La venuta di Gesù capovolge l'itinerario della speranza. Non c'è più nessuna città santa, perché è la terra che è santa. Non c'è più una casta sacra che domina e dirige le speranze, perché le speranze camminano secondo il movimento dello Spirito. Gesù dirà - in contrapposizione perfetta alle parole di Isaia - che i popoli non verranno verso Gerusalemme, ma i suoi discepoli andranno fino ai confini della terra. Si capovolge il ritmo che faceva centro sul popolo di Israele, perché la salvezza viaggerà verso i confini. Questa è la novità del Vangelo.
Voi sentite come questo discorso, estratto - mi pare - con tutta autenticità dal racconto evangelico, subito ci interpelli. Noi diciamo che il compito dei cristiani, della Chiesa, è di annunciare Gesù Cristo. Ed è vero. Però ci dimentichiamo che annunciare Gesù Cristo significa annunciare quello che Lui ha annunciato. L'unità di tutta l'umanità in un solo corpo e la partecipazione di tutto il genere umano ai beni della promessa: questo è l'annuncio di Gesù. La riflessione su Gesù Cristo non può scindere la sua figura dalla promessa del Padre.
È su questo che vorrei fare oggi, una breve riflessione con voi, per recuperare, con la forza più efficace e feconda possibile, il messaggio dell'Epifania. Ce lo siamo detto tante volte ma mi sembra che i fatti della storia che viviamo così intensamente arricchiscano di attualità ciò che andiamo ripetendoci. La nebbia che copre i popoli e le nazioni, copre anche noi, copre la cristianità. Ci muoviamo in una grande nebbia; e come avviene nella nebbia abbiamo delle improvvise schiarite e poi, di nuovo, risiamo sotto la nebbia. Penso, ad esempio, al momento del Concilio. Ci fu, per il vento di Pentecoste, uno squarcio improvviso nella coltre di nebbia, e vedemmo cose che poi sono rimaste celate ai nostri occhi: la nebbia è ritornata. E dentro la nebbia ci si muove male. Abbiamo, quindi, atteggiamenti, comportamenti, pronunciamenti oscillanti: ora sentiamo direttive che ci spingono verso il futuro, ora sentiamo ammonimenti a restar fermi; ora sentiamo piovere scomuniche e poi vediamo gesti di larghezza inusitata. Veramente, il popolo di Dio, inteso nel suo senso storico, è sotto una coltre di nebbia.
Averne coscienza è anche un modo di realizzare, senza contorcimenti e finzioni, uno stato di umiltà storica che vale per tutti. Anche quando ci sforziamo di fare i profeti, lo facciamo all'interno di condizioni che rendono estremamente fievole il nostro grido, poco credibile il nostro annuncio.
Se io annuncio la salvezza di tutti i popoli, e restituisco, come vuole la mia fede, un privilegio di attenzione agli oppressi e ai lontani lo faccio sempre sotto la protezione delle sacre volte, con addosso l'ipoteca di una rappresentanza pubblica: quella di Gerusalemme, integrata con Erode.
Oggi ci rendiamo conto dei rapporti delicati e quasi onnipotenti che stringono il potere (Erode) l'intelligenza (gli scribi) e il popolo. Viviamo dentro il circuito di una manipolazione dove anche il sussulto di libertà è funzionale al mantenimento di questo stretto rapporto fra l'intelligenza, il potere e il popolo da dominare. Il nostro cristianesimo si muove dentro questa cerchia. Il nostro sistema permette anche che passeggino dei profeti purché passeggino dentro il perimetro; purché - in qualche maniera - essi accreditino il sistema davanti ai diseredati e ai lontani, i quali, contemplando questo o quel cristiano che ha dato la propria vita per la liberazione degli oppressi, possa acquistar fiducia in un sistema cristiano capace di tanto.
