Vivere il tempo come dono e grazia
di Mario Bizzotto
Questo Speciale è stato proposto come un insieme di piste di riflessione riguardanti le varie fasi del tempo che viviamo nella vita di tutti i giorni. L'autore le presenta come appunti, per esempio per un corso di esercizi spirituali. È comunque importante ogni tanto fermarsi e ripassare le azioni più abituali delle nostre giornate per ritrovarne il significato, evitando così il rischio, tutt'altro che ipotetico, di viverle solo in superficie. È una riflessione che ci sembra opportuno offrire anche ai nostri lettori mentre tramonta un anno e ne inizia un altro.
Le piste di riflessioni che si prestano per dei momenti di raccoglimento come in un corso di esercizi spirituali sono molto varie. Potrebbe essere utile ad es. l'obiettivo di ripassare ciò che si ritiene più ovvio: le azioni più abituali della giornata. Ci sono appuntamenti così legati all' abitudine che sfuggono all' avvertenza, passano inosservati, eppure sono espressioni significative della vita. Non ci sono solo i momenti solenni ad es. le grandi tappe o i grandi appuntamenti segnati dall'età oppure le ricorrenze liturgiche che rompono la monotonia quotidiana. La vita è fatta di situazioni modeste, umili, feriali, inappariscenti, che finiscono sommerse nell'automatismo, eppure non sono insignificanti. È più che utile perciò il tentativo di perseguirne il senso e portarlo sul piano della coscienza. Il filo che collega i vari momenti della vita quotidiana è il tempo. Seguendone i ritmi è dato di imbattersi su azioni che abitualmente si sottraggono all'osservazione.
L'invocazione dello Spirito
Un corso di esercizi inizia con l'invocazione dello Spirito, perché illumini la mente e accenda il cuore. Se si domanda luce è per vedere quello che abitualmente sfugge nascosto e va perduto. Si cerca di scoprire la trama nascosta che nella vita va di continuo intessendo il gratuito. Questo è sempre presente come silenzioso protagonista, ma non ci si pensa, si gode a piene mani dei suoi benefici senza prenderne atto. Si vive in fondo circondati dal gratuito, si è "pieni di grazia". La risposta ad esso è la riconoscenza, ma là dove non c'è conoscenza non c'è neppure riconoscenza.
Dietro il gratuito è più logico pensare a una mano provvidente che non al caso, è segno di onestà il richiamo a Dio. Quanto più lo si cala nella realtà tanto più lo si rende concreto. Lévinas nota che «non ci può essere alcuna conoscenza di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini». Si incorre spesso nel pericolo di fare di Dio un'idea astratta, secondo la concezione pagana. Il cristianesimo però vede Dio innestato nel travaglio della storia, lo presenta in veste umana. Il suo volto è così come si fa avanti nell'intreccio degli eventi umani registrati nelle fonti bibliche. È sì sopra il mondo ma nel contempo è dentro ogni azione umana, è perciò concreto come è concreto il cibo che si consuma. Dio va cercato in ogni azione ed evento. Non c'è quanto il suo aggancio alla realtà quotidiana che lo rende reale e vivo.
Francesco d'Assisi lo riconosce nell' acqua che beve, nel vento che sibila tra le fronde, nel fuoco al cui tepore si riscalda, nel sole che ammira. Il suo è il vero Dio della creazione, lo incontra non al di fuori, uscendo dal mondo, ma mettendosi dentro tra gli esseri più umili. Qui si concretizza la sua fede. Non ha bisogno di ricorrere a ragionamenti faticosi, lo sente vicino, in se stesso e in tutte le creature che lo circondano. È 1'essere nel "quale ci moviamo, viviamo e siamo" (At 17,28). Invocando lo Spirito si chiede che ci faccia riconoscere Dio nella stessa vita quotidiana.
Più del pane si chiede la fame e la sete della sua parola. Il salmista è un esempio di un' adeguata disposizione all' ascolto quando si rivolge al Signore pregandolo in termini accorati: "Già nel primo mattino mi presento e chiedo aiuto in attesa della tua parola, i miei occhi anticipano la veglia per meditare le tue promesse" (119,47 ss.).
