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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L’Eucaristia fonte di speranza

di Marino Qualizza

Forse suona inconsueto questo titolo nei riguardi dell’eucaristia, abituati come eravamo a considerarla o come oggetto di adorazione o come momento di devozione individuale nella comunione. Ma se esaminiamo più a fondo i diversi aspetti di cui l’Eucaristia si compone, troviamo che la speranza dovrebbe occupare un posto rilevante per il valore intrinseco in essa contenuto. Infatti la riflessione teologica, che già troviamo nei testi ispirati di S. Paolo e di S. Giovanni, danno grande rilievo a questa tematica. Non è un caso allora che anche la teologia da una quarantina d’anni a questa parte abbia riscoperto il valore della speranza, fondandola direttamente sulla risurrezione di Gesù, di cui noi facciamo memoria proprio nella celebrazione eucaristica. Si richiamano perciò tre aspetti indivisibili: risurrezione, eucaristia, speranza. Basterà solo ricordare che la speranza, in quanto virtù teologale non è un pio desiderio né tanto meno una supposizione, ma la degustazione già anticipata di quello che saremo e ci sarà dato. Proprio la dimensione della speranza faceva usare alla teologia, in tempi ormai abbastanza lontani l’espressione “già e non ancora” con ciò si vuole indicare che noi siamo già entrati nel mondo di Dio, anche se la sua definitiva partecipazione avverrà in un tempo che è dinanzi a noi. Proprio questa apertura costituisce il dinamismo della fede, che assume il colore della speranza, e apre prospettive importanti nella vita cristiana. Addirittura nell’antichità l’interpretazione della bibbia in senso dinamico e aperta al futuro del mondo di Dio era dato proprio dalla speranza. Questo aiutava i lettori della bibbia a non considerarlo un libro di memorie sul passato, ma come la parola potente di Dio capace di creare e rinnovare la storia nella quale essi e noi viviamo. Si poteva comprendere benissimo allora come la verità della bibbia portasse all’Eucaristia e che questa fosse la verità concreta vissuta e dinamica della rivelazione biblica.

Tenendo conto di questo si può comprendere bene come anche la Chiesa in Italia abbia scelto per la sua prossima assemblea di Verona proprio il tema della speranza. E dovrebbe essere chiaro a tutti che la scelta non è stata fatta per offrire un po’ di consolazione agli sfiduciati cattolici italiani, ma per renderli protagonisti di un progetto che richiede consapevolezza e ardimento. Chi si nutre dell’Eucaristia diventa per ciò stesso portatore di un bene che viene da Dio e che è indispensabile per il mondo. Ai cristiani di oggi allora si chiede un rinnovamento che parta da una convinzione e da una esperienza. La celebrazione eucaristica non è una cerimonia, anche se per certi aspetti deve averne le sembianze, ma è il momento qualificante e fondante tanto dell’identità della Chiesa quanto della sua missione. L’identità è data dalla comunione e dalla condivisione fra i credenti; cosa che non può essere lasciata solo ai desideri, ma concretizzata nella realtà, pena l’inefficacia del segno sacramentale. La missione è data dalla conseguente apertura dei cristiani verso il mondo e dalla cordiale accoglienza di quanto c’è nel mondo. Solo la considerazione di questi due aspetti dovrebbe dare nuovo vigore ed anche nuova gioia nella partecipazione alla celebrazione eucaristica. Proprio la gioia della comunione con Dio diventa l’espressione della speranza che si dovrebbe leggere sul volto di ogni credente.

Lunedì, 19 Novembre 2007 23:16

Cristiani d'Etiopia

Cristiani d'Etiopia




Per 17 secoli il cristianesimo ha forgiato la storia dell'Etiopia, facendone l'unica nazione cristiana del continente africano. Esso è penetrato così profondamente nelle istituzioni familiari, sociali e politiche del paese, che i cristiani etiopici hanno resistito a pressioni e persecuzioni esterne ed interne fino a quella scatenata per 17 anni (1974-1991) dalla dittatura marxista.

L’introduzione del Cristianesimo in Etiopia

L'inizio del cristianesimo in Etiopia risale alla prima metà del secolo IV quando, come racconta lo scrittore Rufìno di Aquileia (345-411) nella sua Historia ecclesiastica, fu convertito il regno di Aksum. La testimonianza fu raccolta dalla bocca di Edesio, uno dei protagonisti di tale conversione. La storia di Rufino fu ripresa e talvolta raccontata con diverse varianti, alcune delle quali hanno stravolto in modo significativo il racconto.

Il Costantino etiopico

Dalla scarna narrazione di Rufìno non è facile stabilire la datazione esatta dell'inizio del cristianesimo in Etiopia. Sapendo con certezza che Atanasio fu eletto patriarca di Alessandria nel 228, il primo sbarco di Frumenzio sulla costa etiopica avvenne parecchi anni prima e la sua ordinazione episcopale dopo il 330. Rufìno riferisce ancora che Frumenzio predicò il vangelo nel regno di Aksum per 20 anni, convertendo «un numero infinito» di aksumiti. A parte l'espressione iperbolica, è certo che, verso il 345, il re Ezanà, sua madre, battezzata col nome di Sofia, la famiglia reale e la sua corte si convertirono al cristianesimo. Grandemente stimato dal popolo aksumita, Frumenzio passò alla storia col nome di Abba Salama, (padre pace), e con l'appellativo di Chesatiè Brhan (rivelatore della luce). I due fratelli Ezanà e Sezanà diventarono nella tradizione etiopica Abrahà (illuminò) e Atsbhà (fece sorgere il sole). Essi sono l'alba e la luce della nuova Etiopia, l'Etiopia cristiana.

Questi eventi si realizzarono nell'epoca di Costantino il Grande che, secondo la tradizione, illuminato dalla visione della croce, decretò la libertà del cristianesimo nell'impero romano; il parallelo è d'obbligo: Ezanà è considerato il Costantino di Etiopia e sua madre Sofia è paragonata a Elena, madre dell'imperatore romano.

Figlia di Alessandria

Essendo l’Etiopia una diocesi della chiesa d'Egitto, il suo vescovo era nominato dal patriarca di Alessandria e doveva essere un egiziano; questi assumeva il nome di abuna (nostro padre) e aveva il potere di nominare i vescovi locali.

Fin dai racconti dei primi esploratori europei la chiesa etiopica, figlia della chiesa egiziana, fu chiamata «copta monofìsita» e i cristiani d'Etiopia «copti»; ma tali termini non hanno alcun senso, dato che «copto» è un termine divulgato dagli arabi dopo la conquista dell'Egitto e significa «egiziano».

I primi passi della chiesa in Etiopia coincisero con un periodo di aspre contese nel resto della chiesa universale: Alessandria era uno dei centri principali delle polemiche teologiche.

All'inizio del V secolo si diffuse in Oriente, per opera di Eutiche, monaco greco considerato il capo morale dei religiosi di Costantinopoli, la dottrina monofìsita, secondo la quale la natura umana di Cristo era stata assorbita dalla natura divina, e solo quest'ultima vi sussisteva.

Nel 451 il concilio di Calcedonia dichiarò Eutiche eretico e stabilì che in Cristo sussistevano sia la natura umana che la divina. Alcune chiese orientali, fra cui quella egiziana, non accettarono le conclusioni del Concilio e si separarono da Roma.

E’ necessario chiarire che nessuna di queste chiese riconosce la dottrina strettamente monofisita di Eutiche, ma ritiene che in Cristo vi sia una sola natura, divina e umana allo stesso tempo. Viene affermato un monofisismo meno rigido, che ha molti punti in comune con il diofisismo delle Chiese calcedonesi. L’Etiopia, in quanto diocesi di Alessandria, ne seguì le sorti e rimase separata da Roma.

Nel V secolo il cristianesimo continuò a propagarsi anche nelle campagne, soprattutto per opera di monaci venuti dall’oriente cristiano. In Etiopia sono venerati i Nove Santi, mentre l’attuale Eritrea sarebbe stata evangelizzata dagli Tsaddecàn, i giusti, alcuni resti dei quali si trovano nella chiesa di Baracnahà.

Il cristianesimo etiopico sarebbe quindi diventato monofisita già nel V secolo ad opera di questi evangelizzatori. Alcuni studiosi tuttavia ritengono che il monofisismo sia entrato in Etiopia molto più tardi, e a riprova di ciò portano, oltre ad altre argomentazioni, il fatto che re Calèb, che regnò su Aksum nella prima metà del VI secolo, è festeggiato come Santo dalla Chiesa Cattolica il 27 ottobre.

Verso la fine del VI secolo Aksum entrò in declino e l'Etiopia fu ben presto accerchiata dall'espansione islamica. «Attorniati da ogni parte da nemici della loro religione, gli etiopi dormirono per un migliaio di anni, dimentichi del mondo che a sua volta li dimenticò» scrive lo storico Gibbon.

Oggi la Chiesa etiopica, al pari delle altre Chiese orientali non-calcedonesi, e cioè la siriana e l’armena, rifiuta il monofisismo e si dichiara miafisita, intendendo con questo termine l’unione delle due nature di Cristo in un’unica natura composita. La denominazione ufficiale della Chiesa etiopica è Chiesa Ortodossa Teuahdò d’Etiopia. Teuahdò significa «divenuto uno», ed equivale al greco «miafisita».

Inoltre, da poco più di mezzo secolo la Chiesa etiopica è diventata un patriarcato indipendente da Alessandria: nel 1951, dopo 10 anni di trattative condotte da Hailè Sellassiè, fu possibile eleggere per la prima volta un patriarca etiopico nella persona dell'Abuna Basilios.

L'Eritrea ha sempre seguito le sorti della chiesa etiopica e professa il Teuahdò. Ma nel 1994 ha ottenuto dal patriarca di Alessandria la nomina di sei vescovi eritrei, i quali nel 1996 hanno nominato il loro Patriarca.



Liturgia etiopica

Nei suoi 17 secoli di vita, la chiesa etiopica si è dovuta difendere da minacce ed invasioni esterne, ma ha conservato intatto il cristianesimo dei primi secoli. Secondo una definizione cara agli etiopici, l’Etiopia è un’isola cristiana in un mare di pagani. Scrisse Padre Giulio Barsotti nel 1939:

In poche nazioni al mondo, il pensiero religioso ha avuto tanta forza di penetrazione e di potenza come in Etiopia.... Dal secolo quarto, in cui il Vangelo penetrò nel regno di Axum, fino ad oggi, tutta la vita degli Abissini è stata dominata dal pensiero e dalla dottrina di Gesù Cristo...

