Nel prologo del quarto Vangelo sta scritto: «La Parola venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolta (….) ma a quanti l’hanno accolta ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,11-12). Se la parola stessa di Dio, fatta carne in Gesù Cristo, non è stata accolta, anzi, è stata rifiutata e contraddetta fino all’evento della croce, anche la parola di Dio, predicata dalla Chiesa nel mondo non può pensare di essere esente dal rifiuto, dall’opposizione, dalla negazione. In ogni epoca storica l’evangelizzazione chiede innanzitutto al cristiano il discernimento di come vivere l’Evangelo eterno (cfr. Ap 14,6), di come testimoniare e annunciare, in un mondo che cambia, Gesù Cristo che rimane sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre (cfr. Eb 13,8).
Dio, la cui Parola è rifiutata nel mondo, ha amato e ama questo mondo, ha inviato e continua a inviargli la buona notizia, l’Evangelo che è suo Figlio stesso, Gesù Cristo. Quelli che oggi accolgono Gesù Cristo, i cristiani, sono chiamati in un contesto culturale inedito non a condannare e rifiutare le contingenze storiche, ma ad ascoltare il mondo sapendo che le vie di Dio sono sorprendenti per il cristiano stesso e che anche ciò che si presenta con sembianze opposte e nemiche del cristianesimo può contenere una parola di Dio ed essere occasione di fedeltà all’Evangelo. In verità, i cristiani sanno che le minacce più insidiose per il cristianesimo non vengono dall’esterno della Chiesa, dai non credenti, o dagli avversari: costoro, anzi, sono occasioni per vivere il comandamento evangelico dell’amore per i nemici. No, le minacce vengono proprio dai credenti stessi: siamo noi cristiani con le nostre infedeltà che possiamo contraddire l’Evangelo e il suo annuncio, la sua «corsa» nella compagnia degli uomini.
Indifferenza e pluralismo religioso
Ora, nel nostro orizzonte ci sono oggi due fenomeni con cui l’evangelizzazione si trova a fare i conti: l’«indifferentismo» della maggior parte degli uomini delle nostre società post-cristiane e il «pluralismo religioso», dovuto soprattutto alle migrazioni di credenti di altre religioni nel nostro continente. Entrambi mettono in crisi non solo le forme e i modi, ma la stessa plausibilità dell’evangelizzazione: sono fenomeni dolorosi per la coscienza credente perché non la contestano frontalmente, non la combattono ma affermano, con il loro stesso esserci, che il cristianesimo può essere insignificante e che si può vivere bene anche senza di esso. L’indifferenza religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza e inutilità, mentre il pluralismo religioso fa intravedere al cristianesimo la possibilità di doversi considerare una proposta tra le altre, senza titoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza.
L’indifferenza è percepita come un ospite inatteso, un intruso indesiderato, una presenza ingombrante di fronte alla quale si è tentati o di rimuoverla con la nostalgia di un mondo popolato da militanti, oppure di condannarla con giudizi sommari e definitivi: così l’indifferenza sarebbe il risultato di un individualismo esasperato, di una cultura incapace di discernimento e contrassegnata da una radicale incertezza….. L’indifferenza di chi è deluso dalle fine delle ideologie, l’indifferenza di ex-credenti frustrati nella loro attesa di un rinnovamento ecclesiale, l’indifferenza dell’homo technologicus convinto di poter dominare tutto attraverso la tecnica appare ai cristiani come enigmatica e grande nemica. Eppure, li stimola a porsi domande salutari: perché il cristianesimo ha cessato di essere interessante agli occhi di molti? E i cristiani, sono essi stessi davvero «evangelizzati », così da poter essere efficaci «evangelizzatori»? Sanno davvero esprimere e comunicare la loro peculiarità, la loro «differenza»? Non dimentichiamo che l’indifferenza cresce a mano a mano che scompare la differenza! Del resto, il cristianesimo è un’offerta, non un’imposizione: «Non di tutti è la fede» (2 Ts 3,2). Né il cristianesimo pretende di avere il monopolio della felicità, ma afferma di trovarla nella vita secondo Gesù Cristo. Il fatto che vi siano atei, allora, non fa che rafforzare la scelta di libertà che sta alla base di una vita cristiana. Il problema serio, se mai, è che non siano i cristiani stessi e le Chiese a produrre atei con degli atteggiamenti disumani e intolleranti, con la pratica dell’autosufficienza e del non ascolto.
