Il Sacerdozio dell’Alleanza Rinnovata
Relazione
di Don Gianfranco Bottoni *
(…) La prospettiva è (…) quella di un rinnovamento dell’alleanza perché essa sia vissuta più fedelmente ed efficacemente. In Dio non ‘è il proposito di vanificarla e cambiarla con un’altra E la predicazione di Gesù conferma che egli non è venuto ad abolirla, ma a darle pienezza, ovvero a conferirle la forza dello Spirito di Dio e, pertanto, ad estenderne la fecondità.
L’unità dei due testamenti, che sono tra loro in rapporto di continuità e non di contrapposizione, è un punto fermo della dottrina cristiana.
Purtroppo invece, per quanto formalmente condannata, l’eresia marcionita, che negava l’unità dei due testamenti, non è stata del tutto estirpata dalla mentalità cristiana e continua a serpeggiare in modo surrettizio in alcune espressioni della prassi ecclesiale e persino della riflessione teologica.
Oggi è per noi di decisiva importanza cogliere, nell’ottica della continuità tra primo e nuovo testamento ovvero nella prospettiva dell’alleanza mai revocata bensì rinnovata, la relazione di Dio, nel suo disegno salvifico, pone in essere tra Israele e le genti. Israele vive l’alleanza mosaica come popolo sacerdotale in funzione delle genti, con le quali, secondo la tradizione biblica, Dio ha stabilito l’alleanza noachica. Il rinnovamento dell’alleanza non è priva di conseguenze per le genti.
In Gesù Cristo il rinnovamento tocca, secondo la promessa profetica, il cuore dell’uomo. Egli è l’uomo novo, il nuovo adam. E in lui la novità è lo Spirito Santo. Una novità per Israele e per le genti, perché novità per l’uomo in quanto tale, per ogni creatura umana.
Gesù non è venuto a fondare una nuova religione, a cambiare la Torà: lo afferma esplicitamente di se stesso. Egli viene a vivere il percorso religioso del suo popolo, ma con questa radicale novità: lo vive non come il primo Adam, ma come il nuovo Adam. Non l’homo religiosus lascia agire lo Spirito.
Ecco la novità: non più una vita religiosa vissuta nel protagonismo del proprio “io” per conquistare la propria giustizia davanti a Dio e meritare un posto in cielo, ma una vita di fede che accoglie il dono dall’alto e vi si abbandona nell’obbedienza dell’amore che si lascia condurre in spe dalla potenza dello Spirito. Così vive Gesù.
E’ lo Spirito il protagonista della vita del Figlio che si lascia generare dal Padre. E’ la vita di Gesù è totale trasparenza alla carità di Dio per l’umanità peccatrice: una carità che si manifesta usque ad mortem, mortem autem crucis.
E’ dunque in Cristo che prima di tutti e con singolare pienezza si attua la promessa di Dio: “vi darò un cuore nuovo … Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti …” (Ez 36,26-27). Il cuore nuovo è quello abitato dallo Spirito divino che fa vivere con la fedeltà stessa di Dio il percorso della Torà adempiendola e trasfigurandola nella sua pienezza di senso.
Le comunità ecclesiali dei credenti nell’annuncio pasquale professano Signore e Cristo quel Gesù “nato da donna, nato sotto la legge” (Gal 4,4), figlio di madre ebrea e circonciso, che “è ebreo e lo è per sempre”, come ricorda Sussidi …, il documento Vaticano del 1985 per una corretta presentazione di ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Grazie a questa fede pasquale i gentili battezzati nella morte e resurrezione dell’ebreo Gesù, Figlio di Dio nella potenza dello Spirito, entrano nell’alleanza che Dio in Cristo ha rinnovato con Israele e così partecipano alle prerogative dell’unico popolo di Dio il popolo dell’alleanza mai revocata che allarga tra le genti i suoi confini spirituali.
Questa è la novità in Cristo e da questa, per partecipazione, deriva a noi ogni novità spirituale.
Alla realtà nuova e viva dello Spirito santo, troppo spesso ignorata in occidente ci richiama sempre con forza il carisma spirituale dei cristiani d’oriente (…).
Nella tradizione orientale si è conservata la celebrazione unitaria dell’iniziazione cristiana, comune ai cristiani dei primi secoli in occidente come in oriente.
Celebrare insieme il Battesimo, Cresima ed Eucaristia permette di meglio comprendere il ruolo determinante dello Spirito Santo con protagonista della vita cristiana fin dal suo inizio, sia nel caso dell’iniziazione dell’infante, sia in quello del catecumeno adulto.
Non si può escludere “a priori” che anche noi latini avremmo vantaggi spirituali e pastorali a non separare i gesti sacramentali della iniziazione cristiana. E forse ne potrebbe derivare una migliore intelligenza del sacerdozio battesimale dei fedeli come frutto dell’unzione dello Spirito.
Alla luce dell’unico sacerdozio di Cristo si può affermare che la vita dei cristiani ha una dimensione sacerdotale proprio in quanto culto spirituale ovvero offerta dei propri “corpi” come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio (cf Rm 12,1). E l’offerta dei propri corpi è l’offerta di se stessi, di tutto il proprio essere e della propria vita di relazione, come singole persone e come comunità ecclesiale.