La liturgia etiopica si è sviluppata da quella della Chiesa copta, ma ha introdotto forme che sono tipiche dell’animo etiopico. Le danze dei debteràimitano le danze di Davide, i loro canti sono i salmi di Davide, la musica liturgica, inventata da San Iarèd nel VI secolo, commuove i credenti. Durante la celebrazione i canti vengono accompagnati dal battere di grandi tamburi di forma ovale, i caberò, e dal tintinnio dei sistri, strumenti metallici di origine egiziana. I santi sono celebrati con poesie che descrivono le loro parti del corpo, vengono recitati i qeniè, distici a doppio senso improvvisati sul posto che solo gli amara riescono a decifrare. La Vergine è al di sopra di tutti i Santi e viene celebrata innumerevoli volte. Viene invocata nel Chidàne Mehrèt, il Patto di Misericordia, per intercedere presso Cristo per sfuggire ai tormenti dell’inferno.

I preti salgono tutti i giorni sui colli dove sorgono le chiese. Le messe durano tre ore, e tutti coloro che non sono impediti dal lavoro, dalle malattie o dall'età devono andare a messa ogni giorno. Nelle grandi solennità la celebrazione inizia a mezzanotte e dura nove ore. Nelle processioni i suonatori di masinqò, i violini a una corda,accompagnano i versi dei qeniè.

Nella messa viene recitato il credo, che ripete gli stessi dogmi della Chiesa di Roma. Viene celebrata l’eucarestia con la somministrazione del pane e del vino, i preti fanno tre volte il giro della chiesa alla lettura del Vangelo e dei Miracoli di Maria. I fedeli si raccolgono nel recinto esterno della chiesa dove danzano i debterà, gli uomini a destra le donne a sinistra. Nel recinto intermedio viene amministrata la comunione; in quello interno, il sancta santorum, il cui ingresso è permesso solo al sacerdote, viene conservato il tabòt, che è rappresentazione delle tavole della legge, che rende sacra la chiesa. Il tabòt viene portato ad una fonte nella celebrazione del Timchàt, la festa dell’Epifania, il Battesimo di Gesù secondo il rito orientale. In tempo di guerra viene portato al seguito dell’esercito per la celebrazione della messa.

In Etiopia vi sono 25.000 chiese, in genere povere capanne di ciccadecorate con immagini sacre. All’esterno di ognuna vi è la bietelehèm, la casa del pane, dove viene preparato il pane per l’eucarestia. Alla sommità della chiesa vi è la croce greca adornata di sette uova di struzzo, simbolo della passione e della morte di Cristo. Numerose sono le chiese rupestri, celebri quelle di Lalibelà e del Gheralta.

Nella chiese più importanti sono conservati antichi manoscritti fatti con pelli di capra, libri che raccontano la vita dei santi, vangeli e bibbie. Fin dai primi secoli i libri sacri del cristianesimo sono stati tradotti in gheez, l’antica lingua etiopica sopravissuta oggi solo nella liturgia. Nei testi etiopici è stato rintracciato il Libro di Enoc, che è andato perduto nella lingua originale e nella versione greca. I più antichi manoscritti rimasti sembrano risalire al XV secolo. Nel monastero del Bizen, in Eritrea, vi è un vangelo della misura di un metro e talmente pesante che deve essere trasportato a dorso di mulo. Alcune chiese storiche conservano stupendi dipinti murali, in colori semplici (giallo, blu, rosso, verde e nero), ricavati da piante o minerali. I disegni sono bizantineggianti: i buoni di fronte i cattivi di profilo. Il nome di Maria, la più eccelsa delle creature dell’universo, è scritto sempre in rosso.

Nel segno della Croce

Quando un etiopico passa davanti a una chiesa, china la testa e si segna la croce, le donne si fermano a baciarne la porta. Se incontrano un prete si inchinano in segno di rispetto, baciano la croce e si fanno benedire.

Eredità della tradizione copta sono le croci etiopiche, processionali, manuali o da collana, disegnate in centinaia di forme. Derivano dalla prima croce cristiana, la croce di San Pacomio. La croce processionale è utilizzata nelle processioni e nelle grandi ricorrenze, come la Festa della Croce, il Natale o l’Epifania; la croce manuale viene portata sotto la tunica da ogni prete o monaco e fatta baciare dai fedeli. Esiste una grande varietà di forme: la croce di Gondar, di Aksum, di Lalibelà, di Malta, la stella di Davide o sigillo di Salomone e altre. Le donne tigrine portano sulla fronte una croce dipinta con l’henna. Nelle croci etiopiche raramente è rappresentato il corpo di Cristo, perché la spiritualità orientale dà più risalto alla divinità piuttosto che all’umanità di Cristo. Sull’altare maggiore della cattedrale di Addis Abeba vi è una croce con la figura del corpo di Cristo, identico ai crocifissi cattolici.



Clero, digiuno, matrimonio

La Chiesa etiopica ha mantenuto alcune tradizioni giudaiche, come il tabòt o arca dell’alleanza, la distinzione di carne pura e impura, la circoncisione maschile a 8 giorni dalla nascita, le danze dei debterà con i tamburi, la forma delle chiese con il sancta sanctorum al centro, la bietelehèm, lo shabbath, ecc. Alcune di queste, come la circoncisione, sono semplici usanze e non prescrizioni religiose.

Un elemento diventato fondamentale nella cultura del paese è il digiuno, il più lungo e austero di tutto il mondo cristiano: 56 giorni prima di pasqua, 40 giorni per la festa degli apostoli, 16 per l'assunzione, 40 giorni prima di natale, tutti i mercoledì e venerdì della settimana, per un totale di circa 250 giorni all'anno, dei quali solo 180 strettamente obbligatori. Il digiuno consiste nell'astenersi da cibo e bevande da mezzanotte fino al primo pomeriggio o sera, in cui è permesso un pasto; in ogni caso è richiesta l'astinenza da carni, grassi, uova, pesce e latticini.

Vi sono tre forme di matrimonio, una religiosa e due civili. Il matrimonio religioso è indissolubile e viene celebrato in chiesa con la comunione, ed è chiamato ba qurbàn (con comunione). Il matrimonio civile può essere ba demòz (con soldi), che è l'acquisto della moglie, e ba cal chidàn (con patto verbale).

Preti e diaconi si possono sposare, ma ciò deve avvenire prima di essere ordinati. Vescovi e arcivescovi, ai quali è affidata l'amministrazione della chiesa nelle varie province, non possono essere sposati. Il patriarca è necessariamente un monaco. Il monachesimo ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita della chiesa fin dall'arrivo in Etiopia dei «Nove Santi» e degli tsaddecàn, i quali, da eremiti solitari, sono diventati fondatori di comunità, ispirandosi a san Pacomio e alle sue regole monastiche. Sono sorti così i grandi monasteri, alcuni dei quali sono arrivati a ospitare fino a 5 mila monaci: Debra Libanos, Debra Bizen, Debra Damo, Gunda Gundè, Zuquala e centinaia di altri minori, tutti arroccati in luoghi impervi e di difficile accesso. I monaci fanno tre professioni di fede, con le quali ricevono la cintura, il cappuccio e la tunica.

I monaci non si sposano e devono condurre una vita ascetica e austera, con frequenti mortificazioni corporali. La tradizione di Debra Libanos racconta che il suo fondatore rimase in una grotta per 7 anni in piedi su un piede solo, finché gli si staccò una gamba. Il priore del monastero di Debra Libanos è l'ecceghìè, il capo dei monaci.

Le Chiese dell'oriente cristiano

Chiesa ortodossa della Georgia

di John Nellykullen


La Georgia, collocata sulle montagne del Caucaso all’estremità orientale del Mar Nero, vanta una civiltà che risale ai tempi antichi. Per merito, in larga parte, dell’attività missionaria di Santa Nino, una ragazza schiava della Cappadocia, il regno d’Iberia (Georgia dell’est) abbracciò la fede cristiana come religione di stato nel 337. La Georgia occidentale, poi parte dell’impero romano, diventò cristiana attraverso un processo graduale completatosi nel secolo V.

La liturgia gerosolimitana di San Giacomo fu adottata in Iberia, prima in greco, poi in georgiano, nel secolo VI. La liturgia bizantina venne sempre usata nella Georgia occidentale, cambiando dal greco in georgiano nel secolo VIII o IX. La Georgia orientale adottò presto la liturgia bizantina dopo che la Georgia orientale e quella occidentale formarono un unico regno nel 1008.

La Chiesa in Iberia fu all’inizio dipendente dal Patriarcato di Antiochia, ma divenne indipendente sotto il re Vakhtang Gorgaslan nel 467. Nel tempo dopo il Concilio di Calcedonia (451) i Georgiani d’Iberia s’unirono ai vicini Armeni nel rifiutare il suo insegnamento, ma nel 607 ruppero con gli Armeni e ne accettarono l’insegnamento.

Il monachesimo cominciò a fiorire in Georgia nel secolo VI e raggiunse lo zenit nei secoli VIII e IX. I monasteri divennero centri importanti d’attività missionaria e culturale. Furono i georgiani a fondare il monastero di Iviron sul monte Athos, dove molte e importanti opere religiose furono tradotte dal greco in georgiano.

Dal secolo XI al XIII la Georgia visse la sua età d’oro durante la quale una ricca letteratura cristiana venne prodotta in lingua georgiana. Ma tutto ciò finì quando il paese fu devastato dalle invasioni di Gengis Khann nel secolo XIII e di Tamerlano nel secolo XV. Nel periodo dal 1500 al 1800 la Georgia registrò una rinascenza culturale, per lo più perché i rivali Ottomani e Persiani s’impedirono a vicenda dall’avere un pieno controllo del paese. Nuovi contatti vennero stabiliti con l’Occidente e con la Russia. Nel 1801 la Georgia venne annessa alla Russia e quando il Patriarca morì nel 1811 i Russi abolirono il Patriarcato. La Chiesa georgiana fu allora amministrata da San Pietroburgo dal Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa Russa attraverso uno speciale esarca. Le 30 diocesi dalle Chiesa furono inoltre ridotte a 5 e la lingua georgiana venne soppressa nei seminari e nella liturgia, rimpiazzata dal russo o slavo.

