Vita nello Spirito

Domenica, 20 Febbraio 2011 23:36

Hadewijch – Il film (Fausto Ferrari)

Vota questo articolo
(2 Voti)

Céline è una giovane ragazza che aspira ad una vita radicalmente votata a Dio. Sta vivendo un periodo di prova presso un monastero, ove vorrebbe prendere l’abito col nome di Hadewijch. Si sottopone a continue privazioni sia per quanto riguarda il cibo che la cura di sé.

 

Hadewijch , Francia, 2009, Drammatico, durata 120'

Regia di Bruno Dumont

Con Julie Sokolowski, Yassine Salihine, David Dewaele, Karl Sarafidis

La trama

Céline è una giovane ragazza che aspira ad una vita radicalmente votata a Dio. Sta vivendo un periodo di prova presso un monastero, ove vorrebbe prendere l’abito col nome di Hadewijch. Si sottopone a continue privazioni sia per quanto riguarda il cibo che la cura di sé. La superiora del monastero decide il rinviarla nel mondo poiché Céline non accetta i limiti imposti dalla Regola: si dovrà misurare con un diverso cammino spirituale, anche se la porta del monastero resterà ancora aperta per lei.

Céline è affranta ed addolorata per questa decisione. Ritorna a Parigi, nella propria casa, con genitori ricchi, ma praticamente assenti dalla sua vita. La madre è depressa mentre il padre, pur essendo un ministro della Repubblica, «è un coglione». Trascorre le sue giornate pregando e frequentando un café. Qui ha modo di incontrare un ragazzo musulmano, Yassine, con cui fa amicizia. Yassine è giovane banlieuesard che cerca di corteggiarla, ma senza successo. Egli la invita a casa sua, per farle conoscere il fratello Nassir. Con Nassir,  animatore di un gruppo di riflessione religiosa islamica, Céline inizia un confronto all’insegna della devozione e dell’azione. E Nassir, nel cui linguaggio ritornano spesso i concetti di forza e di violenza, la introdurrà nel mondo del fondamentalismo islamico…

Marginale alla storia di Céline è quella di David, un giovane muratore che lavora presso il monastero. Non si sa cosa abbia commesso, ma viene arrestato ed incarcerato – e non è la prima volta che conosce l’esperienza della prigione. Egli assiste muto al succedersi degli eventi e soltanto alla fine del film si svelerà il motivo della sua presenza.

Il regista

Bruno Dumont è un regista francese, nato nel 1959 a Bailleul, nel Dipartimento del Nord, ai confini con il Belgio. Insegnante di filosofia, nel 1997 ha scritto e diretto il suo primo lungometraggio, La vie de Jésus (uscito in Italia con il titolo L’età inquieta). Il film ha ottenuto la Menzione Speciale Caméra d’or al Festival di Cannes. Anche i successivi film L’humanité e Flandres hanno ottenuto (nel 1999 e nel 2006) il Grand Prix della giuria. Hadewijch ha ottenuto il premio FIPRESCI al Toronto International Film Festival.

«A forza di fare cinema mi sento senza dubbio, naturalmente, portato poco a poco verso una visione più mistica del mondo. La mistica è come una sorta di gradazione supplementare, nascosta, misteriosa. C’è una prossimità tra il cinema e la mistica, sul loro rapporto col reale e con le apparenze, e sulla potenza delle sensazioni che possono generare».

Il film

Girato tra il Nord della Francia, Parigi e il Medio Oriente, per Bruno Dumont si tratta del settimo lungometraggio. Nel film viene sviluppato un discorso non sulla fede, ma sull'esperienza dell'amore estremo. Si parla di Dio per parlare dell’amore: «Uno dei luoghi in cui l’amore fiammeggia di più, un luogo di rappresentazione dell’amore a un livello di incandescenza spaventosamente forte».

