Mondo Oggi

Luca Marcucci

Luca Marcucci

Domenica, 15 Giugno 2008 18:31

SPESE MILITARI IN AFRICA

SPESE MILITARI IN AFRICA

Giba
Nigrizia/Gennaio 2008

I numeri si prestano a qualsiasi servigio. Possono diventare anche dei tiranni. Soprattutto quando si parla di Pil, mito e ossessione della nostra economia. Ma si dovrebbero ricordare quelli pubblicati in questa tabella, tratta dal Rapporto sullo sviluppo umano 2007-8 delle Nazioni Unite. Si tratta delle percentuali delle spese militari, di ogni paese africano, in rapporto al Prodotto interno lordo, ovvero al valore di mercato di tutti i beni e i servizi finali prodotti in un paese in un anno. Dati non facili da raccogliere nel continente. Tuttavia, ci fidiamo.

Balza all’occhio il dato 2005 dell’Eritrea: circa un quarto del Pil va in armamenti e in tutte le spese legate alla difesa. Un dato esorbitante. La percentuale più alta al mondo. Il secondo paese, tanto per capirci, è il sultanato dell’Oman, con l’11,9%.

Il Sipri, l’Istituzione internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, stima che la spesa per armamenti in Africa, nel 2006, si sia aggirata sui 15,5 miliardi di dollari, la più alta dalla fine della guerra fredda. Una piccola fetta, comunque, se paragonata a quella mondiale: 1.158 miliardi di dollari, circa 15 volte l’annuale spesa per l’aiuto internazionale. Trascurando il capitolo, assai corposo, del commercio illegale.

Armi e materiale bellico sono diventati, ormai, merci ordinarie nel mercato mondiale.

Le ong Oxfam, Safeworld e lansa hanno pubblicato Io scorso ottobre i risultati di uno studio sul danno economico, in termini di mancato Pil, che i conflitti hanno causato a 23 paesi africani, nel periodo 1990-2005. Comparando le economie di questi paesi nei periodi di conflitto con quelle di paesi con lo stesso livello di sviluppo in assenza di guerre, i ricercatori hanno ricostruito, tramite una proiezione, il Prodotto interno lordo che tali paesi avrebbero dovuto avere, se fossero stati in pace, e, calcolando la differenza, quale è stata la perdita economica. Cifra sottostimata, visto che sono stati esclusi dal calcolo i costi di aiuti internazionali e operazioni di peacekeeping, l’impatto che una guerra può avere sui paesi confinanti e quello sull’economia anche dopo la fine delle ostilità.

Tuttavia, la cifra emersa è clamorosa: 284 miliardi di dollari (circa 18 miliardi l’anno), che equivalgono alla somma degli aiuti che i maggiori paesi donatori hanno erogato ai governi africani nello stesso periodo di tempo.

Paese

1990

2000

2005

Eritrea

22,9

24,1

Burundi

3,4

5,4

6,2

Angola

5,8

21,2

5,7

Marocco

5,0

4,2

4,5

Gibuti

6,3

4,4

4,2

Guinea-Bissau

1,3

4,0

Mauritania

3,8

3,6

Namibia

5,7

3,3

3,2

Botwana

4,1

3,7

3,0

Algeria

1,5

3,5

2,9

Rwanda

3,7

3,0

2,9

Egitto

4,7

2,3

2,8

Etiopia

8,5

9,4

2,6

Rd Congo

2,4

Zimbabwe

4,5

4,8

2,3

Lesotho

4,5

3,1

2,3

Sudan

3,6

3,0

2,3

Uganda

3,1

1,8

2,3

Zambia

3,7

0,6

2,3

Mali

2,1

2,5

2,3

Libia

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Mercoledì, 04 Giugno 2008 22:39

La questione del nucleare in Italia

La questione del nucleare in Italia

di Henry SOKOLSKI
da Today’s Wall Street Journal Europe

Henry Sokolski evidenzia innanzitutto che il debito pubblico italiano, il terzo al mondo, è di 1.624 miliardi di euro, con un reale rischio di cresce ancora. Per affrontare l’ascesa dei prezzi di petrolio e gas e la crescente importazione di energia elettrica dalla Francia sembra che la strada giusta sia quella di reintrodurre il nucleare, ma c’è che: “le centrali nucleari promesse da Berlusconi sono improbabili dall’essere costruite”.

Le ragioni sono tre: “elevatissimi costi di costruzione; tempi di costruzione da uno a due decenni, e non identificabile comunità italiana disposta a vedere un reattore nucleare realizzato nel loro territorio”.

Non si tratta di posizioni antinucleari di verdi. Stime effettuate da E.On, gigante tedesco dell’energia che sta realizzando una grande centrale nucleare in Finlandia, e dalla Florida Power and Light, grande società elettrica statunitense, indicano “il costo di costruzione in 6 miliardi di euro per impianto”. Detto importo è di 10 volte superiore il costo di costruzione di un moderno impianto a gas che produce la stessa quantità di energia. Questo costo, inoltre, si riferisce esclusivamente alla costruzione dell’impianto, non sono contemplate infatti le spese gestione dei rifiuti nucleari o le spese di funzionamento.

Come primo ministro Italiano del governo dal 2001 al 2006, “Berlusconi ha speso molto in progetti pubblici e ripetutamente non ha raggiunto gli obiettivi di bilancio fissati dalla Unione Europea. Egli ora afferma che mostrerà moderazione finanziaria”.

Ancora, l'amministratore delegato di Enel, che con ogni probabilità potrebbe costruire e gestire l’eventuale reattore nucleare, la scorsa settimana sibillinamente ha avvertito che al fine di procedere, avrebbe bisogno di nuova regolamentazione e forte accordo sul piano all'interno del paese -- Vale a dire garanzie, crediti e sovvenzioni dal governo.

        Si potrebbe sostenere che l’attuale impegno di spesa per il nucleare potrebbe in futuro consentire di risparmiare. Nel caso italiano, tuttavia, queste probabilità sono basse. L'Italia non ha gestito o costruito una centrale nucleare sin dalla loro chiusura avvenuta in seguito all'incidente di Cernobyl del 1987. Difficilmente quindi si potrà attuare qualsiasi programma nucleare rapidamente o gestirlo senza incidenti.

La scorsa settimana, il Ministro per lo sviluppo economico Claudio Scajola, all’assemblea di Confindustria, ha dichiarato che “il governo italiano poserà la prima pietra per la costruzione di una nuova generazione di reattori entro cinque anni”. Dirigenti dell’Enel, tuttavia, sono stati un pò più cauti. Hanno infatti rilevato che potrebbero occorrere “dai sette ai 10 anni” prima di poter effettivamente portare un reattore in linea. I loro concorrenti italiani, Edison SpA, sono stati ancora più cauti: "potrebbero esserci difficoltà a rendere la prima stazione operativa entro il 2020."

