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Iniziazione cristiana.
Una "nuova" teologia?
di Mauro Pizzighini

 



I sacramenti dell’iniziazione cristiana, oggetto di una riflessione ormai collaudata, richiedono una puntuale analisi teologica per individuare alcune piste di pastorale attenta alle diverse situazioni  per una risposta sempre più mirata ed incisiva. In questa prospettiva vogliamo presentare il volume Sacramentaria speciale. I. Battesimo, confermazione, eucaristia (2 voll. a cura di Carlo Rocchetta, EDB). La finalità di questo volume è, attraverso una breve contestualizzazione antropologica:
- trattare l’origine biblica del sacramento e i suoi specifici fondamenti neotestamentari;
- riferirsi alla tradizione e presentare lo sviluppo storico del dogma;
- offrire un inquadramento dogmatico che compendi i dati essenziali della fede cattolica.

Il battesimo come sacramento della “rinascita”

L’autore inserisce questo sacramento su uno sfondo antropologico nel singolare porsi di due fatti fondamentali della vita umana: iniziazione alla vita umana in questo pianeta e l’essere iniziati a una religione con i suoi riti, le sue dottrine e la sua prassi di vita. Oggi i genitori sono privati di una lettura “simbolica” della nascita di un figlio perché le pratiche sociali relative al nascere sono delegate alla società e alle sue diverse istituzioni. La domanda del battesimo del neonato da parte dei genitori vuole colmare un loro quasi totale disorientamento. Da sottolineare – per il battesimo – il riferimento “debole” alla comunità cristiana e il riferimento “forte” alla comunità parentale o amicale.

Il cap. I mette in luce l’originalità, la necessità, il fondamento cristologico-pasquale del battesimo cristiano.

Il cap. II mostra la tradizione liturgico-teologica-pastorale che la chiesa ha sviluppato.

Il cap. III presenta alcune linee per un approccio sistematico sia della prospettiva del magistero conciliare sia alla luce dei nuovi rituali.

Il battesimo non appare più come un fatto isolato, ma mostra tutto il suo intrinseco dinamismo ecclesiale.

Occorre ribadire che la mancanza dell’unità celebrativa dei sacramenti dell’inizia-zione cristiana in Occidente è il dato ricorrente nel caso del battesimo ai bambini. Al battesimo del neonato segue con l’età della discrezione (7/8 anni) la prima comunione (preceduta dalla prima confessione) e, verso l’età della preadolescenza (12/13 anni) la confermazione. È necessario un vero cambiamento a livello pastorale: è proprio a partire dagli itinerari catecumenali e della stessa celebrazione liturgica dei sacramenti dell’iniziazione cristiana che la chiesa locale viene ad essere interpellata verso una riscoperta della sua nativa “funzione materna”.

Questo nuovo contesto permette una riformulazione della teologia battesimale in almeno tre direzioni:
- quella teologica-sacramentale (la partecipazione al mistero pasquale di Cristo, il rapporto dinamico con gli altri sacramenti dell’iniziazione cristiana);
- quella ecclesiologica (l’appartenenza al popolo di Dio);
- quella pneumatologica (essere edificati nello Spirito come abitazione di Dio).

La confermazione, sacramento del “diventare cristiani”

Nella seconda parte viene tracciato un percorso di ricerca attraverso l’ascolto della Sacra Scrittura, della Tradizione e del Magistero.

In particolare questo sacramento si pone una volta per sempre nel rapporto con il “diventare cristiani” e “vivere da cristiani”. La confermazione ha come destinatario chiu è ancora “infante” e tale continua ad essere anche dopo l’eucaristia battesimale, fino al compimento di tutto il successivo tempo della mistagogia o iniziazione ai misteri.

Nell’attuale azione pastorale l’iniziazione cristiana rappresenta una prassi eccezionale e non sembra giocare il ruolo di forma tipica per la formazione cristiana. In Italia la confermazione è collocata nell’età della preadolescenza. «Ridiscutere tale prassi non è cosa del tutto agevole anche perché ciò che è maggiormente in causa è sia il modello del diventare cristiani, oggi, quanto l’effettiva esigenza di dare un volto nuovo all’evangelizzazione».

L’eucaristia, tra “diakonia” e “koinonia”

La terza parte del libro è dedicata al tema dell’eucaristia, il cui fondamento antropologico affonda nei gesti del “mangiare” e “bere” della vita dell’uomo e nella mensa come “banchetto di comunione”. Il dono dell’eucaristia si innesta in questa simbologia per trasfigurarla con l’accadimento unico della pasqua e condurre l’umanità verso il banchetto escatologico.
L’autore definisce l’eucaristia come «mistero della fede tra il “già” e il “non ancora”», come «memoriale della pasqua di Cristo», come «sacramento del sacrificio della croce», in quanto «auoto-oblazione perenne del Kyrios», «atto di Cristo e della chiesa», «epifania dello Spirito», «sacrificio di lode».

Viene riservato ampio spazio, dall’autore, alla chiesa “eucaristia”, come diakonia e koinonia. Essa «si trova perciò stabilita, con il medesimo atto che la fa nascere, come diakonia, popolo-servo a servizio di tutti gli uomini; più si fa serva, più la chiesa proclama ciò che è divenuto «una volta per sempre» e manifesta la fedeltà al mandato ricevuto. Da qui scaturisce un éthos del mistero eucaristico nell’atto del dono di Cristo.

In questa prospettiva viene riaffermato che il tempo della chiesa è “essenzialmente” il tempo della missione, dell’annuncio, della comunicazione, della salvezza pasquale ormai realizzata.
Il volume, alla fine, dedica spazio al «significato cosmico» dell’eucaristia, in quanto «convivialità cosmica».

M. PIZZICHINI, Iniziazione cristiana una “nuova” teologia?, in «Settimana», 3 (2005), p. 13. Riduzione di CESARE FILIPPINI.

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Domenica, 27 Marzo 2005 18:49

3. Ispirazione della Bibbia (Rinaldo Fabris)

Dio mediante il suo Spirito interviene nell'intero processo di produzione di un testo biblico perché in esso si incarni la verità che egli vuole comunicare agli esseri umani per la loro salvezza.

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Domenica, 27 Marzo 2005 18:33

2. Come è sorta la Bibbia (Rinaldo Fabris)

La formazione dei libri che formano la Bibbia è avvenuta lungo il corso di un millennio prima dell'era cristiana per l'AT e nel primo secolo d.C. per il NT.

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Martedì, 22 Marzo 2005 22:31

2) Il corpo mistico di Cristo: 1Cor 12, 12-27

5. LA COMUNITA' IN CAMMINO
VERSO IL REGNO
don Marino Qualizza


2. Il corpo mistico di Cristo: 1Cor 12, 12-27

«Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo…Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» vv.12 e 27.

È il testo classico in cui san Paolo ci descrive la realtà della Chiesa nel suo rapporto con il Cristo; considerazioni ed immagini simili si trovano anche in Rom 12, 4-8, però nel testo di Corinzi il tema è sviluppato con maggiore dovizia e soprattutto è inserito nel contesto dei carismi, dei ministeri e delle attività, che hanno come origine l’unico Dio Padre che si comunica a noi nel servizio del Figlio e nei doni dello Spirito. La molteplicità dei carismi non può essere a scapito della unità della Chiesa, perché essa porta il segno dell’unità di Dio nella Trinità. Unità dunque e ricchezza multiforme nello stesso tempo.