Il tempo effimero
Il tempo del cristiano è vissuto "nell'attesa che si compia la beata speranza e venga … il Salvatore Gesù Cristo". E aperto al futuro. Rompe gli angusti confini del presente. La prospettiva in avanti comporta la prova e la perseveranza, la durata e la fedeltà. Anche il cristiano ha la piena coscienza della fugacità d'ogni essere nel tempo come del resto il pagano. C'è tuttavia una sostanziale differenza. Per il pagano tutto si consuma e dissolve nel nulla, per il cristiano all'interno dell'evoluzione delle cose si avanza verso una meta, una realtà che non passa.
La Scrittura ribadisce la concezione del tempo effimero ricorrendo alle immagini dell'esilio e della patria. La vita è concepita come un pellegrinaggio, si è in via, in uno status viatoris. Il suggerimento è provocatorio. Si presta a molti equivoci soprattutto nella nostra epoca della secolarizzazione, dove al presente è riconosciuto il primato assoluto. Al di fuori di esso non si accetta altra realtà.
Eppure nell'immagine del pellegrinaggio c'è un valore imponente. Ci mette in quota e ci fa leggere la realtà a partire dall' alto con un atteggiamento di distacco, che consente di guadagnare un quadro d'insieme sulle cose, dando ad esse la loro giusta collocazione. Si impara la tanto difficile ma altrettanto elevata lezione dell'umorismo. Suvvia, non tutto si deve prendere in modo tragico. In fondo la dimora terrena è una tenda, che serve come sosta nel viaggio dell' esistenza. La realtà definitiva è un' altra. Solo nell'esistenza cristiana è possibile l'umorismo in senso pieno, perché solo dal punto di vista della redenzione è accettabile la storia con le sue contraddizioni e disordini, sciagure e morte. La parola rivelata ci fa indossare un abito su misura, ci avverte non senza rigore che siamo pellegrini e non si ha qui sulla terra stabile dimora a disdetta d'ogni illusione.
La figura dell' esilio va di pari passo con quella della patria, cui la cultura contemporanea diventa sempre più refrattaria. È più difficile che mai all'uomo contemporaneo rivolgere l'attenzione all'al di là. Si è come sequestrati dall'effimero. È stato detto: l'istante è la nostra eternità. Un'eternità povera, quella sola di cui è capace un uomo privo di speranza.
La promessa che la rivelazione prospetta arricchisce la vita di ideali e aiuta a vivere in pienezza, oltrepassando gli sbarramenti nell' avventuroso cammino dell'esistenza. A questo riguardo Isaia è il profeta più trasgressivo, eppure non c'è quanto la sua parola che insegni la lezione più importante della vita. Cristo a sua volta riprende in modo esplicito la speranza di Isaia e la traduce nell' evento della risurrezione.
Il tempo feriale, tempo del lavoro
La gran parte del tempo è assorbita nell'attività lavorativa. Il libro della Genesi dei sette giorni della creazione ne dedica sei al lavoro, riservando il settimo alla festa. Distingue chiaramente il tempo feriale da quello festivo. Prima di accedere a questo, il passo obbligatorio è l'attività quotidiana, l'adempimento del dovere elementare del lavoro. In termini espliciti la Bibbia avverte: "con il lavoro della tua fronte guadagnerai il tuo pane". Con il lavoro si riproduce in se stessi l'immagine di Dio creatore. Ad esso è associata la fatica ma nel contempo anche le virtù morali della fedeltà e dell' onestà. Il pane che si consuma dev' essere un pane guadagnato, se non è guadagnato è un pane rubato come lo è quello del parassita.
A chi lavora non si deve solo il compenso, si deve anche la stima. A lui si deve tutto il rispetto come lo si deve a un cittadino che merita un giusto posto nella comunità. Le attività abbracciano una vasta gamma di occupazioni che vanno dalle più alte cariche alle più umili. Lo stesso impegno dell' evangelizzazione si estende a molte forme di attività: sociali, morali, educative, assistenziali, rivolte a infermi o bisognosi. In quest'ultimo ramo si innesta il carisma camilliano. Il suo è certo una forma di lavoro con caratteri propri. Anzi lo si può distinguere dalla stessa accezione del lavoro, dal momento che a differenza di questo esige passione e cuore. Sarebbe auspicabile che qualsiasi attività si distinguesse per entusiasmo, fosse eseguita con piacere e manifestasse una certa soddisfazione. Se è auspicabile non è però imprescindibile.