Da evidenziare poi che la quarta generazione di reattori che il governo italiano si è impegnato a costruire, addirittura non è stata ancora interamente progettata e, quindi, potrebbero passare dai 20 ai 25 anni per renderla operativa. Eventuali reattori nucleari italiani non rappresenterebbero una risposta ai problemi energetici per almeno il prossimo decennio o più. Quali fonti di approvvigionamento energetico e quale sarà la domanda nei prossimi 10, 20 anni, così come quello che sarà il costo dell’energia, nessuno è in grado di stabilirlo. Certamente il governo Berlusconi avrà terminato la legislatura prima di allora. D'altro parte, gli alti costi e l’opposizione politica a qualsiasi specifica costruzione nucleare sarà politicamente significativa e immediata.

Perché allora Berlusconi ha annunciato il nucleare ora? Come la riduzione delle tasse sulla benzina e sul diesel, fa apparire il governo impegnato sul fronte dell'aumento dei prezzi del petrolio e del gas.

Esperti in materia energetica, però, sospettano qualcosa di più sinistro. L'annuncio potrebbe essere parte di uno sforzo a lungo termine da parte della più grande utility europea per spingere i concorrenti più piccoli ad organizzare un massiccio sostegno governativo per i grandi, costosi programmi di centrali nucleari. Italiani ed europei possono solo sperare che questa speculazione sia semplicemente sbagliata.

Si suppone che l'UE incoraggi la concorrenza e l'eliminazione delle sovvenzioni pubbliche nel settore energetico, ma ciò non è mai stato facilmente attuato. La Francia sovvenziona indirettamente il suo programma nucleare. E’ altrettanto noto che la Germania sostiene il carbone. Le sovvenzioni di Germania e Francia al progetto di reattore che AREVA e Siemens stanno costruendo, nel frattempo, sono state recentemente confermate dalla Commissione europea a seguito di vari reclami.

La preoccupazione è che l'Unione europea possa finire per reprimere la concorrenza di mercato nel settore energetico. L'Unione europea, dopo tutto, afferma che è impegnata a ridurre le emissioni di carbonio. La soluzione sta nell’aumentare l'efficienza per ridurre la domanda di energia e rendere più vantaggiose le tecnologie energetiche.

Nessuna pianificazione può determinare in anticipo come effettuare questa operazione, riducendo le emissioni di carbonio in modo economico e veloce. Invece, l'effettiva applicazione dei meccanismi di mercato è la migliore speranza per guidare attraverso il bosco delle decisioni - come ad esempio la scelta tra impianti centralizzati e distribuiti, le nuove tecnologie contro le vecchie, diverse fonti di gas naturale, ecc

           E’ concepibile che detta concorrenza potrebbe favorire l'energia nucleare in futuro. Tuttavia, tenuto conto delle previsioni della UE di arresto di 145 reattori nei prossimi 17 anni, la probabilità di una qualche crescita netta nella capacità nucleare, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere tra molti decenni di distanza. Nel frattempo, Italia e Europa farebbero bene a stare lontane da investimenti energetici che nessuna banca privata farebbe senza aiuti statali.

Il ritorno al nucleare?
Costerebbe 50 miliardi di euro

di Luca Zanfei

da www.vita.it

 

Proprio nel giorno in cui il premier Berisha mette a disposizione il territorio albanese per la costruzione delle centrali nucleari italiane, Legambiente, WWf e Greenpeacebocciano senza appello la nuova deriva nuclearista del ministro Scajola.

Il problema non è solo ideologico. Il ritorno all'atomo costa troppo e non riduce la bolletta
energetica. In più blocca lo sviluppo delle fonti alternative, senza assicurare una riduzione delle emissioni globali di CO2.

Secondo il dossier (scaricabile qui) presentato a Roma dalle tre associazioni ambientaliste, riaccendere i reattori costerebbe tra i 30 e i 50 miliardi di euro, tra istallazioni di centrali e
costruzione da zero dell'intera filiera. All'incirca due finanziarie che
verrebbero sostenute quasi esclusivamente con soldi pubblici; “per un sistema
che andrebbe a regime, facendo effettivamente risparmiare, solo tra trent'anni
cioè circa sette anni dopo la normale durata di un reattore nucleare”, spiega Giuseppe
Onufrio
, direttore delle campagne Greenpeace. Non basta. Gli
investimenti statali nel settore toglierebbero risorse alle altre fonti
rinnovabili, con tanti saluti agli accordi comunitari e alle dinamiche di
libero mercato.

Secondo le stime dell'Agenzia
internazionale dell'energia, infatti, dal 1992 al 2005 nei paesi Ocse il
nucleare da fissione ha usufruito del 46% degli investimenti per ricerca,
mentre alle rinnovabili è stato destinato solo l'11%. In più, nei paesi come
gli Stati Uniti e Finlandia il rilancio del settore sarà possibile grazie a
cospicui investimenti pubblici. “Nonostante questo, il consorzio finlandese che
sta sperimentando il nucleare di quarta generazione, è attualmente in forte
perdita”, aggiunge Onufrio. Così persino l'Aiea – l'Agenzia
internazionale per l'energia atomica – nel suo rapporto ”Energy, electricity, and nuclear power estimates for the period up to 2030” ha previsto per i
prossimi anni una riduzione del peso dell'atomo nella produzione elettrica
mondiale, dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030.

Ma allora
perché il governo insiste sul ritorno all'uranio? Per il direttore del Wwf,
Michele Candotti si tratta semplicemente di una provocazione che “in
realtà ha altre mire – spiega – L'idea di fondo è quella di dare libero spazio
agli investimenti sul nucleare all'estero e dall'estero, ma soprattutto avere
un forte potere negoziale sul futuro del carbone in un eventuale piano
energetico nazionale”. Una teoria che si spiega guardando all'attuale contesto
italiano, “ad oggi, per pensare seriamente al nucleare, ci vorrebbero un
sistema decisionale forte e centralizzato e una gestione efficiente del
territorio – continua Candotti – ma mi sembra che l'Italia sia ancora lontana
da queste condizioni”. Ancora più duro Vittorio Cogliati Dezza,
presidente nazionale Legambiente. “Il piano del governo ha come semplice
obiettivo quello di permettere all'Enel di entrare massicciamente nel mercato
mondiale – accusa – Non c'è un vero programma perché oggi è impossibile da
realizzare”. Così le tre associazioni continuano a promuovere un sistema
diverso “Dobbiamo puntare su una produzione distribuita attraverso un mix
flessibile di fotovoltaico, solare ed eolico – conclude Dezza – Ma non si può
prescindere da una seria politica di efficienza energetica”.