2.a. Noi siamo corpo di Cristo

L’affermazione più importante del testo è data dal v. 27, dove si dice appunto che ‘noi siamo corpo di Cristo e sue membra. Il che equivale a dire che l’identità della Chiesa è di tipo ‘mistico’, vale a dire di grazia, di iniziativa di Spirito Santo. Essa si comprende a partire da questa iniziativa gratuita di Dio, e si può cogliere solo nella luce della fede. È del tutto vero che in primo luogo, la Chiesa è realtà teologale, nel senso che è istituita, creata, formata e resa viva dalla iniziativa di Dio. Con ciò non si vuole dire che essa è una realtà eterea, inafferrabile, al limite invisibile; si vuole sottolineare che la sua verità grande e profonda è data proprio dal suo rapporto con il Cristo risorto, che vive nella comunione con il Padre e da lì ci invia lo Spirito Santo.

È quanto dire ‘Ecclesia de Trinitate’, come si esprime il concilio Vaticano II, in Lumen Gentium 2-4. Ricordiamo nuovamente che tutta la ricchezza della Chiesa consiste in questa comunione con la Trinità, da cui riceve energia e vita e forza di testimonianza. Ed è allora importante che la preoccupazione nell’educazione cristiana concentri tutta l’attenzione su questo aspetto fondamentale, per nulla scontato e non facilmente vivibile. Da qui anche l’autentica difficoltà di trovare cristiani che sappiano teologicamente e vivano concretamente la realtà della fede. Non fa meraviglia allora, che l’appartenenza alla Chiesa sia più di carattere emotivo e superficiale o addirittura, come avviene nei nostri tempi, si perda nel vago di una religiosità passeggera o addirittura scompaia dalla coscienza stessa dei battezzati.



2.b. Vita mistica nella grazia della Trinità

Vivere la dimensione mistica della Chiesa è l’impegno massimo della vita e non fa meraviglia che sia piuttosto merce rara. Infatti l’educazione, la catechesi sembrano imboccare strade più facili, ma senza uscita, con il risultato finale che i cristiani non sanno più che cosa sia la Chiesa. Gli stessi numeri costituiscono una difficoltà evidente. Laddove l’essere Chiesa è una realtà sociale pressoché indistinta, l’approfondimento e la coscienza di appartenenza sono vapori che si perdono nell’aria. Tutto ciò è documentato anche dal fatto che la fede nella Trinità è qualcosa di molto oscuro e forse insignificante, perché manca l’approfondimento specifico di questa verità salvifica. Sommando le due cose, abbiamo un unico risultato negativo.

Forse si comprende perché nella storia, la Chiesa sia stata compresa più nel confronto con realtà simili, quali le società statali, le monarchie e gli imperi, tanto da assommare nella persona del papa la somma di tutte le corone civili e religiose e tanto da immaginare la Chiesa come società perfetta, sul modello e nel superamento delle società civili. Qui il confronto era facile, immediato, talvolta perfino suggestivo, quando si presentava il papa come il vertice dei poteri conferiti agli uomini sulla terra. È vero che tutto questo avveniva e si consolidava con Gregorio VII nell’XI secolo e raggiungeva l’apice all’inizio del XIII con Innocenzo III, ma è anche vero che l’esigenza ovvia ed elementare di rendere ‘visibile’ la Chiesa portava a puntare l’attenzione su quanto questa visibilità rendeva ancora più forte e stabile: l’aspetto giuridico.




2.c. Un ordine giuridico ‘mistico’

Esso è certamente necessario e fa parte della normalità della vita ecclesiale, ma la sua accentuazione ha portato scompensi evidenti nella vita della Chiesa, come la storia ampiamente documenta, e non necessariamente per spirito polemico. La verità non è polemica. Il prevalere degli aspetti giuridici ha inciso notevolmente sulla concezione stessa del ministero ordinato dei vescovi, dove si separava la realtà sacramentale da quella giurisdizionale, con nocumento evidente della concezione stessa del ministero. Esso finiva fatalmente con l’essere equiparato con l’esercizio di un potere, che stranamente non veniva dato per via sacramentale, ma giuridica. A questo punto i problemi si complicano, almeno per un aspetto solo, che si riferisce alla giurisdizione del papa; ma lasciamo per ora questo argomento, anche perché nessun cattolico dubita dell’autorità del papa.

Ritorniamo allora al tema del corpo mistico, questa volta in riferimento diretto al Cristo stesso. Noi dunque siamo corpo di Cristo. L’affermazione dice sostanzialmente che noi siamo inseriti in Cristo e che da lui riceviamo vita. L’immagine del corpo dice che il nostro inserimento non è casuale, fortuito, ma costitutivo del nostro stesso essere cristiani. Questa verità è densa di significati e di conseguenze, perché ci costringe a confrontarci con il Cristo e con la sua vita reale. L’essere corpo di Cristo non è una verità statica ed astratta, ma un modo di vivere, per continuare nella storia d’oggi quanto il Cristo ha fatto nel suo tempo. Infatti siamo corpo di Cristo per realizzare in ogni tempo, quanto egli ha iniziato e anche compiuto, e che deve avere una continuazione nel nostro tempo, perché la storia non è finita con Cristo.



2.d. I cristiani sacramento della presenza e azione di Cristo

Dunque i cristiani sono l’attualità teologica e sacramentale di Cristo, nel duplice significato di una presenza e di una attività. Ai cristiani è affidato il Vangelo perché sia vissuto sul modello di Cristo, che non esige ripetizione, ma continuazione e novità di attuazione secondo il suggerimento dello Spirito Santo. Per fare ciò, è evidente che i cristiani devono conoscere Gesù Cristo e devono vivere la fede in lui. Da questo duplice impegno viene qualificata la loro presenza nella storia, che continua così ad essere storia di salvezza, non perché la rendono tale i cristiani, ma perché essi sono in comunione con il Cristo.

Tutto questo avviene in diversi modi, perché l’immagine del corpo dice che ci sono diverse membra e quindi diverse funzioni ed attività. La Chiesa non è un organismo monotono e spento, ma vivo e ricco, dove ognuno è chiamato a svolgere la sua parte. L’osservazione più evidente a questo riguardo è che l’immagine del corpo e della molteplicità delle membra supera di colpo le secche del clericalismo dove ci eravamo cacciati nel passato e da dove con fatica stiamo uscendo. Il clericalismo in verità è l’imbalsamazione del corpo ecclesiale, o la sua riduzione ad un movimento solo; non saprei dire quale per la precisione.



2.e. Ricchezza di ministeri nella realtà della storia

La molteplicità dei servizi, dei ministeri porta alla valorizzazione di tutti, nell’ordine che è garantito proprio dallo spirito di servizio e dalle disposizioni fondamentali che vengono dal Cristo stesso. Qui si ricupera il vero senso anche dell’ordinamento giuridico. Ma il servizio che ognuno è chiamato a svolgere nella Chiesa trova la sua motivazione e fondamento nel sacramento del battesimo e della confermazione. Ha dunque origine divina e perciò mistica. Da qui il suo valore inestimabile e la sua funzione insostituibile.