È pensabile che si possa compiere il proprio lavoro senza provare particolare attrazione. È sufficiente venga eseguito come l'andamento della fabbrica o del sistema burocratico lo esige. Non si richiede la presenza di un'attitudine o d'una vocazione. Diverso è il caso dell' assistenza, dove più che di lavoro si dovrebbe parlare di cura. Le due accezioni sono diverse. A far la differenza è lo spirito da cui si è motivati. Si è all' altezza della vocazione assistenziale quando si esibiscono doti umane: gentilezza, cordialità, solidarietà, condivisione. Balza in primo piano lo spirito di fraternità, che va oltre lo spirito di uguaglianza di matrice illuminista. Questa infatti si fonda sulla protesta: tu sei uguale a me, a differenza di quella che cerca di conformarsi al grado di bisogno e urgenza. Nel servizio del malato l'ideale dell'uguaglianza non solo sarebbe inadeguato ma addirittura anche ingiusto. Non tutti sono bisognosi allo stesso modo. Una madre non offende i propri figli se tra questi ha una predilezione per quello più svantaggiato.
Non per niente la tradizione per spiegare l'assistenza ai malati fa appello alla figura materna. Si tratta d'un archetipo, presente tanto nella letteratura agiografica quanto nella letteratura umanistica. La madre vuole il rapporto con il tu. La persona con la quale si rapporta non è un qualsiasi sostituibile a piacere con un altro come in una squadra sportiva. Nel suo atteggiamento mette il cuore. Il suo perciò non è un lavoro che si esplicita in forma neutrale, è appunto cura, ossia sollecitudine che fa propria la causa altrui, l'assume con una partecipazione affettiva.
Questa qualifica è accentuata nella storia sacra, dove in genere le figure criminali da Caino a Erode sono maschili, mentre al contrario solitamente la donna interpreta la pietà, la fedeltà, la donazione, l'umiltà e perfino il coraggio. Gli esempi sono numerosi: dalla Vergine alle pie donne, da Elisabetta alle sorelle Maria e Marta, anche se non mancano le eccezioni, ad es. Isabel ed Erodiade. Il tempo della vita è anche il tempo della malattia e della sofferenza, che si soccorrono soltanto con la prestazione della cura, 1'attività più difficile e nascosta nel quotidiano, tanto prezioso e umanamente ricco quanto non adeguatamente riconosciuto. Il tempo della cura ha il carattere del gratuito, in quanto tale non è restituibile. Implica il senso del dono.
Il tempo festivo
Il tempo feriale è il più faticoso e dura a lungo, ma non dura sempre. È interrotto da quello festivo. Nel corso della vita c'è anche il settimo giorno, che tra le opere della creazione è la più elevata. Nella tradizione cristiana è ricuperato con la domenica, detta giorno del Signore e nel contempo anche dell'uomo. Nel settimo giorno l'immagine di Dio, stampata nella creatura, diventa più espressiva, ne evidenzia la dignità che vale più del lavoro.
In genere parlando della domenica si mette in risalto il riposo. Non è però questo il punto nevralgico. La festa si vive nel riposo, ma è qualcosa di più. Ha in sé il sacro. Sorpassa l'ambito umano. Al suo centro si colloca Dio, tolto il quale non si può più parlare di festa, l'individuo non si emanciperebbe da una realtà appiattita, forse più movimentata che non quella dei giorni feriali, più rumorosa e più allegra con il consumo di beni edonistici. Mancherebbe il salto verso una realtà superiore. Si fa festa in modo autentico là dove l'uomo è ricuperato con la sua dignità e le sue esigenze spirituali.
Si capisce come ai primordi della storia si facesse festa chiamando in causa la divinità, cui si sacrificava il meglio della terra. Dio veniva messo al posto che gli compete, veniva riconosciuto per quello che è. Senza di lui ci sarà sagra o sfogo dei sensi, fruizione di beni effimeri. Con lui la celebrazione si fa seria e solenne. Non solo. Riguarda in particolare la comunità. Non si fa mai festa da soli. Così si costata in molti passi della Bibbia. Ad es. nella parabola del figlio prodigo il padre al suo ritorno invita tutta la casa alla festa. La stessa cosa si riscontra in tutte le parabole del perdono, dove la manifestazione della gioia è corale, trattandosi di un sentimento di natura sua altruistico.