Sahara Occidentale, la sfida dei territori liberati - LA CARTA RASD

Luciano Ardesi

Nigrizia maggio 2008

 

      

Nella calma apparente del conflitto del Sahara
Occidentale, pochi si sono accorti del sottile gioco delle parti tra il Fronte
Polisario e il Marocco. La posta in gioca sono i territori liberati, la parte
della Repubblica araba sahrawi democratica (Rasd) dove i sahrawi esercitano la
piena sovranità. Si tratta di un terzo del paese, situato a est del muro di
sabbia che lo spacca in due.

Il Polisario ha capito da tempo che, per contrastare
la politica “del fatto compiuto” – l’occupazione militare marocchina –, bisogna
opporre l’altra verità: il suo pieno controllo su una parte della Rasd. Per
questo motivo, moltiplica i gesti simbolici nei territori liberati:
celebrazione di anniversari e riunioni del parlamento. Da quando, nell’agosto
scorso, sono iniziati i colloqui diretti tra Rabat e il governo sahrawi in
esilio, il Fronte ha messo la Rasd liberata tra le sue priorità.

La scelta è stata ratificata dall’ultimo Congresso
del Polisario, celebrato nel dicembre scorso a Tifariti, nella zona liberata.
La reazione marocchina ha dato ai sahrawi la certezza di aver fatto centro.
Rabat, infatti, ha tentato di organizzare un “contro-congresso”, finito nel
nulla.

Il 27 febbraio, l’anniversario della proclamazione
della Rasd (1976) è stato festeggiato nuovamente nelle zone liberate. Una
fantomatica associazione marocchina ha minacciato di “marciare contro”. La
minaccia si è ripetuta a fine marzo, quando il Polisario ha annunciato le celebrazioni
per il 35° anniversario della propria creazione (maggio 1973), che si terranno,
sempre a Tifariti, il 20 maggio.

Il 22 marzo si è tenuta la più importante
manifestazione di protesta davanti al “muro della vergogna”. Nella Rasd
liberata, ma a poche decine di chilometri dal confine con il Marocco, oltre
2mila persone (per metà provenienti da Spagna, Italia e altri paesi europei)
hanno formato una lunghissima catena umana, che ha fronteggiato il muro sotto
gli occhi impotenti dei militari marocchini e la sorveglianza dei caschi blu
della missione Onu nel Sahara Occidentale (Minurso).

Nel frattempo, stanno partendo i primi progetti per
lo sviluppo della Rasd liberata. È stato istituito un ministero apposito. La
priorità è stata data all’acqua, agli ospedali e alle scuole, servizi
essenziali per la popolazione nomade che vi risiede e che, peraltro, riceve da
sempre aiuto dal Polisario. Oggi, però, si parla di veri e propri investimenti,
che, almeno simbolicamente, facciano da contrappunto a quelli marocchini nei
territori occupati (un miliardo di dollari l’anno solo per mantenere la
presenza militare).

Nell’ultratrentennale crisi del Sahara Occidentale c’è una sorta di tic nervoso che Rabat manifesta
ogniqualvolta è in difficoltà: tirare in ballo Algeri. È puntualmente accaduto
anche di recente. A corto ormai di argomenti, il governo marocchino
s’intestardisce nell’affermare che è necessario negoziare con… l’Algeria. A
metà marzo, nel quarto incontro diretto con il Polisario, non è riuscito a
imporre né ai sahrawi né all’Onu il suo progetto di “autonomia”. Risulta sempre
più evidente che a quel progetto manca qualcosa di essenziale: un pezzo di quel
Sahara di cui il Marocco vuol far credere di avere il controllo totale.

IL“LIBRO BIANCO” COSE FATTE, COSE DA FARE

Francesco
Belletti

(direttore
del Cisf)

 

Nel febbraio 2003 il Ministero del Lavoro e delle
Politiche sociali pubblicava il Libro bianco sul welfare - Proposte
per una società dinamica e solidale
(cfr. la presentazione su Famiglia Oggi
n. 4/2003, pp. 84-87), inteso come «ilnaturale proseguimento del Libro bianco sul Mercato del Lavoro» del 2001. In questo
documento veniva fissata anche Un’Agenda Sociale”, articolata su sei punti, con
una serie di obiettivi operativi specifici, da realizzare nei e negli anni
successivi: come ribadito nello stesso documento, «La proposta di varare
un’agenda sociale costituisce non solo il riconoscimento della dinamica
continua della materia e degli interventi proposti, ma anche della volontà del
Governo di procedere secondo scadenze prestabilite, facendo in modo che i
risultati siano trasparenti e facilmente verificabili da tutti».

A
tre anni di distanza dalla sua diffusione, e al termine del mandato di Governo,
appare quindi opportuna una verifica di quanto è stato fatto e di quanto rimane ancora da fare. Sulla base di
questa “ricognizione” (necessariamente sintetica, basata prevalentemente sui
dati pubblicati on-line da Governo e Ministeri, e senza poter analizzare
puntualmente dati quantitativi), si potrà quindi valutare quanto il Libro
bianco
sia rimasto sulla carta, e quanto si sia invece trasformato in
operatività concreta.

In
analogia con quella approvata dall’Unione europea nel vertice di Nizza del 7-9
dicembre 2000, l’agenda sociale del Libro bianco è stata organizzata su sei macroaree
di intervento; per ognuna di esse venivano indicati gli obiettivi, i soggetti e
gli attori coinvolti, le priorità degli interventi, i riferimenti
internazionali e le altre politiche interessate. All’interno di ciascuna area
sono state evidenziate le azioni da realizzare nel breve-medio periodo, con
l’indicazione dell’arco temporale entro cui svilupparle e delle risorse
individuate per la loro realizzazione. In questo articolo ci si concentrerà,
area per area, soprattutto sulle “azioni da realizzare”, riportando l’obiettivo
così come esplicitato nel testo.

 

INGRESSO NELLA VITA E NEL MONDO DEL
LAVORO

Obiettivo: Favorire un armonico inserimento nella vita e
nel mondo del lavoro promuovendo la qualità della vita dell’infanzia e
dell’adolescenza e l’integrità della famiglia.

 

Gli interventi per alleggerire la pressione fiscale,
essenziali in questo primo punto, sono stati prevalentemente orientati al
“contribuente individuo”, e solo pochi interventi sono stati selettivi a base
familiare (da segnalare, in positivo, il raddoppio delle detrazioni per i figli
a carico, a partire dalle Finanziarie 2002 e 2003). Su questo aspetto ancora
molto rimane da fare, per una riforma fiscale realmente a misura di famiglia
(vedi richieste di “quoziente familiare” e simili). Trova spazio invece qui il
“bonus bebé”, 1.000 euro alla nascita di un figlio dal secondo in poi,
provvedimento avviato per i nati nel 2004 e riproposto per il 2006 (segnale
apprezzabile di attenzione alla natalità e ai carichi familiari connessi, ma
criticato perché una tantum e - da alcuni - perché insensibile al
reddito) Niente da fare invece per l’approvazione della legge sui servizi
socio-educativi (ancora in discussione in Commissione al Senato a settembre
2005), mentre particolarmente importante è stata l’azione sulla cura per la
prima infanzia, e in particolare sugli asili nido, sia aziendali che promossi e
gestiti dagli enti locali; su questo punto la valutazione è certamente
positiva, dal punto di vista quantitativo (numero di posti) e qualitativo
(promozione di iniziative da parte di associazioni, enti non profit,
famiglie...).