Pubblicato in Teologia
Domenica, 20 Marzo 2005 17:07

Dupuis: dire Cristo all’Asia (Gianni Colzani)

Dupuis
dire Cristo all’Asia
di Gianni Colzani



Dice un proverbio
della Sierra Leone: «Quando uno stormo di uccelli si leva in volo, vuol dire che uno è partito per primo». Padre Jacques Dupuis, scomparso il 28 dicembre 2004, era uno di questi scomodi personaggi: ha avuto un ruolo di primo piano nella elaborazione di una teologia delle religioni ed è stato uno dei primi ad avviarsi sulla strada del pluralismo religioso, ad indagare cioè in termini teologici il valore che le altre tradizioni religiose hanno nel disegno salvifico di Dio. La teologia delle religioni è oggi un capitolo cruciale non solo della teologia ma della stessa storia del mondo. L'11 settembre ha rappresentato un trauma nella coscienza mondiale e, da allora, molti leader politici e religiosi hanno insistito sul fatto che l'islam non può essere identificato con il terrorismo. Resta il fatto che un uso ideologico delle religioni è sempre possibile e che molte guerre hanno utilizzato il nome di Dio e provocato, nel suo nome, migliaia di vittime innocenti.

Lo stesso Giovanni Paolo II, nella Novo millennio ineunte, scriveva che nelle condizioni di spiccato pluralismo che si vanno prospettando «tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno deve diventare sempre di più, qual’è, un nome di pace e un imperativo di pace» (n. 55).
In termini più teologici, la Redemptoris missio aveva insegnato che «il dialogo non nasce da tattica o da interesse ma è un'attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell'uomo ha operato lo Spirito che soffia dove vuole» (n. 56). Una costruttiva teologia delle religioni, mentre approfondisce la coscienza della propria identità, è impegnata a riconoscere i segni della presenza di Cristo e dell'opera dello Spirito; senza intolleranza e senza irenismi, deve saper esprimere coerenza con sé e rispetto per l'altro, verità e umiltà. È questo il dialogo di cui abbiamo bisogno. A questo scopo è certo indispensabile la purificazione delle memorie storiche ma, in un contesto spesso conflittuale come il nostro, è decisiva la capacità di elaborare una vera e propria teologia delle religioni.

Le religioni cercano Dio e proclamano la salvezza. Per i credenti la salvezza è una interpretazione della vita, è qualcosa che attraversa tutta l'esistenza e che, oltrepassandola, presenta la comunione con Dio come il supremo valore della persona, come ciò attorno a cui unificare l'esperienza umana dandole significato e valore. Con il tempo sono nati molti modi di conciliare la verità di un Dio universale con la realtà di religioni nazionali e particolari: la conquista di un territorio e l'imposizione forzata di una religione e la diffusione attraverso la predicazione e la conversione sono state, forse, le modalità più frequenti.

Queste modalità hanno generato delle scuole teologiche che oggi, in un tempo radicalmente diverso dal passato, si possono raccogliere secondo tre modalità: esclusivismo, inclusivismo e pluralismo.

L'esclusivismo sostiene che l'unico, esclusivo luogo di salvezza è la Chiesa. Fuori di essa vi sono solo pagani, false divinità, forze maligne e magie; solo nella Chiesa, con la fede nel Vangelo di Gesù e con il battesimo si è salvi. I non-cristiani non hanno che una possibilità: convertirsi ed entrare nella Chiesa. Diversa è la posizione dell'inclusivismo: questa teoria sostiene che, in Cristo, sono incluse tutte le persone e tutte le culture e le religioni. Poiché Cristo non è venuto per abolire ma per portare a compimento, allora la Chiesa è chiamata ad assumere tutte le capacità e le tradizioni dei popoli ricapitolando così - con un lavoro di purificazione e di elevazione - tutta l’umanità sotto Cristo ed il suo Spirito. In una Chiesa cattolica, le singole parti offrono alle altre i propri doni e tutte le parti traggono vantaggio da questa vicendevole comunicazione. Il pluralismo infine, nella sua forma più rigida, sostiene che tutte le religioni sono interpretazioni culturali, diverse per storia e dogmi, di un'unica esperienza religiosa e che, per questo, le religioni sono sostanzialmente identiche e sono tutte quante legittime «vie di salvezza». Nella sua infinita grandezza, che supera ogni schema culturale, Dio si serve di tutte le religioni per salvare l'umanità e condurla a lui.

Nel caso di Dupuis, a queste prospettive di ricerca teologica si è aggiunta la sua personale passione su come si debba annunciare Cristo all'Asia, su quale sia il volto asiatico di Gesù. In un continente che raccoglie due terzi dell'umanità e nel quale i cristiani si aggirano attorno allo 1,5-2 per cento o poco più, questo problema è decisivo. Da una parte nell'Asia sono nate e sono radicate le più antiche e diffuse religioni del mondo, dall'islam all'induismo, dal buddhismo al taoismo, dal confucianesimo allo shintoismo: dall'altra, per quel mondo, prima che un insieme di dogmi e di riti, le religioni sono una esperienza e una vita lungo la quale inoltrarsi con un coinvolgimento personale profondo. Insieme all'inculturazione della fede, la teologia delle religioni esige una trasformazione profonda nel modo di intendere la missione: senza ridursi alla plantatio ecelesiae, la missione deve seguire sempre di più l'evangelizzazione del regno alla maniera di Gesù, mentre la Chiesa deve mostrarsi sempre di più come sacramento del regno nella storia. Per Dupuis tutta questa problematica teologica si concentra attorno a Gesù Cristo, cuore di ogni fede cristiana: sviluppando due opzioni, da una parte riconduce la persona e l'opera di Gesù all'annuncio del Regno e dall'altra la colloca in rapporto alle persone trinitarie. Il Regno è il contenuto della missione di Gesù ed il rapporto eterno del Verbo con il Padre e con lo Spirito è il segreto profondo della sua persona storica.

Risalendo a quel Verbo che illumina ogni uomo e che, nel corso della storia, ha parlato molte volte e in diversi modi, Dupuis pensa a diverse manifestazioni di Dio - documentabili nella azione divina che sorregge le altre religioni - e vede in Gesù Cristo il vertice di questa storia salvifica. Per quanto sia veramente e costitutivamente unito al Verbo, così da condividerne la divinità, Gesù però - in quanto uomo - gli rimane inferiore. Per questo la concezione della storia di salvezza, propria di Dupuis, è una sorta di teocentrismo che, pur mantenendo la divinità di Gesù, riconosce che tutte le religioni appartengono all'opera salvifica di Dio. Il risultato del suo pensiero è allora una presentazione di Gesù come salvatore universale e come unico mediatore; al tempo stesso, attraverso mediazioni che sono una forma di partecipazione all'agire del Verbo eterno, presenta le religioni come in grado di svolgere un vero e proprio ruolo salvifico. In questo modo Gesù è il volto umano di Dio mentre lo Spirito è la forza universale presente nelle diverse religioni; l'uno e l'altro - Gesù e lo Spirito - fanno riferimento alle persone trinitarie e trovano in quell'ambito la loro verità ultima. Da una simile visione scaturisce una prospettiva pluralista che riconosce la presenza dell’azione salvifica di Dio anche al di là dei confini visibili della Chiesa; questa azione divina non riguarda qui la salvezza dei singoli individui, ma il ruolo che le religioni che professano possono giocare in questa salvezza e davanti agli occhi dei cristiani. Su questa base teologica, a prescindere dalla reciprocità, nasce un atteggiamento nuovo nelle relazioni tra credenti di fedi diverse.

