Mistica indiana
I. Con il termine mistica, tipico della tradizione greco-occidentale, noi traduciamo, in riferimento alle religioni indiane, una complessità di esperienze diverse, a partire dalla «dottrina segreta» delle Upanishad fino allo yoga con le sue varie ramificazioni nelle diverse scuole filosofiche, o nei vari sistemi (darsana). Il termine mistica può, comunque, essere inteso come suprema realizzazione spirituale, senza con ciò livellare le diverse esperienze supponendole identiche per intensità e qualità.
II. Classificazioni e tipologie. La stessa tradizione indiana propone diverse tipologie per classificare la propria mistica. Lo storico della filosofia indiana S. N. Dasgupta proponeva una suddivisione in misticismo sacrificale (o vedico), mistica delle Upanishad, mistica dello yoga, mistica devozionale (bhakti) e misticismo devozionale popolare. Tale classifica si riferisce, evidentemente, ai mezzi per raggiungere la realizzazione suprema dello spirito.
Un'altra classificazione, che si riferisce all'oggetto di esperienza mistica è quella, ormai classica di mistica del Sé (Atman), mistica dell'Assoluto e mistica dell'amore di Dio. Tali ripartizioni si riferiscono all’auto-percezione dello spirito (Atman o Purusha) o alla presenza di Dio in noi, sia egli concepito in modo personale o impersonale.
Si possono, inoltre, proporre anche tipologie che tengano conto dei punti di partenza del cammino spirituale che può passare attraverso i segni, ossia attraverso una sacramentalità cosmica o liturgica, e, per mezzo di essa, giungere ad una intensità di unione con Dio (qualunque sia il nome con cui Egli venga designato) tale da ottenere l'immediatezza dell'esperienza suprema. Diversa invece è la via speculativa che parte da una ricerca intellettuale, anche razionale, filosofica, e perviene poi ad una esperienza mistica (anubha) che supera la stessa discorsività del pensiero. Chiameremo più specificamente apofatica quella mistica, o meglio, quella via che, inizialmente e programmaticamente, prescinde dalla considerazione di contenuti metafisici e, superando la logica, si affida esclusivamente alla meditazione, come è il caso di alcune scuole dello Yoga, sia esso buddhista, indù, jainista, oppure tantrico, anche se il Tantrismo ha un carattere ritualistico ed esoterico tale da non poter essere facilmente ricondotto a tipologie generalizzabili.
E’ lecito, inoltre, parlare di una mistica « spontanea », ossia non preceduta né da una iniziazione (tramite un maestro o una scuola religiosa) nè tramite un metodo specifico di meditazione o l'apprendimento di una dottrina determinata. E’ una mistica che si può realizzare anche per «folgorazione» o per una sorta di «elezione». Basti pensare a ciò che si legge in un celebre passo upanishadico che dice: «L'Atman non può essere raggiunto né dallo studio del Veda, né dall'intelletto, né dal molto apprendere; ma è raggiunto da colui che egli stesso sceglie: a costui l'Atman rivela la propria natura» (Katha-upanishad I, 2,23. Cf Mundaka-upanishad II, 2,3.1). In queste parole è stato ravvisato l'intervento di una grazia divina, grazia che non è sconosciuta anche ad altre correnti della religiosità indiana, da quelle devozionali a quelle di tipo tantrico (in queste ultime, tuttavia, la grazia divina «discende» in particolari circostanze di tipo rituale).
III. Manifestazioni straordinarie. La mancanza di un magistero unitario e di una dottrina omogenea dell'Induismo (ma lo stesso si può dire del Buddismo o di altre dottrine eterodosse dell'India) ha reso difficile fissare criteri oggettivi per stabilire ciò che è autentico e ciò che non lo è. Va comunque detto, anzitutto, che le manifestazioni straordinarie che possono avvenire in uno yogin, ad esempio, che abbia conseguito certi poteri (siddha) non sono criterio sufficiente per stabilire il grado di realizzazione spirituale del medesimo. Anche la trasmissione dell'insegnamento religioso da maestro a discepolo avviene direttamente, all'interno di ciascuna scuola, o anche ai di fuori delle scuole tradizionali, senza appello ad alcuna autorità superiore. Non è facile, dunque, distinguere il buono dal cattivo maestro, o il santo dal mistificatore. Il vero maestro lo si conosce anzitutto dal suo comportamento, vale a dire dal suo distacco, dal suo autodominio, dalla sua umiltà, ovvero dalla sua assenza di ostentazione, dalla sua pace, dalla sua ascesi.
La qualità delle dottrine professate non può essere criterio universale per distinguere, sul piano spirituale, ciò che è autentico da ciò che non lo è. La validità di una dottrina religiosa è stabilita in base alla efficacia e ai frutti che essa dà. Così ogni maestro è conosciuto, come l'albero buono, dai suoi frutti. Ovunque siano pace, non violenza, amore, compassione, gioia, ivi si riconosce la presenza dello spirito, o la presenza di Dio, o la luce di una illuminazione. Vi sono tratti comuni, sul piano etico, tali da poter giudicare ciò che è buono e ciò che è cattivo. All'interno di ogni scuola è tradizione, poi, attenersi anche alla ortodossia delle formulazioni dottrinali che caratterizzano la scuola medesima.