Quanto al pluralismo religioso, occorre non essere astratti: non si incontra mai l’Islam o una religione, bensì uomini e donne che appartengono a determinate tradizioni religiose e per i quali questa appartenenza è un aspetto di un’identità molteplice e non monolitica. In questo «camminare accanto», in questo vivere gli uni a fianco degli altri, i cristiani non devono imboccare vie apologetiche né assumere atteggiamenti difensivi o, peggio ancora, aggressivi, ma devono saper creare spazi di vita e di accoglienza in vista dell’edificazione di una polis non semplicemente multiculturale e multireligiosa ma interculturale e interreligiosa.
Il cammino di evangelizzazione richiede conoscenza dell’altro e della sua fede, capacità «pentecostale» di parlare la lingua dell’altro, di farsi prossimo in senso evangelico di chi si è fatto vicino a noi fisicamente, mostrando così di credere nell’unico Padre e di riconoscere la fraternità universale. Di fronte all’altro per lingua, etnia, religione, cultura, usi alimentari e medici, prima di evangelizzare occorre imparare l’alfabeto con cui rivolgersi a lui, manifestando concretamente una vicinanza e una simpatia «cordiali». Solo in questo modo, per usare un’espressione di padre Timothy Radcliffe, si potrà «costruire una casa comune per l’umanità nella quale Dio possa vivere».
Perché evangelizzare
È inutile negare che oggi il concetto stesso di missione subisce una contestazione e le difficoltà, a differenza che nel passato, non nascono dal come ma, ben più radicalmente, dal perché stesso dell’evangelizzazione. Non a caso, le domande che risuonano oggi con maggior frequenza sono di questo tipo: se si deve accettare il pluralismo religioso, se ci sono tante vie per giungere a Dio, se la salvezza non dipende dall’essere segnati con il battesimo, allora perché la missione? Se non può più essere proclamato l’adagio extra ecclesiam nulla salus, perché cercare di chiamare nella Chiesa i non credenti? E se c’è una possibilità di riuscita, di bonheur anche in una vita atea, allora perché annunciare il Vangelo? Dove sta la «buona notizia»? L’evangelizzazione è l’annuncio che un uomo, Gesù Cristo, ha «narrato» Dio (exeghesato, Gv 1,18) e che proprio quest’uomo, in tutto come noi ma pienamente conforme alla volontà di Dio, può essere per ciascuno un’indicazione efficace per «salvare la propria vita», per trovare strade che diano senso, per «una umanizzazione vera e piena». Gesù è «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), ma anche il «Figlio dell’Uomo» per eccellenza, uomo fino all’estremo. Sì, c’è un fondamento all’evangelizzazione ed è comunicare Gesù quale vero uomo, perché la sua forma di vita è «buona notizia», cammino di autentica umanizzazione per ogni uomo.
Di conseguenza, non ci sarà missione pastorale che non si preoccupi di formare uomini e donne in grado di assumere come propria la vita umana di Gesù, vita bella, buona e beata: è nel realizzare questa vita umana conforme a quella di Gesù che anche oggi consiste la più quotidiana ed eloquente forma di evangelizzazione.
Solo chi ha una ragione per cui vale la pena donare, spendere la vita, ha anche una ragione per vivere. E Gesù questa ragione l’aveva: l’amore per i fratelli, il servizio agli uomini: questo è ciò che Gesù ha vissuto realizzando la volontà di Dio nella storia. E questa salvezza che gli uomini evangelizzati possono sperimentare già qui e ora troverà la sua pienezza nella risurrezione per la vita eterna.
Qui e non altrove va visto il fondamento dell’evangelizzazione: in questa narrazione dell’amore che è stato Gesù, morto per gli uomini tutti e risorto in forza dell’amore vissuto all’estremo. Evangelizzare non è innanzi tutto portare una dottrina, comunicare verità: è raccontare Gesù Cristo come colui che ha «evangelizzato» Dio - lo ha, cioè, reso una «buona notizia» - e ha evangelizzato l’uomo, vivendo egli stesso nella storia e nella condizione umana e rivelando così a ciascuno la sua autentica natura di «salvato». Mentre noi eravamo peccatori, Gesù ha dato la sua vita per noi; mentre eravamo nemici di Dio, Dio ci ha riconciliati con lui attraverso suo Figlio Gesù Cristo (cfr. Rm 5,6-11).
