di Francisco Josè Luis
La tradizione sikh racconta che al momento della nascita del suo fondatore, Guru Nanak, a Talwandi, nel 1469, la casa familiare fu inondata da una luce divina e il bambino rideva allegramente invece di piangere… Il villaggio si situa nel cuore del Pandjab, nel nord-ovest del sottocontinente indiano, dove si incontrano i due oceani dell'islam e delle tradizioni religiose indiane.
Il padre di Nanak, un contabile hindù nato da una casta di mercanti, destina il figlio alla stessa carriera e gli offre una ottima educazione in sanscrito, persiano e arabo. Ma il bambino riesce a esasperare il padre e i maestri: appassionato di scienze religiose, fa lui la lezione a loro. I suoi amici d'infanzia diventano i suoi primi discepoli. Passa il tempo a meditare o a cantare inni in loro compagnia. Il suo miglior amico è allora Mardana, un musulmano, che lo accompagna con il rabab (liuto). Il capo del villaggio, anche lui musulmano, riconosce ben presto in Nanak un bambino votato a un destino eccezionale e decide di proteggerlo.
Rispetto e humor
Quando arriva all'età di ricevere il cordone iniziatico dei dvijai, Nanak rifiuta di portarlo, con grande costernazione dei suoi parenti: gli preferisce il cordone interiore delle virtù mistiche. A 12 anni si sposa con la giovane Sulakhni che gli dà due figli. Grazie al suocero ottiene un posto di contabile presso il nawab di Sultanpur Lodi, ma passa il suo tempo a cantare inni in compagnia di Mardana. Secondo la tradizione sikh, quando faceva i conti, si fermava al numero tredici che, nella sua lingua si dice teran, omonimo di tera (il tuo). Entrava allora in una estasi profonda e dalle sua labbra non uscivano più che le parole “tera, tera, tera” (Sono Tuo, Tuo, Tuo).
Intorno alla trentina, in occasione del suo bagno nel fiume Vein, che scorre vicino a Sultanpur Lodi, una profonda esperienza mistica lo fa scomparire per tre giorni. Ritorna dicendo “na hindu na mussalman” (né hindù, né musulmano). Guru Nanak ricorda così ai suoi contemporanei che debbono guardare al di là delle apparenze, dell'esoterico, e riconoscere che non siamo che anime che cercano di unirsi al Divino. Guru Nanak mette sempre l'accento su una religiosità più interiore: l'esoterismo delle grandi religioni ha valore soltanto se è animato dalla sete sincera del Divino.
Accompagnato dal fedele Mardana, effettua quattro lunghi viaggi: verso l'est dell'India, nell'Assam e il Bengala; al sud fino allo Sri Lanka; al nord nell'Himalaya. Là va a incontrare altre religioni, discute, insegna, condanna se occorre e corregge. Sempre con rispetto e humor! Nel suo poema Sidh Ghost, discute con gli yogin Gorakhpanthis. Ma il suo viaggio più famoso rimane il quarto, che lo porta verso l'ovest, il Medio Oriente. A Bagdad intona l'invito alla preghiera e, davanti a una assemblea stupefatta, canta in persiano i grandi temi dei mistici sciiti e sufi, sempre accompagnato dal rabab di Mardana. Alla Mecca avviene uno degli episodi più noti. Giunto nella città santa, si distende per dormire con i piedi rivolti verso la Ka'ba. Esasperato un guardiano del santuario gli ordina di voltare i piedi in un'altra direzione. Nanak gli ritorce: “Allora volgili là dove Dio non si trova!”. Il guardiano afferra i suoi piedi e li volta in altre direzioni. Ma ogni volta la Ka'ba si trova di fronte ai suoi piedi…
Di ritorno in India, Nanak fonda, con i suoi discepoli, il villaggio di Kartarpur. Le giornate sono consacrate alla meditazione, alla recitazione musicale degli inni di Nanak e al lavoro. Il villaggio riunisce musulmani e hindù, i primi sikh (discepoli) del guru che si alzano prima dell'alba per recitare il Japuji, poema di Nanak in trentotto parti. All'inizio del Japuji, il mulmantar che è l'essenza della tradizione sikh comincia con ik-omkar, termine composto da ik (uno) e l'om della tradizione indiana. Ik-omkar designa insieme l'unicità del Divino, la sua essenza segreta, il suo aspetto non manifestato e la molteplicità della sua manifestazione, la sua esistenza rivelata, il suo aspetto manifesto. Il mulmantar si può così tradurre: “Ik-omkar, il vero nome, l’essere creatore, senza paura, la cui immagine è atemporale, non nato, esiste per sé, manifestato nella grazia Guru. Racconto. Questo fu vero all’origine, fu vero all’inizio delle ere, questo è vero ora, O Nanak sarà ugualmente vero nel futuro”.
Posto d’onore per le donne
Tra i sikh il guru non è un semplice maestro spirituale, ma è l’aspetto manifesto di Dio, il Volto di Dio. Un Dio davanti al quale la creazione intera è in stato di adorazione amorosa. Un inno della liturgia quotidiana, l’Arti (in riferimento al rituale hindù che consiste nell’onorare gli dei, i re e i santi , nei templi, facendo oscillare delle lampade e l’incenso su un vassoio in movimento circolare) esprime questa adorazione “Il firmamento è il vassoio. Il Sole e la Luna ne sono le lampade. Le costellazioni di stelle sono perle sparse. I boschetti di sandalo sono l’incenso. La brezza è il tuo ventaglio. E tutte le foreste sono i fiori. Quale arti è questa! O Distruttore di ogni paura! I suoni mistici risuonano quali timbali!”.
Guru Nanak mette anche l’accento sull’uguaglianza di tutti davanti al Divino, uomini e donne a cui riserva un posto d’onore. Il pasto consumato insieme nel langar, una sorta di cucina della comunità, è un modo di promuovere la fraternità umana in un paese dover le caste separano. Il langar è aperto a tutti, sikh e non sikh, uomini e donne. L’importante per Nanak è il ricordo costante di Dio attraverso i suoi vari nomi: Allah, Khuda, Ram, Govind, Vahiguru.
Guru Nanak muore nel 1539 e non si sa troppo se fa interrare il suo corpo come fanno i musulmani o praticare il rito hindù della cremazione. Quando i discepoli vanno a cercare il corpo trovano soltanto delle rose: la guida divina non muore mai…
Nove guru gli succedono a capo della comunità, considerati tutti come manifestazione della stessa luce divina. Oggi è il libro sacro, il Guru Granth Sahib che svolge il compito di illuminatore…
(da Le monde des religions, 16, pp. 44-45)