Educare vuol dire porsi di fronte alle nostre paure, le ansie, le preoccupazioni, le notti insonni e le incertezze del domani, esse possono diventare frustrazioni o porte verso la speranza.
Proporre una ricetta sicura è impossibile, perché sono tante le variabili che intervengono per poter codificare e ridurre l'educazione a formule risolutive e infallibili.
L'educazione non è uno stato o una condizione ma un percorso pieno di incognite e spesso ci si trova a rimettere in discussione esperienze e certezze, in special modo quando si hanno più figli.
Essi sono diversi, hanno carattere, personalità che li fanno unici, di conseguenza i cammini educativi nei loro confronti si presentano unici e diversi.
Educare diviene, inoltre, ancora più difficile perché ogni giorno c'è il confronto con una società in continua evoluzione. I vecchi punti di riferimento, sembrano venir meno con il conseguente avanzare di nuovi modelli. Le radici, in qualche modo, appartengono ancora al vecchio mondo ma si è superati in velocità da questo formidabile mutamento. E' sentita fortemente la necessità di una guida di cui fidarsi e su cui fare affidamento, ma tutte le autorità di cui ci si potrebbe fidare sono messe in discussione e nessuna sembra forte abbastanza da offrire il grado di rassicurazione che si va cercando. La nostra società, affermano i maggiori studiosi, è contrassegnata dalla cultura dell'immediato, del "tutto e subito, del possesso..., offre una libertà di scelta mai goduta prima ma nello stesso tempo getta in uno stato di incertezza mai prima d'ora così angoscioso.
Non esiste segno che con il tratto lasci percorsi ben evidenti, ma tutto diventa traccia e come Pollicino c'è il rischio di perdersi e non ritrovarsi. Scrive L. Biagi:
"Nel momento in cui la storia non offre più come prima delle prospettive, non offre più una progettualità che richieda il nostro impegno, nell'ora in cui le incognite rischiano di prevalere sulle speranze, l'individuo viene semplicemente travolto dalla cogenza dell'attimo presente, si sente spinto a bere fino in fondo quel che a propone come istante presente, insegue ciò che immediatamente gli si propone come positivo, come piacere, come benessere"1
I nostri figli, quindi, si trovano a percorrere una realtà disomogenea e frammentata, che li costringe a vivere in modo pragmatico e aprogettuale, ad evitare scelte coerenti per poter usufruire di tutte le promesse che ogni luogo attraversato gli fa. Appare evidente l'orientamento ad attribuire all'esperienza un carattere normativo, a interpretare come bene o come elemento positivo una pratica di vita ricorrente o il comportamento prevalente o il proprio sentire.
In questo contesto il giovane rischia di rimanere prigioniero del presente, senza alcuna progettualità che dia senso alla sua vita, senza sguardo che vada oltre il contingente. Se non esiste una dimensione più ampia non si riconosce al tempo alcuna qualità rilevante per la vita, di conseguenza, le cose che si fanno e la loro disponibilità fanno divenire prezioso il tempo presente. Questa realtà offusca il tempo nelle sue dimensioni di passato, presente, futuro. Il passato resta sempre più passato e non ha alcun valore per il presente, il futuro sembra più carico di angoscia che di speranza; solo il presente sembra poter offrire strade percorribili alla ricerca di felicità e piacere.
Infine, la pressione sociale, spinge a fare dei figli personaggi di spicco e atleti, uomini e donne di successo sempre più competitivi in una società del benessere e ci si dimentica di aiutarli a far loro acquisire le virtù che li rendono veramente umani. Le nuove leve hanno molto per crescere ma poco per formarsi. In questa logica esattamente opposta a quella educativa, che ha bisogno di tempi lunghi, di orizzonti ampi, di grande memoria e di dedizione si incarna il compito del genitore. La tentazione, in prima battuta, è quella di chiudere gli occhi con un grande timore di guardare e attraversare questa complessità, troppo spesso sembra spirare un vento di rassegnazione e di rinuncia. Parecchi genitori sembrano dire come Mosè: "io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo: e un peso troppo grave per me" (Nm 11,14). Molti dei nostri insuccessi, forse, come per Mosè hanno la radice nel non aver capito e nel non aver colto la forza che sprigiona il programma educativo espresso nelle Scritture, nel non esserci alleati col vero educatore della persona. Questa forza educativa: "può ridare fiato a molti nostri educatori, togliere la sensazone di dover portare un peso superiore alle proprie forze e di lottare contro nemici troppo forti".2
Come genitori ed educatori cristiani non è possibile evitare il confronto con un'azione che ha conosciuto la ribellione e l'incomprensione. I genitori, quindi, sono chiamati ad essere presenti nel cammino dei loro figli, condividendo con questi la fatica della crescita. Sono chiamati a ridare speranza, a mostrare fiducia nei confronti delle loro potenzialità nonostante le difficoltà che possono incontrare, i limiti personali e gli insuccessi, nonostante il sentirsi a volte educatori inutili e impotenti.