Questo atteggiamento nuovo è il dialogo, che appare così non già una scelta di comodo che nasconde interessi diversi, ma una scelta di fondo e ben fondata. Il dialogo nasce dalla consapevolezza di una profonda unità, fondata sul mistero della creazione e della redenzione; a questa unità va aggiunta l'opera dello Spirito che, presente nei cuori e nelle Coscienze, è presente anche nelle culture e nelle religioni a cui gli individui hanno dato origine. I semina Verbi sono i segni di questa sua misteriosa ma salvifica presenza. Non è quindi possibile risolvere la missione nel solo dialogo sopprimendo l'annuncio: mentre permette la scoperta di nuovi spazi di verità, il dialogo non cancella la fede e quindi, in qualche modo, è pur sempre una forma di annuncio. Per questo da una parte il dialogo deve esprimere la reciprocità del cammino delle religioni e dall'altra deve rispettare la loro asimmetria che riconosce la singolarità di Gesù.

Nonostante queste precisazioni, la Congregazione per la dottrina della fede riterrà inadeguata questa presentazione: vi scorgerà ambiguità e difficoltà che possono condurre in errore il comune lettore. Non vedrà sufficientemente riconosciuta la verità della divinità di Gesù e nella Dominus Iesus, senza fare cenno a Dupuis e alle sue tesi, parlerà del pericolo del relativismo ed enuncerà quelle verità che devono rappresentare come il quadro criteriologico di ogni corretto lavoro su questo tema. Questo dibattito oggi appena iniziato, nelle conclusioni a cui nel futuro giungerà, rappresenterà l’ossatura del cristianesimo venturo.


(da Mondo e Missione, febbraio 2005)

Pubblicato in Teologia

Babilonia,
figura del Male nell’apocalittica
di Michel Trimaille *

 



* Institut Catholique di Parigi


Le imprecazioni dei profeti contro Babilonia sono niente in confronto allo scatenamento dell'Apocalisse di Giovanni. In che modo, sei secoli dopo l'esilio, questa lontana capitale è diventata, per un autore cristiano, il simbolo di tutti gli abomini? Perché «la grande prostituta», quella in cui «si è trovato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti coloro che furono uccisi sulla terra», porta il nome di Babilonia?

«Vi saluta la comunità che è stata eletta come vostra dimora a Babilonia, e anche Marco, mio figlio». Strano saluto quello finale di questa lettera apostolica (1 Pietro 5,13)! Si è invano cercato la città che risponde alle informazioni qui date: una Babilonia che avrebbe avuto una comunità cristiana, dove avrebbero verosimilmente potuto soggiornare Pietro e Marco. Si è pensato a un certo campo militare in Egitto, o ancora alla Babilonia di Mesopotamia che, nel secolo della nostra èra, ospitava ancora un'importante colonia giudaica.
Questa ricerca era motivata da un'esigenza di storicità: attribuire alla lettera di Pietro una data che salvaguardasse la sua rigorosa autenticità petrina. Ma si è proprio dovuto cercare altrove la soluzione: noi avevamo lì uno pseudonimo di Roma.

Il nome cifrato di Roma nei testi giudaici

In effetti, Babilonia è il nomo cifrato che i Giudei hanno affibbiato a Roma, ma lo hanno fatto solo in seguito agli avvenimenti del 70, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e della nazione giudaica.
Il Quarto libro di Esdra risponde all'angoscia di una comunità giudaica scossa dagli avvenimenti del 70. L'autore pensa che gli avvenimenti del 70 ne siano il «prototipo», cioè che la caduta di Gerusalemme sotto gli assalti di Babilonia sia stata il simbolo delle altre conquiste della città; «Ma gli abitanti di Gerusalemme peccarono... Allora consegnerai la città nelle mani dei tuoi nemici. E ora io ti dico nel mio cuore: si comportarono meglio gli abitanti di Babilonia? È per questo che Babilonia domina Sion?» (III, 25.27.28).
L’Apocalisse siriaca di Baruk, scritta forse una quindicina d'anni dopo la caduta di Gerusalemme, s'interroga sulle cause della disgrazia dei giusti e annuncia loro una vendetta su Roma: «Ma dico questo, io, Baruk, contro di te, Babilonia! Se tu fossi nella prosperità e Sion rimanesse nella sua gloria, sarebbe stato per noi un grande dolore che tu fossi uguale a Sion, ma ora il dolore è infinito, in gemito è incommensurabile, perché tu sei prospera e Sion desolata! Chi sarà il Giudice di tutto questo?... Oh, Signore, come hai potuto sopportare questo?» (XI, 1,2.). «E anche il re di Babilonia che ha ora distrutto Sion... sì giustificherà per il popolo e dirà nel suo cuore cose grandi davanti all'Altissimo, ma lui pure cadrà alla fine!» (LXVII, 7,8).
Gli Oracoli Sibillini, attribuiti alla Sibilla, molto noti in ambiente popolare, riportano sugli avvenimenti dell'ultimo terzo del I secolo, «Dopo quattro anni [dalla morte di Nerone]… una grande stella si abbatterà sul mare divino; essa consumerà il mare profondo, Babilonia stessa, e la terra italiana, a causa della quale sono periti molti ebrei santi e fedeli e il popolo di verità... Tu non sarai che desolazione per moltissimi anni.. O perversa città, effeminata e ingiusta! Disgrazia a te, impura città della terra latina…!» (V, 156, 158-161, 163, 167).

La grande prostituta dell'Apocalisse di Giovanni

La Prima Lettera di Pietro, citata all’inizio, non proferisce minacce contro «Babilonia». Invece, come la maggior parte dei testi giudaici di quest'epoca, l'Apocalisse di Giovanni vede in questo soprannome dato a Roma un pegno di giudizio che si abbatterà su di essa come sulla sua sorella maggiore di Mesopotamia.
Dal 14,8 l'autore annuncia la caduta di Babilonia, la grande, quella che ha abbeverato tutte le genti con il vino del furore della sua fornicazione». Più avanti si legge una lunga evocazione poetica, ispirata ai profeti, della caduta di questa nuova Babilonia (l7,1-9,10). Ma l'autore cristiano non le attribuisce la distruzione del Tempio di Gerusalemme e della nazione giudaica; le rimprovera soprattutto di aver perseguitato i cristiani e di aver decimato la Chiesa. «In essa [Babilonia] fu trovato il sangue dei profeti, dei santi e di tutti coloro che furono uccisi sulla terra» (18,24).  L'allusione a Roma è chiara: la città è personificata sotto i tratti di una prostituta seduta su una bestia a sette teste, che sono  sette colline, e l'allusione a un «re che era  e non è più, e che sarà l'ottava di una serie  di sette» (cf 17,10-11), rimanda probabilmente a Nerone e alle credenze popolari  che speravano nel suo ritorno.  Il carattere cristiano di questa rilettura  appare soprattutto nell'opposizione radicale stabilita dall'Apocalisse tra la città distrutta e la Chiesa futura, altra figura femminile, ma sposa dell'Agnello, la cui  venuta costituisce il vertice dell'opera. 

Las caduta della città impura prima delle nozze dell'agnello

Le due descrizioni cominciano allo stesso modo, con l'invito che un angelo fa al veggente: «Ti farò vedere la condanna della grande prostituta...», «Ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell'Agnello» (17,1-3 e 21,9-l0). E terminano con lo stesso gioco di scena tra il veggente e l'angelo interprete (19,9-10 e 22,6-9). La grande prostituta, vestita di rosso,seduta su una bestia, è anch'essa bestiale: ha ricevuto il suo potere dalla Bestia che lo ha ricevuto dal drago demoniaco (12-13). La città che essa rappresenta è un covo di abomini; sarà distrutta come Sodoma, e non ci sarà più vita in essa (19,21-22). Si vedrà da lontano il fumo degli incendi, poi tenebre totali! Se la sua distruzione provoca i lamenti di coloro che si erano arricchiti al suo servizio e nei traffici di cui essa era il perno al contrario, ciò suscita nel cielo gioia e allegrezza (18,19.20). Infatti, la sua caduta annuncia e prepara le nozze finali dell'Agnello. La sposa di questo Agnello non ha nessun tratto di prostituta: è tutta santa e rivestita della gloria da Dio.

