovo rito del matrimonio, presentato nel corso del convegno organizzato dalla Conferenza episcopale italiana (CEI) su "Celebrare il "mistero grande" dell'amore" (Grosseto, 4-6.11.2004), ha offerto alla Chiesa italiana l'opportunità di una rilettura complessiva dell' intera struttura rituale del sacramento, riconsiderando anche l'impatto ecclesiale e culturale che tale celebrazione determina sulla coscienza cristiana dei battezzati. Annotiamo anzitutto i contenuti fondamentali dell'importante Presentazione che la CEI ha premesso al testo, illustrandone i criteri d'adattamento.


Criteri di adattamento

 

Il significato specificamente cristiano del matrimonio. Il matrimonio sacramento, proprio con l'assumere un'esperienza umana elementare come l'unione di maschio e femmina, l'eleva a sacramento perché ne fa il simbolo reale che contiene e manifesta l'unione di Cristo con la Chiesa, ossia la nuova alleanza. Tale peculiarità è stata promossa dal nuovo rituale con una più ampia e specifica scelta di testi, nonché con una più attenta relazione con la celebrazione eucaristica (cf. n. 4).

La dimensione ecclesiale del sacramento del matrimonio. Nell'esperienza degli sposi e della famiglia il dono della salvezza viene accolto e trasmesso come mistero della Chiesa. Così la coppia nello stesso tempo si radica nella Chiesa e diventa luogo di nascita dell'esperienza ecclesiale. Per questo è giusto sottolineare che "il consenso degli sposi è la risposta a una parola d'amore che in quanto proveniente da Dio li precede" (cf. n. 5).
La presenza dello Spirito nel matrimonio cristiano. Un nuovo accento proviene dalla sottolineatura dell' opera dello Spirito Santo, che ora nella preghiera di benedizione nuziale può essere collocata immediatamente dopo il consenso, come riconoscimento dell' iniziativa di Dio, cui le parole degli sposi rispondono e corrispondono, quasi come in seconda battuta, perché consapevoli di lasciare al Dio di Gesù Cristo la prima parola, che la Chiesa ascolta e cui può solo rispondere (n. 6).
La gradualità nel cammino di fede e nell'esperienza di Chiesa. Se già l'edizione latina del nuovo rito prevedeva una differenziazione tra celebrazione nella messa e "senza la messa", per coppie che non hanno maturato un chiaro orientamento cristiano, affinché ciò non venisse percepito come una forma diminuita e debole, si è preferito costruire un rito "nella celebrazione della Parola" che non fosse semplicemente il frutto di una sottrazione. Si tratta invece di una sequenza rituale più semplice e dal linguaggio più immediato, che esplicita con maggior forza la memoria del battesimo e il desiderio dell'eucaristia (cf. n. 7).
La ministerialità degli sposi nella celebrazione. Gli sposi, in quanto ministri del sacramento, sia pure in correlazione con colui che presiede la celebrazione, partecipano in modo attivo a tutta quanta la celebrazione. È previsto, perciò, che in diversi momenti di essa (processione al fonte battesimale, venerazione del Vangelo, formule del consenso e della benedizione, presentazione delle offerte) gli sposi assumano un ruolo attivo in particolari sequenze della celebrazione sacramentale (cf. n. 8).

Tutto ciò costituisce quasi l' orizzonte generale di una serie di interventi che hanno introdotto alcuni elementi di novità assai importanti nella celebrazione del sacramento del matrimonio. Divideremo le nostre osservazioni sul piano delle sequenze rituali e sul piano dei testi eucologici, cogliendo solo alcune delle potenzialità pastorali di queste novità testuali, sempre collocandole nella luce dei cinque criteri di cui sopra.


I riti


 

Memoria del battesimo e processione al fonte battesimale. Bisogna notare che anche il rito del matrimonio in senso stretto comincia da una "ripresa": è come se la coppia, sul punto di accingersi a pronunciare il proprio sì, si disponesse a far memoria di quell'altro "sì", che ognuno dei coniugi ha già sentito pronunciare su di sé, e cui ha già cominciato a rispondere, trovandosi così collocato nella relazione ecclesiale con Cristo e, per Cristo, con il Padre, nello Spirito. Anche il fatto che, quando possibile, si possa svolgere una "processione al fonte" battesimale costituisce un rafforzamento, di carattere spaziale e corporeo, di questo dislocamento verso un prima che fonda e promuove il "qui e ora" del nuovo rito (cf. nn. 51-60).

Rapporto di intimità tra consenso e benedizione. Con significato ancora più intenso, risuona la breve annotazione della rubrica n. 79. La formulazione deve essere compresa leggendo la in parallelo a quanto stabilito dalla Presentazione CEI al n. 6. Ossia, anche quando si celebra l' eucaristia, è possibile che consenso e benedizione si succedano in stretta continuità, proprio per far apparire, in modo ancora più chiaro, la relazione stretta tra il sì degli sposi e il preveniente sì di Dio per Cristo nello Spirito. Questo piccolo dettaglio può contribuire non poco alla ricomprensione del rapporto tra sacramento del matrimonio, battesimo e vita della Chiesa nello Spirito, orientando a tale orizzonte la preparazione da parte della comunità e l'esperienza di vita da parte dei coniugi.
Preghiera dei fedeli e litanie dei santi. Di grande rilievo deve essere poi considerato il ruolo dell'invocazione dei santi (preghiera litanica), che può essere inclusa nella preghiera dei fedeli. Il ruolo del matrimonio come "luogo ecclesiale originario" non può mancare di un forte richiamo alla comunione dei santi. Per la nuova famiglia non si tratta soltanto di inserirsi nella preghiera che la Chiesa fa per tutti, ma di vivere la comunione con i santi che intercedono per la Chiesa e per la coppia (cf. n. 81).