Al centro della festa si colloca sempre il sacrificio. Si offriva a Dio il meglio dei prodotti e degli esseri della terra. La vittima doveva essere la più pura, per essere appunto più adeguata possibile alla maestà di Dio. In ambito cristiano è Cristo stesso che si offre per noi al Padre come vittima perfetta. L'evento è carico di reminiscenze storiche. Affonda la sua radice nel settimo giorno della creazione, si prolunga poi nell'esodo (Es 20,8 ss.) e culmina con la pasqua di risurrezione. La Bibbia ribadisce l'importanza del sabato ricorrendo a un imperativo, riservato ai grandi valori: ricordati di santificare il sabato. Se si pensa come si sia facili a rimuovere e a sottovalutare le scadenze religiose, nonostante la ricchezza di contenuti edificanti, si capisce quanto sia opportuno il richiamo biblico.
La memoria del giorno festivo non è una delle tante, è la memoria per eccellenza perché onora Dio e implicitamente chi di Dio ne è l'immagine. Qui l'uomo trova l'opportunità di pensare a se stesso, incontrare il suo essere dopo tante divagazioni. In genere si vive lontani da sé, sempre fuori, sempre nella dispersione. Si ricordano magari cose futili e si dimenticano quelle necessarie. Si ricordano i luoghi dei ritrovi o delle ore spensierate, delle occupazioni che alienano. Il ricordare biblico ha un significato denso. È riferito precipuamente a circostanze principali, quelle che regolano i rapporti più profondi e intimi verso Dio, verso il padre e la madre. Il "ricordati" è un monito che trae dall'indifferenza, risveglia dall' apatia e scuote lo spirito per richiamarlo a diventare quello che deve essere.
È ovvio pensare alla domenica come a un tempo sacro. Sarebbe uno sciuparlo trascorrendolo nell'inseguimento di interessi frivoli. Non se ne capirebbe il senso e lo si profanerebbe. L'ammonimento biblico mette in guardia: attento qui entri in un tempo diverso da quello abituale! non perderlo! Se non lo afferri perdi una opportunità utile per la tua formazione umana.
Al cristiano il richiamo è ribadito in ogni celebrazione eucaristica: fate questo in mia memoria. L'annuncio della memoria è anche annuncio della speranza. Si fa memoria del Cristo risorto che porta la salvezza. Include in sé il tempo intero: passato, presente e futuro. Rivivifica la fede, si dirige all'anima. Quanto si celebra si fonda su un fatto storico e in particolare su una persona. Non è la memoria d'un cataclisma, d'una peste, d'una guerra o qualcosa di analogo. La memoria eucaristica ha un carattere suo proprio. È legata a un evento passato che nel contempo perdura con la sua realtà e si innesta nel presente. Il momento originario ritorna e si rinnova non certo con una mera operazione mentale. Ripete la realtà e la trasferisce nel momento attuale.
La sua istituzione non si allinea con istituzioni umane che a lungo andare si sono fatte consuetudine. E Dio l'autore. Si inserisce tra gli eventi primordiali della creazione, quali il cielo, la terra, la vita, il lavoro. Per far festa è necessaria la presenza di Dio e nel contempo anche la presenza dell'uomo, che proprio nella celebrazione dell'evento sacro ricupera se stesso e arriva finalmente alla sua libertà. A contraddistinguere il giorno festivo è anche la sospensione del lavoro.
Il riposo: tempo di contemplazione
Associato inscindibilmente alla domenica è il riposo. Se questo è a quella costitutivo, lo è però come cornice. D'altra parte per riposare non occorre ci sia la festa. Eppure tra riposo e festa si dà una parentela. Ci si riposa per sollevare le forze del corpo e soprattutto per rigenerare lo spirito creando la condizione più adeguata alla contemplazione, l'esperienza più elevata cui è chiamato l'uomo. Anche il lavoro è subordinato ad essa. Non si lavora per lavorare, ma per arrivare a una fruizione del tempo libero. Guai a chi evita il peso delle fatiche quotidiane scaricandolo sugli altri, ma guai anche a chi non ha imparato a riposare, sa far tutto ma non è capace di non far niente (Péguy).