Rispetto al superamento degli istituti per minori,
l’azione del Ministero è stata abbastanza puntuale, e anche a livello locale
molte Regioni ed enti locali si sono attivati; resta ancora un forte
interrogativo sui dati relativi ai “minori non in famiglia” (vedi anche
l’ultima area dell’Agenda sociale), nonché sulla reale promozione dell’affido,
su cui il Ministero ha promosso a partire da fine 2004 una campagna specifica
di sensibilizzazione della pubblica opinione. Su questo punto peraltro le
responsabilità operative sono ormai pressoché totalmente demandate a livello
regionale e locale.

Non c’è traccia, infine, di “Consiglio nazionale della gioventù” o organismi similari,
all’interno delle policies di welfare (a meno di non considerare tali
gli organismi associativi di rappresentanza studentesca che fanno capo al
Ministero dell’Istruzione).

 

DIRITTO AI SERVIZI UNIVERSALI MEDIANTE
UNA NUOVA SOLIDARIETÀ

Obiettivo: Garantire il
diritto di tutti al “servizio universale” (servizi di base sociali e servizi di
base in senso allargato) mediante anche lo sviluppo di reti di solidarietà
formali e informali.

 

La promozione di una prospettiva sussidiaria ha
sicuramente caratterizzato l’azione di Governo, sia rispetto alla dimensione
verticale (responsabilizzazione delle Regioni e degli enti locali), sia
rispetto a quella orizzontale (valorizzazione di famiglie, reti informali,
associazionismo). Da segnalare a questo riguardo gli interventi della legge. n.
383 di promozione dell’associazionismo sociale, così come la “Più dai meno
versi” (legge 80 del 14 maggio 2005), che consente notevoli vantaggi fiscali
per le donazioni a enti no profit, e la recente disposizione “cinque per
mille”, in occasione della presentazione della denuncia dei redditi 2005, che
consente di destinare all’associazionismo una quota di tasse pari al cinque per
mille del proprio reddito (senza oneri per il contribuente).

Grave
invece appare la mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni
(Lep), che costringono Regioni e enti locali a organizzare i servizi senza una
definizione condivisa e univoca a livello nazionale di quali siano i diritti
essenziali alle prestazioni in ambito socio-assistenziale.

Significativo è stato infine il sostegno economico a
favore delle giovani coppie sposate o in procinto di matrimonio per
l’acquisizione in proprietà della casa (nella Finanziaria 2003 almeno il 10%
delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali per le famiglie di
nuova costruzione e per il sostegno della natalità); anche questa iniziativa ha
visto azioni congiunte tra livello nazionale e regionale.

 

INCLUSIONE SOCIALE

Obiettivo: Attuare
percorsi di inclusione sociale rivolti alle diverse fragilità sociali e alle
fasce in condizione di marginalità o a maggior rischio di esclusione,
promuovendo azioni per il loro reinserimento e l’attivazione di reti di ultima
istanza.

 

In questo ambito la politica complessiva dei redditi
adottata dal presente Governo è stata al centro di forti attenzioni e
polemiche; certo gli interventi attuati non hanno avuto come obiettivo primario
la promozione della “inclusione sociale”, ma piuttosto la complessiva “rimessa
in moto dei consumi”, come conferma anche la mancata attuazione del “reddito di
ultima istanza”, pur esplicitamente previsto nell’Agenda. L’assenza di uno
schema nazionale di sostegno economico di contrasto alla povertà si è poi
“scaricata” sui servizi sociali locali, che intervengono in modo molto
eterogeneo sulle “famiglie povere”, fenomeno peraltro ancora fortemente
presente nel Paese.

Rispetto all’immigrazione, il Libro bianco esplicitava
solo un’azione puntuale sui corsi di lingua italiana per minori e adulti
stranieri, che ha peraltro trovato adeguato spazio anche nel documento
programmatico sull’immigrazione 2004-2006 (maggio-luglio 2005), tra le
“politiche per l’integrazione”, soprattutto attraverso protocolli di intesa con
le Regioni (che hanno la responsabilità operativa degli interventi, con
co-finanziamenti).

Per quel che riguarda infine l’integrazione dei
soggetti deboli attraverso l’inserimento lavorativo, non si può parlare di
rilevanti responsabilità a livello nazionale, data la forte prevalenza di
titolarità operative del livello regionale, che generano peraltro diverse
capacità di sfruttamento delle opportunità presenti (cfr. la capacità di uso e
valorizzazione del Fondo sociale europeo nelle varie Regioni).

 

AUTONOMIA PSICOFISICA

Obiettivo: Garantire l’accesso al lavoro e all’assistenza
per tutti quei soggetti che presentano gravi limitazioni alla loro autonomia
fisica e psichica.

 

Non è stato varato il Piano azionale per la non
autosufficienza, mentre i livelli regionali hanno necessariamente agito su tale
settore con vari strumenti di programmazione e finanziamento. Rispetto alla
disabilità, manca sia la formalizzazione di un programma straordinario di
intervento, riferibile peraltro al fatto che il Libro bianco è stato
pubblicato nel 2003, Anno europeo per le persone disabili, sia la realizzazione
del “testo unico” sulla disabilità (punti entrambi previsti nel testo); sarebbe
d’altra parte ingeneroso sostenere che la disabilità non sia stata oggetto di
attenzione da parte del Governo (cfr. la legge sull’amministratore di sostegno,
approvata a fine 2004 dopo un lungo iter, e la legge n. 67/2006, “Misure
per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di
discriminazioni”). Tuttavia non è stato conseguito l’obiettivo di fornire
“strumenti quadro” nazionali di sistema, entro cui Regioni, enti locali e altri
attori profit e no profit potessero agire più efficacemente.

 

LA COESIONE SOCIALE DELLE
COMUNITÀ

Obiettivo: Promuovere la coesione sodale degli individui e
delle famiglie mediante la costituzione di reti capaci, da un lato, di attivare
la solidarietà intergenerazionale, e, dall’altro, di favorire l’inclusione di
soggetti e gruppi a rischio di esclusione.

 

Molto rilevante e positiva è stata l’azione
dell’Osservatorio nazionale delle famiglie (cfr. anche il sito internet www.osservatorionazionalefamiglie.org),
con la realizzazione di percorsi di ricerca, pubblicazioni ed eventi realizzati
in varie parti del Paese.