Le preghiere


 

Diversificazione delle formule del consenso. Bisogna osservare che la logica dell'iniziazione cristiana ha portato il nuovo rito alla necessità di alcune esplicitazioni, come la sostituzione del verbo "prendo" con il verbo "accolgo" e l'introduzione, prima dell'espressione delle promesse matrimoniali, della locuzione teologica "con la grazia di Cristo" (o "con la grazia di Dio" per la seconda formula). Anche tale seconda novità costituisce un chiaro segno della crescita di coscienza ecclesiale circa il primato della grazia di Cristo sul senso sacramentale del consenso matrimoniale, che verrà poi ribadito con ancor maggior forza dalla contestuale preghiera di benedizione.

Introduzione della formula dialogica. Di grande interesse appare poi la forma dialogata con cui il consenso viene scambiato tra i due sposi, senza mai perdere di vista, anche in questo caso, che il semplice scambio tra i coniugi non sarebbe mai capace di costituire il consenso sacramentale, se non vi fosse, in esso e al di sopra di esso, il riconoscimento di un "Signore che ha creato e redento" e la volontà non fosse espressa non da sé, ma "per grazia di Dio". Allora è chiaro che il "dialogo tra i coniugi" è anticipato e attraversato dal dialogo tra Dio e i coniugi. Proprio questa è la logica del matrimonio sacramento: attraverso il patto coniugale si fa visibile e presente il patto dell'alleanza tra Cristo e la Chiesa. Non è difficile ritenere che intorno a questa formula nuova possano muoversi interessanti itinerari di catechesi, di preparazione e di una più complessiva valorizzazione pastorale del matrimonio celebrato.

Le prospettive pastorali


 

Il consenso si colloca tra memoria del battesimo e benedizione degli sposi. Il sì degli sposi trova il suo inizio e il suo sostegno prima di sé, trovandosi quasi iniziato dal sì di Dio, che precede il consenso nella forma della memoria del battesimo, e che segue il consenso nella forma della benedizione nuziale. Da un lato dunque il sì di Dio precede e fonda il consenso dei coniugi, nella loro dignità sacerdotale di battezzati, che come tali sono ministri del sacramento; dall'altro il sì dei coniugi sporge e poggia sul sì di Dio che rilancia la sua iniziativa originaria nel qui e ora della vita di questa coppia concreta. Il rapporto con la celebrazione diventa così principio insuperabile di raccordo tra fede e vita.
L'edificazione della Chiesa mediante il sacramento del matrimonio. La celebrazione del sacramento del matrimonio, nell'accoglienza dell'assemblea che partecipa attivamente - anche mediante i più espliciti riferimenti all'iniziazione cristiana manifestati nella memoria del battesimo, nelle esplicitazioni delle parole del consenso e nella prossimità della benedizione nuziale - viene non soltanto a confermare, ma diremmo quasi a istituire un'esperienza ecclesiale originale, con una consacrazione dei coniugi a una ministerialità ecclesiale specifica e preziosa.
La ministerialità complessa del sacramento della coppia. Proprio alla luce dei due punti precedenti, è evidente che l'assetto del nuovo rito del matrimonio, nel suo equilibrio tra sequenze ed eucologia, induce a un ripensamento della ministerialità del sacramento, che dovrebbe essere riletta in modo non antitetico (i coniugi e non il prete; il prete e non i coniugi): anzi, proprio una "ministerialità complessa" è in grado di mantenere insieme tutti i lati di questo organismo sacramentale che è rappresentato da una coppia di battezzati che si sposa nel Signore.
Una forma rituale per esprimere il "desiderio dell'eucaristia". Infine merita una parola significativa la scelta di trasformare un elemento negativo in elemento positivo, legando più strettamente l'ipotesi di celebrazione "senza la messa" a una positiva strutturazione del sacramento "nella celebrazione della Parola". Anche questa opzione del nuovo rito deve essere letta alla luce del primato dell'iniziazione cristiana. Ciò significa, in altre parole, che dove è opportuno che l'eucaristia - per ragioni di gradualità nel cammino di fede - non venga celebrata il contesto non viene definito da una mera sottrazione, ma il testo stesso contribuisce ad alimentare una relazione con il battesimo che possa far scaturire un più intenso desiderio dell'eucaristia. Tutto il capo II è stato strutturato in vista di un tale recupero, e per questo è dotato di maggiore essenzialità e immediatezza rispetto al cap. I. La pastorale potrà trovare qui un aiuto non piccolo per risolvere molte di quelle situazioni in cui il rapporto della coppia con l' iniziazione cristiana - quando pure formalmente si sia compiuto - manifesti nei fatti e nelle coscienze difficoltà, dubbi, imbarazzi o riserve di sorta.

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