E qui affiora anche il limite dell’assistenza: per lo più si concretizza in una “prestazione” gratuita. Una prestazione che sta nel profilo di un “ruolo”, e nella “univocità” relazionale. Un esempio: io “faccio” qualcosa (una visita medica, un pasto caldo, ecc….) senza fare pagare all’assistito la mia prestazione, dentro un “ruolo e una casacca” (volontario della protezione civile, della croce rossa, delle misericordie, ecc…). Io ”sono” la mia prestazione-casacca, tant’è che mi chiamano: un volontario di…… che fa…… Non è importante come mi chiamo e da dove vengo, è importante che io faccia quella data cosa gratuitamente per qualcuno che ne ha bisogno. Appunto qualcuno. Non importa neanche per lui come si chiami e da dove sia, ma solo che sia in quel momento oggetto di una prestazione gratuita. Oggetto, non soggetto, per cui la relazione-prestazione va da me volontario, nel mio ruolo di aiuto, all’altro oggetto del mio aiuto, da cui non mi aspetto altro che questo, ossia che sia destinatario del mio aiuto in quanto bisognoso di qualche “cosa”. Ecco la relazione “a senso unico” in cui vi è un soggetto solo che aiuta e un altro oggetto dell’aiuto. La direzione è solo dall’aitante all’auitato. E tuttavia se questo in sé resta vero, e altrettanto vero che spesso la prestazione di assistenza si apre anche ad una relazione, in cui ci si scambia il nome e si condivide qualcosa delle proprie vite o famiglie…, ma di per sé non è richiesto: quando io ho svolto il mio ruolo di volontario nella prestazione gratuita dentro l’organizzazione che ho scelto, di per sé sono apposto. Sono un buon volontario.
Qui, vi è la zona di confine, da dove spesso avviene lo sconfinamento nel senso negativo dell’ assistenza: l’assistenzialismo. Tutti lo percepiamo subito sentendo odore di bruciato. Si tratta di un possibile percorso che però si ferma nella prestazione gratuita, nel ruolo univoco, nel fare qualcosa, dentro il sistema aiutanti aiutati. L’assistenzialismo è l’intervento di aiuto che si limita e in tal modo si definisce, nel calmierare una povertà, nel contenere un deficit, nell’intervenire nell’ emergenza e rischia, con gli anni e l’abitudine, di considerare gli aiutati appunto solo un deficit, uno svantaggio, un’emergenza. Ne viene che senza averne consapevolezza anche le loro identità finiscono nell’indeterminato di parole come paziente, utente, assistito, alluvionato, terremotato, tossicodipendente, ecc.. L’intervento assistenzialista si limita a calmierare una mancanza. Ma paradossalmente potrebbe perfino diventarne funzionale, complice ignaro anche del suo ampliarsi. Per capirci: se io continuo ad assistere gente alcolizzata senza mai chiedermi perché sempre più gente esagera nel bere finisco per esserne in certo senso complice; bevi pure tanto poi c’è chi ti assiste. Se io continuo a dare qualcosa come la borsa spesa al bisognoso senza mai chiedermi da dove parte quel bisogno, alla fine divento complice di un sistema che può permettersi di non considerare coloro a cui mancano i generi alimentari di prima necessità, tanto poi ci sono i volontari che ci pensano a sopperire, a calmierare l’emergenza. Con un detto famoso: il limite dell’assistenza che diventa assistenzialismo è quello di continuare a dare pesci, addirittura gioire perché son sempre di più quelli che hanno bisogno di me e del mio pesce, ma non insegnare a pescare né interrogarsi sul perché non c’è pesce per tutti. Addirittura se persisto in un fare senza pensare posso arrivare al patologico: son contento di essere indispensabile per l’altro e mi sento frustrato quando l’altro non ha più bisogno di me. Come se i volontari del ricovero notturno della caritas fossero frustrati perché vi sono pochi ospiti, qualora e per davvero, le persone senza dimora fossero finalmente rare. E’ patologia.