E così, potremmo anche avere un cristianesimo da tempo di rivoluzione in cui i cristiani sono anche tra i rivoluzionari, in modo che l'insieme acquisti credito presso le classi ascendenti. Ci muoviamo dentro questa morsa. E più ci riflettiamo a livello della universalità della fede e più sentiamo l'angoscia di questa contraddizione: sentiamo davvero che noi moriremo prima che le mura di Gerusalemme si siano spezzate. Perché, ormai a temere il Regno di Gesù non è solo il Faraone dell'antico Egitto ma è tutta la città di Gerusalemme che è impaurita. Tutta la cristianità ha paura di questo annuncio.
Ricordate a che cosa era ridotto questo annuncio dell'Epifania nella nostra tradizione popolare? Ad una fantasmagorica espressione della divinità di Gesù con la stella sulla capanna, coi Re Magi che portano i loro doni... Questa coreografia religiosa ha arricchito il folclore cristiano, ma ha pagato questa ricchezza con la perdita dell'annuncio. L'annuncio era proprio quello che doveva far tremare Gerusalemme, ma Gerusalemme oggi fa i presepi. Gerusalemme ha catturato Gesù che diventa un elemento della sua sicurezza. Gli scribi ci dicono tutto su di Lui, hanno sezionato ogni parola del Vangelo. Ormai Egli non è più fuori ma dentro.
Ma non è così: è fuori. Ecco la novità che ci dobbiamo dire. Perché il movimento dei popoli che oggi sconvolge il nostro assetto storico è un movimento nel quale un credente vede una contestazione di Dio. Gerusalemme oggi ha perimetri vasti, va da Washington a Londra, a Berlino, a Roma, a Parigi. Gerusalemme è vasta: è il grande perimetro della civiltà cristiana. Se Gerusalemme si turba per gli annunci che arrivano, il cristiano deve domandarsi che senso ha questo turbamento. E se i tutori dell'eredità cristiana partecipano al turbamento rischiano di farsi complici di Erode che vuole uccidere il Bambino.
Sappiamo - sempre dal racconto di Matteo, tutto condotto avanti su questa contrapposizione - che la piccola Famigliola dovette andarsene in Egitto, profuga, per salvarsi dal potere. Ci sono persone che stanno fuggendo, che stanno esiliandosi dal nostro mondo. Noi gettiamo via persone, classi, popoli impauriti del nostro potere. Ecco perché un turbamento ci prende. E questo turbamento lo possiamo leggere nei vari schermi in cui si rappresenta la vita di oggi, così diversa da quella di venti secoli fa: turbamenti economici, politici... inquietudini culturali, criminalità dilagante.
In questa situazione il nostro compito non è di metterci a disposizione degli arbìtri di Erode o di metterci a scuola degli scribi tedeschi, di togliere dal nostro cuore ogni inquietudine dandoci una cultura integrante. Il nostro compito è di farci alleati con il viaggio universale dell'annuncio di salvezza. Il quale annuncio - torno a dirlo - è questo: che tutte le genti formino un solo corpo. Il che implica, evidentemente, un rifiuto del ruolo organico centrale che abbiamo assolto per secoli e per millenni. Ormai le speranze umane non hanno il loro epicentro in noi: si stanno organizzando fuori di noi. Da questo evento storico-politico e insieme cristiano (perché tutti i processi politici sono interni all'annuncio cristiano) noi siamo interpellati: da che parte siamo? Non è scontato che siamo dalla parte di Gesù di Betlemme, come ci farebbe pensare una pietà a buon mercato e una devozione domenicale! Potremmo essere, invece, inseriti nei riti di sicurezza di Gerusalemme che uccide in sé il monito che le viene dalla paura.
Se questo è vero - ed io ne sono convinto, personalmente - noi dovremmo recuperare alcuni principi essenziali su cui invece la nostra mentalità tradizionale scorreva in modo insipiente.
Il primo è questo: l'annuncio di salvezza può venire da lontano. A portare a Gerusalemme - la città del Tempio - l'annuncio che era nato Gesù, non furono i sacerdoti della città (né gli scribi) furono degli estranei. Sono molti, oggi, gli estranei incaricati di portare un messaggio. La salvezza passa per luoghi inediti e quindi richiede una capacità di ascolto singolare. La cronaca dei nostri tempi noi dovremmo viverla al di fuori delle interpretazioni, ormai consumate, della nostra malizia di scribi. Gli ultimi, i semplici, i poveri, i reietti ci stanno giudicando. Questo è un fatto da tener presente. Credere nel Vangelo vuol dire innanzi tutto ascoltare un messaggio che ci viene dal di fuori lungo strade che noi non conosciamo.