L'odierna prassi indiana conferisce a ciascuna religione e a ciascuna scuola di spiritualità un valore relativo, anche se tutte poi convergono verso un'unica meta suprema.
La Bhagavad-gîtā, che è uno dei più noti testi dell'Induismo, propone le tre classiche vie di realizzazione spirituale: karma-yoga, jňāna-yoga e bhakti-yoga, a seconda che si privilegi l'azione, la conoscenza o la devozione. Alcuni dei grandi rappresentanti dei suddetti tre tipi di mistica nel nostro tempo sono, rispettivamente, il Mahãtma Gandhi, che amava definirsi un karmayogin, Ramana Maharshi e Sri Aurobindo (morti entrambi nel 1950) che possono essere classificati come jňāna -yogin e Ananda-mayi Ma, mistica bengalese (morta nel 1982) grande maestra della bhakti intesa come amore fervente a Dio, realizzato in completa dedizione e nello spirito di preghiera espressa anche in canti (bhajana) e manifestazioni corali di gioia.
IV. Il linguaggio. È importante, inoltre, cercare una valutazione del linguaggio dei mistici indiani. Alcuni di loro se ne stanno silenziosi e vivono o come eremiti o come monaci itineranti senza perciò essere maestri spirituali e senza manifestare - se non con la loro irradiante presenza, a chi ha occasione di incontrarli - la loro esperienza mistica. Altri, invece, hanno discepoli che li sollecitano a parlare. E se alcuni di essi hanno un pensiero e un linguaggio abbastanza chiari per farsi comprendere, a volte può accadere il contrario, per carenza di categorie espressive, e vi può essere allora un discepolo, più colto del maestro, a farsi interprete della sua esperienza, magari alterandola, anche se in tutta buona fede. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma basti pensare ad un Vivekananda nei confronti del mistico bengalese del secolo scorso: Ramakrishna.
V. Comparazione mistica indiana e cristiana. I tentativi occidentali per confrontare la mistica indiana con quella cristiana, introducendo, ad esempio, i criteri di mistica naturale e mistica soprannaturale si sono rivelati inidonei e insufficienti giacché non è difficile intuire che, se di vera mistica si tratta, non si può parlare di sola natura o di tecniche puramente umane. Il confine tra l'umano e il divino non può essere stabilito né da osservazione esterna, né in base ad analisi del linguaggio dei mistici e della loro rispondenza a determinate dottrine stabilite come ortodosse. Analogamente è impossibile stabilire se vi sia un tipo di mistica superiore ad un'altra, come ha fatto H. Bergson a favore della mistica «dinamica» considerata più completa, tipica del cristianesimo. In realtà, troviamo anche in India esempi di mistica dinamica, se si pensa non solo al Mahatma Gandhi, ma anche ai suoi prosecutori, come Vinoba Bhave (morto nel 1983) ed altri ancora, esempi di pura dedizione a Dio e al prossimo.
In riferimento al mondo indiano non si possono usare criteri di valutazione tratti dalla sfera dogmatica di altre religioni. Né si devono contrapporre religioni monoteistiche e non monoteistiche, anzitutto perché l'Induismo, nel suo auto-comprendersi odierno si considera religione monoteistica, pur accettando, in spirito di tolleranza anche il valore mistico di altre religioni nate in India e non teistiche quali il Buddismo e il Jainismo.
Il discorso relativo a ciò che metafisicamente si può classificare come monismo, panteismo, teismo, et similia non concerne la mistica qua talis, cioè in quanto realizzazione suprema. I reiterati tentativi occidentali di sottovalutare o ridurre la mistica indiana confrontandola con quella cristiana, ebraica od anche musulmana tradiscono pregiudizi e inadeguata conoscenza del vasto e ricco mondo dell'Induismo nella sua storia plurimillenaria.
Va ricordato, inoltre, che ogni tipo di mistica suppone sempre un'etica e un certo tipo di ascesi, anche se certe norme possono variare da una scuola all'altra. Nell'India odierna si riscontra, comunque, una convergenza di valori. E in ciò si può constatare la tendenza a condannare eventuali abusi, a smascherare i «falsi profeti» e a denunciare i pericoli là dove si riscontra che certe tecniche o certi riti (specie quelli tantrici) possono costituire un danno per l'individuo e per la società.
Le vie regie per la realizzazione suprema restano sempre quelle del compimento del proprio dovere, la preghiera, la meditazione, l'amore del prossimo, il rispetto della vita, il distacco dal proprio egoismo, la tolleranza e la non violenza: insegnamenti che valgono per tutti e aprono anche la via al dialogo interreligioso del nostro tempo.