Dopo l’abdicazione dello zar Nicola II (1 marzo 1917), l’autorità della Chiesa ortodossa russa era seriamente minacciata nelle regioni non russe dell’impero. Il 12 marzo 1917, in un meeting dei vescovi georgiani, clero e laici annunciarono la ricostituzione della Chiesa autocefala. Il settembre seguente un concilio della Chiesa georgiana elesse un nuovo Patriarca; queste azioni non erano accette alla Chiesa ortodossa russa. Dopo la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917 la Georgia riguadagnò in breve tempo la sua indipendenza (dal maggio 1918 al febbraio 1921); infine fu annessa all’Unione Sovietica. Ma la Chiesa georgiana mantenne la sua indipendenza nonostante l’intensa persecuzione dei sovietici. Il Patriarcato di Mosca concesse formalmente l’autocefalia alla Chiesa georgiana nel 1943.

La situazione di questa Chiesa sotto il dominio sovietico fu simile a quella della Chiesa ortodossa russa; mentre nel 1917 vi erano 2455 chiese aperte in Georgia, a metà degli anni ‘80 ve n’erano solo 80 funzionanti, con 4 o 5 monasteri e seminari. La Chiesa georgiana fu costretta a seguire il Patriarcato di Mosca nella sua politica internazionale ed ecumenica.

Ma le politiche di riforma di Gorbaciov in URSS interessarono anche la Chiesa georgiana. Molte chiese furono riaperte e nell’ottobre 1988 venne formalmente inaugurata nella capitale Tbilisi un’accademia teologica ortodossa con 150 studenti impegnati in sezioni che avevano a che fare con la teologia (antropologia cristiana e arte cristiana). Ora c’è una seconda accademia teologica in Gelati e 6 seminari nel paese, oltre ad un istituto per la formazione dei laici. Ogni diocesi ha organizzato un centro per la formazione dei catechisti e dei missionari da impiegare per la ri-evangelizzazione del paese.

Il 4 marzo 1990 il Patriarcato ecumenico ha concesso lo status autocefalia alla Chiesa di Georgia e ha confermato il suo rango di patriarcato. Per un certo tempo lo status della Chiesa georgiana è stato disputato tra Mosca e Costantinopoli: il Patriarcato ecumenico non ha riconosciuto il diritto di Mosca di conferire l’autocefalia nel 1943 e ha continuato a considerarla una Chiesa autonoma. Ciò ha regolarizzato la posizione della Chiesa georgiana nel mondo ortodosso.

Il processo di rinnovamento sì è intensificato dopo che la Georgia è diventata una nazione indipendente nel 1991. Le vocazioni al sacerdozio sono aumentate, è cominciato il rinnovamento della vita monastica e sono state aperte molte chiese nuove. Il battesimo dell’ex presidente georgiano, Eduard Shevardnadze, nella Chiesa ortodossa georgiana nel 1992, testimonia del ruolo importante che la Chiesa può giocare nella nuova repubblica indipendente. Nel 1994 la Chiesa ortodossa e il governo georgiano hanno firmato un accordo sull’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche il cui programma è stato redatto con l’apporto della Chiesa. Con l’intervento del governo è stata costruita in Tbilisi una grande cattedrale dedicata alla Santa Trinità. La prima pietra è stata posta dal Patriarca Ilia nel marzo1996.

Un concilio della Chiesa ortodossa georgiana (settembre 1995), ha visto il raduno dell’intera gerarchia con i delegati del clero e del laicato. Ha preso molte decisioni per favorire il rinnovamento pastorale e spirituale della Chiesa. Ha inoltre richiesto una chiarificazione della posizione della Chiesa georgiana nei dittici e ha canonizzato cinque nuovi santi.

Dal 1997 alcuni movimenti anti-ecumenici hanno guadagnato molto terreno in Georgia ed hanno cominciato ad apparire serie divisioni circa la partecipazione della Chiesa al movimento ecumenico. In una lettera aperta pubblicata il 17 marzo 1997 gli abati di cinque monasteri hanno minacciato di rompere la comunione col Patriarca Ilia (il quale è stato uno dei presidenti del Consiglio Mondiale delle Chiese dal 1979 al 1983), a causa della sua attività ecumenica. La tensione si andava facendo molto forte e per evitare uno scisma, il Santo Sinodo ha votato (nel maggio 1997) di ritirarsi sia dal Consiglio Mondiale delle Chiese sia dal Consiglio Europeo delle Chiese. Ciò non ha sanato interamente la situazione e qualche esponente dell’opposizione, che è in stretto contatto con i gruppi dei Vecchi Calendaristi di Grecia, hanno invitato la Chiesa a rompere la comunione con quelle Chiese ortodosse che continuano a partecipare a organizzazioni ecumeniche. In questa disputa gioca un significativo fattore politico: il Patriarca Ilia aveva stretto una forte alleanza col governo con l’allora presidente Shevardnadze mentre il gruppo antiecumenico è legato ai sostenitori del deposto presidente Zviad Gamsakhurdia.

La situazione attuale a questo livello rimane confusa. Su un totale di 5.500.000 georgiani il 65% si identifica nella Chiesa ortodossa, l’11% si dichiara musulmano, il 10% russo ortodosso e l’8% armeno apostolico. Nel 1997 le parrocchie della Chiesa ortodossa erano 500, servite più o meno da ugual numero di sacerdoti; 27 sono i monasteri.



TERRITORIO

Georgia e la piccola diaspora

GUIDA
Catholicos Ilia II (nato nel 1932, eletto nel 1977).

TITOLO
Catholicos - Patriarca di tutta la Georgia.

MEMBRI
3.500.000

RESIDENZA
Tbilisi, Georgia

WEB SITE
http://www.patriarchate.ge

Lunedì, 19 Novembre 2007 21:55

Due Chiese, una Verità (Vladimir Zelinskij)

Due Chiese, una Verità

di Vladimir Zelinskij



Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede - che ribadisce che soltanto la Chiesa cattolico-romana può essere pienamente identificata con la Chiesa di Cristo - è come una piccola scossa che dalle profondità dell’oceano provocherà delle grandi ondate. In campo protestante non si è fatta attendere una gelida tempesta, in cui si può sentire il sapore dell’offesa. Dopo tanti anni di dialogo ecumenico, noi non abbiamo neanche meritato di chiamarci “Chiesa”? Di nuovo Roma si è mostrata per ciò che è sempre stata! Questa identità confermata, invece, ha portato un’inattesa soddisfazione per la Chiesa ortodossa, anche se la sua “carenza” - la mancanza di comunione con il successore di Pietro - è chiaramente indicata. Secondo l’ecclesiologia ortodossa, infatti, il carisma del Pescatore appartiene ad ogni vescovo in quanto capo della Chiesa locale e in comunione con gli altri vescovi. Il primato assoluto, anche giuridico, del vescovo di Roma è solo il frutto dello sviluppo storico. Due tradizioni, quella romana e quella ortodossa, sono in discussione, ma il principio della fedeltà alla Tradizione rimane un terreno comune. L’Ortodossia sottolinea la deviazione occidentale dall’eredità del primo millennio ed insiste affermando che la riscoperta di questa eredità sarebbe la principale condizione per il ritorno all’unità. Nel documento della Congregazione non è espresso un atteggiamento in qualche modo simile?

“Secondo la dottrina cattolica, mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle Comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse…”. Questa affermazione la si può capire così: la Chiesa Cattolica può sussistere in incognito tra le pecore degli altri ovili e l’unità deve manifestarsi attraverso la scoperta della sua presenza nascosta. Ma davvero è diversa questa posizione dall’appello: “tornate al primo millennio quando eravamo uniti, ritrovate la Tradizione patristica che voi avete abbandonato”? La Chiesa ortodossa non ha mai smesso di parlare di sé, non come “venerabile Chiesa orientale”, ma come unica e santa Chiesa di Cristo. E quando due (?) Chiese con la stessa pretesa di verità, entrano in dibattito, entrambe sono chiamate a fare ulteriori, approfondite ricerche nella Tradizione, con un orecchio aperto a ciò che oggi lo Spirito dice alle Chiese. Nessun ortodosso contesta il primato di Pietro, ma “l’infallibilità papale” era davvero voluta da Cristo? E tutti gli altri dogmi che ci dividono non sono stati introdotti in modo unilaterale, senza chiedere l’opinione dell’Oriente come se non ci fosse? La chiarezza da parte della Chiesa Romana è una sfida: ci si può anche voltare facendo finta che niente sia successo… Ma si può anche rispondere con una riflessione nuova sulla nostra enorme ricchezza condivisa.

Le origini del buddismo in Tibet risalgono addirittura a imprecisate epoche della preistoria, tanto da poter ipotizzare di trovarci di fronte alla più antica tra tutte le religioni mondiali tuttora praticate. La grande consapevolezza dei poteri della mente, tipica del buddismo tibetano, e la carismatica figura del Dalai Lama, sua massima autorità, rende attualissima questa religione. Le famose esperienze di “premorte”.

Romania.
Una sfida per un futuro prossimo

di Rosangela Vegetti


La situazione di questa nazione è di grande speranza per l’avvenire dell’Europa. Sul piano religioso (l’86% della popolazione è ortodossa), potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche. In un recente viaggio una delegazione di responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi lombarde, ha incontrato, mesi addietro, esponenti della Chiesa ortodossa, in vista della III Assemblea ecumenica europea che è stata tenuta lo scorso settembre prossimo a Sibiu.
La Romania è un paese vicino a noi, vanta radici culturali latine a partire dalla conquista dell’imperatore Traiano, è membro della comunità europea, assorbe parecchie attività italiane “delocalizzate” e faticosamente sta ricostruendo la propria vita sociale e politica dopo il lungo periodo comunista, per noi però è ancora da scoprire nelle sue varie connotazioni, a partire dalla sua profonda tradizione religiosa. Potrebbe essere un terreno di proficue esperienze ecumeniche di incontro e dialogo in vista di progetti nuovi di amicizia e solidarietà in questo tempo di ricostruzione e apertura al futuro, e questo è l’intento che si sono dati da tempo i responsabili degli uffici di ecumenismo delle diocesi di Lombardia con capofila Milano.