In Hadewijch sono privilegiate le inquadrature ravvicinate. Il regista indugia sul volto della protagonista (Julie Sokolowski, attrice non professionista). A lei è lasciata la possibilità di esprimersi nella spontaneità. «Le ho proibito di mangiare o dormire prima dello scatto (…). È straordinario fare un film sulla fede religiosa con una attrice che non ha assolutamente alcuna sorta di fede in Dio. Ma queste contraddizioni ci obbligano a lavorare di più. Sorprendentemente, ho scoperto che più le cose sono paradossali e migliore è il risultato di un film. È qualcosa che non capisco e che trovo molto inquietante».

Si tratta di un cinema austero. Film rigorosamente introspettivo e aperto alla trascendenza. Queste due dimensioni sono intrecciate, si compenetrano dinamicamente. Le immagini girate nel convento nel Nord della Francia, nella casa parigina sull’Île Saint-Louis, nella banlieue e a Beirut scorrono in una tensione tra ciò che viene mostrato e l’astrazione dello sviluppo scenico.

Il regista ed il direttore della fotografia (Yves Cape) imprimono alla luce tonalità espressionistiche. Il volto di Céline/Hadewijch viene inondato di chiarori accesi.

La sintesi tra trascendenza ed interiorità viene perseguita dal registra attraverso uno spogliamento stilistico. L’antispettacolarità viene prefissa con molteplici strumenti. I dialoghi si fanno rarefatti, l’estetica viene moderata e la bellezza dell’immagine viene sacrificata. Il regista a tal fine opera anche sul formato cinematografico e sulla pista audio passando dal Cinemascope all’1.66 e dal suono stereo al mono. Si tratta di una riduzione assoluta.

Non è l’estetica ad essere perseguita, ma la dimensione spirituale, interiore, mistica, in una elementarità esemplare. Scelta che allo spettatore può piacere o meno, ma coerente ed estrema nello sviluppo del film. Si viene in questo modo proiettati sulla ricerca estrema di Céline/Hadewijch, fisicamente sofferente per l’assenza e la lontananza del Cristo. «La mistica è esattamente questo. È passare attraverso le apparenze per accedere a un’altra dimensione».

Quello di Dumont è un cinema di bassi costi, realizzato per lo più con attori non professionisti. Un cinema umile, ma che esalta l’interiorità dei personaggi e cerca di svelare i tratti di un’umanità inquieta.

«È un paesaggio interiore che filmo. Penso che dovreste vedere Hadewijch non come un personaggio, ma come un sentimento. È puro sentimento, è l’incarnazione del nostro bisogno di amare ed essere amati. Di fatto, è un’astrazione».

Il nome

Hadewijch è il nome di una mistica fiamminga vissuta tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Poco o nulla sappiamo della sua vita, se non le notizie ricavate dai suoi scritti. Sembra che abbia vissuto all’interno di uno di quei gruppi di feminae religiosae che hanno preceduto la nascita vera e propria dei beghinaggi. Ci sono rimasti alcuni scritti in prosa e in versi. Hadewijch ci si rivela come donna di cultura, che conosce bene la teologia del suo tempo e che vive in una profonda  ed intensa esperienza mistica. Incessante in lei è l’esaltazione e lo slancio verso l’amore divino, in una completa assimilazione al Cristo.

Scrive Hadewijch in una sua lettera: «(…) vi rivolgete troppo poco all’Amore, che mi ha soggiogata così terribilmente nella violenta agitazione dell’amore inappagato. Il mio cuore, la mia anima, i miei sensi non riposano mai, giorno e notte. Questa fiamma non cessa mai di bruciare nel midollo della mia anima» (lettera XXV, 18-23). (1) Abbiamo qui una chiave interpretativa per leggere il film. Il regista cerca di trasporre nell’epoca contemporanea questa esperienza mistica, sviluppando attraverso una rilettura molto personale le ambivalenze della violenza di un amore assoluto.

Anche per il nome Céline c’è da spendere una parola. Céline Martin è la sorella di Teresa di Liseux, anch’essa monaca nel medesimo monastero di Teresa. Un modo indiretto per ricordare un’altra grande mistica francese.

La spiritualità

C’è da specificare fin da subito che non si tratta di un film religioso o spirituale nel senso stretto del termine, ma di un racconto sull’amore.