Appare
invece ancora lontana la prevista rivisitazione delle norme sul volontariato
con un nuovo impianto normativo, anche se non va sottovalutata l’importanza
dell’ampio dibattito preparatorio promosso a livello nazionale e locale proprio
dal Ministero con tutte le componenti del volontariato e del terzo settore.

Risultato certamente importante è invece
l’approvazione della legge sull’impresa sociale (legge 13 giugno 2005, n. 118),
anch’essa a valle di un lungo e complesso dibattito parlamentare e con la
società civile.

Significativo
- e sicuramente innovativo - infine l’impegno del Ministero sul tema della
Responsabilità sociale d’impresa (Csr), come è facile riscontrare anche sul
sito del Ministero (www.welfare.gov.it), che ha coinvolto imprese e
organizzazioni di categoria del mondo profit in una riflessione di
grande portata per il futuro del sistema di welfare italiano.

 

MISURE DI CARATTERE ORIZZONTALE

Obiettivo: Garantire la messa a punto di una serie di
strumenti atti a favorire l’esecuzione delle misure di cui ai punti precedenti
e la loro verifica.

 

L’obiettivo si presenta come trasversale alle altre
aree di azione, ed è quello che meno riguarda direttamente i cittadini; esso è
però essenziale per il funzionamento dei servizi, nonché per la capacità stessa
di verificare l’efficacia e l’efficienza dei servizi rispetto agli obiettivi (e
dello stesso Libro bianco).

In questo ambito i risultati sono molto
insoddisfacenti: si riscontrano infatti numerose applicazioni a livello
regionale e locale (cfr. anche gli osservatori provinciali sulle politiche
sociali, ai sensi della legge n. 328/2000), ma manca ancora un framework unitario a
livello nazionale, che consenta una descrizione omogenea di servizi e bisogni
tra i diversi contesti territoriali (cfr. anche il nodo dell’anagrafe nazionale
dei minori, in riferimento alla prima area dell’Agenda sociale). Anche il grado
di attuazione della prevista interfaccia con sistemi statistici sovranazionali
(Eurostat, altri sistemi nazionali) è assolutamente insufficiente.

 

Molto è ancora da realizzare

 

Pur nella approssimazione di questa breve analisi, ci
sembra possibile sviluppare una breve valutazione complessiva sul grado di
attuazione del Libro bianco, dopo un triennio di attività; il quadro è
inevitabilmente non univocamente definito, ma sembra di poter concludere che il
confronto fra obiettivi operativi conseguiti e azioni non realizzate penda in
modo significativo su queste ultime; in altre parole, l’attuale Governo
consegna al prossimo molte azioni ancora da realizzare, tra quelle definite «da
realizzare a breve e a medio termine».

Difficile pesare, in termini qualitativi, il valore
delle azioni realizzate rispetto a quelle da realizzare; è certo per esempio
che l’approvazione della legge sull’impresa sociale, oppure l’intervento sul
“cinque per mille” siano risultati rilevanti, capaci di innescare processi
virtuosi di cittadinanza attiva e di reale sussidiarietà, migliorando quindi
l’assetto complessivo del welfare nazionale; d’altra parte, la mancata
fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, così come il mancato avvio
di qualsiasi schema (anche sperimentale) di reddito di ultima istanza (per
limitarci solo a due aspetti) o la non definizione di un quadro normativo e
progettuale unitario sulla disabilità costituiscono “carene di sistema”
difficilmente giustificabili in una valutazione finale.

Certo occorrerebbe anche tenere conto di alcune
costrizioni, che hanno sicuramente reso molto difficile l’azione di Governo: in
primo luogo la indiscutibile pressione per una diminuzione delle risorse
disponibili, imputabile a vincoli complessivi di Governo, più che a volontà
specifiche del Ministero titolare delle azioni di welfare; in secondo
luogo la crescente tensione tra livello nazionale e regionale, nel periodo di
prima applicazione sia della legge. n. 328/2000, di riforma complessiva dei
servizi sociali, sia del processo di decentramento di responsabilità connesso
alla riforma del capitolo V della Costituzione, che ha spesso bloccato, per
iniziativa regionale, progetti sperimentali innovativi del Ministero (per
esempio, quelli sulla disabilità adulta, cioè i progetti sul “dopo di noi”,
promossi dal Ministero e mai realizzati per il veto delle Regioni, così come
sui nidi aziendali).

Un
quadro, quindi, con qualche luce, a volte anche molto brillante, e molte ombre,
qualcuna veramente scura, su questi anni di attività, che lascia anche al
prossimo Governo un complesso compito di riprogettazione del sistema di welfare;
ci sembra peraltro che su due aspetti generali occorrerà particolare
vigilanza, qualunque sia il prossimo ministro in carica: da un lato occorrerà
spendersi perché il peso specifico delle politiche di welfare aumenti,
perché la spesa sociale sia considerata sempre meno come costo assistenziale e
sempre più come investimento preventivo sul capitale sociale; dall’altro, in
sintonia con la prima parte del Libro bianco qui analizzato, di fatto
dimenticata, occorrerà attuare una reale riconversione “a misura di famiglia”
delle politiche sociali nel loro complesso, nonché l’attivazione di politiche e
misure specificamente familiari (in primis quelle fiscali), capaci di
“fare la differenza”, in termini anche quantitativamente significativi, a
favore delle famiglie.

Martedì, 27 Maggio 2008 23:38

«ASSEMBLEA PERMANENTE PER LA PACE»


«ASSEMBLEA PERMANENTE PER LA PACE»

 

di Maria Longhi Vicenza

 

 

Il progetto di costruzione di una nuova base militare
americana a Vicenza era stato visionato dall’amministrazione comunale berica
nel 2004, ma solo nel 2006 la cittadinanza ne è stata informata dal Giornale
di Vicenza,
il quotidiano locale.

Attualmente l’esercito americano ha, nella città di
Vicenza e nei comuni circostanti, una caserma, un villaggio residenziale, due
basi sotterranee, sulle quali vige il più rigoroso segreto militare, e due centri
logistici.

Il progetto che aggiunge una nuova caserma e un nuovo
villaggio residenziale, ha scatenato una forte reazione in gran parte della
cittadinanza, sia per l’impropria collocazione della caserma, al centro di un
territorio densamente abitato, sia perché l’amministrazione comunale in carica
e i due governi nazionali che si sono susseguiti hanno dimostrato una totale
indifferenza al dovere di informazione e una ancora più grave intolleranza
verso percorsi di trasparenza democratica.

La cittadinanza si è mobilitata e sono sorti numerosi
comitati, orientati prioritariamente alla raccolta e divulgazione di
informazioni, ma anche alla ricerca di possibili alternative al progetto, che
alcuni presentano come un volano economico per la provincia vicentina. Anche il
mondo cattolico si è inserito in questo dibattito, a partire dall’interrogativo
se sia eticamente accettabile affidarsi, in questo particolare contesto
storico, a un’economia fondata sulle armi. Gruppi spontanei, commissioni
«Giustizia e pace», singoli credenti, dopo un iniziale smarrimento di fronte al
silenzio dei vertici della chiesa locale, hanno iniziato un percorso di
discernimento che si va progressivamente approfondendo e radicando nelle
comunità.