Più vado avanti e più ci penso: beati coloro che si dimenticano il sapere conquistato; che non si occupano più di ciò che è stato pensato; che non vanno a rintracciare la parola di Dio nella polvere dei Concili del passato, perché essa è viva, imprevedibile e si affida ai gesti, ai gemiti, alle insurrezioni, alla bellezza della vita che nasce al di fuori degli steccati della nostra civiltà. Questa attenzione non è guidata dalla frustrazione storica, né da una volontà di autodenigrazione: esprime la fiducia nella promessa di Dio, vasta come l'universo. Ci siamo dimenticati che la prima verità annunciata è la creazione del mondo che è, insieme, promessa di Dio. Gesù è venuto per ristabilire la promessa antica, cioè per benedire le linee della creazione che sono esse stesse portatrici della promessa di Dio.
Il secondo principio è questo: un segno costante che la Scrittura ci ripropone per comprendere da quale parte è la forza di Dio, è il momento in cui il potere si impaurisce. Quando parlo del potere, parlo di una organizzazione del dominio che trova in se stessa il proprio senso. C'è un potere che è servizio e può essere la forza con cui si smonta il potere costituito. Non vorrei screditare in modo manicheo il potere in ogni caso. In realtà oggi ci troviamo in una situazione in cui, fino a prova contraria, il potere esprime la logica della dominazione. Quando avvengono fatti, testimonianze, processi storici di portata planetaria in cui questo tipo di potere si impaurisce, sappiamo già che Dio è in causa e che la sua promessa sta emergendo. Come, ad esempio, l'imbarazzo collettivo in cui si trova il sistema economico occidentale, per cui la paura serpeggia nelle grandi strutture in cui si prepara il nostro futuro economico. Questa paura è un fatto importante; anche se la paghiamo cara, in moneta contante. Non possiamo difendercene inveendo contro gli sceicchi. Dobbiamo domandarci se non sia finita per sempre la nostra posizione di privilegio e se la vera maniera di aiutare il progresso sia non già ristabilire il vecchio equilibrio ma favorirne un altro in cui l'umanità sia più vicina alla sua unità. Non è forse vero che i nostri equilibri si sono sempre retti - fino ad oggi - sul sopruso e sulla sofferenza della gran parte dell'umanità?
E finalmente un altro principio - questo di prospettiva - essenziale per essere in linea con le promesse messianiche: l'universalità del progetto politico. Un progetto politico è conforme all'istanza della fede quando esso si propone un approdo universale. Come dire una liberazione universale, una giustizia universale del nostro paese non la dovremmo risolvere se non all'interno di una soluzione globale che riguarda il genere umano. Il che appare possibile solo a chi accetta come condizione permanente della nostra vita un itinerario che non consente sosta finché tutto il genere umano non sia un solo corpo. Il monte luminoso di cui parla il profeta Isaia, non è Gerusalemme, non è Roma: è quel monte santo in cui tutti i popoli, finalmente - sempre secondo Isaia - siederanno allo stesso banchetto. Il Monte Santo è la meta ultima del nostro cammino. Viviamo secondo la logica dell'Epifania solo se spezziamo i drappi sacri che ci avevano oscurato la prospettiva di universale salvezza, solo se non ci preoccupiamo della paura del potere. Benediremo Dio quando Erode si impaurisce e saremo tristi quando Erode è soddisfatto. Quando il potere ha paura è segno buono, perché l'universalità irrompe, la promessa di Dio viene e si afferma.
La promessa dell'Epifania esulta dentro di noi solo quando i lontani e gli oppressi riprendono il cammino nella luce della speranza.
Ernesto Balducci
(tratto da Ernesto Balducci, Il mandorlo e il fuoco. Commento alla liturgia della Parola, volume III / Anno C, Edizioni Borla, Roma 1983, pp. 71-77).