«Penso che la religione sia veramente il cuore delle cose. Ma penso anche che oggi si dovrebbe tornare alle radici delle sue origini. La religione è un sentimento arcaico – comunque, è un sentimento importante per l'umanità. Credo che dovremmo riportare la religione nel luogo da dove è venuta, abbiamo ancora un bisogno spirituale nella nostra vita quotidiana. Si tratta di qualcosa che è essenziale per la vita moderna. E questo è qualcosa che ho cercato di affrontare nel personaggio di Hadewijch, per collocarlo in un contesto moderno. Hadewijch è colei per la quale la spiritualità religiosa muore in una chiesa e, alla fine del film, rinasce nella spiritualità umana».

Non si può non restare sorpresi dalla dimensione spirituale, mistica, che pervade l’intero film. Film non facile da vedere, non soltanto per le scelte stilistiche, ma anche per la lentezza del ritmo. Si tratta di una meditazione visiva. La macchina da presa si sofferma sui volti, primo luogo rivelativo dell’esistenza.

«Quando tu ti avvicini al misticismo, hai ad occuparti di qualcosa che non ha nulla a che fare con la razionalità e la mente logica. Si raggiungono zone o aree toccate dall'estasi, esperienze estatiche che trovo assolutamente stupefacenti».

La macchina da presa, in genere, non si sofferma sulle immagini e sui simboli religiosi (spesso relegati ai margini dell’inquadratura o svelati soltanto alla fine, come nel caso dell’edicola votiva presso cui Céline/Hadewijch si reca in vari momenti a pregare), ma sul vissuto della protagonista, sul suo mondo – che resta, per certi versi, enigmatico e misterioso.

Vale la pena soffermarsi sulle ultime parole del film. La protagonista le pronuncia nel dolore del proprio smarrimento. «Amore, per la tua potenza senza nome, sii clemente con me. Sei la luce del giorno e i miei giorni saranno delle notti. Perché? Perché? Mi forzi a inseguirti senza posa? Perché mi sfuggi sempre più lontano? Tu mi fai pagare, amore, un prezzo troppo alto. Sciagura, la mia, di essere una creatura umana». Si sente qui l’eco di molti autori spirituali, accomunati dal desiderio di Dio. Si tratta dell’esperienza dello smarrimento, dell’abisso, della notte oscura, della stanza vuota, del nulla... Una esperienza pericolosa, sospesa tra grazia e follia, che può portare alla perdizione o sfociare in una nuova dimensione spirituale.

La simbologia

Nel film, pur scarno e castigato, è possibile notare l’adombramento di alcuni simboli. Ne vediamo brevemente tre, in quanto abbiamo già parlato sopra del nome della protagonista:

a) La salita. Da Giovanni Climaco passando per Giovanni della Croce (Salita al Monte Carmelo) e giungendo a numerosi autori contemporanei, gran parte dell’esperienza religiosa usa il simbolo della salita per indicare il progresso spirituale. Nel film la salita è quella che la protagonista compie verso la chiesetta all’apice della collina. Si tratta di una collina boscosa e la meta viene raggiunta con la corsa, nell’affanno e con fatica. Nella tradizione ebraico-cristiana questo simbolismo ha origini bibliche. Possiamo ricordare la salita di Mosè al Sinai (ove riceve le Tavole della Legge), quella di Elia al monte Oreb (ove ha un’esperienza mistica di Dio) e quella di Gesù sul monte della trasfigurazione (per non parlare dell’altra salita, quella della croce, al Golgota). Ma anche la selva oscura di Dante, prima di giungere ai piedi del colle. (2)

b) Il monastero e la chiesa in riparazione. Le inquadrature al monastero sono pervase dalla presenza di impalcature e di operai al lavoro. Non si tratta soltanto di un espediente scenografico, ma il rimando ad un elemento simbolico. Opera mai compiuta, che necessita di un costante lavoro di riparazione e di ristrutturazione. Il mondo religioso non è dato in sé, ma è costantemente pervaso dalla provvisorietà.

c) Il monastero visto da lontano. Si tratta di una scena che ritorna spesso nel film. Un sentiero appena accennato nel terreno, che passa tra macchie di ligustri mentre sullo sfondo, in lontananza, si staglia il profilo del monastero, sotto un cielo che non è mai sereno. La vita spirituale e religiosa è un cammino continuo, la cui meta resta lontana. Perché nel cammino spirituale non si è mai arrivati. Si è sempre in viaggio. Ed il compimento del viaggio si ha soltanto con la morte.

