Siamo sempre in e di corsa. La fretta appare ormai una costante fissa del nostro quotidiano. Il potente sviluppo dei sistemi di comunicazione e di trasporto ci dà una sensazione di inedita potenza. Programmiamo più di quanto sarebbe opportuno fare e chiediamo a noi stessi un continuo sforzo ai limiti delle nostre possibilità. D'altro canto il sistema produttivo e quello commerciale (ma anche quello dedicato al mondo del divertimento) hanno colto bene questo tratto dell'esistenza contemporanea e cercano in ogni modo di andare incontro a tale bisogno di mettere insieme più obiettivi possibili, grazie a orari di apertura dei negozi sempre più flessibili (la domenica ormai si può trovare qualsiasi cosa in città) e grazie alla concentrazione di più servizi nel medesimo luogo.
È aumentato pure il bisogno di viaggiare lungo i weekend e spesso con a seguito bambini molto piccoli, sottoposti non di rado a uno stress notevole. Chiunque oggi abbia tra i venti e i trent'anni ha già viaggiato, nell'ultimo semestre, più di quanto un uomo di appena quarant'anni fa avesse fatto per l'intero corso della sua vita. Ovviamente anche questa scelta della vacanza breve, del fine settimana appunto, che dovrebbe essere tempo di 'vuoto', presenta i medesimi ritmi frenetici dei giorni lavorativi.
Eppure molto di frequente la nostra anima è governata dalla sensazione che, in tutto questo continuo muoversi e agitarsi da un capo all'altro della città, da una parte all'altra del Paese, non si arrivi mai da nessuna parte. Ci si muove, ma senza meta.
E in verità è proprio così: non c'è più tempo per darsi tempo, per cercare e trovare un ritmo attendibile ai nostri ritmi di lavoro, di esistenza, di vita sociale. Abbiamo semplicemente iniziato a consumare pure la nostra esistenza. Con gravi e spiacevoli conseguenze sul nostro corpo e sul nostro spirito. Lo stress che tale stile di vita produce è ormai invocato da ogni medico quale causa dei più disparati (e a volte disperanti) casi di malessere.
Siamo così attraversati da una spinta al movimento che non nasce da un bisogno interiore di andare incontro all'altro o dal desiderio di instaurare nuove relazioni, ma piuttosto essa rappresenta una sorta di compulsione indotta da un sistema produttivo generale che ha urgenza continua di consumatori, illusi a loro volta da un senso appunto di potenza, di poter cioè mettere a segno il maggior numero di obiettivi e nello stesso tempo. Ma appunto di illusione si tratta.
1. Il paesaggio dell’altro
Ciò che però colpisce di più in questo nuovo modello di consumo dell'esistenza - il suo contraccolpo più micidiale - è l'emergere di una generalizzata indifferenza che si è fatta largo spazio nello spirito umano, proprio mentre ci si muove all'interno degli spazi' urbani oppure sui mezzi di trasporto: ognuno per i fatti suoi. La prossimità fisica raramente diventa occasione per una prossimità umana. Il cellulare o il computer (più di recente i tablet, i lettori mp3, gli ipod) ci trasportano via - a livello di spirito - rispetto allo sguardo e alla presenza altrui. Insomma ci si muove di più ma ci si incontra di meno. Anzi non ci si incontra affatto, neppure con chi sta seduto sul sedile accanto o di fronte. Ci si saluta appena.
Ha colto bene tale cifra Fernando Pessoa, quando afferma: «Gli altri non sono per noi altro che paesaggio». E la situazione è così forte che chi, negli spazi pubblici, vuole/deve intercettare l'attenzione altrui, vuoi per vendere qualcosa, vuoi per somministrare chissà quale test, vuoi per chiedere qualche spicciolo di elemosina, deve costantemente 'alzare' il volume della sua presenza, a volte in modo semplicemente imbarazzante. Ovviamente con un effetto di disturbo - rispetto al politicamente corretto di un'elegante filosofia di vita secondo la quale si sta nello stesso luogo ma non si sta 'insieme' - che produce un'ulteriore forma di irrigidimento e di indifferenza. In questo caso l'altro è volutamente ridotto a paesaggio. Già sai, cioè, che attraversando quel corridoio dell' aeroporto o quella strada o quel semaforo incontrerai questo o quel tipo, con questa o quella richiesta, e ti prepari appunto a neutralizzarne la presenza.
Certo, la posta in giorno non è piccola. Basterebbe semplicemente pensare al fatto che Aristotele aveva definito l'uomo come 'animale politico' proprio per la sua naturale propensione per l'alterità, per la prossimità, per capire che il modello di vita di questa generazione in progress può condurre a serie derive. Forse ci ha già condotto.
