Il segno luminoso della croce
di Filippo Di Giacomo
La religione tende sempre a mettersi al posto di Dio, a far sì che le persone cerchino Dio attraverso di essa. Per questo molti credono che Dio o lo si trova nei culti e nelle cerimonie religiose oppure non lo si trova in nessuna altra parte.
A questa concezione religiosa, lo dicono i Vangeli, Gesù si è opposto del tutto. Con la sua predicazione ha fatto molti sforzi per manifestare disistima per la classe sacerdotale e i dottori della legge. Addirittura li provocava ed essi, come ci appare dal racconto della Passione, si sentivano disprezzati da lui.
Per San Paolo è stata la religione a mandare a morte Gesù. Ed è sempre Paolo a vedere nel processo e nella morte del Figlio l’uscita del Padre dalla religione e il suo ingresso nel mondo profano degli uomini. E, insegna sempre Paolo, quest’uscita e quest’ingresso si accentueranno quando, al momento della Pentecoste, “lo Spirito si diffonde nella carne”, cioè quando si spargerà non solo sugli ebrei ma anche sui pagani e si propagherà, per così dire, nella vita di tutti gli uomini, compresi quelli che le religioni (e i loro capi) di allora e di adesso considerano “impuri”.
Gesù, nelle sue parabole, ha relativizzato al massimo la stessa idea di regno di Dio: è un granellino, una moneta nascosta sotto un mobile, un regno in mezzo a noi. E, guardandosi bene dal pronunciare la parola “religione”, ci ha detto che nel vero regno si entra solo mediante la fede. Ma anche di questa non ci ha dato alcuna definizione. Ci ha solamente spiegato che essa è contenuta soprattutto nel rapporto fraterno tra gli uomini. E che quindi il migliore culto che possiamo rendere a Dio è aiutare il prossimo, amare gli altri, perdonare i nemici, praticare una giustizia uguale per tutti. Ci ha anche detto che la morte è stata vinta e che quindi l’uomo è libero di decidere il proprio destino.
Nel Vangelo di Giovanni, l’ultima parola che il Cristo pronuncia suona così: “Tutto è compiuto”. Neanche morire è stato per lui un fatto passivo: significava compiere, portare a termine qualche cosa, eseguire, adempiere. Come ci ricordano da sempre gli esegeti più intelligenti, prima della sua passione e morte Gesù ha condotto proprio una bella vita. Se prendiamo sul serio il racconto dei Vangeli, i giorni della predicazione del Cristo non sono stati mai malinconici né per lui, né per i discepoli e neanche per quelli che lo ascoltavano con scetticismo. E le conseguenze effettive ed affettive di quello che insegnava ai suoi seguaci non erano mai tinte, come è facile avvertire invece nelle vite di altri “fondatori”di religioni, di manierismo. Parlava senza alcun tipo di “morbidezza”. E quando si riferiva agli stati d’animo collettivi della religiosità del suo tempo (gli ebrei si sentivano, giustamente, oppressi dai romani e dai pagani), non amava i colori decadenti dell’autunno e tanto meno quelli rattristanti dell’inverno. Nei Vangeli Gesù ci parla della luce dell’estate, dell’imminente raccolto, di donne colte dalle doglie del parto.
Per lui l’importante era osservare attentamente il processo del divenire dell’uomo e della storia: tutto segue il suo corso, il grano matura, una donna sta per partorire. Il nuovo nasce sempre, la vita trionfa. E niente, dal punto di vista iconografico, è mai riuscito ad insegnarci tutto questo meglio del Crocifisso. Stiamo parlando di una tradizione artistica, quella cristiana, che rappresenta l’80% di quella prodotta negli ultimi duemila anni in tutto il mondo. È dal IV secolo dopo Cristo che i cristiani vedono nella Croce la rappresentazione più leggibile più duratura e più popolare di quello che il Cristo ci ha detto sul vivere e sul morire. E fino a quando vita e morte saranno ancora in mano alla follia di chi crede di onorare l’Assoluto disprezzando l’Umano, il Crocifisso avrà ancora molto da dire.