Il tema della violenza

«Ciò che mi interessa è esplorare la profondità degli esseri e ciò che li motiva ad agire. Il problema è come l’amore possa essere capace di scatenare un’immensa violenza».

Già nei precedenti lungometraggi Dumont aveva affrontato il tema della violenza. Qui, il suo sforzo è quello di scandagliare il perché un amore assoluto possa sfociare nella brutalità.

Abbiamo la violenza di un cammino spirituale che non si confronta con altre esperienze, non accetta di essere contenuto da una Regola e in cui risulta assente l’accompagnamento di un maestro. Nessuno può dire se la ricerca spasmodica di Céline/Hadewijch sia dettata soltanto dall’orgoglio e dal narcisismo o se abbia origine da un’autentica sorgente mistica. Il confronto con Nassir, il giovane amico, è l’incontro tra due assoluti, tra due fondamentalismi speculari, che ricercano soltanto conferme per sé e non la verifica della veracità e dell’autenticità del proprio cammino. Nassir si fa esplodere in un attentato suicida. Il suo fondamentalismo religioso non lo risparmia, ma gli offre gli strumenti (spirituali e materiali) per compiere il terribile gesto.

Céline/Hadewijch, sopraffatta dalla sua incapacità a trovare l’amore assoluto del Cristo, tenta il gesto estremo del suicidio, immergendosi nelle acque di un laghetto. (3) Il suo amore straordinario è pericoloso. Non a caso la saggezza della vecchia monaca superiora sospinge Céline/Hadewijch a misurarsi con il mondo. Questo estremismo non può essere contenuto dalla medianitas di una Regola. Soltanto il mondo – con tutte le sue problematicità – può essere il terreno su cui provarsi. Una battaglia terribile, ove è possibile soccombere, ma da cui, se si sopravvive, si potrà intraprendere un nuovo cammino.

Le immagini del paese arabo (non precisato nel film, mentre si sa che le riprese sono state fatte nel Libano) raccontano la violenza della guerra e la morte dei civili. Sono le urla delle sirene delle autoambulanze, le case incendiate, le notizie di bombardamenti, i bambini feriti o morti portati in braccio, il pianto delle donne, i gridi di dolore… Non è facile restarne indenni, non essere strascinati via dalla fiumana della gente che invoca altra violenza.

David, poi, è il giovane che conosce l’esperienza del carcere. Dumont, nel narrare questa storia, espone pochissimi tasselli. Si sa soltanto che David, dopotutto, non ha ucciso. Ma è sottinteso che anche ogni esperienza limitante la libertà umana si pone come atto di violenza.

Yassine compie il furto di una moto e poi si lancia con Céline/Hadewijch per le vie di Parigi. Un gesto comune a tanti altri teppistelli delle banlieue. Yassine si autoassolve per l’azione compiuta dando colpa al fatto che il proprietario della moto lo ha guardato. Nella società dell’immagine c’è una violenza che ha origine proprio nello sguardo. Il volto non è più visto come luogo della conoscenza e dell’incontro, ma come fonte della violenza. Bisogna sottrarsi allo sguardo altrui, divenuto ormai pericoloso. Nella società virtuale, ove i rapporti sono mediati o nascosti dagli strumenti tecnici ed elettronici, lo sguardo uccide! (4)

Pornografia/eros

Si tratta di un tema costante nella filmografia di Dumont. Il regista si sofferma spesso a presentare scene di sesso. In esse si assiste ad una reiterazione meccanica, puramente fisica, assolutamente priva di una dimensione affettiva, relazionale, spirituale. Un sesso che non dà appagamento e spesso non produce neppure piacere. Anzi, può sfociare nella violenza più atroce. E, perciò, si rivela solamente pornografico. A questo svuotamento spirituale egli contrappone una dimensione erotica dell’esistenza, percepibile anche negli odori, nello sbocciare dei fiori, nella fisicità delle cose, ecc. Un eros che non si sottrae, ma che si riversa.

