A lungo, ho avuto paura di Bach. Lo vedevo severo, alto, perfetto, integro, implacabile, dal giudizio più giusto che benevolo, come il Dio dell’Antico Testamento che, al di sopra di nuvole nere e corrucciate, tiene in una mano il fulmine, nell’altra la tavola delle leggi.
Bach m’impressionava. Pensavo di non meritare Bach. Quando qualcuno mi diceva di adorarlo, io stringevo le spalle, cosciente di trovarmi di fronte a uno spirito dalla moralità superiore; a fior di labbra confessavo allora il mio amore per Mozart, Schubert, Chopin, Debussy, consapevole di non citare che dei prossimi, dei teneri, dei sensuali - dei fratelli, insomma, non il Padre! Tuttavia, quando la sua musica mi sorprendeva, sfuggita da una radio, inserita in un film, io l’amavo spontaneamente. Essa mi pareva viva, effusiva, profonda, procurandomi una emozione senza mezzi termini.
Appena mi si spiegava che era Bach, avevo un senso di colpa: se l’avevo spontaneamente amato, allora l’avevo mal amato! Per forza! Con gli anni, collezionavo dei brani favoriti di Bach in un giardino segreto, protetto da mura, al riparo di tutti, senza parlarne mai; era un frutteto fresco, verde, gioioso, dai colori netti e delicati, dai frutti succosi, gustosi. Io amavo Bach nella vergogna. Nella vergogna di me. Nella vergogna d’essere un adoratore indegno.
Poi, un giorno - o piuttosto una notte - nel deserto del Sahara, mi è stata donata la fede. A partire dal momento in cui ho creduto in Dio, i miei rapporti con Bach sono cambiati -a dire il vero, tutti i miei rapporti sono cambiati, ma è un’altra storia. Johann Sebastian Bach è divenuto un compagno spirituale, qualcuno che esprimeva in modo definitivo e musicale ciò che io cominciavo appena a sentire.
Non si parla mai del ruolo dei musicisti nella nostra vita spirituale; questo è tuttavia così grande, così intenso. Bach parla di un universo dove Dio è evidente. Quando lo si ascolta, si è di fronte a un mondo ordinato, colmo di senso, dotato di una vitalità senza fine. Io ero nato anemico in una civiltà nichilista. Con Bach divenni robusto in un universo pieno. Di brano in brano, faceva salire dei gradini alla mia fede.
Perché? Perché Bach non ha paura dei sentimenti semplici. È senza dubbio per questo che m’impressionava tanto. Osa essere allegro, gioioso, rallegrarsi! Non esita a gridare Gloria o Magnificat. Molto spesso, la maggior parte delle volte, la sua opera esprime questo sentimento teologico, la gioia, questa riconoscenza d’esistere, questo giubilo del debito. «Gesù, che la mia gioia rimanga».
Quando si sfoga, è coltivandone l’emozione, non il pathos. Enuncia sentimenti che ci legano agli altri, non quelli che ci isolano -stringendo i legami tra noi. Se parla della morte, è per consentirvi, per accoglierla, «Vieni, dolce morte». In musica, grazie a lui, io medito serenamente sul trapasso. Anche se è più spaventosa della vita, la morte è pure un presente; come dobbiamo imparare a ricevere il dono della vita, così dobbiamo imparare a ricevere il regalo della morte. Su questo soggetto difficile, vi consiglio di immergervi per ore nelle armonie di Bach, ne uscirete pacificati, cresciuti dall’essere divenuti più piccoli.
Colette, un giorno, aveva chiamato Bach «la divina macchina da cucire». Come sua abitudine, aveva ragione: come un’umile cucitrice al servizio di Dio, Bach lavora sulla trama dell’universo, ha confidenza nella sua solidità, passa del tempo ad assemblarne gli elementi, a prendersi cura dei dettagli. Come una sarta, lavora per noi, non per sé. Vuole che ci sentiamo bene nei suoi abiti musicali: gesti fluidi, fiducia nelle cuciture, fede nella resistenza dei materiali, eleganza discreta e, soprattutto, la possibilità di danzare senza distruggere niente, danzare per ore per vivere la gioia.
Eric-Emmanuel Schmitt
(tratto da Avvenire del 2/3/2008)