Se cioè oltre a fare qualcosa, non si pensa al “perché” qualcuno ha bisogno di quel qualcosa o perche la società , la città (polis) non si accorge o non risponde, vuol dire che davvero sono bloccato su me stesso, sul mio dare. Sono autoreferenziale. Per spigarmi meglio: se l’obiettivo di un corso di alfabetizzazione gratuito per adulti fosse aumentare i volontari, di fatto è come se desiderassi che sempre più persone ne abbiano “bisogno”! Semmai il mio volontariato si darà da fare, anche, perché tutti ne abbiano “diritto” e quindi sia la scuola pubblica, la città, la polis, la società a farsene carico riconoscendo un diritto di tutti e da tutti effettivamente fruibile. Sbandierare o sognare i grandi numeri di un volontariato che fa un poco di tutto e dappertutto, come sinonimo di grande tasso di altruismo sociale non mi convince semmai mi insospettisce. Un volontariato che diventa socialmente in dispensabile porta, alla lunga, a marcare le diseguaglianze. E’ la logica dei party di beneficienza o delle grandi maratone televisive di beneficienza . In altre parole il bello del volontariato, che non scade nell’assistenzialismo, è quello di sognare e di darsi da fare peri diventare inutile o per lo meno il meno indispensabile possibile. E ciò nonostante sia vero che lo Stato sociale non può, e potrà sempre meno, fare tutto e dappertutto.
Ecco il senso dei diritti di cittadinanza che dovrebbero sempre marcare la formazione d ogni tipo di volontariato alla persona: il diritto alla vita, alla salute, alla casa, all’istruzione, al lavoro,…. in una parola alla cittadinanza attiva e solidale. Ed eccoci ad una dimensione centrale ma non sempre riconosciuta e praticata da tante forme di volontariato: la formazione di base e permanente. Formazione, non solo ad una prestazione competente ma anche al senso di quella prestazione che proprio perché libera da ogni obbligatorietà se perde il senso perde l’anima. Un senso da continuare a scandagliare, rispetto all’altro che aiuto, al suo mondo personale e relazionale, al contesto che ha generato o per lo meno favorito o non contrastato l’inspessirsi di un bisogno che differenzia, che mette ai margini. In altre parole la formazione è indispensabile. La formazione al senso della prestazione non è affatto perdita di tempo in nome di quel attivismo che ama misurar-si col contapassi: “non perdiamo tempo in chiacchiere!” Se fosse questo il nostro motto in quanto volontari sarà ben difficile che il nostro volontariato di assistenza resti immune dalla patologia assistenzialista. Anche se questo è il volontariato che di più, e non senza malizia, le istituzioni applaudono. Ma il perché è ovvio. Non pensa, non fa politica, non si interroga sulla polis, sulla città, sulla società ossia sulle cause, sul contesto, sulle risposte al bisogno. Perciò, fa molto comodo.
E cosi, continuando il nostro percorso -di fatto- siamo già entrati nel “territorio” della nostra terza parola giuda: relazione. Sì perché evitando di scivolare nell’assistenzialismo mi sono accorto che non basta dare qualcosa nel senso unico di una prestazione, ma comincia a nascere una relazione dove ci si chiama per nome e dove l’altro non è più solo oggetto indeterminato: utente, terremotato, handicappato, povero, ecc.. ma diventa soggetto nella reciprocità. Non mi limito più a dare o fare qualcosa ma comincio, dentro il fare, ad incontrare a stare con qualcuno, che ha un nome, una storia, dei sentimenti, delle paure ma anche delle speranze, dei sogni , degli affetti, delle responsabilità. Più o meno come me. Appunto! Ecco la reciprocità di un volontariato che riconosce il primato della relazione sulla prestazione, il primato dello stare-con sul fare-per, il primato del nome sulla casacca, il primato del volto da incontrare sulla cosa da dare o da fare. Ecco perché i volontari spesso dicono: “è più ciò che ricevo di quello che do”. Constatano che, se all’inizio si credeva solo di dare all’altro (oggetto del mio aiuto) alla fine ci si accorge che anche l’altro mi ha aiutato, è diventato soggetto capace di dare a me, perfino mi ha cambiato. Infatti attraverso questo modo