Una di queste è la comunità cristiana di Quinto e
Valproto, sul cui territorio comunale dovrebbe sorgere il nuovo villaggio
militare americano. Per conoscere il loro percorso abbiamo incontrato il
parroco, don Fabrizio Cappellari, che ci ha raccontato quanto segue.

«Tutto è cominciato il primo di novembre 2006, al
cimitero. Si parlava di “testimoni”; cioè di persone che hanno segnato la vita
del nostro paese, della nostra storia. Come loro, anche noi ci troviamo di
fronte a eventi che ci interrogano. Oggi per noi sono la base e il villaggio
militare. Ho chiesto alla comunità di fermarsi e riflettere.

Abbiamo poi organizzato una serata pubblica, alla
quale è intervenuta anche l’amministrazione comunale, che in quell’occasione si
è impegnata a promuovere nuovi incontri informativi e una consultazione
popolare per verificare il consenso sull’operazione.

Il consiglio pastorale ha prodotto un documento dove
si esprime la contrarietà della parrocchia al villaggio in quanto collegato
alla base militare. Lo abbiamo inviato all’amministrazione comunale di Quinto,
a tutte le famiglie, ai consigli pastorali e amministrativi dei paesi confinanti
e per conoscenza al vescovo.

Dopo di questo, si è costituito un gruppo spontaneo
che ora sta prendendo la forma di una «Assemblea permanente per la pace». Vuole
essere un segno di incontro e di dialogo, che ogni domenica si apre per
iniziative sui temi della pace, della giustizia, della legalità. Stiamo
cominciando a parlare anche di mafia; vogliamo fare esperienze di incontro con
la realtà del Sud che non conosciamo, per capire, per dare una mano se serve.

Vogliamo stare calati nella realtà quotidiana
mantenendo un orizzonte ampio per non rischiare di venire fagocitati da
monopolizzazioni politiche, da prese di parte. Per non diventare solo il
«comitato no» alla tal cosa.

Sullo specifico del villaggio abbiamo fatto degli
incontri in preparazione della consultazione popolare tenuta il 15 aprile.
Abbiamo voluto invitare degli esperti di urbanistica, diritto e d’impatto
successivo, cioè su quello che resterà, quando gli americani se ne andranno.
Faremo ancora incontri sulla guerra, su cosa lascia dietro di sé. Vogliamo
tenere viva l’attenzione, perché non si tratta solo di costruire case, bisogna
avere chiaro il disegno complessivo.

Per i credenti, la militarizzazione del territorio e
la corsa agli armamenti in atto è contraria al vangelo. E anche tacere non è
evangelico. E’ così chiaro che l’esperienza cristiana evangelica è una
esperienza di non violenza.

E noi che
possiamo farlo abbiamo il dovere di interrogarci e operare, perché si cambi
direzione, anche nella gestione dei conflitti internazionali. Sono stato un po’
di tempo in Camerun, come missionario. Lì la gente non ha modo di pensare alle
caserme, allo sfruttamento di cui sono oggetto. Noi che abbiamo cibo e lavoro
garantiti, abbiamo il dovere anche nei loro confronti di capire e operare.
Stare fuori da questo interrogarsi è peccato. Uno può anche essere favorevole a
questo sistema, se proprio vogliamo. Quello che non si può accettare è
l’indifferenza, il sentirsi fuori, perché questo è un venir meno al nostro
dovere di cristiani».

L’eurodeputata Viktoria Mohacsi
evidenzia che da un paio di mesi la polizia entra negli accampamenti e fa dei
controlli indiscriminati nel cuore della notte. Alcuni vengono prelevati e
tenuti in custodia per 48 ore, subendo maltrattamenti.

Non è con questa modalità che un
Paese democratico ricerca la sicurezza, sottolinea. Se si sospetta che in un
accampamento si possano nascondere dei delinquenti, si procede con le indagini,
il fermo, l’accusa ed il rinvio a giudizio. Ma non è quello che sta succedendo.
La campagna xenofoba lanciata dalla coalizione del governo Berlusconi, sta
alimentando la persecuzione verso tutta la comunità romena.

Ricorda che in febbraio era stata
inviata una lettera aperta a Berlusconi, rimasta inascoltata, per evitare l’insorgenza
della violenza.

Ritiene poi incomprensibile la
norma per ottenere la cittadinanza italiana, che distingue tra sangue e terra.
Si verifica perciò che la terza o quarta generazione di rom nata in Italia da
padri provenienti da Paesi non comunitari, in fuga dalla guerra dei Balcani,
non ha né diritti di cittadinanza né di asilo politico.

 

La questione è all’esame dell’Agenzia dei Diritti Fondamentali, però, conclude, se
il governo non cessa di alimentare l’odio non si intravede una soluzione.
da www.elpais.com

NOI, GLI OPPRESSORI DEI POPOLI DI TUTTO IL MONDO. PARLA UN DISERTORE USA

da Adista
di Luca Kocci

Obiettori di ieri, che hanno avuto il coraggio di dire no a Hitler e a Mussolini, spesso finendo i loro giorni nei lager nazisti o sui vagoni piombati che li conducevano nei vari campi della morte. Come Josef Mayr-Nusser, alto atesino che rifiutò l'arruolamento nelle SS e morì sul treno che lo stava portando da Buchenwald, dove era recluso, a Dachau (la sua storia è raccontata nel libro di uno degli organizzatori del convegno Francesco Comina, Non giuro a Hitler, San Paolo edizioni). O come l'austriaco Franz Jägerstätter che, dopo essersi opposto al nazismo, fece obiezione di coscienza al servizio militare nella Wehrmacht e per questo motivo venne condannato a morte e decapitato il 9 agosto del 1943 (su Jägerstätter è appena uscito il volumetto curato da uno dei relatori del convegno Giampiero Girardi, Il contadino contro Hitler. Una testimonizanza per l'oggi, Editrice Berti, con contributi, fra gli altri, di Enrico Peyretti e Sergio Tanzarella). Per Mayr-Nusser è stata avviata la causa di beatificazione, mentre Jägerstätter è da pochi mesi salito agli onori degli altari (v. Adista n. 69/07). Si tratta di beatificazioni importanti - dice Albert Mayr-Nusser, figlio di Josef - ma la Chiesa non compie un'operazione del tutto corretta: li celebra come "martiri della fede" e li "depoliticizza, depotenziandone la carica di opposizione politica al sistema totalitario nazista. Sicuramente sono stati martiri della fede - prosegue - ma è riduttivo esaurire la loro testimonianza a questo aspetto". Obiettore al nazismo è stato anche Franz Thaler, presente al convegno - un contadino altoatesino tuttora vivente che rifiutò la chiamata alle armi -, sopravvissuto a Dachau e poi, una volta tornato nella sua valle, emarginato dai concittadini perché la sua testimonianza li obbligava a confrontarsi con la loro connivenza con il nazismo che aveva incantato molti altoatesini con la promessa della "Grande Germania".

