La poetessa inglese Elisabeth Jennings (1926-2001), molto amata nella sua nazione ma quasi sconosciuta in Italia, in diverse sue composizioni poetiche si è cimentata con quello che potremmo chiamare un genere speciale di "poesia a partire dalla pittura". In queste poesie la Jennings indugia su opere pittoriche di artisti di varie epoche, ne prende spunto per acute. osservazioni sui più diversi aspetti della vita umana, del rapporto col mondo e con Dio. Sono composizioni la cui piena comprensione non è possibile se non si contemplano e non si approfondiscono i dipinti cui esse si riferiscono.
In queste brevi note sosteremo su una di queste poesie, intitolata I tardi autoritratti di Rembrandt. Dopo una breve introduzione sul significato dell'autoritratto nella storia dell'arte, riporteremo il testo della poesia accompagnato dalla riproduzione di due degli ultimi autoritratti del pittore fiammingo. Termineremo con alcune note di commento al testo poetico della Jennings.
1. Conosci te stesso
Il genere dell'autoritratto, com'è noto, nasce e si sviluppa nel Rinascimento in consonanza con quella conversione verso il soggetto che contraddistingue l'intera cultura dell'epoca.
Punti di arrivo di questa nuova percezione dell'individuo, saranno nel campo filosofico il cogito cartesiano, nel mondo della spiritualità le straordinarie introspezioni della mistica carmelitana e ignaziana. L'attenzione per l'interiorità soggettiva, sondata e scrutata nelle sue venature più segrete, è nota dominante della nascente modernità. La presa di coscienza dell'importanza e del valore dell'individuo, irripetibile concentrazione e riflesso del macrocosmo, condusse anche gli artisti ad una consapevolezza nuova della loro personalità. L' autori tratto rap- presentò la forma espressiva di questa consapevolezza e la via verso il suo più maturo raggiungimento. Questo genere pittorico, se non di rado diventa celebrazione che il pittore fa di se stesso e persino sintomo di narcisistico ripiegamento sull'io, altre volte (ed è il suo migliore impiego) si fa strumento di indagine introspettiva, scavo psicologico, presa di contatto con se stessi, perfino auto-smascheramento progressivo. In questo senso esso riprende e fa propria in modo originale la tradizione socratica del "conosci te stesso", che aveva attraversato l'intero Medioevo, grazie soprattutto alla mediazione agostiniana e alla sua modulazione cistercense, ramificatasi, tra l'altro, nella dottrina mistica di Caterina da Siena, che nel "cognoscimento di sé", speculare a quello di Dio, trova uno dei suoi motivi ricorrenti.
Un caso esemplare di questo modo di "vivere" l'autoritratto come esplorazione del sé, esperienza esistenziale e spirituale, è indubbiamente la produzione di Rembrandt (1606-1669). Per ben 75 volte l'artista olandese ha riprodotto il proprio volto in modi e tempi diversi. Si potrebbe scrivere una storia della sua fisionomia e dell'evoluzione della sua arte attraverso queste tele. E proprio in questi autoritratti è possibile cogliere, fin dal primo impatto, la determinata serietà della sua impresa di confronto con se stesso. Si comprende che il volto che ci sta davanti, e il cui sguardo ci scruta, non finge, e che i molti travestimenti che l'artista ha assunto (noto è il suo gusto per gli abbigliamenti esotici e sontuosi) non sono per nulla maschere o veli, abbellimenti ed orpelli, ma modi per portare alla luce aspetti diversi dell'unico volto. In questo volto ogni tratto è riflesso dell' anima, traccia lasciata da avvenimenti di vario genere: la morte dei figli e quella, prematura, della giovane moglie Saskia.
A ciò si aggiunga l'isolamento e l'incomprensione che toccarono il pittore in età avanzata, le difficoltà economiche e le pressioni dei creditori. Ma vi si legge anche il suo carattere difficile, ambizioso, passionale, così come la tristezza e una certa apatia a cui le svariate prove lo ridussero nell'ultima parte della vita.
I versi della poetessa inglese Elisabeth Jennings hanno colto l'estrema serietà con cui Rembrandt ha intrapreso e condotto il confronto spietato con la propria anima e la sua storia, attraverso la ripetuta scrittura del proprio volto. La poesia su I tardi autoritratti di Rembrandt, esprime l'intensità di questo guardarsi allo specchio attraverso la propria mano, il proprio pennello. Direi di più: prendendo lo spunto da questi autori tratti, la Jennings intesse una pregnante meditazione sulla conoscenza di sé come percorso non solo artistico, ma spirituale in senso generale. Andando oltre la stessa lettura filologica del ritrattismo rembrandtiano, ella ne fa l'avvio di considerazioni personali, come si vedrà. La sua riflessione acquista un significato universale, che induce a considerare il mistero dell'uomo posto davanti a se stesso attraverso la mediazione e il riflesso del proprio corpo, rivelazione della condizione dell' anima.