Capofila perché già il cardinale Martini aveva aperto il cammino con, scambi di visite con il patriarca di Bucarest e altri metropoliti, e inaugurato un metodo di “intervento” per progetti di solidarietà connotato da ampie intese di collaborazione per evitare ogni ingerenza o presenze fuori misura. Tale è infatti il timore di chi si trova nella necessità e vede sorgere opere e iniziative che superano ogni possibile gestione locale (ospedali, scuole, chiese, seminari, case religiose, strutture di servizio) e assumono il carattere di “imprese straniere”.

In un recente viaggio, una delegazione lombarda di incaricati ecumenici diocesani, giornalisti e operatori pastorali, con monsignor Coccopalmerio, vescovo delegato per l’ecumenismo della Cei (ora presidente del Pontificio consiglio per le leggi), ha incontrato esponenti della Chiesa ortodossa e insieme valutato quanto si possa fare per il prossimo futuro, sia in vista della III Assemblea ecumenica europea, che culminerà a Sibiu nel prossimo settembre, sia per conoscere la realtà della Chiesa sorella cui appartiene il gruppo più numeroso di immigrati est-europei in Lombardia. I metropoliti hanno manifestato le molteplici difficoltà ed esigenze di vita cui stanno cercando di rispondere perché la popolazione romena molto cammino ha ancora da fare e molto si attende dal sostegno dei popoli europei. Si è parlato di possibili gemellaggi tra parrocchie - in alcune città lombarde esiste già tale forma di collaborazione con parrocchie romene - tra diocesi e istituzioni, magari anche enti locali, e si sono visitati centri diocesani e monasteri.


Attenzione ai gravi bisogni sociali

La Chiesa ortodossa romena conta sei metropolie autonome, ognuna con il suo sinodo dei vescovi, ma solo dopo, il 1989 ha potuto organizzare un dipartimento per l’assistenza «sociale, perché nel periodo comunista non poteva svolgere alcuna attività filantropica. Ora lo Stato non è più in grado di rispondere alle svariate necessità ed è la Chiesa che deve intraprendere iniziative idonee, che vanno dalle mense per i poveri, al sostegno ai disoccupati, a forme di aiuto e protezione per i minori, a interventi contro il dilagare della droga tra i giovani, violenze in famiglia, anziani soli, ecc. «Sono stato 4 anni responsabile del dipartimento dei problemi sociali a Craiova», spiega monsignor Nicodim, vescovo di Severin e Strehaia, «quando ero vescovo vicario del vescovo Teofan. Siccome ero stato quattro anni in Grecia, ho visto il loro sistema messo a punto da tempo, qui invece abbiamo dovuto prima attrezzare gli uffici, poi stabilire i progetti e formare personale; abbiamo assunto assistenti sociali dalla nostra facoltà di teologia ma abbiamo avuto scarsità di spazi; abbiamo ottenuto diversi finanziamenti da ong estere, cercando di stare nei limitati spazi disponibili». In pochi anni si è passati da una vita religiosa circoscritta a monasteri e liturgie al compito complesso di organizzare risposte a gravi bisogni sociali.

«Oggi il rapporto Stato-Chiesa soffre di una certa tensione», spiega il vescovo Nicolae di Timisoara, la seconda città del Paese con 276 parrocchie ortodosse, 300 sacerdoti, e 650.000 fedeli, «perché la Chiesa desidera recuperare le proprietà che le sono state confiscate negli anni passati. Lo stato comunista aveva infatti nazionalizzato e acquisito tutti i beni ecclesiali, e per decine ne ha usufruito, oggi lo Stato dice che la Chiesa è autonoma e può fare quello che vuole, però dimentica come era prima, non sostiene l’attività della Chiesa se non su richiesta e in piccola misura. Il finanziamento ci viene dai fedeli. Circa l’attività sociale-caritativa, nella nostra diocesi, abbiamo un settoreche si occupa di questo .ed è coordinato da un responsabile amministrativo; si volgono attività in particolare per i bambini, che provengono da famiglie sciolte e abitano in strada o in orfanotrofi statali; la diocesi ha cinque case di tipo familiare, dove questi bambini sono presi in affido,e alcuni rappresentanti della diocesi si occupano dei bambini ammalati di Aids per la loro integrazione nella società; lavoriamo anche con i rispettivi genitori e abbiamo una casa che si occupa delle persone che vengono dal traffico degli esseri umani per prostituzione. Attraverso rappresentanti della Chiesa assicuriamo assistenza liturgica, religiosa ed educativa negli asili, nelle scuole e nei licei di Timisoara, abbiamo insegnanti di religione. (uomini e donne) per una minima catechesi nelle scuole. Dopo il 1989 nelle scuole si sono manifestati problemi nuovi come droga e prostituzione, così cerchiamo di assistere questi casi nelle scuole. Adesso ci prepariamo ad aprire un servizio in soccorso agli anziani per assicurare assistenza a domicilio».

La situazione generale è di grande speranza, ma certamente difficile e complessa perché i fedeli non raggiungono il 10% dell’intera popolazione e necessitano di una formazione che vada oltre la sola devozione inoltre i più giovani sono spesso costretti ad emigrare per trovare - sostentamento alle famiglie ed interi paesi sono spopolati; solo la prospettiva di nuove infrastrutture create con l’appoggio europeo fanno sperare nel ritorno di tanti lavoratori emigrati e di donne romene attualmente lontane dalla. famiglia.

Apertura ecumenica

La Chiesa ortodossa romena è comunque interpellata dal corso dell’evangelizzazione dei tempi presenti, secolarizzati e attratti dal progresso materiale, dalla proposta di maggiore apertura ecumenica verso le altre Chiese cristiane e di mediazione tra antiche tradizioni e modernità: «In Romania da molti secoli abbiamo la stessa lingua per la liturgia e la vita quotidiana, per cui il linguaggio liturgico non è distante dal linguaggio parlato; avete sentito che la Chiesa ortodossa è conservatrice ed è così. È difficile introdurre elementi totalmente diversi nella vita e nell’espressione della Chiesa; è impossibile cambiare alcune preghiere della liturgia, portare musica strumentale in chiesa, allontanare la ricchezza iconografica per soddisfare chi vorrebbe uno stile artistico più sobrio, introdurre certe danze nelle celebrazioni. Secondo il mio parere», afferma il vescovo Teofan, metropolita dell’Oltenia e arcivescovo di Craiova, «è un’opera che non va fatta, col rischio di non rispondere alle esigenze di alcune categorie di fedeli.

«L’esperienza storica mostra che il cristiano ha bisogno di cambiare il meno possibile nell’espressione della vita religiosa. Così un’esperienza come il Vaticano Il non pensiamo possa essere necessaria o possibile nella Chiesa ortodossa. Ciò non vuoI dire escludere l’uso di elementi più moderni come i mass media per la diffusione della fede. Certo molti giovani non comprendono il linguaggio della Chiesa e ne vorrebbero un’attualizzazione a loro favore, facciamo poco questo e comunque, se si cambia qualcosa, è solo nelle cose meno essenziali». Qui si collocano le grandi sfide per il futuro.

(da Vita Pastorale, 6, 2007)
Zwingli e Lutero: l'impossibile intesa

di Marco Galloni



Lutero? Più cattolico del papa, almeno secondo il punto di vista di Ulrich Zwingli, il teologo svizzero (1484 – 1531) che con il riformatore di Eisleben ebbe profonde divergenze sulla concezione dell’Eucaristia, culminate con il faccia a faccia di Marburg nel 1529. È quanto emerso venerdì 20 aprile 2007 durante il sesto appuntamento degli Incontri Celimontani di quest’anno, organizzati presso il monastero camaldolese di San Gregorio al Celio in Roma. Titolo dell’incontro: “Esperienza corporea dello spirito ed esperienza spirituale del corpo alla luce della teologia eucaristica della fede riformata”. Relatore il teologo e pastore valdese Paolo Ricca, moderatore dom Guido Innocenzo Gargano, priore del monastero.

Le tre obiezioni di Zwingli

La via cristiana alla salvezza, questa l’opinione di Gargano, passa necessariamente attraverso la carne: è attraverso la carne che si arriva a Dio. Una visione che Lutero, con ogni probabilità, non avrebbe avuto difficoltà a condividere. Non così Zwingli, secondo Paolo Ricca: per Zwingli noi uomini dell’era moderna viviamo nel tempo dello spirito, non più dell’incarnazione. Se Lutero è teologo dell’incarnazione, Zwingli lo è dell’ascensione. Secondo quest’ultimo il pane della cena eucaristica non “è” il corpo di Cristo ma “significa” il corpo di Cristo, mentre per Lutero l’”est” va inteso letteralmente, grammaticalmente: il pane “è” il corpo di Cristo. A Lutero avrebbe fatto peraltro gioco la concezione zwingliana, per combattere la dottrina della transustanziazione. Ma, dice il teologo tedesco, il testo è troppo forte, quasi perentorio: “est”, “è”! Entrambi i teologi affermano una presenza reale, ma mentre per Lutero si può parlare di corporeità dello spirito, per Zwingli è più opportuno ragionare in termini di spiritualità del corpo. La visione di Zwingli è sintetizzata nelle tre obiezioni che egli muove all’idea di una presenza corporea di Cristo nel pane eucaristico. Prima obiezione: l’”absurditas”, tale presenza è a ssurda, inconcepibile. Seconda obiezione: “nulla necessitas”, si tratta di una presenza non necessaria. Terza obiezione: la presenza corporea è addirittura sconveniente, indegna di un Dio che è comunque spirito.