Ci sono poi gli obiettori di oggi: giovani statunitensi arruolati si per tentare di risolvere i loro problemi economici oppure perché convinti dell'importanza della "guerra al terrorismo" di George Bush ma presto accortisi che la loro guerra più che contro i terroristi veniva combattuta contro le popolazioni inermi di Afghanistan e Iraq. Come Russel Hoitt, il primo dei cinque disertori della caserma statunitense Ederle di Vicenza, dove è tutto pronto per l'inizio dei lavori per la costruzione della nuova base militare Usa presso l'aeroporto civile Dal Molin.

"'A scuola mi era stato insegnato che tutte le guerre degli Stati Uniti sono state combattute in nome della democrazia e della libertà e che le nostre Forze armate si battono per il bene del Paese e per portare i diritti nel mondo", racconta Hoitt. "E così in un momento di difficoltà economiche, mi sono arruolato". Nel 2006 Russel finisce a Vicenza, nella caserma Ederle, e scopre un'altra realtà: obbedienza assoluta nei confronti dei superiori, disprezzo per la vita degli altri popoli, esaltazione della guerra e della morte ("marciavamo e ci facevano cantare degli inni che proclamavano quanto era bello uccidere"). "Ho parlato con molti miei commilitoni che mi raccontavano delle uccisioni di donne e bambini afghani e iracheni - prosegue -, ho visto le manifestazioni dei movimenti pacifisti che venivano a Vicenza per protestare contro la nuova base e miei dubbi sono diventati certezza: il nostro compito non era quello di liberare i popoli oppressi, ma eravamo noi stessi fonte di quell'oppressione". E così, nell'aprile del 2007, Russel abbandona la caserma Ederle e diserta. Ora, al termine di un complesso iter, ha evitato il carcere ma risulta congedato con disonore. Come anche James Circello, pure lui disertore della Ederle: "Sembravo un ingenuo di 23 anni quando mi sono arruolato - scrive Circello in una lettera aperta ai cittadini di Vicenza -, ma mi sono ben presto reso conto che qualcosa non andava negli Usa e nella costante necessità di costringere altri popoli a piegarsi al nostro volere e alle nostre esigenze". Il petrolio "è il motivo per cui gli americani continuano ad occupare le terre dei poveri del Medio Oriente, instaurando governi fantoccio e emanando Costituzioni prefabbricate. Gli Usa non sono il Paese per cui voglio dare la mia vita. I pochi al potere si arricchiscono sulle spalle di tanti. E quei tanti sono i poveri". Altri tre disertori, invece, che hanno gestito male le procedure post-diserzione, sono attualmente sotto processo, come Criss Capps, che racconta la sua storia in una intervista video realizzata e distribuita dal mensile "Mosaico di Pace". Ma sono migliaia, dice Circello, "i soldati statunitensi che si stanno rifiutando di combattere" o che "si allontanano senza permesso" fuggendo all'estero, in Canada e in Europa, sostenuti dalle associazioni Usa (Veterani per la pace, Military Familiary Speak Qut e i neonati Veterani contro la guerra in Iraq) o europee, come la tedesca Mcn (Military Counseling Network) che ha messo in piedi un servizio di assistenza per i disertori. E ci si sta iniziando ad organizzare anche in Italia: il Comitato Vicenza est - aderente al movimento No Dal Molin - settimanalmente promuove volantinaggi di fronte alla caserma Ederle e sta cercando di far par partire un vero e proprio centro di consulenza per informare e aiutare coloro che vogliono disertare.

OPPOSIZIONE ALLA GUERRA E NONVIOLENZA: "DOPO LA DELUSIONE DI PRODI SERVE UN RILANCIO"

da Adista
di Luca Kocci

"L'esperienza di governo ha prodotto magri risultati - ammette il ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero -: l'aumento dei fondi per il servizio civile volontario da 200 a 300 milioni di euro, significativo ma sempre inferiore alle reali esigenze; la costituzione, sebbene piuttosto farraginosa, del Comitato per la difesa civile nonviolenta presso il ministero della Solidarietà, che dovrebbe resistere alla caduta del governo Prodi; la creazione di un tavolo permanente presso il ministero degli Esteri per il servizio civile internazionale, che però molto probabilmente decadrà insieme al governo". Fra i risultati particolarmente negativi, Ferrero annovera il forte aumento delle spese militari (v. Adista nn. 83/06,2 e 77 /07), spiegato con la stretta interconnessione fra produzione militare e civile: la presenza e la produzione militare serve purtroppo - dice il ministro - a rilanciare anche la produzione civile, soprattutto nelle relazioni commerciali con alcuni Paesi. "Usciamo quindi sconfitti dall'esperienza di governo - aggiunge Ferrero -. Pensavamo di poter incidere in maniera significativa sul governo, ma questo non è stato possibile. Temo quindi, anche per il futuro, che non ci siano più le condizioni per governare insieme alla sinistra moderata, pesantemente condizionata da un blocco di potere che orienta molte scelte, comprese quelle del complesso militare-industriale".

Un argomento ripreso da p. Alex Zanotelli, secondo il quale "oggi la politica è incapace di governare perché deve obbedire ai potentati economico-finanziari. Non bisogna quindi illuderci che quando andiamo a votare eleggiamo dei rappresentanti in grado di prendere delle decisioni", conclude Zanotelli, che vede l'unica soluzione nei movimenti della società civile che si autorganizzano dal basso e fanno pressioni per ottenere qualcosa dall'alto e che rilancia l'appello "La politica che vogliamo", sottoscritto da numerose personalità dell'associazionismo (v. Adista n. 18/08). Una proposta che però non convince Raniero La Valle, secondo cui quello che è mancato a sinistra e che ha determinato la crisi di governo non è stato tanto Mastella quanto "una proposta politica che potesse assumere e superare le ragioni e le posizioni degli avversari". Non è sufficiente dire "obiettiamo al sistema" - come fa Zanotelli - ma è necessario "porre la questione in termini politici e di progettazione politica". Altrimenti, prosegue La Valle, il rischio è quello che paventa Ferrero o che suggerisce il comboniano: rimanere sempre all'opposizione. "Forse risolveremo il nostro problema, tranquillizzeremo la nostra coscienza, ma non affronteremo mai i problemi del mondo. E il nostro obiettivo - conclude - deve invece essere il mondo".