La novità dello Spirito, che prima abbiamo sottolineato a proposito di Gesù il Cristo, viene dunque partecipata, attraverso l’unzione sacramentale ai discepoli. Anch’essi, nella sequela del loro Signore e Maestro, sono chiamati a vivere tutta la propria esistenza quotidiana sotto la guida dello Spirito. E questa vita si attua laddove smette ogni nostro protagonismo religioso. In questo dinamismo spirituale consiste la dimensione sacerdotale della propria vocazione cristiana di “unti” in Cristo.
La sensibilità protestante (…) sottolinea la laicità del sacerdozio universale dei fedeli, in dialettica contrapposizione con interpretazioni sacrali o clericali del culto che non sono mancate né mancano nella tradizione cristiana, ma che non riflettono una corretta recezione della dottrina cattolica.
Infatti come cristiani cattolici condividiamo il richiamo all’esigenza di una “declericalizzazione” della vita e del culto a partire dalla dottrina biblica sul sacerdozio comune dei fedeli. Anzi, soprattutto dopo il Vaticano II, i cattolici hanno messo molto a fuoco il senso secolare e laicale della vita cristiana. Tuttavia è innegabile che una visione clericale e superstiziosa della religione sussista ancora nelle nostre comunità. Resta dunque molto da fare per un rinnovamento spirituale e pastorale illuminato dalla parola di Dio.
Accogliere questa esigenza di coraggiosa revisione di mentalità e di prassi non significa però disconoscere il senso genuino del sacerdozio ministeriale, come ci è consegnato dalla tradizione cattolica.
Esso non è da intendere come un altro sacerdozio, in aggiunta e quasi contrapposto a quello comune. All’interno dell’unico sacerdozio, che è quello di Cristo e che a noi è partecipato attraverso i segni sacramentali, si caratterizza in modo specifico ed essenziale il ministero ordinato. Esso è segno vivente del fatto che nella vita dello Spirito, da parte umana, non ci si può autoprocurare nulla. Non c’è self service; non si è autosufficienti a procurarsi la riconciliazione o la partecipazione Eucaristica alla Pasqua del Signore: sono sempre e solo doni per grazia.
La comunità ecclesiale in rapporto a Dio non è autonoma né autoreferenziale ma vive la realtà della vita e della storia sotto l’unica signoria di Dio: tutto in essa rimanda all’unico Signore. Lo si può sapere per fede e ritenere intellettualmente. Tuttavia nella sua struttura antropologica l’uomo ha bisogno anche del linguaggio dei segni: è d’altronde quello usato da Dio nella sua rivelazione e nella storia della salvezza.
Il ministero ordinato è uno di questi segni. E’ il segno che ripresenta nell’oggi attraverso il linguaggio umano di gesti e parole quell’economia della grazia nella quale la rivelazione ci manifesta che tutto viene da Dio. E pertanto non da noi, ma dal “Tu” di Dio”. E questo “Tu” mi può essere “significato” non certo dal mio “io”, ma solo da un “tu” umano la cui intera esistenza è stata “ordinata” allo scopo di essere segno che rimanda all’alterità della relazione con Dio.
Questo è il senso per noi cattolici, del sacerdozio ministeriale, che, se deve essere declericarizzato, non deve essere svalutato o vanificato in ragione di una necessaria e maggiore presa di coscienza del sacerdozio battesimale di tutti i fedeli.
E’ necessario pure ribadire che non c’è una ulteriore mediazione da scorgere nel ministero: esso è solo un segno dell’unica mediazione di Gesù Cristo. Si deve pertanto essere attenti a non contraddire questa affermazione quando sul sacerdozio si colgono possibili analogie tra i due testamenti. Israele – si osserva giustamente – è popolo sacerdotale per un ministero tra le genti e, al suo interno, la tribù di Levi esercita un ministero sacerdotale a favore di tutto il popolo. Analoga – si afferma – sarebbe la situazione dopo il Nuovo Testamento.
In realtà tutti i battezzati “uniti” in Cristo partecipano, nella prospettiva nuova e spirituale dell’Alleanza rinnovata, allo stesso ministero del popolo ebraico chiamato a testimoniare la santità del Nome di Dio in mezzo alle genti: tuttavia, all’interno della comunità ecclesiale, i ministri ordinati sono chiamati non ad esercitare un sacerdozio corrispondente a quello levitico, ma ad offrire i propri “corpi” perché – nell’esercizio dei ministeri della parola, della liturgia e della carità – siano segno che rimanda non all’iniziativa umana ma a quella divina.
Queste note introduttive, certamente incomplete intendevano offrire solo parziali sottolineature in funzione di quanto è in esame in questa tavola rotonda. Confido che, quando l’ottica cattolica viene compresa e non equivocata, il confronto con ottiche differenti possa essere sereno e utile. (...)
* Delegato arcivescovile e responsabile diocesano per l’ecumenismo e il dialogo a Milano.