L'intera cultura occidentale da Aristotele a Tommaso fino a Heidegger esaltano come ideale supremo la contemplazione. L'uomo arriva alla pienezza del suo essere e alla propria identità una volta che impara a contemplare. Il significato etimologico di contemplazione si è logorato con l'uso, facendone dimenticare la radice etimologica: il tempio. Si è rimandati ancora al sacro. Il tempio è il luogo riservato alla divinità. Chi contempla si mette in rapporto con Dio. Non si affatica a tradurlo in concetti, facendo di esso una dottrina o una realtà anemica e astratta. Questo atteggiamento è un attacco alla sovranità di Dio. Si fa di lui un prodotto della propria ragione, un altro pezzo di mondo che si aggiunge a quello già presente (Bonhoeffer). Dio non lo si può conoscere, lo si può tuttavia contemplare e adorare in umiltà e stupore. È l'intera persona a essere coinvolta con la sua mente e con le sue emozioni più nobili: gioia, speranza, serenità, umiltà, fiducia. Si è come sollevati al di sopra di sé, si entra in comunicazione con l'essere supremo. L'ingresso nel tempio è un'emancipazione dalla realtà piatta e banale. In se stesso il riposo non è celebrazione sacra, eppure potrebbe essere considerato come un anticipo del riposo eterno.
Prima però di dirigere l'attenzione all' al di là, è bene rendersi conto della trasformazione che la sosta contemplativa porta nella stessa vita quotidiana. Non avvengono dei cambiamenti vistosi. Il mondo circostante e le cose restano sempre le stesse, cambia però il modo di vederle. Ci si stacca da sé. Si guardano come sono in se stesse, non in quanto giovano e si prestano a degli utili. La contemplazione purifica l'occhio. Il vedere è solo un esempio, cui si può aggiungere il leggere, il sentire, il valutare, il parlare. Tutte le operazioni dell'anima si fanno acute. Quando ci si trova in armonia con gli esseri, si sente la gioia della loro presenza, si ripete l'esclamazione del creatore: è bene che tutti gli esseri esistano. Si ha allora la chiara percezione di essere accolti e protetti. È in questo contesto sereno che l'anima si distende e riposa.
Per rimanere nell'esempio della vista, è facile costatare come si disimpari a vedere. Tante cose passano sotto gli occhi, ma solo poche vengono notate. La vista è sottoposta a un sovraccarico di stimoli. Si vede eppure è come se si fosse ciechi. Si può non vedere per difetto, quando viene meno la vista e tutto il mondo è avvolto nel buio, ma si può non vedere anche per eccesso, quando l'esibizione delle immagini è inflazionata e aggressiva. Infinita la serie dei volti, degli oggetti e degli eventi offerti alla vista. Si parla d'uno scempio ecologico. Si lamenta il frastuono assordante che ottunde l'udito. Ma c'è anche un rumore visivo, un'eclissi della vista. Con il continuo assedio di immagini si disimpara a vedere. Una ricetta benefica per sanare i sensi è il riposo. Esso ristabilisce l'ordine violato e il creato ritorna sano come lo era in radice.
Se poi passiamo dal riposo effimero a quello eterno si ripresenta ancora la vista, l'organo che fa da protagonista. L'Apocalisse ha come autore il veggente. I quadri descritti esordiscono ripetendo di continuo: vidi, vidi! e ancora: vidi ... Il riposo riempie l'anima, diventa un modo di vedere, che è incanto, stupore, rapimento estatico, adorazione, pieno compimento della contemplazione. L'invito del maestro: venite in disparte e riposatevi un po', arriva al suo punto culminante. Si esce dal mondo della dissipazione e il riposo non è solo d'un breve lasso di tempo, diventa perenne.
Il passo dal riposo alla festa è qualitativo come un salto, riesce è però meno difficile, quando si è maturata la disposizione più congeniale al suo godimento. La disponibilità all' ascolto rende possibile la parola. Ristabilito l'ordine interiore, l'anima è pronta alle grandi esperienze del vedere, ascoltare, ammirare, adorare. Davanti a Dio non c'è gesto più adeguato quanto quello dell' adorazione. Se non si è capaci, è necessario imparare, trattandosi d'un gesto supremo, l'unico gesto adatto a stabilire il giusto rapporto con Dio.
Il tempo conviviale
La festa non si limita allo spazio del tempio e all'azione della preghiera orale. Si estende anche ai momenti dell'intera giornata. Si fa festa anche in casa quando si è raccolti a mensa. Da quella eucaristica si passa a quella della famiglia. Si dice che anche l'uomo mangia. L'affermazione non è corretta. Si dovrebbe dire che solo l'uomo mangia. Sì, perché l'animale divora, sbrana. Il mangiare è un atto umano e lo è per molteplici ragioni. Anzitutto ad esso è inerente la socialità. Il vero mangiare, come è gestito in circostanze ufficiali, si compie sempre in compagnia. Dovesse questa mancare, si avrebbe la perdita d'una componente essenziale. Allora il mangiare scadrebbe di rango.