Le risposte di Lutero

Alla prima obiezione Lutero risponde che molte sono le cose inconcepibili e inspiegabili nella creazione, eppure non a ssurde: l’anima, per esempio, che nessuno ha mai visto né sa esattamente cosa sia. E poi la voce, che è solo un soffio. O il piccolo seme che si trasforma in pianta. Eppure tutte queste cose esistono realmente, accadono. Cos’è questo pane che diventa corpo? È uno dei tanti miracoli che Dio opera. Possiamo riconoscere Dio ovunque, il creato è pieno di Lui: nulla è così grande che Dio non sia ancora più grande, nulla è così piccolo che Dio non sia ancora più piccolo, nulla è così stretto che Dio non sia ancora più stretto, nulla è così largo che Dio non sia ancora più largo... Alla seconda obiezione di Zwingli, Lutero risponde in modo sbrigativo: chi sei tu per insegnare a Dio cosa è necessario? Quasi scontata la risposta alla terza obiezione: il vero onore di Dio è proprio l’incarnazione, l’abbassamento; ciò non soltanto non è sconveniente ma esalta l’onore di Dio. Zwingli, dichiara Lutero, vuole riportarci all’Antico Testamento, al tempo delle teofanie, delle ombre, mentre il Nuovo Testamento è il tempo della presenza reale, corporea di Dio. Al contrario di quanto generalmente si crede, Lutero è un accanito sostenitore della presenza del corpo di Cristo nell’Eucaristia, al punto che Zwingli arriva ad accusarlo di cattolicesimo latente: “Tu parli come quelli di Roma, sei rimasto uno di loro”.

Il pane-corpo

Ma se Lutero è un sostenitore della presenza reale, egli è nello stesso tempo nemico dichiarato della transustanziazione, che secondo lui è un cedimento alle esigenze della ragione, un tentativo di spiegare razionalmente le cose di Dio. La ragione umana, invece, dovrebbe soltanto ricevere le cose di Dio, non spiegarle. Nemmeno Zwingli crede nella transustanziazione, come abbiamo visto, ma in modo diverso da quello di Lutero: i due, potremmo dire, sono divisi nella divisione, in disaccordo su ciò che li pone in disaccordo con la chiesa di Roma. Se per transustanziazione la dottrina cattolica intende “il mutamento della sostanza del pane e del vino nella sostanza del corpo e del sangue di Cristo, resi in tal modo presenti sotto il permanere delle apparenti realtà sensibili del pane e del vino” (Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler: “Dizionario di Teologia”), per Zwingli il corpo non c’è proprio. È sul Golgota. O meglio, in cielo alla destra del Padre. Per Lutero, al contrario, c’è vero pane e vero corpo insieme, al punto che il teologo tedesco arriva a coniare espressamente la parola composta “leibsbrot”, pane-corpo. Questa è la ragione, ricordava Ricca, per cui nella chiesa luterana non si pratica la conservazione dell’ostia, che presuppone la localizzazione: per i luterani c’è presenza reale ma non localizzazione.

La trans-significazione di Zwingli

Zwingli non manca di replicare alle contro-obiezioni di Lutero, ribadendo ancora una volta che l’”est” significa il corpo di Cristo ma non è il corpo di Cristo. A titolo di cronaca ricordiamo che tale posizione non è propria di Zwingli: la si può trovare già in Wycliffe, il fondatore dei lollardi. Per rafforzare la seconda obiezione, quella della “nulla necessitas”, Zwingli si rifà a un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 6,63): “È lo Spirito che vivifica, la carne non giova a nulla”. Quanto all’accusa mossa da Lutero, secondo la quale Zwingli proporrebbe un ritorno all’Antico Testamento, al tempo delle teofanie, il teologo svizzero risponde risentito: “Non è vero che voglio tornare all’Antico Testamento. E poi anche il Nuovo Testamento è pieno di figure, di ombre, di parabole, di metafore”. In realtà, sostiene Paolo Ricca, Zwingli opera una trans-significazione: egli considera la cena eucaristica come la memoria della croce che prende corpo. Una memoria non come la intendiamo noi, come semplice ricordo, ma nel senso biblico, ebraico del termine “ziqqaron”, una memoria esistenziale, un’esperienza, un rivivere l’evento. L’ebreo che celebra la Pasqua non dice: “Mi ricordo di quando i miei antenati erano schiavi in Egitto”. Dice: “Mi ricordo di quando io ero schiavo nel paese d’Egitto”. Il contenzioso tra Lutero e Zwingli, sottolineava in conclusione dom Innocenzo Gargano, riporta per certi versi alla mente il conflitto tra nestoriani e monofisiti: nella teologia di Zwingli il rischio di monofisismo è concreto. Lutero e Zwingli, come si accennava all’inizio, non riuscirono a trovare un accordo: con il colloquio di Marburg fallì di fatto anche il progetto di una coalizione protestante. Il che non significa che i cristiani di tutte le confessioni e i credenti in genere debbano disperare nella possibilità di un incontro ecumenico autentico e profondo. Noi siamo di Cristo, ricordava Paolo Ricca citando 1 Corinzi 3,23, ma Cristo non è nostro. È il salvatore del mondo, non solo dei cristiani. L’”extra Ecclesiam nulla salus” può diventare così, in senso a ssai più ampio, “extra Christum nulla salus”.

Qualche domanda

Parabole estratte dal “Parabolario”
di Galando di Reigny

a cura di Sr. Giovanna Grazioli

Alcuni fratelli si recano da un padre spirituale desiderando ciascuno ricevere da lui una risposta alle loro domande.

9 A. I denti rotti del diavolo

1. La prima domanda: «Perché il salmista dice: “Hai spezzato i denti ai peccatori”a? Come si può affermare ciò, quando i peccatori hanno tutti i loro denti, e sani, mentre molti religiosi anziani sono sdentati al punto di poter mangiare appena il loro pane b?».

L’altro rispose: «Un uomo aveva un cane dalle reazioni immediate, in altre parole mordeva gli ospiti o gli sconosciuti prima di abbaiare: il padrone gli spezzò i denti affinché, se in seguito avesse morso qualcuno, non avrebbe potuto fargli del male.

Allo stesso modo, perché il diavolo non potesse nuocerci troppo coi morsi delle sue suggestioni improvvise e nascoste, il Signore ci ha insegnato ad opporre ai morsi del desiderio carnale, l’astinenza, a quello dell’orgoglio, l’umiltà; infine ad ogni vizio la virtù corrispondente. Con questo mezzo i morsi diabolici sono stati grandemente neutralizzati.

Vedi un fratello in collera che vuol litigare? Rispondigli dolcemente, e così hai «rotto i denti» della collera.

Il tuo spirito ti porta alle stelle, ti eleva sopra degli altri? Pensa che devi morire, che sarai presto polvere, che sarai sottoposto al giudizio divino, che avrai dei debiti da scontare, che sarai giudicato con severità; cosi avrai spezzato i denti dell’orgoglio.

2. Diciamo ancora come i denti dei peccatori saranno spezzati. Capita spesso che un secolare che ha commesso colpe criminali che trapassano come tanti denti del diavolo e che è stato per lungo tempo trattenuto nelle fauci di questo cerbero furibondo, sia visitato dalla grazia di Dio che tende a strapparlo dai denti del diavolo. Ma il nemico funesto non vuole lasciarlo andare cosi facilmente: o meglio non soffre affatto di disserrare i denti che ha piantato nelle sfortunate membra, come è naturale da parte di chi ha messo in opera tanto zelo e pena per custodire la sua preda, quanto il fatto che la credeva già in suo potere e diceva in se stesso che nessuno più l’avrebbe reclamata o gliela avrebbe strappata.

Ora il Signore libera con forza e potenza il peccatore che grida verso di Lui, secondo le parole “ha fatto uscire i prigionieri con forza”c, e ancora “verrà uno più forte di lui che li vincerà” d, ecc. Così si dice del diavolo che i suoi denti sono spezzati, comparandolo ad un essere al quale non si potrebbe far mollare ciò che avesse afferrato fra i denti senza romperlo.

3. Quando ci liberiamo dai peccati più importanti e più gravi, “il Signore spezza i molari dei leoni”e; quando si tratta di colpe più lievi o di poca importanza, egli “frantuma i denti dei peccatori”. O meglio, poiché i molari sono più nascosti dei denti davanti, il Signore frantuma i molari in quanto mi purifica “dalle mie colpe nascoste” f; quando si tratta di colpe commesse apertamente, Egli rompe i denti1. Dato che i molari sono più grossi dei denti davanti è giusto dire che essi rappresentano i peccati nascosti, Il fratello che pecca si corregge spesso più velocemente da una colpa evidente che da una colpa nascosta. Anche tu, rompi i denti del peccatore quando rifiuti di ascoltare il falso fratello g che ti invita al male.

Tale suggestione è un latrato, un morso di cane, una ferita dell’anima. E come mai ogni volta che ti suggerisce questo genere di cose non ottiene nulla, non può farti alcun male, se non perché ha i denti spezzati?».

9 B. Fede, speranza e carità

1. La seconda domanda: «Perché l’Apostolo dice: “Esse sono tre, la fede, la speranza e la carità; ma più grande di tutte è la carità?”a Perché le enuncia in questo ordine e mette l’ultima al di sopra delle altre?».

Rispose il Padre spirituale: «Quando un agricoltore ha messo tutte le sue cure nel piantare una vigna e si è preoccupato a coltivarla, è certamente gioioso quando col tempo la vede fiorire nei giorni primaverili e infine è felicissimo quando in autunno la vede portare frutto.

Ora la vigna di Dio, piantata dalla fede, fiorisce con la speranza e dà i suoi frutti nella carità. Se dunque la fede è una cosa gioiosa, la speranza la supera e la carità ne è sovrana.

Piantare una vigna! Ecco che non sempre dura; la bellezza dei fiori è passeggera; ma vuoi sapere di che natura è il frutto della carità? Ascolta il Signore: «E che voi portiate frutto, dice, e che il vostro frutto rimanga” b Questa piantagione che è la fede appassisce, i fiori della speranza cadono, ma la carità non sparirà mai c.

E di fatti noi soffriamo molto nel piantare e anche durante la fioritura non riceviamo ancora niente, fino alla raccolta dei frutti dove possiamo riempire gioiosi le nostre dispense.

2 . La carità riempie il granaio del cielo, perché la fede e la speranza non salgono fin là.

La nostra carità germina qui in basso, si alza dal basso della terra del nostro cuore; ma la sua cima penetra i cieli e il suo frutto ci mette in compagnia degli angeli. Tu non puoi salire fino al cielo se non per mezzo dell’albero della carità. A meno di piantare qui la carità, non potrai cogliere i frutti lassù. Ma quando seminerai una semente di carità nel giardino del tuo cuore, guardati dall’invidia, la peggiore delle erbe cattive. È soprattutto l’invidia che distrugge il germe della carità, soffoca tutti i suoi germogli d e la sradica fino alla radice.

