Vita nello Spirito

Giovedì, 30 Agosto 2007 00:31

Linguaggio del corpo, splendore e senso (Marcello Neri)

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Riflessioni sul corpo in un libro di Mario Antonelli

di Marcello Neri


La pastorale ha sempre avuto un certo “pudore” quando trattava il tema della corporeità. Il testo intende ridare ad essa il giusto posto nel contesto dell’annuncio cristiano.

«Tuttavia ciò che al corpo accade o viene rifiutato, accade o viene rifiutato all'uomo nella sua totalità. L'intelligibilità della dignità umana inizia con il suo corpo, inizia con il pane quotidiano». Il corpo, questo luogo luminoso e ambiguo, in cui si gioca l'intero destino dell'uomo e della donna (quello della relazione interpersonale, certo, ma anche quello del rapporto con Dio); il corpo, questo principio insuperabile della dignità dell'umano, onorato da Dio e dalla sua cura nella carne del Figlio offerta e donata perché ogni carne possa trovare il suo lieto compimento...

Già, il corpo; ma che cosa ne abbiamo fatto del corpo noi - cristiani - che del suo splendore e della sua promessa dovremmo essere i più accaniti difensori? E, se anche la grazia non è se non nella sua «corporeità» (K. Rahner), allora alla fede cristiana non rimane scampo: il corpo non può essere ridotto all'oggetto di un sapere (per quanto alto e mirabile ), il corpo è già da sempre il soggetto stesso di una fede che osa l'inaudito, che osa affermare con il suo tessuto esile ed esaltante l'indissolubile comunione della carne con Dio.

Una pastorale senza "corpo"?

Di questa lieta notizia sembra essersi oggi smarrita la traccia nella pastorale delle nostre comunità. All'abuso dell'immagine del corpo che caratterizza la nostra società sembra corrispondere l'estinzione dello spessore del corpo nel cuore dell'annuncio cristiano: «Forse ci accontenteremo di procedere nella fatica dell’esistere e nella gioia tribolata dell'esistere cristiano facendo finta di poter fare a meno del corpo? (...) Talvolta ti graffia il sospetto che a sottrartelo siano stati proprio quelli che ti hanno insegnato a credere che i corpi risorgeranno». Questa è la domanda che si pone il teologo M. Antonelli nel suo libro dal titolo emblematico Alla ricerca del corpo perduto. Sospetto non poi così azzardato se solo si getta uno sguardo alla storia e alla pastorale: «Una delle prime grandi eresie della storia cristiana è la spiritualità gnostica ( ...per la quale) l'orizzonte degli affetti e la trama delle relazioni devono restare estranei alla vita cristiana ( ...) Questo ti viene (ancora oggi) sinuosamente suggerito: che il tuo corpo non è all'altezza della tua anima. Anzi, ti si dice che il corpo e il suo sentimento compromettono la buona riuscita dell'impresa propria dell'uomo: conoscere il mistero santo di Dio» (pp. 24.82).

E se, per un attimo, anziché censurare il corpo, censurassimo il "sospetto antico" (perfido come quello del serpente, anzi fin troppo simile a lui per non percepirne l'immediata parentela), e provassimo a fare l'esercizio di rimettere in gioco il corpo e le sue passioni nella trama un po' stentata della nostra pastorale? Che, riconosciamolo con franchezza, fa fatica ad intercettare la realtà del vissuto dei nostri giovani come quello degli adulti più sensibili che vivono, senza scinderle, appartenenza alla comunità dei credenti e appartenenza al mondo d’ogni giorno. Forse rimettere in gioco le armoniche del corporeo ridarebbe un po’ di “passione” e “carne” alla nostra pastorale.