Il mangiare è condivisione. Il Signore ci insegna a rivolgerci a Dio chiamandolo Padre nostro. Segue poi il richiamo al pane, cui è annessa la connotazione di essere nostro. Il pane cristiano non è mai mio, diventa appunto cristiano quando da mio diventa nostro, è condiviso. La mensa alla quale ci si asside prevede la presenza del gruppo, con il quale si vive in un rapporto affettivo. C'è l'unione della famiglia, c'è l'affiatamento degli amici e l'accoglienza degli invitati. Il tema è fatto oggetto di riflessioni da parte di molti pensatori. La convivialità è una di quelle esperienze elementari che non si prestano facilmente ad essere tradotte in linguaggio verbale. Qui si vive e vivere è sempre più di pensare. Platone ha scritto il Convivio, uno dei documenti più elevati dell'intera cultura occidentale. Ma il vertice è l'ultima cena del Signore. Il momento è solenne. Unisce cielo e terra, l'uomo e Dio. Il pane che è offerto tocca il sublime (sub-limen), la linea di confine dell'umano.
Il cibo che si consuma, lo si consuma in modo pienamente umano se si è insieme, formando comunità come Cristo con gli apostoli. È perciò un annuncio di fratellanza. Il cristiano non può non richiamare la figura del Salvatore che assiso alla mensa benedice il pane e lo spezza come poi ha ripetuto con i discepoli di Emmaus.
Il tempo della notte
C'è un altro appuntamento della giornata carico di senso: la notte. Di solito quando si pensa al tempo, viene in mente il giorno con le sue ore di luce e con il fervore delle sue opere. Si lascia cadere in secondo ordine la notte, nonostante sia un tempo tanto importante quanto il giorno. Il calare della notte è il momento del resoconto. Si ripassa la giornata trascorsa e il più delle volte si prova rammarico per quello che non è andato bene, per le scelte sbagliate e le omissioni.
Altre volte, più raramente, si chiude il giorno contenti per eventi fortuiti a noi favorevoli. Sono capitati senza essere previsti. Si è stati semplicemente sorpresi. Bisogna riconoscere che nella vita il gratuito gioca un ruolo determinante. Non solo quando siamo lieti perché tutto è andato per il giusto verso. Ci sono stati incontri fortunati, esperienze esaltanti, progetti riusciti, ma anche quando qualcosa non ha funzionato a dovere e se ne prova delusione e scontentezza. Se al rincrescimento è unito anche un senso di colpa, è segno che si è persa un' occasione buona, si è sciupato del tempo e non si è colto il momento propizio. La riflessione della sera fa capire come è la vita, come essa corra sulle trame del gratuito. Si ripresenta nella sera quello che si è sperimentato alla comparsa della luce mattutina. Il gratuito è un grembo entro il quale siamo nascosti e protetti.
Ad esso si risponde con il sentimento della riconoscenza. La preghiera cristiana, in particolare il breviario insegna a dire grazie. Si sa poi che grazie non lo si dice a una legge o a un processo di natura, non avrebbe senso. Lo si può dire solo a una persona. La preghiera la ricorda, chiamandola per nome: Dio.
Anche la notte, come ogni istante dell'esistenza è dono. Non è un evento neutro e impersonale, è opera di una mano provvida, alla quale ci si affida nel sonno. Entrando nel sonno è come se smontassimo di guardia per cederla a un custode. È Dio che veglia, come suggerisce la compieta e ancora una volta ci troviamo nel gratuito.
Molti poeti hanno inneggiato alla notte, da Dante a Foscolo, da Novalis e Péguy. In particolare quest'ultimo vi riconosce una seconda creazione. Attraverso di essa si rigenera il mondo. La notte è la creatura della più grande carità, dal momento che culla gli esseri in un sonno riparatore, cura le ferite e porta consiglio. Agostino la rievoca nell'inno dell'Exultet, uno dei canti più commoventi della liturgia. Si coglie uno sfogo di stupore e un'esplosione incontenibile di gioia.