2. I quadri, la poesia
Per accompagnare la poesia della Jennings, oggetto della nostra attenzione, ho scelto, tra i tanti, due autoritratti di Rembrant risalenti rispettivamente al 1659 e al 1669, anno della sua morte. Essi rappresentano dunque una specie di inclusione degli ultimi dieci anni della sua esistenza e della sua attività di artista. Risalta in modo palese, nel confronto fra i due dipinti, il lavorio che il tempo ha prodotto sulla fisionomia del pittore, anche se i tratti somatici restano con molta evidenza ben riconoscibili. L'impronta che il viso ha ormai assunto nel primo è come accentuata nell' altro, dove stanchezza e tristezza appaiono come fissati. È aumentato il gonfiore del volto, diminuiti, e ormai del tutto bianchi, appaiono i capelli, meno tesa la fronte (rassegnata?). Gli occhi, che nell'opera del 1659 sembrano guardare poco sopra la spalla destra di chi osserva verso un punto indefinito, dieci anni dopo ci guardano diritto (totale apertura?).
Sul mutamento palese i versi della poetessa inglese indugiano, non in modo fine a se stesso, ma per coglierne il significato e la risonanza che ha potuto avere per il pittore, che con l'occhio lo osservava e col pennello lo fissava. Ecco il testo della poesia (1).
«Sei posto di fronte a te stesso. Ogni anno
le borse si gonfiano, la pelle è più brutta.
Tutto riprendi senza esitare. Dentro di te
fissi lo sguardo, e oltre. Scorre con cura
il pennello, si fa conoscenza di sé. C'è
qui un'umiltà che si fonde con l'arte.
Non c'è arroganza. L'orgoglio è diverso
da questo scrutarsi. Fai seguire alla luce
il cammino che vuoi. Il tuo volto è contuso, ferito
ma ancora c'è un resto d'amore.
Amore dell' arte, degli altri. Hai sperimentato
fino all'estremo. Fissi lo sguardo oltre
la tua età, e i tempi. Anche il passato hai colto
e l'hai addolcito. Gli autori tratti comprendono,
e può la vecchiaia spogliarci,
con mutamenti veraci, della paura di morte.
Guarda, ancora una pena. Là, il naso rigonfio,
la tristezza e la gioia. La pittura è respiro,
e ogni tenebra viene sfidata. Hai scelto
quello che ognuno deve affrontare».
Dopo la lettura di questo testo vogliamo soffermarci in un breve commento che ne metta in luce alcuni aspetti di maggior rilievo. La poetessa, infatti, prende lo spunto dall' osservazione degli autoritratti di Rembrandt per elevarsi a considerazioni che hanno per oggetto in primo luogo il confronto dell'uomo con se stesso nel trascorrere del tempo che lo segna, ma anche tematiche come l'amore, l'arte e il valore universale di queste esperienze. Al centro resta sempre l'esigenza estrema della sincerità, lo sforzo e la libertà del conoscere se stessi.