La grammatica del corpo

Pensiamo ai giovani, alla loro maniacale cura del corpo, a un corpo divenuto quasi ossessione – ragione d'essere o di svanire di fronte agli altri -. Tutto frutto di una demoniaca ostensione mediale, oppure fatica di portare alla luce una verità che ci abita da sempre? Forse dovremmo imparare ed ascoltarli e guardarli meglio nel loro corpo a corpo con la propria carne, anziché riattestare loro ogni volta di nuovo l'eresia antica di un «corpo che è dannoso (alla buona relazione con Dio) con tutta quella sua materialità, la sua visibilità, le sue passioni, la sua "esteriorità "» (p. 16).

Dobbiamo riapprendere tutta la grammatica del corporeo per poter dire una parola, porre un gesto che sappia raggiungerli nel nucleo incandescente del loro vissuto. Forse dovremmo imparare ad ascoltare il nostro corpo, a viverne le passioni e pulsioni, ad affrontare senza timore le ambiguità che lo abitano e a gioire del piacere a cui ci dischiude. Solo così saremo all'altezza di quel gesto che i giovani sono pur beli disponibili à ricevere dalla comunità che forma il corpo dei credenti: perché sa toccare il loro corpo e la battaglia che conducono con o contro di esso; perché può sciogliere quella verità discreta che abita tenacemente i mille giochi dell'ostensione e della seduzione: è nel corpo che quella verità deve essere cercata, altrove la mancheremmo irrimediabilmente.

A meno del corpo finiremmo con l'ottundere la verità stessa del Dio di Gesù, e il corpo è un linguaggio che i nostri giovani sanno parlare e sanno ascoltare: perché è lì che combattono la battaglia tra l'essere se stessi e il ridursi a semplice "immagine" di sé. Liberati dall'ossessione del "sospetto antico" sul corpo, saremo capaci di svelare ai nostri giovani le ambiguità , e violenze che lo abitano: «"Tu sei mio"; "Ho assolutamente bisogno di te". Indubbiamente quest'inganno, che erode gli affetti più intensi, può essere anche molto resistente (perché), dietro alla finta del dono, si celano strategie di assoggettamento e all'ombra di un'onnipotenza ingombrante attende e spera la tua dipendenza e la tua venerazione servile» (p. 85).

Questa trama dell'onnipotenza e dell'assoggettamento la vediamo tutti i giorni all'opera nelle relazioni affettive e amicali dei giovani; ma a nulla serve il "sapere" se esso non si trasforma in gesto di "carne" che li introduca a riconoscere nel loro corpo il sottile gioco del dominio racchiuso anche negli slanci più appassionati dell'affetto e del legame-gesto che è "figlio" di quella "tenerezza divina" che accarezza le ferite dell'umano non per condannarlo, ma per curarlo e consegnarlo al suo splendore.

Siamo all'altezza di questo gesto? Siamo capaci di un incontro dei corpi che "comprenda" l'altro, e in questo comprenderlo lo consegni alla scoperta della verità di se e della verità tout-court che abita il suo giovane corpo? Perché questo deve essere il desiderio di ogni cura sulla fede dei giovani: rendere lieta e riuscita la loro corporeità, così che essa possa mostrare loro il segreto dell'essere la dimora della buona relazione con Dio: «Lascia che lungo la pazienza dei giorni affiori la gloria del corpo, il suo essere provvidente, il suo valore e la sua ospitalità nei confronti della tua verità e della verità di Dio (...). Desiderare ancora che la forma del corpo di Gesù diventi la forma del nostro corpo; che non ci sia contraddizione tra il confessare Gesù e la forma del nostro corpo» (pp. 17.108).