1. Dio: educatore tenace e instancabile
"Mosè pronunziò innanzi a tutta l'assemblea d'Israele le parole di questo canto, fino al loro temine" (Dt 31, 30). Così si legge in apertura al cantico di Mosè che ora leggeremo. Il brano proposto, tratto dalle ultime pagine del libro del Deuteronomio, precisamente dal capitolo 32, costituisce soltanto il preludio. Questi versetti sono un gioioso inno al Signore che protegge e cura con amore il suo popolo in mezzo ai pericoli e alle difficoltà della giornata. L'analisi del cantico ha rivelato che si tratta di un testo antico ma posteriore a Mosè, sulle cui labbra è stato posto, per conferirgli un carattere di solennità. Questo canto liturgico si colloca alle radici stesse della storia del popolo di Israele. L'evento fondamentale da non dimenticare è quello della traversata del deserto dopo l'uscita dall'Egitto, il tema capitale del Deuteronomio e dell'intero Pentateuco. Si evoca, così, il viaggio terribile e drammatico nel deserto del Sinai. Nonostante l'infedeltà del popolo, Dio si china su di esso con una tenerezza e una dolcezza sorprendenti. Il cammino nella steppa desertica si trasforma, allora, in un percorso quieto e sereno, perché c'è il manto protettivo dell'amore divino. Il cantico di Mosè diventa in tal modo un esame di coscienza corale perché ai benefici divini risponda finalmente non più il peccato ma la fedeltà.
"Egli lo trovò in una terra deserta,in una landa di ululati solitari.Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò,lo custodì come pupilla del suo occhio.Come aquila che veglia la sua nidiataChe vola sopra i natiEgli spiegò le sue ali e lo preseLo sollevò sulle sue ali.Il Signore lo guidò da solonon c 'era con lui alcun Dio straniero " (Dt 32, 10-12)Dio parte dal punto in cui si trova il soggetto da educare "egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari" (Dt 32,10). "Terra deserta", "landa", luoghi dove sembra non esserci vita, dove solo gli "ululati" sono di casa. E' il luogo peggiore per iniziare un'azione educativa. Può subentrare lo sconforto, lo scoraggiamento, forse emerge la domanda: "ma chi me lo fa fare", si ha paura di non riuscire. Dio, nonostante questo, inizia da qui la sua azione educativa. Ha cura dell'uomo, lo cerca, lo ama, ridona speranza con la sua continua presenza "lo educò, ne ebbe cura, lo allevò". Il contesto, pur diffìcile, non lo paralizza. Non inventa una nuova storia, guarda con estremo realismo senza entrare in facili illusioni. Proprio perché il cammino si svolge all'interno di un percorso, esso si presenta non sempre facile e lineare, è segnato dalla resistenza e dalla ribellione. C'è la lamentela, l'incomprensione, molto spesso il popolo non capisce l'azione di Dio nei suoi riguardi. Emblematico, in questo senso, diventa il lamento verso Mosè, dopo la fuga dalla terra d'Egitto: "Forse perché non c'erano sepolcri in Egitto, ci hai portato a morire nel deserto ?... Non ti dicevamo in Egitto: lasciaci stare e serviremo gli Egiziani " (Es 14,11-12). La guida del popolo ha richiesto a Dio un'infinita pazienza, una continua ripresa, una riprogettazione instancabile del cammino. Nonostante tutto Dio ha circondato il suo popolo di una cura affettuosa e di un amore sempre crescente. Come afferma il card. Martini nella sua lettera Dio educa il suo popolo: Dio rimane il grande educatore del suo popolo. In questo percorso, però, Dio si mostra un educatore energico, non è molle o accondiscendente, non rassegnato o fatalista: "come potrei abbandonarti, come potrei consegnarti ad altri... " (Os 11,8), ma impegnato, deciso, capace di rimproverare, di smascherare le false certezze e far comprendere i comportamenti sbagliati. Dio, infine, partecipa della vicenda umana al punto da mandare il suo unico Figlio, affinché questo mondo "sia salvato per mezzo di Lui" (1 Gv 4,10). Gesù Cristo è il dono d'amore del Padre all'umanità. L'amore di Dio si rivolge in maniera gratuita, inattesa, incomprensibile. Dio Padre è certezza che la vita umana ha un fondamento e un ancoraggio. Non è assente dalla vita quotidiana della famiglia, percorre le sue strade e incrocia i suoi percorsi.