1659 | 1669 (anno della morte) |
3. Nel declino accettato la libertà dell'infinito
«Sei posto di fronte a te stesso» (You are confronted with yourself). Questo l'esordio lapidario, che dà il la all'intera poesia, l'orizzonte che abbraccia e che è impossibile fuggire. Ogni fatto o persona, ogni realtà circostante si fa eco di noi stessi. Non sempre lo specchio è una lastra di vetro e, soprattutto, non sempre si chiama Narciso. Ogni cosa riflette e ogni cosa rieccheggia quello che siamo. Ascoltare il mondo è anche ascoltare se stessi. Perciò, l' autoritratto è metafora del nostro essere al mondo alla ricerca di noi stessi, in tutto ciò che, nei più svariati linguaggi, ci risponde e interroga. Davanti al pittore lo specchio ridice il suo corpo: che è lui stesso e il primo altro da sé. Il corpo nasconde, è il velame dell'anima; ma il corpo è memoria, rivela la storia e il cuore di un uomo. All'occhio che scruta a distanza di tempo, lo specchio, imparziale, ridice il mutare, richiama la fine, prossima o remota. Gli occhi hanno borse, la pelle è cadente. Pochi segni bastano a chi ha il coraggio di stare davanti a se stesso. Questo coraggio il pittore ce l 'ha: registra ogni cosa, senza esitare, ogni dettaglio, per quanto sgradevole. «Guarda, ancora una pena. Là, il naso rigonfio, / la tristezza e la gioia», dirà la Jennings verso la fine della poesia. Ma lo scopo di questo guardare accuratamente e senza sconti il volto, è solo inizio e passaggio. È dentro che il pittore si guarda, a partire dal corpo, visibilità simbolica dell'anima: «Dentro di te fissi lo sguardo». Non solo. Il volto, solcato da rughe, e il declino che avanza invitano a guardare in sé ″e oltre". Oltre, perché l'io è parte del tutto, a cui è legato da innumerevoli fili, oltre, perché porta l'infinito in sé. E il pennello - come ogni altro mezzo espressivo - è mediazione necessaria per elaborare e oggettivare questa conoscenza dell'oltre dentro di sé: il pennello è un tutt'uno con l'autoconoscenza, non bastano il pensiero, lo sguardo («Scorre con cura / il pennello, si fa conoscenza di sé»), perché non c'è vera esperienza senza adeguata espressione. «Gli autoritratti comprendono», dirà la poetessa poco più avanti. Come i suoni per il musicista o le parole per il poeta, i colori e le forme sono per il pittore luogo di intelligenza.
Orgoglio o umiltà in questo stare davanti a se stessi, in questo studio della propria anima attraverso le pieghe del volto? Narcisismo od onestà? La risposta per la poetessa è chiara: è un servizio che si fonde con l'arte. «L'orgoglio è diverso da questo scrutarsi». Non c'è da gloriarsi di questo volto «contuso e ferito», che il pittore illumina con mano sincera, senza nulla nascondere. Proprio in quest'opera di dolorosa onestà, che mette a nudo vecchi lividi e recenti ferite, affiora ancora «un resto d'amore», forse inatteso. Tanto più prezioso perché è un resto (left). Questo amore, come l'umiltà, è come preso in custodia dall' arte, che negli ultimi anni del pittore fiammingo, tra lutti e litigi, è rimasta l'esclusiva ragione di vita. Dipingere, per lui, è davvero respirare: «La pittura è respiro» (To paint's to breathe). Attraverso di essa egli compie ancora il suo servizio agli altri: «Fissi lo sguardo oltre / la tua e!à, e i tempi. Anche il passato hai colto / e l'hai addolcito». E questa, per la Jennings, l'ultima lezione dell'artista: un' opera di riconciliazione con se stessi, l' addolcimento del passato. Anche se, si potrebbe obiettare, la tristezza che quel volto tradisce, non esprime (ancora) la pace.
Ma la poetessa, lo si intuisce, va con Rembrandt oltre Rembrandt. Questo sembra l'esito delle sue considerazioni: «Può la vecchiaia spogliarci, / con mutamenti veraci, della paura di morte». I distacchi molteplici e progressivi della vecchiaia sono chiamati "veraci" (truthful), perché stralciano ogni fronzolo, fanno vero l'uomo che li sa accettare e «ogni tenebra viene sfidata», liberando dal timore di ogni privazione.
N on un eroe, comunque, questo pittore. Dell' eroe non ha il volto. In fondo è soltanto un onesto artista. Nel senso che ha fatto, con la sua arte, l'unica cosa che ognuno dovrebbe fare: scegliere l'ineluttabile. «Hai scelto / quello che ognuno deve affrontare». La libertà dell'uomo non è assoluta. Si scontra con molteplici limiti che, talvolta, non è lecito o possibile violare. La morte li compendia tutti e tutti sono morte. Nessuno può scavalcare o aggirare questo stretto passaggio che è l'accettazione del limite invalicabile. In ogni caso, scegliere liberamente ciò che non può essere eluso (lo spogliamento e la povertà dello stare sinceramente davanti a se stessi nello scorrere del tempo che ci depaupera), è il primo passo per oltrepassare il limite, per rendere ogni morte una soglia. Rimanendo «davanti a se stessi, e oltre», un oltre infinito e pieno di speranza.
Giulio Meiattini osb *
* Monaco dell' Abbazia "Madonna della Scala" in Noci (BA)
1) Adottiamo il testo secondo la traduzione riportata in E. JENNINGS, La danza nel cuore delle cose, a cura di D. Pezzini, Ancora, Milano 2007, 74-75. La versione è stata in alcuni punti ritoccata nel tentativo, non so se riuscito, di migliorarla.
(da La Scala. Rivista di spiritualità dei benedettini di Noci, n. 4, 2010, pp.276-282).