La Gerusalemme celeste: l'antitesi di Babilonia

La città che essa rappresenta è perfetta nella sua architettura, senza alcun abominio, poiché «non entrerà in essa nulla d'impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell'Agnello» (21,27). Le nazioni cammineranno alla sua luce, che è la luce stessa di Dio: allora «non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà» (22,5). Questa città è attraversata da un fiume di vita, che nutre un albero della vita che produce frutti tutti i mesi dell'anno, «E non vi sarà più maledizione, perché in lei sta «il trono di Dio e dell'Agnello» (22,3).
Se la metafora di Babilonia è così rimasta viva, non solo presso i Giudei, ma anche presso i cristiani, è perché la sorte finale di Babilonia aveva un significato nella loro memoria: era direttamente quello di conservare, nei credenti toccati dalla prosa, una speranza in giorni più felici.

(da Il mondo della Bibbia n. 20)
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Abramo, alle querce di Mamre ci insegna che attraverso l'ospitalità dello straniero possiamo fare la più sorprendente delle nostre esperienze: l'incontro con la presenza misteriosa, vitale e stupefacente di Dio.

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V. MARIA PRESSO LA CROCE

La pericope di Gv 19,25-27 è veramente una scena notevole, inserita nel cuore del mistero pasquale di Cristo. La sua importanza emerge dalla densità del brano, dal contesto dell'"ora" e del suo rapporto con l'episodio di Cana.


Cana e la Croce

Iniziando da quest'ultimo, bisogna dire che la scena delle nozze (Gv, 1-12) non solo annunzia ed anticipa, in qualche misura, quella della croce, ma attinge in essa senso compiuto e rivela la sua densità. Poste all'inizio e al termine del Vangelo, costituiscono due episodi-chiave, fondamentali non solo per comprendere la figura e il ruolo di Maria, ma lo stesso messaggio giovanneo.

Le due scene, attentamente orchestrate appaiono in evidente parallelismo. I personaggi sono i medesimi:

  • Gesù, rispettivamente all'inizio e al compimento della sua opera;

     

  • La madre di Gesù (sua madre) - la "donna";

     

  • I discepoli.

     

In un caso come nell'altro, la Vergine non viene presentata col nome di "Maria", ma come "la madre di Gesù" e come "donna" titolo mai usato da un figlio nei confronti di sua madre! In ambedue i brani si parla dell'"ora" di Gesù, che a Cana non è ancora giunta (cf 2,4) e sul calvario è compiuta (cf 19,27). Sia l'episodio di Cana come quello della Croce sono seguiti dalla medesima espressione: "Dopo questo…" (2,12; 19,28).

E' una formula non semplicemente temporale, ma consequenziale, che nel contesto rivela notevole importanza:

  • v. 2,12: "Dopo questo" si ha una comunità di fede riunita intorno a Gesù;
  • v. 8,27: "dopo questo" tutte le cose sono compiute.

Possiamo dire, in generale, che se Cana si presenta sotto il segno dell'ora non ancora venuta, la Croce costituisce il compimento dell'ora.

Se a Cana c'era il "principio" dei segni, il segno archetipo, sulla Croce c'è il segno per eccellenza (il Figlio dell'uomo innalzato) che rivela la gloria di Dio, grazie al quale i discepoli credono in lui.

Gv 19,25-27 nel contesto dell'"ora" di Gesù

La scena di Gv 19, 25-27 riceve luce dal confronto con Cana, ma rivela la sua eccezionale densità nel contesto immediato degli "atti" di Gesù in croce (Gv 19, 17-37). Si tratta di cinque episodi nei quali si articola l'ultima fase della passione;

  • iscrizione del titolo sulla croce (vv. 19-22)
  • la divisione delle vesti (vv. 23-24)
  • le parole alla madre e al discepolo (vv 25-27)

     

  • il compimento dell'opera affidata dal Padre (vv. 28-30)
  • la trasfissione del costato (vv. 31-17).

La nostra pericope, come si vede, è al centro degli aventi supremi dell'ora di Cristo, tutti altamente simbolici e di eccezionale portata teologica.

Non si può non sottolineare con Bultmann la profonda unità di queste scene e la loro importanza dal momento che l'evangelista le presenta quale misterioso compimento delle Scritture.

Non possono dunque essere lette su un piano materiale e fenomenologico, ma devono essere intese quale rivelazione pasquale. Sembra anzi che proprio nel nostro episodio sia presene una scena di rivelazione, nella quale si manifesta la vera identità della madre di Gesù e del discepolo amato.

Nonostante la presenza di altre persone, al centro della scena del calvario ci sono - come si è notato - tre protagonisti:

  • Gesù, che nella sua maestà regale di Figlio dell'uomo innalzato sulla croce, comunica le rivelazioni supreme e dona le ultime disposizioni testamentarie.

     

  • Maria, la quale, a differenza di Cana, non parla, ma è al centro dell'attenzione quale depositaria principale della volontà del Figlio. Ella viene nominata quattro volte come madre di Gesù, una volta come madre del discepolo e una come "donna".

     

  • Il discepolo, non menzionato all'inizio tra coloro che stanno presso la croce, ma poi reso destinatario, come Maria del dono del Maestro.

     

Dal punto di vista della frequenza, la figura maggiormente sottolineata è Maria. Ella appare anzitutto quale madre di Gesù, ma anche come la "donna" madre del discepolo. Questa rivelazione esplicita, peculiare del quarto Vangelo, faceva parte dei segreti del Padre e del Figlio, dei misteri della salvezza, che solo al momento dell'"ora" vengono svelati.

Il discepolo, a sua volta, non è solo colui che segue il Maestro ed è da lui amato, ma - appunto perché tale - è anche il figlio della "donna".

Maria è così madre di Gesù e "donna"-madre del discepolo.

Se la maternità nei confronti di Gesù è tradizionalmente accettata, il titolo di "donna" e la maternità nei confronti del discepolo richiedono delle spiegazioni.

Il discepolo di Gesù

Come sempre nel quarto vangelo, e specialmente in queste scene della Passione, non ci si può limitare ad una comprensione materiale e dunque superficiale del messaggio. La nostra non è un semplice atto di pietà familiare nei confronti di una madre che sarebbe rimasta sola, come spesso si afferma, specie in ambito non-cattolico. Ciò contraddice al testo stesso che sottolinea anzitutto la presenza e il ruoli di Maria ("Donna, ecco il tuo figlio"), e solo in secondo luogo, come conseguenza, affida al discepolo la madre.

E poi i rapporti che intercorrono tra di essi non sono nell'ordine della natura, ma della generazione secondo lo spirito.

Chi è dunque il discepolo? E' una persona e al tempo stesso un simbolo. Secondo Bultmann le parole di Gesù innalzato solennemente sulla croce hanno in fondo lo stesso significato di quelle rivolte al Padre nella preghiera sacerdotale di Gv 17,20ss: "non prego soltanto per loro, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…".

Anche secondo M. Dibelius "il discepolo amato" esprime "il tipo dei discepoli": l'uomo della fede, il testimone della croce, "il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, con la loro posizione in rapporto a Dio, sono diventati essi pure fratelli di Gesù (20,17)".