In questo film notiamo l’assenza della pornografia. La ricerca di un amore assoluto da parte di Céline/Hadewijch resta inappagato. Nella sua ricerca del Cristo avverte soltanto la paradossale distanza che non può essere colmata. Il suo bisogno di amore si scontra con l’assenza fisica e con l’amore non corrisposto a Yassine (che inizialmente rimane colpito dalle affermazioni della ragazza, ma che alla fine giunge alla conclusione che sia pazza). Ma ha anche la sua controparte nell’amore silenzioso di David, capace di accorrere nel culmine del momento critico e di salvare la protagonista. Al pianto liberatorio finale di Céline/Hadewijch tra le braccia di David il film si chiude sullo sguardo stupito del ragazzo.

La critica

Come per gli altri lungometraggi di Dumont, la critica si è divisa. A chi ha parlato di capolavoro fa da contraltare quanti si stracciano le vesti e gridano allo scandalo, lo accusano di annoiare, di produrre soggetti poco interessanti e di incapacità espositiva. Fa molto discutere l’assoluta riduzione stilistica e narrativa compiuta dal regista. C’è chi lo paragona a grandi maestri del cinema del passato e chi sottolinea semplicemente la sua incapacità a produrre film degni di tale nome. C’è anche chi fa notare che Dumont raccoglie sempre consensi da una certa critica mentre non ha mai avuto successo nelle sale cinematografiche ed il suo pubblico resta sempre di nicchia.

Siamo semplicemente di fronte ad un film composto dalle tessere di un mosaico. Dumont fa brillare alcune di queste tessere, su di uno sfondo che resta accennato o velato. Lo spettatore, in un certo senso, è sfidato a completare il lavoro. Un invito ad approfondire a livello personale la dimensione spirituale di quanto visto. E qui il discorso si fa complesso. Perché il film suscita, in uno spettatore attento e sensibile, molte domande ed apre parecchie piste di riflessione: amore assoluto e ricerca spirituale, casualità e grazia, preghiera e contemplazione, azione e violenza, eros e gratuità, silenzio e dolore, orgoglio ed umiltà, lontananza e ricerca di Dio, fondamentalismo religioso, ecc.

«La mia posizione è molto paradossale. Quando sto facendo un film, io non sono interessato a come uno spettatore risponderà. Io non sto lavorando per rendere il film accessibile, ma allo stesso tempo, ho un grande rispetto per il pubblico, perché mi rendo conto che è attraverso lo sguardo del pubblico che il mio film sarà completato. Mi rendo conto che sono un individuo, proprio come qualsiasi altro membro del pubblico, e penso che se c'è una dignità al cinema, si trova in mezzo al pubblico che riceve il film e lo completa».

Fausto Ferrari

Note

1) Hadewijch, Lettere. Dio amore e amante, Cinisello Balsamo 1992, p. 182.

2) Dante Alighieri, Inferno I.

3) Ricordiamo qui anche la scena finale del film dei fratelli Taviani Il sole anche di notte, Italia 1990. Vi si narra la storia di un uomo, fattosi monaco per orgoglio e vissuto in un cammino apparentemente di santità, in realtà inficiato dalla sua estrema mancanza di umiltà. Anche in questo caso il suicidio non trova compimento e l’uomo inizia un nuovo cammino spirituale, nascosto nell’anonimato, ricevendo l’augurio di una vecchia contadina di poter sperimentare il sole anche di notte.

4) Rimando alle riflessioni di Jean-Paul Sartre sullo sguardo, contenuto in L'essere e il nulla, Milano 1965.

 

* Alcune dichiarazioni di Dumont sono prese dal dossier de presse consultabile sul sito ufficiale e dal Q&A dell’11 settembre 2010 tenutosi al TIFF dopo la proiezione del film. Altre sono tratte dall’intervista con Smith Damon, in http://www.filmmakermagazine.com/news/2010/12/bruno-dumont-hadewijch.

Letto 6936 volte Ultima modifica il Mercoledì, 15 Maggio 2013 21:03
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search