di fare volontariato e di essere volontario, nell’attenzione alla relazione nella pur necessaria prestazione, è cambiato il mio modo di guardare la mia città o paese quando li attraverso, è cambiato il mio modo di guardare alla mia famiglia, è cambiato il mio modo di considerare ciò che possiedo e che, peraltro, ho sempre considerato scontato dover avere, è cambiato il mio modo di spendere o di far le ferie. Insomma sono cambiato io. Il volontariato mi ha cambiato lo stile di vita. Ha inciso sulla mia identità, sulla mia persona, sul mio modo di vivere. Dunque eccoci, sia pur al galoppo, alla quarta nostra parola guida: identità. In certo senso il percorso del volontariato che non si accontenta della sola prestazione gratuita, diventa in realtà un percorso che mi cambia. Ho cominciato a fare volontariato con una data motivazione, ma via via mi accorgo che le motivazioni cambiano ma con loro cambio soprattutto io e il mio stile di vita. Potremmo perfino arrivare a dire che quel prendermi “cura”, consistente nel dare qualcosa a qualcuno che è nel bisogno, matura diventando “cultura”: un modo di vedere, di progettare, di “coltivare” la vita, la società, la relazione, ecc… Allora si può ben dire che certamente il volontariato, che lo voglia o no, di un tipo o di un altro, fa cultura. Cioè non è e non può essere neutro. Che lo voglia o no, che lo sappia o no comunque fa cultura, comunque semina e costruisce” volontariamente” spazi di libertà, di volontarietà-consapevolezza, di incontro, di aiuto di un tipo o di un alto tipo, di un colore o di un altro.
Un’ assistenza che marca il volto dell’altro piuttosto che l’aiuto, lo fa soggetto, risorsa che mentre riceve dà e magari più di quel che gli do. Ecco perché da ultimo, possiamo perfino dire che il volontariato che privilegia la qualità della relazione nella reciprocità sulla quantità della prestazione, finisce per cambiarmi fino al punto di poter far stare tutto il senso della mia vita, in una parola. In una sola piccola parola: grazie. Mi accorgo che avevo cominciato il mio percorso di volontariato volendo essere “attivo” e di “aiuto” e mi ritrovo maturato, capace di abitare la mia vita come se fosse una nuova. Infatti si è fatta molto più bella, saporita, desiderabile, sana, perché se il volontariato mi ha educato al primato della relazione, mi ha insegnato a dire grazie. A dirlo e a capirlo qual grazie. A farci stare dentro la vita. Ero partito volendo aiutare, volendo fare, volendo amare, volendo capire, volendo accogliere, volendo cambiare le cose, in realtà aiutando mi sono accorto quanto sono stato aiutato; quanto sono stato amato, quanto sono stato capito, quanto sono stato accolto. Come dire che diventare grandi, anche attraverso il volontariato, significa scoprire che il DNA, le radici vive della mia vita si lasciano dire con i verbi prevalentemente al “passivo”. Ero partito per” fare” e mi ritrovo a parlare di “essere”. Ero partito da un interesse e mi ritrovo a vivere meglio, un bene-essere forgiato dal senso nuovo della parola inter-esse(re).
Dunque il volontariato ha bisogno, esprime e genera un’antropologia. O per dirla come qualche anno fa un “progetto uomo”. Perciò chi ne ha la responsabilità dovrebbe avere anche l’onestà di informare il nuovo volontario che entra in una qualche realtà o associazione di volontariato, a quale antropologia fa riferimento quella associazione-gruppo, a quale volto d’uomo, a quale ideale di società. Spetterà poi alla libertà del volontario accettare di percorrere quel volto, ossia accettare o meno anche il viaggio nell’essere. Diversamente, il volontario, potrà scegliere di fermarsi al primo gradino della bella e lunga scala, quello della prestazione, del solo fare qual-cosa. Importante non è il primo o il decimo gradino, importante è che il volontario lo sappia e lo scelga.
Il dopo si vedrà, perché come abbiamo visto, se volontariato non significa solo manovalanza gratuita, è sacrosanto diritto sapere da dove si parte ma non è detto si riesca a prevedere con altrettanto sapere dove si arriverà.
Don Giovanni Sandonà
Direttore della Caritas Diocesana di Vicenza