Si noti che il discepolo, nel nostro testo, è presentato per tre volte (vv. 26-27) e sempre con l'articolo determinativo, per così dire, in forma enfatica: il discepolo amato rappresenta tutti coloro che hanno creduto ed hanno accolto Gesù. Essi costituiscono il nuovo popolo di Dio: sono la comunità dei redenti dal sacrificio dell'Agnello (al quale non dev'essere spezzato alcun osso) (vv. 33.36); sono la chiesa nata dal sangue e dall'acqua, scaturiti dal costato del Redentore (v. 34), la nuova Eva tratta dal fianco del nuovo Adamo dormiente sulla croce (cf Ef 5,23-32).

La "donna", madre dei figli di Dio

La "donna", per conseguenza, è madre del discepolo e dei discepoli, anzi della comunità di tutti coloro che erano dispersi e per i quali Gesù è morto. "Egli infatti doveva morite… per raccogliere nell'unità i dispersi figli di Dio" (Gv 11,51s).

Nel pensiero veterotestamentario i "dispersi figli di Dio" sono i figli d'Israele esiliati tra le genti a motivo dei loro peccati (cf Dt 4,25-27; 28,62-66; 30,1-4, ecc.). Il Signore che li aveva disseminati tra i popoli, lontano dalla loro terra, li ricondurrà nel loro paese e nella loro casa. Dei regni divisi di Israele e di Giuda farà un solo popolo e un discendente di Davide sarà il loro pastore (cr. Es 34, 23-24; 37,24). Con essi stringerà un'alleanza nuova, il cui mediatore sarà un misterioso "servo" di Dio (cf. es 42,6; 49,8), il quale offrirà la sua vita in riscatto per le moltitudini (cf 53,10s).

Tutte le genti verranno allora e si raduneranno in Gerusalemme, la quale diventerà madre di figli innumerevoli (cf Is 49,19-20; 60,1-9; Tb 32,12s). Già sposa di Dio - abbandonata a causa delle sue infedeltà e privata dei suoi figli - essa vedrà il ritorno del Signore ed accoglierà entro le sue mura una discendenza che non si può contare. Sarà una maternità prodigiosa ed universale. La città ed il popolo vengono indicati frequentemente col simbolo di una donna, sposa e madre, e con il titolo di "figli di Sion", invitata a gioire per la redenzione e il ritorno dei suoi figli. "Agli occhi della prima generazione cristiana - osserva A. Serra - la madre di Gesù si configurava come l'incarnazione ideale della "figlia di Sion". In lei, persona individua, maturava esemplarmente la vocazione di Sion-Geruasalemme e di tutto Israele, popolo dell'Alleanza".

Su questo sfondo, il discepolo amato rappresenta tutti i redenti, e Maria, la "donna"-figlia di Sion, simboleggia la comunità dell'alleanza, madre dei figli di Dio dispersi ed ora raccolti in unità.

Maria non è figura soltanto dell'antica figlia di Sion, nella quale peraltro le splendide promesse si realizzarono solo parzialmente e temporaneamente: ella realizza e inaugura, quale primizia, la vocazione della nuova Sion, la comunità del Nuovo Testamento, madre di tutti i credenti. Proprio perché madre di Cristo, "primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29), Maria è madre di tutti coloro che sono rinati per la fede in lui. La sua maternità, iniziata con al nascita di Gesù, attinge sul Calvario la sua pienezza. Come si vede, l'episodio di Gv 19,25-27 va ben al di là di una semplice scena domestica, d'un atto di premura filiale da parte di Gesù.

L'accoglienza della madre

Di fronte a questa maternità, dono-rivelazione del Maestro, il discepolo è chiamato ad un atteggiamento di fede, a un'adesione vitale, a una decisione che sorge dal profondo della sua libertà: decisione libera, ma non facoltativa. Il discepolo amato non può non accogliere il dono del suo Signore. L'accoglienza della madre è una delle note che caratterizzano il vero discepolo di Cristo. E "immediatamente, in quel momento stesso" (è l'esatta traduzione del testo) (v. 27), il discepolo l'accolse come madre.

L'"ora" dell'accoglienza della madre - che non è tanto indicazione cronologica, ma momento teologico - coincide (ed è di grande significato) con il compimento dell'"ora" di Gesù. l'espressione "dopo questo", con la quale inizia il verso seguente (v. 28) non è - come s'è notato - una semplice formula di transizione, ma intende sottolineare uno stretto legame tra quel che precede e quel che segue. "Dopo questo "In conseguenza di ciò), Gesù, sapendo che tutto era compito, affinché si compisse la Scrittura, dice… (v. 28). Come si vede è un linguaggio particolarmente solenne, nel caratteristico stile giovanneo, che colloca il nostro episodio al culmine dell'ora stabilita dal Padre e come suggello dell'opera salvifica. Con il dono-rivelazione di Maria quale madre dei credenti e con la sua accoglienza da parte del discepolo si compie l'opera di Cristo.

Sono visioni splendide e grandiose, che emergono quali perle preziose dalla profondità del Vangelo di Giovanni. La aveva già intuite il grande genio di Origene, per il quale nessuno può attingere il senso del quarto vangelo se non si è chinato sul petto di Gesù e se non ha ricevuto da Gesù Maria par madre.

Alla luce dell'episodio di Maria presso la croce, si illumina anche il misterioso "segno" di Cana. Si comprende meglio il senso delle nozze e dell'"ora", e il compito di quella "donna", nella vita dei discepoli del Signore.

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L’enfant terrible del cristianesimo
di Daniel Marguerat *



In un recente, illuminante libretto, Daniel Marguerat ritorna sulla modernità di Paolo, l’enfant terrible del cristianesimo. Spirito dottrinario, tono ruvido, antifemminismo… non avrebbe sviato il puro messaggio di amore di Gesù in una opprimente dottrina del peccato? Già durante la sua vita, questo rinnegamento del giudaismo irritava. Oggi, molti cristiani lo hanno accantonato, e credono senza Paolo o malgrado lui. Chi legge ancora la corrispondenza di questo apostolo poco amato? Chi coglie l’importanza della "giustificazione secondo fede" o della "salvezza al di fuori delle opere della Legge"? Tuttavia, senza di lui, senza il suo genio a formulare le verità essenziali del cristianesimo, la cristianità sarebbe rimasta un’oscure setta. Senza di lui, duemila anni fa, il messaggio di Cristo non avrebbe infiammato il mondo intero. Se si vuole comprendere la rivoluzione che ha rappresentato nel I secolo lo slancio della fede cristiana, non si può evitare di leggere, e di voler comprendere, questo gigante definito talora il "fondatore del cristianesimo". Non senza fondamento: egli fu, più di chiunque altro, fondatore di comunità.

* Professore di Nuovo Testamento
Facoltà di Teologia, Università di Losanna



Tra Saulo di Tarso (il suo nome aramaico) e Gesù di Nazareth vi è ben poco in comune. Come spiegare allora che l'uno è stato preso per l’altro? Gesù è un ebreo della campagna palestinese, di professione falegname, figlio del popolo e amico di peccatori. Il suo messaggio si rivolge agli uomini e alle donne di Israele. Il suo ministero si è limitato alla Galilea, con un breve sprazzo finale a Gerusalemme. Saulo è un intellettuale della diaspora, nato a Tarso vicino ad Antiochia. Uomo di città e di cultura. Il suo impegno netto nel movimento farisaico lo ha introdotto nell'èlite religiosa del giudaismo del tempo. Forse fu allievo del grande rabbi Gamaliele (At 22,3). Ad ogni modo, la sua formazione all'esegesi rabbinica fu quella di un allievo brillante, capace di maneggiare la Scrittura secondo le regole dei maestri. La pratica del gezera shava, consistente nell'accostare due citazioni per interpretare l'una grazie all'altra, non ha per lui segreti (esempio: Gal 3,l0 e 12). Anche sostenere una parola della Torà con una citazione dei profeti è altrettanto comune in lui come nei rabbini della miglior tradizione. D'altra parte, le più recenti ricerche sul suo modo di condurre l'argomentazione mostrano che l’apostolo delle Genti è esperto nella pratica della retorica greco-romana, alla pari di un Cicerone o di un Quintiliano. Nulla di sorprendente, se si sa che la città di Tarso ospitava un'apprezzata scuola stoica: il padre di Paolo si fece un punto d'onore di mandarvi il figlio. Attraverso l’apprendimento della retorica passava una cultura raffinata.