È di questa verità-esperienza che i cristiani devono essere testimoni e annunciatori tra gli uomini. E questa la ragione dell’annuncio dell’Evangelo e della sua necessità. Questo linguaggio resta il proprium del cristiano in mezzo alle altre religioni e di fronte all’indifferenza: una buona notizia capace di toccare il cuore degli uomini perché Gesù, che nella sua umanità racconta il Padre, non è estraneo all’uomo. Gesù il Signore, infatti, è misteriosamente impresso in ogni uomo, come annuncia Giovanni l’Evangelizzatore: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» (Gv 1,26).
Come evangelizzare
Innanzi tutto, va ricordato il grido dell’Apostolo: «Guai a me se non evangelizzo!» (1Cor 9,16), senza tuttavia dimenticare che questo annuncio deve avvenire con una buona comunicazione, un bel comportamento (cfr. 1Pt 2,12), in una pratica cordiale dell’ascolto, del confronto e dell’alterità. Sì, l’annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo, né attraverso forme arroganti, né con un’ostentazione di certezze che mortificano o con splendori di verità che abbagliano.
Paolo VI ha più volte chiesto alla Chiesa, in vista dell’evangelizzazione di «farsi dialogo, conversazione, di guardare con immensa simpatia al mondo perché, se anche il mondo sembra estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l’atteggiamento del mondo verso la Chiesa» (Betlemme, 6 gennaio 1964). Ecco perché, come ricordavo all’inizio, occorre innanzi tutto che i cristiani siano evangelizzati, discepoli alla sequela del Signore piuttosto che militanti improvvisati: così sapranno mostrare la «differenza» cristiana. I cristiani non cerchino visibilità a ogni costo, non rincorrano la sovraesposizione per evangelizzare, non si servano di strumenti forti di potere ma, custodendo con massima cura, quasi con gelosia, la Parola cristiana, sappiano essere testimoni di colui che ha raccontato Dio agli uomini con la sua vita umana.
Il primo mezzo di evangelizzazione resta la testimonianza quotidiana di una vita autenticamente cristiana, una vita fedele al Signore Gesù, una vita segnata da libertà, gratuità, giustizia, condivisione, pace, una vita giustificata dalle ragioni della speranza. Questa vita improntata a quella di Gesù potrà suscitare interrogativi, far nascere domande, così che ai cristiani verrà chiesto di «rendere conto della speranza che li abita» (cf. 1Pt 3,15) e della fonte del loro comportamento. Per questo servono uomini e donne che narrino con la loro esistenza stessa che la vita cristiana è «buona»: quale segno più grande di una vita abitata dalla carità, dal fare il bene, dall’amore gratuito che giunge ad abbracciare anche il nemico, una vita di servizio tra gli uomini, soprattutto i più poveri, gli ultimi, le vittime della storia? Teofilo di Antiochia, un vescovo del II secolo, ai pagani che gli chiedevano «mostrami il tuo Dio», ribaltava la domanda: «mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il tuo Dio», mostrami la tua umanità e noi cristiani, attraverso la nostra umanità, vi diremo chi è il nostro Dio. Possiamo anche noi, cristiani del XXI secolo, dire questo? Come possiamo essere credibili nel nostro annuncio di una «buona notizia», se la nostra vita non riesce a manifestare anche la bellezza del vivere?
Nella lotta di Gesù contro ciò che è inumano, nella lotta dell’amore, c’è stato spazio anche per un’esistenza umanamente bella, arricchita dalla gioia dell’amicizia, circondata dall’armonia della creazione e illuminata da uno sguardo di amore su tutte le realtà più concrete di un’esistenza umana. Perché anche le nostre gioie e fatiche di ogni giorno diventino eventi di bellezza occorre una vita capace di cogliere sinfonicamente la propria esistenza assieme a quella degli altri e del creato intero.
Enzo Bianchi
priore di Bose