Nutri la carità, ordina in te la carità e in modo da amare per prima le persone della tua casa, i tuoi compagni, poi le altre persone a te più intime, in terzo luogo i tuoi vicini e le persone del vicinato, in quarto luogo ugualmente coloro che abitano più lontani ma non ti sono sconosciuti, in quinto luogo gli stranieri e le persone sconosciute, ed infine perfino i tuoi nemici.

3. D’altronde l’Apostolo ha enunciato le tre virtù in quest’ordine, sia perché se non credi non puoi sperare i beni celesti e se non speri di raggiungerli un giorno non potrai infiammarti d’amore per essi; sia perché il percorso evangelicof che dobbiamo costruire nel nostro cuore ha per fondamento la fede, si eleva ben in alto con la speranza e termina con la carità; sia perché la fede ci insegna la via da seguire, la speranza ci mostra da lontano il luogo verso il quale ci dirigiamo g la carità ci fa giungere; sia perché la fede ispira a chi è caduto di rialzarsi, la speranza lo conforta fintanto che si rialza, la carità nasconde i suoi peccati h. In breve, la fede ci fa nascere, la speranza ci fa crescere, la carità ci rende perfetti 1.

La fede ci purifica, la speranza ci rallegra, la carità ci santifica. La fede ci distingue dai miscredenti, la speranza ci eleva verso le altezze, la carità ci unisce a Dio stesso. La fede ci fa cristiani, la speranza tutto ci dona, la carità ci rende figli di Dio. La fede scaccia l’errore, la speranza bandisce la disperazione, la carità scaccia il timorei».

9 C. La correzione moderata

1. Il terzo disse: «Chi è più in errore: colui che riprende troppo duramente le persone che peccano, o colui che lo fa fiaccamente?».

L’altro rispose: «Una volta avevo due vicini; la carità li spingeva spesso ad invitarmi a pranzo, e sia l’uno che l’altro mi offrivano da bere del vino accuratamente aromatizzato con miele e a ssenzio. Tuttavia uno di loro metteva quasi sempre in questa bevanda più miele e meno a ssenzio; l’altro invece ci metteva sempre meno miele e più a ssenzio di quello che richiedeva. L’uno e l’altro mi causavano un disgusto.

Tuttavia come la bevanda troppo dolce mi era meno nauseante dell’altra troppo amara, così una correzione più dolce è preferibile ad una più dura. Certamente, è bene talvolta avere in sé il rigore del vino, ma è meglio abbondare delle dolcezze del latte, come è scritto: poiché le tue tenerezze sono meglio del vino a. Infatti se bisogna versare del vino e dell’olio b su una ferita, si mette sempre più olio che vino; se si mischiano queste due sostanze, l’olio galleggia sempre1.

E se capitasse al tuo cuoco di superare la misura nel condimento dei legumi, sopporteresti meglio più olio che troppo sale».

2. Ahl Quale abbondanza di olio metteva nei cibi che ci preparava quel buon cuoco venuto in questo mondo c non per essere servito ma per servire d !

Vedi, ti prego e osserva Colui che dispose tutte le cose con dolcezza», che corregge dolcemente gli Apostoli che si contendono il primo posto f.

Egli accoglie la peccatrice in lacrime ai suoi piedi, l’assolve, la rinvia in pace g la giustifica persino, sia davanti a Simone il lebbroso h, sia davanti a Giuda figlio di Simone, l’lscariota l, sia davanti a Marta, la sua stessa sorella jk. Libera la donna adultera che gli conducono e la mette al sicuro non condannandola

Guarda Pietro che lo rinnega l . Persino sulla croce promette il Paradiso al ladrone m, intercede presso il Padre per i giudei n, a sua madre che piange, cerca un altro figlio che prenda il suo posto o. Dopo la sua morte e la sua risurrezione, va a trovare i suoi discepoli che non lo credevano risuscitato, li saluta, li saluta ancora, mette a nudo il suo costato q, li forma di nuovo ad avere fede, invita Tommaso a toccarlo r, se ne va e ritorna più volte, esortandoli ed istruendoli spesso s. Infine li conduce fuori, li benedice, ascende al cielo t.

3. Ah! Il «buon padrone dell’albergo» che offre dei banchetti così dolci e gustosi! Vuoi gustarli anche tu? Cerca di fare esperienza di ciò che dico. Avvicinati, entra anche tu al refettorio dell’Evangelo. Vi troverai quattro tavoli guarniti di delizie così numerose e così abbondanti che non saprai cosa prendere: quello è buono, quell’altro è migliore!

Si, veramente, se in primo luogo andrai alla tavola di Matteo - per non dire di tutto il resto -,cosa vi potrai trova-re di bene, di dolce, di morale, di edificazione che non contenga il sermone del Signore sulla montagna u?.

Poi quando avrai scrutato a fondo e per ordine gli altri due tavoli e avrai visto le meraviglie che vi sono servite, penserai che niente di meglio può trovarsi sotto il cielo.

Per ultimo ti si presenterà la tavola di Giovanni. La vedrai carica di cibi divini di una nobiltà tale che tutto ciò che avevi visto in precedenza ti sembrerà poca cosa. Cosa proverai infine quando giungerai alla Cena del Signore e percorrerai con lo sguardo l’abbondanza grondante, lo scorrere abbondante delle Parole divine v? In verità potrai esclamare con Paolo: O profondità della ricchezza della saggezza e della scienza di Dio! w»

9 D. L’Ispirazione divina

1. La quarta domanda: «Perché il Signore dice nell’Evangelo che Lui e Suo Padre verranno da chi osserva i suoi comandamenti e faranno la loro dimora presso di lui a, quando comunque nessuno può osservarli a meno che Dio non venga prima a visitarlo con una ispirazione divina.

L’altro rispose: «Un ricco allevò nella sua casa, per amore di Dio, un ragazzino povero e di modeste condizioni. Quando quest’ultimo giunse all’età adulta, il ricco gli disse: “Ho deciso di darti una piccola somma di denaro affinché tu la faccia fruttare, aumentandola a tuo profitto, alle seguenti condizioni: se la farai fruttare con sagacità te ne darò un’altra più grande; altrimenti pensa che questa sarà l’ultima”.

Ora, quando il giovane ebbe gestito questo denaro con prudenza, il suo padrone di casa aggiunse un’altra somma più considerevole alla prima; e quando vide che anche questa era ugualmente ben amministrata, lo gratificò con abbondanti ricchezze.

2. Così il Signore prima ci accorda un soffio leggero della Sua grazia, e se questa prima grazia non è stata vana in noi b, ci arricchirà in seguito di una benedizione molto più abbondante: la Sua venuta e quella di Suo Padre. E se facciamo fruttare bene e diligentemente la larghezza dei suoi doni, ci accorderà ancora di più i doni della sua liberalità; tanto più noi risponderemo convenientemente e con sagacia ai suoi doni, tanto più Lui ci arricchirà di più grandi.

E se noi non cesseremo di meritare il Suo bene, Lui non cesserà mai di farci del bene, e non ci sarà mai fine al nostro progresso spirituale quotidiano né alle Sue costanti e sovrabbondanti ricompense».

9 E. La bellezza spirituale

1. La quinta domanda: «Perché una certa persona dice di lei: sono bruna, ma sono beIIa a? Se è nera, come può essere bella? e se è bella, come è nera?»

Ma l’altro rispose: «Un giorno un uomo andò a raccogliere more con un bambino. Ma le more non erano tutte mature e non avevano dunque tutte lo stesso colore; le une erano nere, le altre verdi o rosse, Il bambino, credendo e dicendo in cuor suo b che tutto ciò che è nero è spregevole e da rifiutare, non raccoglieva che le more rosse e verdi, mentre il suo compagno non raccoglieva che le nere.

2. Anche tu, non credere che tutto ciò che è nero sia mediocre e senza valore: al contrario, molte cose sono migliori tanto più sono nere! Pensa per esempio alle lettere incise in un libro: più sono nere, più sono nitide. Rossicce o giallastre sarebbero meno leggibili. L’uva in autunno, o le more in questione sopra, sono tanto più gustose da mangiare tanto più sono nere; se gli restano delle tracce di giallo o di verde, ci sembrano già meno buone.

Lo stesso vale nel campo spirituale; alcune virtù sono, in qualche modo, nere. Sembrano brutte e vergognose agli stolti, mentre i saggi le prediligono e le stimano. Tali sono la povertà volontaria, una pazienza tranquilla, l’umiltà religiosa.

Chiunque è capace di comprenderle e di riconoscerle, è adulto nell’intelletto, è perfetto nel discernimento. Ma chiunque è incapace di apprezzare tali realtà è un bambino nel giudizio c (1)e dallo spirito povero. Lascia da parte le more buone e mature per cogliere quelle verdi Ogni anima santa che per amore di Dio ha in sé quelle belle nerezze può dire con ragione: sono bruna, ma sono bella! d,»

9 F. L’uomo che grida con una voce non sua

La sesta domanda: «Perché il salmista dice: con la mia voce ho gridato al signore a? Infatti chi mai grida o parla con una voce non sua?».

L’altro rispose (A): «Vi era un vecchio al quale l’età aveva fatto perdere quasi completamente la vista. Aveva un figlio unico e molto caro, che faceva spesso delle corse di qua e di là per procurar loro il necessario. Un ragazzo che abitava nelle vicinanze spiava la sua a ssenza per andare a trovare il padre e, fingendo di essere suo figlio, gli domandava tutti i regali che voleva. Dato che possedeva una capacità d’imitazione e sapeva dare differenti timbri alla sua voce, prese la voce del figlio e ripeteva spesso il nome del padre con un tono affettuoso: così otteneva immediatamente ciò che domandava.

Lo stesso Dio cerca di ascoltare la voce di suo figlio e prova piacere nell’ascoltarlo. Una voce di figlio, dico, non di mercenario: la voce di colui che erediterà con Lui, non di colui che non dimorerà mai nella sua casa b. Ma non possiamo prenderci gioco di Dio c né ingannarlo come si è potuto abusare del vecchio. Se dunque vuoi avere una vera voce di figlio, bisogna che tu sia veramente figlio.