Le sottigliezze di una doppia cultura

Queste due componenti della cultura di Paolo di Tarso spiegano la difficoltà di comprenderlo oggi; il suo stile, la sua logica, sono quelli di un uomo che suona costantemente su due tastiere: lo stile figurato, analogico del rabbi, e l'argomentazione lineare del retore romano (con introduzione, tesi, dimostrazione e perorazione). L'estrema difficoltà, per gli esegeti, consiste proprio nel tenere collegate le due modalità della sua riflessione, senza farle pendere completamente dal lato della sottigliezza rabbinica o dal lato del rigore dialettico. Ma il confronto con Gesù di Nazaret ripropone il problema: come capire che Paolo, l'intellettuale fariseo di alto livello, sia stato conquistato dal destino dell'uomo di Nazaret? La risposta va cercata nel folgorante sconvolgimento che è la "conversione" di Paolo sulla strada di Damasco. La si fa risalire all’incirca all'anno 32, cioè due anni dopo la morte di Gesù. La fede cristiana, Paolo non l'ha scoperta al suo tavolo di lavoro. Neppure nella profondità della meditazione. All'interno della sua pratica, all'interno della sua militanza, Paolo è stato fermato da Dio. Bloccato nel suo slancio. Ma che cosa è accaduto sulla via di Damasco perché Paolo ne esca stordito, demolito, smarrito? L'uomo si manterrà sempre riservato su questo punto. Quel che certo, è che, un giorno, le basi su cui aveva costruito la sua vita gli sono improvvisamente venute meno. Ne resta traccia in un passaggio autobiografico della lettera ai Filippesi. Paolo inizia elencando il suo impressionante albero genealogico-religioso: "circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge (Fil 3,5-6). Non si potrebbe pretendere maggiore garanzia di appartenenza ebraica! L'eccellenza dell’uomo di Tarso in materia di pietà legale gli permetteva di definirsi, con fierezza, "irreprensibile". Questo forte radicamento nella Torà lo aveva condotto, con tutta la tradizione farisaica, a rifiutare qualunque credito alla fede cristiana in un Messia crocifisso. Che il Dio onnipotente avesse qualche cosa in comune con il corpo di Gesù appeso al legno della croce non poteva essere che una ridicola superstizione, pericolosa e sovversiva. "L'appeso è una maledizione di Dio": questa frase del Deuteronomio (21,23) era citata come un anatema contro questi eretici. Si può confondere la grandezza divina con la fine miserabile di un Galileo, giudicato e condannato come blasfemo? È questo il motivo per cui, nella sua logica estremistica (la sua personalità lo porta a questo), Paolo si era ripromesso di difendere l'onore di Dio punendo quelli che iniziavano ad essere chiamati "cristiani". (Gal 1,13).



Fallimento della religione

Damasco è la scoperta di un fallimento. Non lo scacco di un uomo che non sarebbe stato capace di adempiere ai precetti della Torà. Al contrario: "irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge" (Fil 3,6). È lo scacco della Legge o, più esattamente, lo scacco della fede nella Legge che si presenta a Paolo come una folgorazione. Ecco dove conduce la Torà: a mettere in croce il Messia. Damasco è questo volgersi dello sguardo di Paolo sulla croce, che lo porta a capire come, al culmine dell'impegno per Dio, al culmine della pietà, l'uomo costruisca una croce per il Figlio. Paolo non determina lo scacco del giudaismo, come se altre credenze potessero meglio cogliere il mistero di Dio. Riflettendo su questo problema all'inizio della lettera ai Romani (1,18-3,20), Paolo giunge alla conclusione che "l'ebreo come il greco" falliscono nel loro tentativo di conoscere Dio. Paolo segna lo scacco di ogni religione. Non, una volta di più, attraverso il raziocinio, ma per averlo vissuto nella sua personale esperienza di vita. Ogni religione fallisce nel momento in cui fa nascere nell'uomo l'illusione di poter costruire il proprio valore davanti a Dio. Che si tratti di ammansire Dio attraverso l'osservanza della Torà (l'indagine dell'ebreo) o che si tratti di avvicinarsi a Dio attraverso la ricerca della sapienza (l'indagine del greco), l'errore è lo stesso: in entrambi i casi la pietà diventa un modo di catturare il divino per accattivarselo (I Cor 1,18-25). È il motivo per cui, dirà Paolo ai Corinzi, Dio ha scelto di salvare gli uomini attraverso il messaggio insensato, risibile, della croce: "E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1,22-23).
Alla sconfitta della religione che tenta di catturare Dio, Paolo oppone la pura gratuità della grazia.



Dio di tutti e di ciascuno

Non si comprende nulla del pensiero di Paolo se non si coglie a quale punto la sua immagine di Dio si è trovata proiettata: lo scorge all’opera nella sua fragilità. Lo credeva tirannico, lo scopre solidale. Lo pensava lontano, ed eccolo presente in ogni sofferenza. Dio non si lascia scoprire che da parte di coloro che abbandonano l'immagine del dio tirannico e si lasciano "giustificare", cioè accogliere, sulla sola base della loro fede in Lui.

Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell'umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l'aveva affermato con altrettanta forza. Che l'essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue (buone) intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teologia di Paolo. E, nelle categorie farisaiche della retribuzione, Paolo dirà: Dio giustifica ognuno senza badare alla sua osservanza della Legge. Egli concede la vita all'uomo "senza le opere della Legge" (Rm 3,21-28).

Di questa idea si alimenterà un concetto che segnerà profondamente l'Occidente cristiano; il concetto di individuo. Sotto l'influsso del pensiero paolino, l’umanità accoglie questa idea che l'individuo, sono qualsiasi latitudine viva, ha lo stesso valore. La Rivoluzione francese aggiungerà: deve godere degli stessi diritti.



Un problema di libertà

La doppia cultura di Saulo di Tarso (greco-romana ed ebraica) gli permette sintesi folgoranti, di cui la cristianità si alimenterà per crescere. La sconfitta della religione è una prima sintesi. L’approccio paolino al problema della libertà ne è un'altra. Gli stoici (ad esempio Epitteto o Seneca) ponevano con insistenza la questione della libertà umana. L'uomo è libero nelle sue scelte? Governa la propria vita? Alla constatazione negativa, gli stoici aggiungevano una risposta: dominare le passioni permette all'uomo di avvicinarsi alla libertà. Paolo riprende la questione, ma la sua constatazione è più radicale: non solo l'uomo non è libero, ma non è in grado di riconquistare la sua libertà attraverso un progetto di autocontrollo. Il peccato - nessuno nel Nuovo Testamento penserà il peccato con maggiore profondità di Paolo - aliena l'uomo e lo scaglia contro Dio. La sola via d'uscita per l'essere umano è di essere liberato dal di fuori, dal momento che non può farlo da solo. Il cap. 8 della Lettera ai Romani descrive questo lavorio dello Spirito nel credente, che, liberandolo dalla costrizione di costruire la sua propria salvezza, lo libera dalla preoccupazione di sé e lo apre alla cura di un altro.