A un livello più ampio e sicuramente con una pertinenza di analisi davvero straordinaria, infatti, ha provato a restituirci tale mutamento di scenario un testo eccezionale dello psicanalista Luigi Zoja che mette a tema esattamente la vicenda contemporanea dei legami tra gli umani e quindi il nostro rapporto con la differenza, con l'alterità, la prossimità. L'efficace titolo del libro è La morte del prossimo (Einaudi, Torino 2009). Si faccia mente al suo folgorante incipit:
Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: Ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell'Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo.
E l’autore aggiunge:
I tempi seguenti alla 'morte di Dio' sono stati a volte detti post-teologici o post-religiosi. Per quelli attuali non è stato ancora trovato un nome, una sgradita possibilità sarebbe 'post-umano'.
Il libro si presenta, attraverso una mirabolante e scintillante miriade di esempi, come una raccolta di documenti che testimoniano appunto la tesi della morte del prossimo: ovvero la riduzione dell' altro a puro paesaggio del nostro continuo e affannoso passaggio di luogo in luogo.
2. Non perdere l'anima
Ovviamente tutto questo non può non sfidare la prassi liturgica della vita credente. Da un livello molto spicciolo - la difficoltà a 'stare' in un luogo, a 'stare' fermi fisicamente e spiritualmente in un posto fisso con un'autentica presenza di spirito - a uno più profondo e radicale: la difficoltà ad attuare un'apertura ospitale all'altro, sia all'Altro che la liturgia evoca e celebra sia all'altro con cui si compie il rito liturgico.
Che ora la prassi liturgica rappresenti di per sé un momento di antifrasi rispetto al gioco mondano del vivere, e cioè più precisamente rispetto alla riduzione dell'altro a paesaggio, rispetto al dominio della fretta, rispetto alla scomposizione tra corpo e spirito, rispetto alla logica di consumo applicata all'esistenza, non costituisce elemento di sorpresa. La liturgia è non solo esperienza di alterità, ma anche alterità di esperienza. Introduce una frattura, una pausa, un blank, un salto, un'interruzione feconda che rimette in discussione e in una nuova circolarità l'esperienza feriale e quotidiana. Salva appunto l'anima (dell'uomo e del mondo). Ha pertanto molto da dare e da dire a questa generazione in progress.
Il punto critico che andrebbe maggiormente sottolineato sta piuttosto altrove. Sta cioè nel presupporre che ciascuno conosca le regole del rito, le soglie che contraddistinguono la sua entrata e messa in scena, i ritmi che ne sostengono la forza, la logica che ne anima l'esecuzione. Insomma il problema è l'effettiva o meno presenza di un'efficace mistagogia al ritmo e allo stile del dispiegamento del dispositivo liturgico che viene celebrato. Più elementarmente è una questione di educazione liturgica: celebranti si diventa, non si nasce.
La lunga e ancora operante presupposizione del nostro come Paese fortemente innervato da una mentalità di fede, che abiliterebbe letteralmente chiunque a quella piena e fruttuosa partecipazione alla vita liturgica, auspicata dal concilio Vaticano II e ovviamente dalla realtà delle cose stesse, tarda a venir meno, mentre i segni della sua debolezza sono a disposizione di tutti.
Si tratta, dunque, di lasciarsi maggiormente interrogare da quanto accade nella vita degli uomini e delle donne di oggi. La liturgia è una realtà vivente, che deve pertanto commisurare la sua possibilità di efficacia - anche in termini di linguaggio ed esperienza differenti - alla vicenda contemporanea del cammino incessante dell'umanità sulla terra. Al riguardo ci pare molto utile la seguente considerazione del cardinale Carlo Maria Martini:
A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del concilio di Trento, altri in quello del concilio Vaticano I. Alcuni hanno bene assimilato il concilio Vaticano II, altri molto meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei, e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento.
Ha pienamente ragione il cardinale Martini, quando, con le parole ricordate, accenna a una questione fondamentale del nostro essere credenti di questo tempo: non siamo tutti veri contemporanei.
Vi è dunque una contemporaneità che la stessa prassi liturgica deve conquistare (che cosa ci è lecito presupporre come attivo, operante, semplicemente conosciuto in coloro che si apprestano a celebrare un rito e cosa non più), perché il mistero del Dio dell'amore, che ci ha raggiungi nella storia di Gesù di Nazaret, e che solo è garante di una conquista del mondo che scongiura la concomitante perdita dell'anima, venga trasmesso di generazione in generazione.
Armando Matteo
(tratto da Rivista di Pastorale Liturgica, n. 286, 3-2011, pp. 33-37)