2. Una voce di vero figlio è una voce umile e semplice che esprime il dono di sé, voce in armonia con lo spirito (1), voce che confermi le opere. Una voce di vero figlio non cerca di vendicarsi dei suoi nemici, perchè suo padre fa piovere sui giusti e sugli ingiusti d; non domanda i beni terreni dati ai mercenari, ma attende quelli del cielo riservati ai figli. Una voce di vero figlio è una voce di operatore di pace», perché questi saranno chiamati figli di Dio f. Una voce di vero figlio parla spesso di opere di misericordia; perché il suo Padre Celeste è misericordioso g. È una voce lamentosa e gemente, come è scritto: la voce della tortora si è fatta sentire nella nostra campagna h. Allorché questa voce pronuncia il nome di Padre, l’amore del Padre occupa subito il cuore. Quando invoca il nome del Signore i, anche lo spirito porta in sé la reverenza dovuta al Signore.

Se per caso - non sia mai! - un giorno la mia malizia mi facesse essere figlio del diavolo e schiavo del peccato k qualora dicessi Padre nostro l o cantassi Signore, mio Signoro m, non griderei con la mia stessa voce; prenderei in prestito quella di un altro. Peccatore, usurperei ciò che spetta al giusto, e non impetrerei con la fiducia di essere esaudito, ma con la confusione per la mia cattiva coscienza.

3. Invece, Davide, che fu sempre buono e santo, dice giustamente: con la mia voce ho gridato al Signore, mi ha esaudito dal Suo monte Santo n. Come se dicesse: “Poiché grido al Signore con la mia solita voce, voce che Egli conosce bene, che sempre gradisce, ho fiducia di essere esaudito”.

E se dico della mia preghiera che essa grida, è perchè proferendola dal profondo della mia anima, la spando davanti a Dio in uno slancio spirituale.

Quanto al fatto che dico di essere stato esaudito (B) qualora gridassi, per così dire, dalla cima di una montagna (C), come se non dovessi essere ugualmente esaudito gridando da una valle, o come se Dio, che dimora in cielo, sente meglio coloro che gridano da una montagna piuttosto di coloro che gridano da una valle perché i primi sarebbero più vicini a Lui dei secondi, ma è vero che più tu sarai vicino a Lui, più velocemente sarai esaudito; e più sarai lontano da Lui, più ti sarà difficile ottenere ciò che domandi.

Così come la vicinanza o la lontananza si misurano in termini di luogo quando si tratta di noi, nel caso di Dio si valutano in termini di meriti perché è sicuramente per tali meriti che ci avviciniamo o o ci allontaniamo da Dio».

Note

GALANDO DE Reigny, Parabolaire, a cura di C. Friedlander, Sources Chrétiennes n.378, Les Editions du Cerf, Paris 1992.

aSal 3,8 // b Gen 3,19.

c Sal 67,7 // d Lc 11,26 // e Sal 57,7

f Sal 18,13

1 Vedi GREGORIO MAGNO: «Si designa per molari le insidie nascoste del diavolo, per denti, l’adempimento alla scoperta della colpa. Molari e denti di cui il salmista ha scritto “Ma Dio spezzerà i denti nella loro bocca, il Signore romperà i molari dei leoni”» (Mor. XIX, 26,47: PL 76,128 A).

g 2 Cor 11,26; Gal 2,4

a 1 Cor 13,13 // b Gv 15,16 // e 2 Cor 13,8.

d Gb 31,12 // e Ct 2,4// f Lc 14,28

g Eb 11,13; Gen 22.9 // h 1 Pt 4,8.

1 II tema della carità ordinata è stata legata agli autori spirituali del XII secolo dagli scritti di Origene sul Cantico: Hom. Cant. 2,8 (SC 37 bis, p. 128-130); in Cant. 3 (PG 13, 155D -160B). Le tre virtù teologali sono considerate come tre tappe dello sviluppo in noi di una stessa realtà che è la vita di Dio. Cf. GUILLAUME DE SAINT-THIERRY. La formazione dell’uomo religioso consiste nell’educazione morale; la sua via è l’amore divino. Vinto dalla fede, partorito nella speranza, questo amore riceve dalla carità, ossia dallo Spirito Santo, la sua forma e la sua vitalità» (Epist.169-170: SC 223, p. 278).

i 1 Gv 4,18.

a Ct. 1.1 // b Lc 10,34.

1 Comparare con S. Agostino: «L’olio versato nell’acqua sale al di sopra dell’acqua; l’acqua versata sull’olio scende al di sotto dell’olio: sono trattenuti dal loro peso e cercano il luogo che gli è proprio. Le cose che non sono al loro posto si agitano; ma quando trovano il loro posto restano ferme. Il mio peso, è il mio amore; in qualunque luogo io sia portato, è Lui che mi porta». (Conf. 13,9; trad. J. Trabucco, t. 2, Parigi 1937, P. 319).

c Gv 11,27; 9,39 // d Mt 20,28 II e Sap 8,1

f Cf. Lc 22,24-29 // g Lc 7,37 1 // h Cf. Mc14,3s.

i Cf. Gv 12,14s // j Cf. Lc 10,38 // k Cf. Gv 8,3s.

l Cf. Lc 22,61 // m Cf. Lc 23,43 Il n Cf. Le 23.34

o Cf. Gv 19,26 s. Il p Cf. Mc 16,14

q Cf. Gv 20,20-21 // rCf. Gv20,27; Lc 24-39

s Cf. At 1,3; Lc 24,27.44-49 // t Cf. Lc 24,50-51.

u Cf. Mt 5-7 // v Cf. Gv 13-17 // w Rm 11,33.

a Gv 14,23 // b 1 Cor 15,10.

a Ct 1,4 /I b Lc 11,38

c Cor 14,20 // dCt 1,4

(1)L’espressione «bambino nel giudizio» la si ritrova nel Lib. Prov. 85 e 98. Designa per Galand l’immaturità spirituale. Ct. C. Friedlander, “Galland de Reigny e la semplicita”, Coll. Cist. 41 , 1979, p41.

a Sal 3,5 // b Gv 8,35 // c Gal 6,7

(A) Ogni parte di un coltello non taglia, ma tutte sono utili o decorative. Così ogni elemento di una parabola non è necessariamente carica di sottigliezze allegoriche; ma tutto completa o perfeziona la composizione del testo affinché la trama del racconto possa tenersi. Quando si costruisce una casa, si fanno spesso dei lavori che mirano ad abbellire l’edificio piuttosto che a rispondere ad una necessità pratica. È’ nello stesso modo che dobbiamo comprendere i dettagli di questa parabola.

(1) Cfr. RB 19,7: «Quando cominciamo a salmodiare, facciamo in modo che il nostro spirito concordi con la nostra voce».

d Mt 5,45 // e Cfr. Gc 3,17 // Mt 5,9 // g Lc 6,36

h Ct 2,12 // i Gl 2,32

j Cfr. .At 2,21 // k Gv 8,34 // l Mt 6,9// m Sal 8,2

n Sal 3,5 // o Cfr. Sal 22,6 // p Cfr. Sal 72,27

(B) Si tratta di Davide

(C) «Mi ha risposto dal Suo monte santo» (Sal 3,5).

Martedì, 13 Novembre 2007 00:03

Pontefice o vescovo di Roma? (Marco Ronconi)

Un tema non solo nominalistico

Pontefice o vescovo di Roma?

di Marco Ronconi

I nomi con cui chiamiamo le cose sono una cosa affascinante. La Chiesa cristiana ha da sempre dedicato enormi energie (e non poco sangue) al come dire (invocare, spiegare, indicare, evocare, definire...) le cose che le sono state affidate. Su come si può (e non può) «dire Dio» sono stati necessari secoli - e prezzi molto alti - per arrivare a parole come «una natura in tre persone», o «vero Dio e vero uomo». Per decidere con quali nomi ci si deve (o non deve) rivolgere a Maria, fu convocato addirittura un Concilio ecumenico, nel 431. Sui nomi con cui spiegare la presenza di Cristo nell’Eucaristia (transustanziazione? Transignificazione?...), la comunione ecclesiale si è spezzata. Talvolta, specialmente quando i prezzi diventano così alti, si è tentati (anche saltuariamente) di risolvere i problemi considerandoli come puri “nominalismi”; non sempre. tuttavia, le questioni dei nomi con cui chiamiamo le cose si riducono a mere questioni accademiche. Non è la stessa cosa, ad esempio, pregare invocando un «Padre che è nei cieli» o contemplando I’«Essere perfettissimo», o supplicando il «Figlio di Dio Crocifisso». Allo stesso modo, non è la stessa presa di coscienza che porta ad affidarsi a un «fratello nella fede» o a un «altro Cristo». Ancora, dire «chi è un cristiano» (e chi di conseguenza non lo è) o «cos’è la Chiesa» (e di conseguenza cosa non è), non è questione per pochi viziati dal lusso del pensiero.

Anche nel campo del linguaggio, il Vaticano Il operò un profondo aggiornamento,dalla liturgia alla teologia. Espressioni come «sacerdozio comune» o «Chiesa come mistero e comunione» (che se non nuove, sicuramente avevano trovato in Lumen gentium un contesto diverso dal passato recente), sono così potenti che don Giuseppe Dossetti affermava già nel 1966: «Non importa che una generazione o due possano eventualmente procedere a un impiego larghissimamente nominalista di tutte queste realtà, o che alcuni possano addirittura usare queste parole unicamente per frodarne i contenuti; questi nomi, che non sono solo dei nomi, camminano; da molti sono presi sul serio, hanno aperto possibilità di ricerca che prima non si intravedevano nemmeno lontanamente e soprattutto creano in realtà e nel profondo, la possibilità - dico la possibilità perché l’attualità dipende poi da molte cose - di un costume nuovo, di uno spirito nuovo, di un’anima nuova nella Chiesa».

