Il Giornale d’un curato di campagna è il romanzo più profondamente cristiano e più intensamente umano che mi sia mai capitato di leggere. Cristiano nel senso che qui tutte le possibilità della fiction sono messe al servizio della maniera in cui Bernanos vive, nella sua anima e nella sua carne, il messaggio di Cristo e umano, perchè attraverso ogni personaggio, il romanziere ci fa penetrare nel più profondo delle variabili sottili dell’animo umano.
Il Giornale, come lo suggerisce il suo titolo, non è un vero e proprio romanzo nel senso classico del termine. Georges Bernanos sceglie la prima persona singolare e lo stile del giornale intimo con dettagli quotidiani e a volte d’una gran banalità: il suo continuo rivangare ciò che fa e pensa, le frasi a volte frammentate, i suoi segreti confidati alla carta e poi quelle pagine strappate che suggeriscono l’indicibile o l’inconfessabile. Così facendo, ci fa sentire la voce ardente e sincera del curato d’Ambricourt, ci fa vedere i meandri della sua anima, i conflitti interiori, la sua solitudine spaventosa, i suoi dubbi, le sue speranze, le sue sofferenze, le sue gioie.
Ciò che il curato scrive per conoscersi meglio, diviene testimonianza della sua passione e della nostra, passione nel senso cristiano del termine. Infatti, ogni vita è vista come una Via Crucis attraversata dalla sofferenza, come sola via possibile verso la grazia. La genialità di Bernanos consiste nel riuscire a fare vivere insieme la violenza estrema di questa verità e la dolcezza infinita di questa promessa, a far scaturire la sublime luminosità della fede dal fango fetido del peccato.
Messo di fronte al Male e alle tenebre dell’anima umana attraverso le confessioni che riceve o i personaggi che incontra, il curato vede la sua fede messa a dura prova e allo stesso tempo sente crescere in lui lo spirito di carità. Per la sua parola salvifica, il curato d’Ambricourt diviene un’icona di Cristo, salva le anime, trasforma la disperazione in speranza, il dubbio in slancio di fede, la ribellione in rassegnazione. Si gioca la scommessa della preghiera, dell’amore, del pentimento contro la routine religiosa, l’indifferenza e il Male in ogni sua forma. “Il solo male irreparabile, dice il curato ad uno dei personaggi più duri e ribelli del romanzo, è di trovarsi un giorno senza pentimento davanti al Volto che perdona”. In un indimenticabile miscuglio di forza e di dolcezza, di debolezza e d’abbandono, testimonia la potenza trasfigurante della carità e incarna la compassione. Ciò non gli impedisce di comunicare, allo stesso tempo, l’esigenza suprema, quella della verità, che è il cuore stesso della grazia.
Alla fine del Giornale, quando già sa che deve morire del cancro che lo distrugge (metafora del dubbio devastante che è l’inevitabile corollario della fede, che si snoda lungo tutto il suo romanzo), egli scrive: “Ho molto amato gli uomini, sento proprio che questa terra dei viventi mi era dolce (…). Perché tormentarmi? Perché fare previsioni negative? Se ho paura dirò: ‘ho paura’ senza vergogna. Che il primo sguardo del Signore, quando mi apparirà il suo Santo Volto, sia uno sguardo che rassicura.”
Infatti, vivere con gli occhi aperti è anche imparare a morire, e imparare a morire è aprire in se stessi il cammino verso la sorgente della vita. Per Bernanos questa sorgente non è altro che la figura di Cristo. E la missione che egli affida alla scrittura è precisamente di risvegliare Cristo in ogni uomo o meglio che Egli venga in lui. Forse è questa venuta nell’uomo che rende il Giornale d’un curato di campagna così sconvolgente? Infatti ci riconduce alla certezza essenziale: “Tutto è grazia”.
Leili Anvar *
* Professoressa universitaria di letteratura, “Maître de conférence” in lingue e culture orientali, ha scritto Trésors dévoilés, antologia dell’Islam spirituale, con Makram Abbès (ed. Seuil 2009).
(da Le Monde des Religions, marzo-aprile 2010)
(Traduzione a cura di Immacolata Occorsio, SMSM)