Così toccati dal gesto della cura pastorale, i giovani intuiranno da se che non «ci può essere autentico offrire il corpo all'altro che non abbia come anima, segreta o pudicamente

confessata, una qualche forma di affidamento al mistero di Dio»; e impareranno la forma di questo affidamento a partire da quella lingua del corporeo che ben conoscono, impareranno a godere della finitezza del corpo senza chièdere all'altro di essere "Dio" (pp. 84-88), perché avranno scoperto che il godere e il patire dei corpi sono più prossimi a Dio di quanto non avessero mai immaginato: «Quando, nell'impresa del dare e del ricevere, si gode e si patisce il contatto con l'altro, avviene una discreta rivelazione della finitezza tua e sua: composizione di affanni, intrecci di gioie e di desolazioni, grovigli di talenti e di miserie. Lì, come protetti dalla fedeltà, forse inconfessata, al primo comandamento, i corpi vengono apprezzati nella loro promettente finitezza, nella loro precarietà gravida di futuro» (p. 108).

La "carne" di Gesù

Si apre così un altro spazio in cui la predicazione e le forme della pastorale non sono ancora riuscite a rendere onore alla dignità del corpo: quello della relazione sessuale e del

vincolo matrimoniale degli affetti dove «nasce l'aspirazione a vincere la chiusura dei corpi, l'impenetrabilità della carne altrui. Qui il desiderio è a un tempo prova della distanza dei corpi e promessa di vincere tale distanza, di sormontare l'esteriorità varcando la frontiera della pelle, di gustare la carne dell'altro, entrare in essa, fondersi con essa, "sciogliersi dal piacere"» (p. 53).

Nell'intimità dell'alleanza dei corpi che si donano l'uno all'altro, accettando l'azzardo di una reciproca ospitalità che non elide ne le differenze ne le passioni, risplende il desiderio originario di Dio: «Il tuo approssimarti all'altro, proprio alla carne dell'altro, è invece tanto "più vero" quanto più contatta e riconosce e onora appunto l'altro nella sua finitezza: condizione elementare e dura di ogni probabile godimento nel dare il corpo e riceverlo. Fermamente e lietamente convinti che questa è la via della comunione con Dio» (p.92).

Nel piacere della carne che si abbandona al suo giusto senso si attesta il nome di Dio, il suo piacere di essere uomo come "carne" data per tutti: «"Comunione" è il nome reale di Dio, nome possibile per te se ti muovi nell'esperienza della "passività" pronunciando le parole della gratitudine e dell'invocazione ( .., ). Qui si annuncia la verità del corpo: il corpo è vero, e non mente, quando si ritrova nella forma dell'offerta» (p. 83).

Sciogliamo allora il giogo antico, riscattiamoci dal maestro del dubbio (della religione come della ragione), restituiamo al corpo la dignità di «fare la nostra buona coscienza » (pp, 30.42) e di essere ciò che Dio ha onorato in se stesso con la carne del Figlio. Allora, forse, diventeremo anche capaci di ritrovare quel linguaggio per dire all'uomo e alla donna di oggi l'inaudito cristiano del destino ultimo del corpo: «Risorgerà ogni corpo che nel suo stare al mondo avrà in qualche modo ripresentato le movenze del corpo di Gesù. Vivrà per

sempre nella gioia di Dio ogni corpo che avrà assimilato, come sostanzioso nutrimento, la forma del corpo di Gesù: il dono, la comunione» (p.116). Laddove, in .un qualche modo, un corpo danza la vita sulle note della carne del Figlio; laddove; in un qualche modo, i corpi profilano la forma del dono e ìntessono i legami della comunione, lì la pastorale è chiamata a riconoscere e annunziare il giorno bello e radioso in cui a ogni carne sarà manifesto il senso del suo godimento e della sua fatica di abitare i giorni e il corpo dell'altro.

Non si può chiudere senza una grata riconoscenza all'autore di quest'agile e affascinante riflessione: il merito di aver restituito al corpo in actu exercito tutto il suo splendore, e di averci ricordato il suo senso originariamente cristiano. La pastorale si ritrova così nelle mani il profilo di un immaginario e di una poetica cristiana del corporeo la cui elisione sarebbe, semplicemente, un atto d'omissione.

(da Settimana 11, 2005)

Letto 1803 volte Ultima modifica il Mercoledì, 12 Dicembre 2012 14:16
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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