Mi alzerò e farò il giro della città;
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l'amato del mio cuore.
(Cantico dei Cantici 3,2)
Raccontarono a un re arabo la storia di Leylā e Mağnūn e lo stato miserabile di costui. Mağnūn, infatti, con tutti i suoi pregi e la sua eloquenza, si era nascosto nel deserto e si era lasciato sfuggire le redini dell'intelletto. Il sovrano ordinò che glielo conducessero davanti. Cominciò allora a rimproverarlo, dicendo: «Quali difetti hai trovato nella nobiltà dell'animo umano da adottare i costumi degli animali e rinunciare così al piacere della vita sociale?».
Mağnūn rispose: «Molti amici sinceri m'hanno rimproverato d'amarla, ma non l'han vista una sola volta. L'avessero vista, certamente m'avrebbero scusato.
Ah, se quelli che sono andati in cerca dei miei difetti avessero visto il tuo volto, o tu che mi rapisci il cuore! Contemplandoti, avrebbero tagliato senza accorgersi non le arance ma le proprie mani.
La realtà del fatto avrebbe reso testimonianza alla verità della mia asserzione: "Questa è colei che m'avete rimproverato di amare"».
Il re sentì il desiderio di contemplare la bellezza di Leylā, per conoscere la causa che aveva provocato una tale follia, e ordinò di cercarla. Passarono in rassegna le tribù arabe, la trovarono e la presentarono al sovrano nel cortile della reggia. Il re la guardò e vide una persona di pelle scura e dalle membra esili. Leylā sembrò spregevole ai suoi occhi, perché l'ultima schiava del suo harem la superava in bellezza e ornamenti. Mağnūn col suo intuito se ne accorse e disse: «Avresti dovuto guardare la bellezza di Leylā dalla finestra degli occhi di Mağnūn, per scoprire il suo segreto valore! ».
Il ricordo del pascolo ben custodito mi risuona all'orecchio. Se le colombe del pascolo l'avessero udito, così si sarebbero lamentate: «O amici, dite a chi mi biasima: "Non sai che cosa passa nel cuore di chi è afflitto!"».
Chi è sano non sente il dolore della ferita; dirò la mia pena solo a chi soffre con me.
È inutile parlare di vespe con chi mai è stato punto in vita sua.
Finché non sarai in uno stato come il mio, la mia condizione ti sembrerà una favola.
Non paragonare il mio bruciore a quello altrui: gli altri hanno il sale in mano, io nelle mie membra ferite.
(Racconto sufi del maestro Moslehoddīn Abdullāh Sa'dī, 1184–1291, tratto dall'opera Golestān - Il roseto).
«Si può amare Dio soltanto d’un amore folle. Senza se e senza ma. Per abbracciare un simile orizzonte, non ci dobbiamo porre alcun limite. Se sei arrivato a cinquant’anni senza aver capito questo semplice elemento, hai sprecato la tua vita. Potresti anche essere un bravo religioso, una persona pia, un uomo devoto, ma non sei ancora un credente. Vagheresti tuttora lontano dalla meta – e, magari, con la coscienza tranquilla, riempiendo i giorni con molti atti religiosi. Ma se non hai ancora scoperto cosa sia amare Dio… Lo ripeto: questo deve essere un amore totale, folle».
Ma un amore di tale sorta porta alla morte!
«Intendi riferirti, forse, a quei casi in cui qualcuno arriva ad uccidere la persona amata? In realtà, qui non possiamo parlare d’amore. Possiamo soltanto osservare comportamenti che rivelano una follia travestita di molti panni: gelosie, narcisismi, vendette, orgogli… Perché l’amore non può portare alla morte. È sempre per la vita ed è esperienza che genera vita. Anche se nel linguaggio comune si parla d’amore, in realtà tutto ciò non è amore. Dovremmo avere il coraggio di chiamare questi tristi episodi col loro vero nome: necrofilia. È soltanto il desiderio della morte che porta alla morte – o ci fa desiderare la morte degli altri».
Resto sempre colpito da simili episodi. Mi chiedo come sia pensabile procurare la morte ad una persona amata. A volte mi domando se sia veramente possibile amare. Forse, si tratta soltanto di una illusione che ci permette di attutire le nostre tendenze autodistruttive. Ma è soltanto un’illusione? Al tempo stesso, mi chiedo anche quanto sia ragionevole amare Dio. Non è che, alla fine, finiamo con l’amare soltanto una nostra immagine, un’idea cara che ci siamo fatti e che è un travestimento del nostro narcisismo?
«Sei mai stato innamorato?».
Sì.
«Veramente innamorato?».
Credo di sì.
«Fino a che punto?».
Da non dormire la notte e a non riuscire più a pensare ad altro.