Tutti gli eventi centrali della Bibbia hanno come loro cornice la notte: la liberazione dall'Egitto, la nascita di Cristo, perfino la sua morte, avvenuta in un buio che ha coperto la terra e da ultimo la risurrezione.
Nella notte ci si dispone al sonno. C'è chi l'ha interpretato come una rapina perpetrata ai danni della vita. Un chiaro fraintendimento. Il sonno non ruba, anzi consente il disbrigo degli impegni quotidiani. Peggio sarebbe pensare che il sonno spegnendo la coscienza ci renda simile agli animali. Si dimentica che lo stesso proverbio popolare parla del sonno del giusto. Assume perciò una qualifica morale. Il breviario a sua volta cita il sentimento della fiducia in Dio, nelle cui mani ci si rimette. Invita alla distensione. Si ricorda il passato e nel contempo i volti delle persone sulle quali è scesa per sempre la sera. La fine della giornata e il sopraggiungere del sonno suggeriscono la fine ultima. È un'immagine della vita che volge al termine. Un richiamo velato di malinconia. Ogni congedo è sempre una ferita, è il momento dell'Amen su quello che è stato e su quello che verrà. La fine della giornata è un anticipo o preludio della fine del tempo dell' esistenza.
Dire amen
Si dice: il tempo corre e passa. È davanti e dietro di noi. Quello rimasto alle spalle è contrassegnato da una storia di compiti assolti e di altri rimasti inadempiuti, di piccoli obiettivi raggiunti e altri falliti, di gioie e delusioni, di sorprese liete e sciagure amare. Tutto è passato e resta il rammarico per quanto di sbagliato o trascurato è rimasto dietro di sé. Come sarebbe bello se molte cose non fossero capitate. Si vorrebbe vedere un panorama pulito, senza segni di degrado e macchie. Sarebbe così bello se tutto avesse funzionato con ordine, ogni gesto, ogni parola, ogni iniziativa e ogni desiderio. Ma non saremmo allora al di fuori della storia? Non ci si fermerebbe nel mondo del sogno e della fantasia, in un mondo irreale? Camminare nei sentieri del mondo comporta accettare l'imperfetto. È il momento di dire: amen! Quello che è stato poteva essere diverso, ma è inutile esasperarsi per quanto non può essere cambiato, eppure se ne può trarre una lezione di saggezza, quella più importante, perché insegna ad accettarsi come esseri limitati. Dire amen al passato con le sue carenze è un atto di umiltà.
Forse bruciano le ferite di un dolore non ancora digerito. Si è bloccati dalla domanda: perché? Non è facile evitarla. È carica di risentimento. Davanti a una sciagura è istintiva la ribellione. Non è questa però la risposta più pertinente. Si pretendono delle giustificazioni impossibili. Chi ce le può dare? Ammesso poi il caso che ci fossero date, sarebbero capite e accettate? Si chiede "perché?" là dove non si ama a sufficienza. Non è il "perché?" la giusta reazione alle contrarietà, ma l'amen. Chi sa dire amen alle prove più dure è arrivato alla risposta più elevata.
Il tempo è anche quello che ci sta davanti. Non si sa quale destino ci aspetta. Davanti al futuro si vive di trepidazione. Si è sospesi nell'incertezza. Ripugna dover brancolare in un contesto che non è rassicurante di fronte ai possibili rischi. Al cristiano è chiesto fiducia e di questa è testimone se ancora una volta arriva al punto di dire amen.
Un malato stretto da dolori atroci, dopo aver esposto in termini chiari la sua situazione, ha concluso: sono nelle mani di Dio. Ha detto il suo amen, quello più difficile. Non si è domandato: perché? Non c'era più tempo da perdere con interrogativi. Nel momento supremo ha trovato la forza di dire amen, parola più giusta e più appropriata del credente. Mai il tempo è vissuto in maniera più intensa come quando si pronuncia rivolgendosi a Dio il proprio amen. E difficile da proferire sul passato e lo è anche sul futuro. Insegna a non essere importanti, a sentirsi precari, bisognosi di salvezza. L'amen diventa allora la preghiera del supplice, ci mette al giusto posto, stabilisce il corretto rapporto della creatura nei confronti del creatore. È il sì della creazione dalla quale parte il corso del tempo ed è il sì della meta finale verso cui il tempo è diretto, il sì che Cristo pronuncia al Padre (Ap 3,15 e 2Cor 1,19).
(da Testimoni, n. 21, 2010)