Molti ragionamenti sarebbero a questo punto possibili. Vorrei introdurne uno, forse più marginale ma curioso, sui nomi con cui chiamare il «Papa di Roma» («Pastore della Chiesa universale»? «Servo dei servi di Dio»? «Sua Santità»? «Patriarca d’Occidente»?..). Nel 1970, la Commissione teologica internazionale aveva ad esempio sconsigliato l’uso di alcuni di questi titoli che, pur appartenendo alla tradizione, potevano dare luogo a fraintendimenti. Ne parlò anche Yves Congar in un articolo tanto succinto quanto interessante. «Papa» e «Santo Padre», ad esempio, sono i titoli giudicati più adatti: il primo condivide la stessa etimologia di «papà» ed entrambi nascono (anche se in periodi diversi), come forme di vicinanza affettiva alla figura del vescovo. Al proposito. è interessante ricordare che solo dall’XI secolo «Papa», «Pontefice» e «Vostra Santità», sono esclusiva del vescovo di Roma. Altrettanto da preferirsi sono «vescovo di Roma» e «successore di Pietro», molto usati dai grandi padri latini del V secolo. «Vicario/successore di Pietro», in particolare, è da preferirsi nettamente a «vicario di Cristo», che più di altri può dare origine a confusione. Nell’antichità, infatti, «vicari di Cristo» erano tutti coloro che nella loro azione potevano rendersi trasparenti dell’azione trascendente del Salvatore: vescovi e sacerdoti, ma anche re e imperatori. In varie epoche, molti autorevoli autori hanno messo in guardia sulla confusione tra un titolo di encomio e un titolo giuridico, quasi che il Papa fosse «Dio in terra» e che la sua autorità non derivasse dal presiedere alla cattedra di Pietro! Il Vaticano I, che certo non fu un concilio antipapale, riservò il titolo di «vicario di Cristo» a ogni vescovo, compreso ovviamente quello di Roma. Per motivi analoghi, è sconsigliato dire che il Papa è il «capo della Chiesa»: affermazione non pienamente scorretta, ma che può generare esagerazioni pericolose: il capo della Chiesa in senso stretto è solo Cristo! Per questo. quando si voglia usare tale titolo, si consiglia di seguire l’esempio di Lumen gentium, che parla di «capo visibile della Chiesa», e di «capo del collegio episcopale». Abbastanza sconsigliato infine, è anche chiamare il Papa «Sommo Pontefice» o peggio ancora «Pontefice Massimo», come era d’uso frequente nell’iconografia barocca. Al proposito, ancora Congar cita un aneddoto interessante: non solo «Pontefice» era un titolo tipico della latinità pagana, ma una delle prime volte di cui ne abbiamo notizia è da Tertulliano che ironizza contro un vescovo un po’ arrogante che pretende di essere chiamato «pontefice massimo, cioè vescovo dei vescovi!».

Martin Lutero (1483 – 1546)

di Anne-Cécile Huprelle

Appassionato, angosciato, intellettuale accanito, predicatore impetuoso, l’uomo della Riforma protestante produsse anche alcuni scritti ingiuriosi per i suoi nemici, in contraddizione con l’innegabile spiritualità della sua opera. Il suo obbiettivo: ricollocare il sacro nell’unica relazione di fiducia fra Dio e l’uomo.

Martin Lutero nasce il 10 novembre 1483 a Eisleben in Germania. Molto dotato per gli studi, suo padre, operatore minerario, lo spinge, dopo la maturità, verso studi di diritto. Secondo Lutero, il suo destino avrebbe avuto una svolta in una notte del 1505. Sorpreso da un violento uragano, vede giunta la sua ultima ora: prega allora sant’Anna per chiedere la grazia, in cambio della quale sarebbe divenuto monaco. Qualche tempo dopo entra nel convento degli Eremiti di sant’Agostino di Erfurt. Considerando la sua esperienza come una chiamata di Dio, comincia a riflettere seriamente sulla morte e sulla salvezza. Le sue angosce ricorrenti tradiscono una sensibilità esasperata, quella di un uomo che dubita per sé, come per i fratelli, di fronte al giudice divino.

È ordinato sacerdote a 24 anni, poi diviene insegnante all’università di Wittenberg, pur imponendosi una vita di ascesi e di mortificazione. Vuole credere che la sua vocazione e la sua pietà lo faranno giungere al paradiso. Ma le sue azioni meritorie lo sono anche davanti a Dio? Lutero non è mai in pace. Cosciente della sua inclinazione verso il male, si sente indegno di essere sacerdote, un intermediario consacrato.

Trova liberazione nella Bibbia, in particolare nella lettera di Paolo ai Romani: “Il giusto vivrà per la fede”: secondo la sua interpretazione, se l’uomo crede nel Vangelo è salvo. Dio non sarebbe dunque quel giudice vendicatore che la Chiesa insegna; al contrario sarebbe misericordioso. Anche se l’uomo fosse peccatore per tutta la vita, l’amore e la giustizia di Dio sono doni che Cristo ha ottenuto per lui sulla croce. La religione non è una legge schiavizzante, è una fede liberatrice. Questa scoperta è vitale per Lutero. Da quel momento non cesserà di farne la chiave di lettura dei Vangeli. Liberato dalla preoccupazione individuale della salvezza, il cristiano può darsi a una vita in seno a una comunità non gerarchizzata, dove ciascuno vuole essere libero servo del Cristo.

Traffico di indulgenze

La questione delle indulgenze spinge la teologia luterana a uscire dalle mura dell’università. Nell’ottobre 1517, levandosi contro il traffico delle indulgenze i cui guadagni dovevano servire per la metà alla ricostruzione della basilica di san Pietro a Roma, mette in discussione 95 tesi che contengono l’essenziale delle sue convinzioni. Al principio Lutero non ha la pretesa di riformare la Chiesa: propone delle piste di riflessione per ritornare a una fede spoglia da ogni convenzione. La reticenza papale darà tutta un’altra dimensione a quel che per il momento non è che una disputa teologica.

Accusato di eresia durante un processo di tre anni, continua la redazione di rapporti e continua a provocare il papa, come quando brucia sulla pubblica piazza la bolla papale della sua scomunica. Nella dieta di Worms del 1521 è messo al bando dall’Impero da parte di Carlo V. Ma troppo tardi:la polemica ormai è partita, le tesi di Lutero infiammano la cristianità di Germania e firmano l’atto di nascita della Riforma.

Fra' Lutero impegna una polemica nazionale fra i teologi come fra i cristiani più modesti, grazie a un “media” di scelta, la stampa, e quello dei predicanti che proclamano il Vangelo a suo modo. Si rifugia dal suo amico e protettore Federico di Sassonia, nel suo castello di Wartburg. Seguono anni di produzione intensa, in cui Lutero, per nulla intimidito dal suo esilio forzato, approfondisce la sua dottrina, preoccupato di riconfigurare il rapporto uomo – Dio e renderlo comprensibile: traduce il Nuovo Testamento in tedesco e mette a punto i Grandi scritti riformatori – il Papato di Roma, appello alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, Preludio sulla cattività babilonese della Chiesa, Trattato della libertà cristiana. Vi si ritrovano in maniera coerente e sviluppata le questioni concernenti la salvezza dell’uomo, la pratica della religione e la comunità dei credenti.

Per Lutero non c’è differenza di natura fra il prete e il laico. Con il “sacerdozio universale” il laico acquista una posizione centrale nella Chiesa, luogo di comunione spirituale fra gli uomini. Per lui i sacramenti, oltre il battesimo e la cena, sono inutili, come anche la gerarchia clericale, la supremazia del papa e del concilio. Infine egli nega il carattere definitivo dei voti monastici e i pratica non è più l’ascesi a fungere da modello della vita cristiana, ma la famiglia. Tutte queste idee sono coerenti con la sua esperienza personale, poiché, rinunciando alla vita monastica, sposa Caterina de Bora, un ex-monaca che gli dà sei figli.

Nel 1522 Lutero rientra infine a Wittemberg, quando la Riforma si è allargata: monaci hanno lasciato il convento, principi si sono riformati per prendere, fra gli altri, la loro distanza dal papato… La Riforma prende un colore politico e spinge principi e contadini a prendere posizione nella questione religiosa. Sorpassato dai suoi discepoli, come Thomas Müntzer, Ulrich Zwungli e Andrea Carlstadt, che reclamano una radicalizzazione del movimento, egli si mette dalla parte dei principi contro i contadini in rivolta, rifiutando di alleare la Riforma a rivoluzioni sociali.

Si rende conto allora che la Riforma deve essere organizzata più solidamente. Modifica il suo messaggio, dando impulso al “luteranesimo”, religione del popolo, dotata di princìpi e di istituzioni ecclesiastiche. Nel 1529 scrive due catechismi e fissa un nuovo culto tedesco. L’anno seguente accetta la Confessione di Augusta, redatta da Filippo Melantone, che giustifica la fede luterana. Fino alla morte rimane a Wittemberg, città che diviene per i suoi discepoli la “contro-Roma” e dove mette in pratica il suo talento pastorale. Scrive anche dei canti religiosi che sono per lui i trasmettitori privilegiati della parola.

Discorsi conviviali

Invecchiando, deluso dalla piega che prende la Riforma, moltiplica le crisi di angoscia e si mostra sempre più virulento, anzi grossolano, contro il papa, gli ebrei, il diavolo. I suoi Discorsi conviviali, aneddoti raccolti dai suoi amici (più di 7.000 a partire dal 1529), lo attestano. Il pastore Lutero, a cui piace invitare alla sua tavola ogni sorta di persone, fa delle battute salaci per far colpo sul suo uditorio, ama il buon vino e dimostra una allegria comunicativa in società. Si occupa anche di decorare il suo studio con caricature incise su legno. Una di esse avrebbe rappresentato il papa, “l'anticristo”, che cavalca una scrofa o portato via del diavolo. Questo diavolo di cui Lutero afferma che è venuto di persona a fargli visita per rimettere in causa il suo impegno personale.

Lutero, l'uomo dal carattere tutto d'un pezzo, non fa concessioni su quel che è o su quel che produce. Rispondendo all'attesa di certi cristiani, creando un nuovo linguaggio teologico, è intimamente legato all'evoluzione intellettuale e religiosa dell'Occidente. Contemporaneo dell'Umanesimo, Lutero rifiuta di appartenere a questa filosofia. E tuttavia ritornare alla fonte, toccare la stessa essenza della fede, cercare una verità trascendente non è forse, in fondo, concepire l'uomo come il punto di partenza di ogni riflessione?

(in Le monde des religions, 17, pp. 44-45)

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