«Tutto qui? Sei non hai perso completamente la testa per una donna, riuscirai forse a capire cosa voglia dire amare Dio? Oppure il tuo amore resterà sempre sciatto, negligente? Senza passione? Il mondo è pieno di gente che crede di amare Dio e di avere la coscienza a posto per il fatto di recitare qualche preghiera o talvolta pensare che ci debba essere Qualcuno al di sopra di noi. Ed anche i conventi sono colmi di persone anaffettive. Hanno ritenuto che il proprio impegno di celibato volesse dire non innamorarsi, non amare, non legarsi.... E lo hanno fatto in maniera tale da non essere più capaci di amare… Neppure Dio. Dov’è la passione che li brucia dentro? Dov’è la fiamma del loro amore? Dove sono le pene ed i tormenti di questa tenerezza? Con il passare degli anni si finisce anche col dubitare della loro fede. Forse cercano di nascondere, addirittura a se stessi, il vuoto che li sommerge. Per di più, tentano di non darne mostra, ma ricercano – come compensazioni – spazi di potere, riconoscimenti, plausi. Procedono, passo dopo passo, verso la non credenza, verso l’ateismo. E, tuttavia, continuano a compiere i loro atti religiosi. Come se in loro ci fosse una sorta di meccanismo psichico che li porta a rinnovare ritualismi. Ma per amare Dio bisogna muovere i passi in altri territori».
Come fai ad essere così certo in questi tuoi giudizi?
«Bisogna innanzi tutto conoscere se stessi. Bisogna saper scendere nel proprio cuore – fin nella parte più intima ed oscura. C’è stato un giorno in cui mi sono reso conto che tutto il mio parlare di Dio era vuoto, era nulla, era niente. Avevo sempre parlato di qualcosa che non conoscevo! Avevo letto libri, avevo sentito gli altri parlarne… Ero cresciuto nell’illusione che ciò fosse sufficiente. Ed invece, potevo tranquillamente considerarmi un agnostico. Esercitavo un mestiere che avevo appreso, ma senza passione, senza amore. Senza arte né parte – come si dice. Presentavo Dio con le immagini dell’amico e pensavo che la categoria dell’amicizia fosse valida per comunicare la mia esperienza di fede agli altri. Ma Dio mi restava lontano. Pregavo, meditavo, pensavo a Dio. Ma ero sempre nei paraggi del dovere. Dio era un compito che mi era stato assegnato dalla vita ed io cercavo di eseguirlo correttamente. Ho dovuto fare tabula rasa. È stato molto doloroso, ma necessario. Ho dovuto lasciare dietro di me molte sicurezze. Ed iniziare ad abitare nel deserto».
Tutto ciò potrebbe anche essere interpretato come un esercizio di egocentrismo, di solipsismo.
«Non lo metto in dubbio. Tuttavia, se non si cerca di barare con se stessi, c’è un aspetto che ci può salvaguardare da questo pericolo. Si tratta dell’umiltà. Non fraintendermi. Non sto parlando di quell’umiltà che oggi alberga sulla bocca di tutti mentre non è altro che orgoglio. L’umiltà di cui parlo è la coscienza del proprio nulla. Ma è proprio a partire dalla consapevolezza del nostro niente – poiché, a ben vedere, siamo sempre dalle parti del nulla: ciò che riusciamo a fare non dura, è nulla ed anche i nostri desideri si rivelano soltanto un nulla – che possiamo incominciare a conoscere cosa voglia dire amare Dio».
Tutto ciò mi sembra contraddittorio. Se non possiamo nulla, come facciamo ad essere capaci ad amare?
«L’amore – il nostro amore – nasce dalla consapevolezza di sapersi amati. Impariamo ad amare perché c’è già qualcuno che ci ama. E noi possiamo amare Dio di un amore folle poiché Dio stesso ci ama senza se e senza ma. In questo caso – in questo amore originario – non ci possono essere misure né limiti».
Ma noi siamo immersi nei limiti. Non fosse altro che per il dolore, la sofferenza e la morte…
«Sì, noi siamo frenati dal limite. Ma il nostro legame con Dio, l’amore che Egli riversa su di noi, tutto questo ci permette di poter muovere i nostri passi oltre il limite. Gli ostacoli nascono sempre per coloro che non vogliono amare. O per coloro che vogliono amare in una maniera misurata, controllata: d’un amore che finisce con l’essere soltanto un simulacro del vero amore».
Tutti questi discorsi sembrano alquanto difficili. Chi li può capire? Non si rischia, alla fine, con l’essere derisi e sbeffeggiati?
«Non lo nego. Ma di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Dovremmo interrogarci seriamente rispetto a questa domanda. Perché, forse, tutto il nostro parlare, ruota lontano dall’amore. E finiamo con il non conoscere l’amore. O, meglio, con il non riconoscerlo. Ma l’amore è sempre relazione. È sempre personale. È il lasciarsi perdere in un vincolo che ci avvolge totalmente. E questo, umanamente, è un atto di follia. Tempi tristi, i nostri, se non sono abitati da persone che non sanno vivere d’un amore così grande – e, al tempo stesso, per nulla razionale. Cerchiamo, dunque, d’amare follemente. E molto ci sarà perdonato».