2. Genitori nel grembo del Padre
Il confronto con l'azione educativa di Dio dovrebbe far comprendere che i genitori si trovano davanti ad un compito di grande responsabilità. In questo, però, non sono soli ma sono accompagnati da una guida paziente e amorosa, che invita alla fiducia e alla speranza. I genitori, di conseguenza, sono chiamati a ridare speranza, ad aver pazienza e essere vigilanti..
Conclusione
Sii forte e coraggioso, questa esortazione rivolta da Dio a Giosuè la troviamo, appunto, nel libro di Giosuè 1,1-9. Giosuè, dopo la morte di Mosè, prende per mano il popolo ebraico e si appresta ad entrare nella terra promessa. Dio, però, gli ricorda che quella terra è un dono e di conseguenza non può usarla a suo piacimento. "Ogni luogo che calcherà la pianta dei vostri piedi, ve l'ho assegnato" per questo ogni volta che Giosuè e il popolo guardano e camminano sopra quella terra devono ricordarsi che è stata affidata e donata da Dio. Non possono "accampare pretese", ma hanno il dovere di farla germogliare, fruttificare e renderla più bella e accogliente. Lo sguardo che si posa su quella terra non può essere di possesso e di dominio, ma deve sapere, piuttosto cogliere la il vero signor, la sorgente: Dio.
L'invito fatto a Giosuè di essere forte e coraggioso è un invito ad agire secondo i piani di Dio, a non arrendersi e a tenere lo sguardo fisso su Dio. La forza e il coraggio non sono qualità fìsiche, ma sono le qualità di chi ha la certezza che Dio è vicino "Non temere..non spaventarti, perché è con te il Signore tuo Dio, dovunque tu vada". Il Signore sarà sempre presente, non abbandonerà mai Giosuè nel difficile compito di guida.
Questo implica responsabilità. La terra è affidata da Dio al popolo, gli è data in custodia, esso stesso ne diventa responsabile. La cura e la custodia diventano importanti perché non può distruggerla, in quanto dovrà sempre ricordare che l'ha ricevuta da Dio. Giosuè dovrà risponderne non solo di fronte a se stesso e al popolo, ma a Dio. E' Dio che giudicherà il suo operato e gli chiederà conto delle sue azioni. Dio, comunque, assicura che sarà sempre al suo fianco, lo aiuterà costantemente nel suo compito di guida e di sostegno.
Il ruolo di Giosuè assomiglia al compito assunto dai genitori e dagli educatori. Dio, infatti, li invita ad essere forti e coraggiosi. I figli sono come la terra, i genitori hanno il compito di curarli e custodirli, di accompagnarli e sostenerli, ma non possono entrare in loro possesso. Nessun figlio appartiene ai genitori. Essi gli hanno trasmesso la vita come si trasmette un tesoro ricevuto in eredità. Li hanno generati, si sono posti a servizio della vita, ma non ne sono gli artefici. Vengono al mondo attraverso loro ma non sono loro proprietà. Un figlio è importante, perché prima di tutto è importante per Dio, che non è indifferente né distaccato o lontano, ma partecipa alla vicenda. La consapevolezza che Dio accompagna e sostiene la missione di educatori è un viatico senza uguali che infonde in anticipo la forza e il coraggio di assumerne la responsabilità. Dio non dona un figlio perché si faccia quello che più piace, ma lo dona affinché il potenziale d'amore racchiuso nella nuova creatura cresca e maturi oltre i limiti del desiderio di genitori, per rimandare all'immagine stessa di Dio.
Luca Tosoni
Note
- L. BIAGI, Religioni, cultura e valori. Problemi e prospettive, in Religioni e bioetica, Editrice Gregoriana, Padova 1997, p.32.
- C.M. MARTINI, Dio educa il suo popolo. Il testo della lettera è rintracciabile in: www.diocesi.milano.it
- J-C LEROY, Il fatto di donare, Ed. Cantagalli, Siena 2001, p.58.
- La frase è estrapolata da un intervento Di Paola Bignardi Presidente Nazionale dell'AC al Congresso Teologico-pastorale "I figli, primavera della famiglia e della società" , tenuto il 12-13 ottobre 2000 all'Aula Paolo VI.
- AAW, Adolescenza. Una stagione importante per la vita, Ed. Paoline, Milano 1992, p.131-132.
- AAW, Adolescenza, op. cit. p.140.
- M. ORSI
- PAGOLA J.A., Fede e famiglia. Come vivere la fede nella famiglia d'oggi, p.15