Distruttore della Legge?

Rifiutando la Legge come via di salvezza, Paolo si è attirato l'incomprensione e la collera dei suoi antichi correligionari. Malgrado i suoi dinieghi ("la Legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento", Rm 7,12), l'apostolo delle Genti non si libererà mai dal sospetto di essere un trasgressore della Legge. All'intento del nascente cristianesimo, questo punto costituisce una grande divergenza tra Paolo e il giudeo-cristianesimo di Gerusalemme dominato dalla figura di Giacomo, fratello del Signore. In realtà, se Paolo nega alla Torà la capacità di essere strumento di salvezza (ormai conta solo la fede), Paolo non rifiuta la Legge quando si tratta di segnalare la fedeltà di vita cui sono chiamati i credenti. Arriva anche a dire che "la giustizia della Legge si compie in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito" (Rm 8,4). In pratica, il credente, non più preoccupato per sé, può aprirsi all'amore dell'altro, cosa che costituisce - per Paolo come per Gesù - il centro della Legge.

Se il rimprovero di distruggere la Legge non è giustificato per quanto riguarda Paolo, il suo discorso sul fallimento della religione (compresa quella ebraica) poneva l'apostolo davanti ad una via senza uscita: Dio, dando già da millenni, la Legge ad Israele, avrebbe sbagliato?



Perché il giudaismo?

La storia del popolo eletto sarebbe stata una storia inutile? Nei capp. 9-11 della Lettera ai Romani di Paolo, costretto ad affrontare la questione, propone una riflessione fondamentale sul destino di Israele. Essa rimane essenziale su quello che noi potremmo (e dovremmo) pensare oggi delle relazioni tra cristianesimo e giudaismo. La formula della salvezza offerta a "chiunque crede" fonda in realtà l'universalità della grazia, ma, contemporaneamente, sottrae ogni consistenza alla particolarità di Israele. Se il cristianesimo è la religione del Dio universale, perché il giudaismo? Seguiamo da vicino le argomentazioni di Rm 9-11. Paolo comincia col constatare il rifiuto opposto da Israele al Messia: gli ebrei non vogliono il Cristo (Rm 9), La parola di Dio è sconfitta? No, Dio indurisce chi vuole, dice Paolo, ed apre il cuore a chi vuole. Questo non impedisce, continua Paolo (Rm 10), che la maggioranza degli ebrei si sia chiusa alla parola del Vangelo. Essi hanno sentito la notizia, ma non vi hanno creduto. Dio avrebbe dunque rifiutato il suo popolo? Il semplice enunciato della questione fa sobbalzare Paolo (Rm 11): assolutamente no! In realtà, la storia di questo popolo ha sempre conosciuto l’indurimento della maggioranza e la fedeltà di un piccolo resto. I cristiani non ebrei corrispondono oggi a questa logica del piccolo resto: essi credono, mentre la maggior parte di Israele rifiuta.



L'enunciato di un mistero

Giunto a questo punto, Paolo sfiora la contraddizione: da un lato Israele è colpevole di chiudersi al Vangelo; dall'altra, fede e indurimento del cuore sono opera di Dio. A quale conclusione arrivare? Da questa scomoda posizione, l'apostolo fa la professione di un mistero: "Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che non saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato" (Rm 11,25-26).

Conclusione sbalorditiva! Al pericolo di cadere in contraddizione, Paolo sfugge enunciando un mistero teologico, cioè di una verità che non è data come la conclusione di un ragionamento, ma come una rivelazione. Il suo contenuto è chiaro: alla fine dei tempi, Israele sarà salvato. In altri termini Paolo ammette Israele ai beneficio della giustificazione per fede (quello stesso messaggio che Israele rifiuta). Se è vero che Dio salva per grazia, e senza tenere una contabilità degli sforzi dell'uomo per soddisfarlo, allora non terrà conto del rifiuto che Israele oppone al Messia. La grazia vale anche per il popolo eletto. Attraverso questo mistero, Paolo perviene a rendere giustizia da un lato alla scelta della maggioranza degli ebrei, che rompe col Cristianesimo e non vuole questo Messia. Egli prende dall'altro in considerazione la fedeltà di Dio alle sue promesse: Dio non rinnega la sua parola, nè i suoi. L'apostolo lascia così aperto l'avvenire di Israele, come una storia che deve compiersi tra Dio e il suo popolo eletto, e non riguarda che loro due. Se i cristiani hanno ragione di considerarsi beneficiari della grazia, il destino del popolo ebraico non li riguarda. Questo destino appartiene, giustamente, ad un mistero che si è già avviato tra Abramo e Dio. A questa inviolabile tenerezza di Dio per Israele, nessuno potrebbe attentare. Ma questo dovuto annullamento davanti alla grazia sovrana di Dio non significa per Paolo essere ridotto al silenzio: nel corso della sua intera corrispondenza, egli non cesserà di testimoniare che un dialogo esigente e serrato con il giudaismo è indispensabile alla ricerca della propria identità da parte del cristianesimo.

(da Il mondo della Bibbia n. 53)


Pubblicato in Bibbia
Martedì, 01 Marzo 2005 22:27

I Padri Apologisti (Lorenzo Dattrino)

I Padri Apologisti
di Lorenzo Dattrino




A confronto con giudaismo, paganesimo e impero romano.

Un primo aspetto fondamentale del cristianesimo è l’universalità : una religione non di un solo popolo, ma per tutti. I cristiani adorano un solo vero Dio; professano una morale in antitesi con i criteri tradizionali del paganesimo; il mondo pagano cerca, a più riprese, ora di emarginare, ora di assorbire il cristianesimo. Ma i cristiani mantengono la propria identità e sopportano con coraggio le persecuzioni.  In questo clima ostile escono allo scoperto non pochi scrittori cristiani: loro primo obiettivo è dissipare le opinioni correnti che mettono in falsa luce la fede e la vita dei cristiani. 

L’apparizione di tali opere va considerata come un fatto del tutto nuovo nella storia del cristianesimo, anche per la natura di tali scritti.  Gli apologisti intuiscono che occorre scendere sul terreno stesso degli avversari per dimostrare che è la dottrina cristiana la vera interprete della ragione dell’uomo, e non le molteplici e spesso contraddittorie enunciazioni della filosofia.  L’azione degli apologisti, inoltre, si propone di rendere accettabile la dottrina cristiana sotto la luce della piena credibilità, e di guadagnare proseliti alla chiesa.

L’interrogativo drammatico che i pensatori cristiani si propongono è questo: dialoghiamo con il mondo, oppure, per mantenere la nostra identità, ci arrocchiamo e non permettiamo che il Kerigma venga “annacquato “ dalla filosofia pagana ?

Scorgiamo due risposte : quella di Taziano, il quale intende “chiudere porte e finestre“ per non lasciare entrare nemmeno uno “spiffero di ellenismo“; quella di Giustino, il quale spalanca le porte e vuole dialogare a 360 gradi. Prevarrà la linea del dialogo e sarà vincente.  Il Kerigma cristiano, nato in contesto semitico, viene inculturato nel contesto ellenistico e permea l’area del bacino del Mediterraneo.

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