Proprio in un'ottica di progettualità politica, sono emerse dalla tre giorni di Bolzano una serie di proposte per rilanciare l'obiezione al sistema militare e la difesa popolare nonviolenta. A partire dalla riproposizione dell'obiezione di coscienza all'interno delle Forze Armate professioniste, che al momento non è prevista dalla normativa vigente, nemmeno in forme sfumate, come precisa Diego Cipriani, per anni responsabile degli obiettori della Caritas Italiana e da poco - nominato da Ferrero - direttore dell'Ufficio nazionale per il servizio civile. A tal proposito Lidia Menapace, senatrice di Rifondazione comunista, segnala la proposta presentata al Senato da Silvana Pisa (Sd) e Fosco Giannini (Rc) e ora ripresa dalla Cgil che sta raccogliendo le firme per trasformarla in legge di iniziativa popolare - di portare il sindacato nelle Forze armate. "Un sindacato vero - spiega - non come i Cocer, guidati dagli ufficiali, che si configurano quindi come un vero e proprio 'sindacato giallo' stile Fiat anni '50 e '60". La sindacalizzazione delle Forze armate, aggiunge, potrebbe essere "un grimaldello per inserire elementi di antimilitarismo nella struttura militare" e "rompere il meccanismo assoluto del signorsì". Puntare invece sui "corpi civili di pace" (cioè l'interposizione nonviolenta in zone di conflitto praticata dai civili con i "caschi bianchi") "perché abbiano un riconoscimento politico-istituzionale" è l'obiettivo suggerito da Mao Valpiana, direttore del mensile Azione Nonviolenta. "I caschi bianchi - spiega - fanno emergere l'idea del superamento dello strumento militare dal momento che contengono in sé le istanze di difesa e di sicurezza - parole di cui dovremmo riappropriarci per non lasciarle del tutto in mano alla destra - ma anche dell'antimilitarismo", che rimane sempre e comunque "la radice ideale di tutto il movimento per l'obiezione di coscienza".

Una proposta di riforma viene lanciata anche alla Chiesa cattolica, che ha avuto - dice La Valle - grandi responsabilità "nell'affermazione del principio di autorità e dell'obbedienza dovuta alla stessa autorità" sia civile che religiosa, mentre - ricorda Zanotelli - "fra i cristiani dei primi secoli il battesimo era addirittura inconciliabile con il militare": la rinuncia ai cappellani militari graduati e pagati dallo Stato. "Non si vuole negare l'assistenza spirituale ai soldati - dice don Luigi Ciotti - ma va detto con chiarezza che quelle stellette sono antievangeliche, e quindi non devono appartenere alla Chiesa".

Stop alla «rivoluzione bolivariana»: Chávez accusa il colpo

di Alessandro Armato
da Mondo e Missione – gennaio 2008

«Non ci siamo riusciti, per ora». Ha ammesso la sconfitta il presidente venezuelano Hugo Chávez, all'indomani del referendum che doveva trasformare il Venezuela in una repubblica socialista. Anche se per stretto margine (poco più del 50 per cento), il 2 dicembre la maggioranza dei venezuelani ha detto no alla proposta di riforma di 69 dei 350 articoli della Costituzione del 1999. Per il momento, quindi, niente rielezione indefinita del presidente, niente ridefinizione della proprietà privata, niente divieto di privatizzare le aziende statali, niente riforma della Banca centrale, niente riduzione della giornata lavorativa da otto a sei ore, niente copertura sociale per i lavoratori informali, niente ratifica della «solidarietà tra i popoli nella loro lotta per l'emancipazione», niente promozione della «Confederazione e Unione dell' America Latina e del Caribe», eccetera.

La rivoluzione bolivariana subisce una battuta d'arresto. È la prima volta in nove anni che il governo viene sconfitto. Ciò però non significa che Chavez getterà la spugna. TI presidente ammette di avere perso, ma solo «per ora».

Tempo e potere per ribaltare il risultato non gli mancano, visto che rimarrà in carica fino al 2012, gode di un parlamento al 100 per cento in camicia rossa, dispone di una ley ha

bilitante che gli concede poteri speciali e può contare su un prezzo del petrolio alle stelle. Un primo passo per capitalizzare la sconfitta Chávez lo ha già fatto, accettandola serenamente, mostrandosi il più democratico possibile agli occhi di un' opinione pubblica che iniziava a guardarlo con sospetto.

E l'opposizione, comunque, ad uscire rafforzata. Un'opposizione che ha trovato nel movimento studentesco nuova linfa vitale. Cresciuto all'ombra delle istituzioni educative più prestigiose, tradizionalmente frequentate dalle classi sociali medio-alte («riccaccioni» e «figli di papà», nel colorito linguaggio di Chávez), gli studenti antichavisti si sono imposti all'attenzione pubblica quando sono scesi in piazza per protestare contro il mancato rinnovo della concessione al canale televisivo Rctv. Uno dei suoi leader è Yon Goicoechea, studente di diritto all'Universidad Catolica Andrés Bello, ateneo gesuita.

La Chiesa ha pesato nella sconfitta del «sì». Le alte gerarchie – che Chávez ha minacciato di incarcerare, definendole «il demonio» - sono state sostanzialmente compatte nel rifiutare la proposta di riforma costituzionale. Ma anche settori della Chiesa tradizionalmente non del tutto osti li al chavismo, come i gesuiti del Centro Gumilla e della rivista Sic, sono stati molto critici. Solo una base di «preti chavisti» l'ha sostenuta apertamente e acriticamente.

Adesso si intravedono due possibili scenari: l'inizio di un processo di dialogo e riconciliazione, che potrebbe sfociare in una collaborazione tra chavisti e oppositori nella trasformazione del Paese; oppure un radicaIizzarsi delle posizioni. Chávez potrebbe tentare di imporre ugualmente molte delle riforme costituzionali, utilizzando i poteri speciali che gli concede la ley habilitante. E non è escluso che l'opposizione, rinvigorita dal referendum, possa premere perché Chávez abbandoni il potere prima del tempo.

Il risultato del referendum apre nuovi scenari anche sul piano politico continentale. In particolare sorgono una serie di interrogativi sul futuro dei processi costituenti in corso in Bolivia ed Ecuador, due Paesi allineati politicamente con Chávez.

Negli ultimi vent'anni - sia detto di passaggio - convocare assemblee costituenti è diventata una moda in America Latina. Nel 1984 è accaduto in Nicaragua, dopo la vittoria elettorale dei sandinisti; nel 1991 in Colombia, per suggellare la pace con la guerriglia dell'M19, nel 1992 in Perù, con Fujimori; nel 1994 in Argentina, con Menem; nel 1997 in Ecuador, dopo la rinuncia di Abdahi Bucaran; nel 1999 in Venezuela, in seguito all'arrivo al potere di Hugo Chávez. I casi della Bolivia, nel 2006, dopo l'arrivo al potere di Evo Morales, e nel 2007 dell'Ecuador, dopo l'elezione di Rafael Correa, sono soltanto gli ultimi di una lunga lista.

In Ecuador, Alianza Pais, il movimento politico del presidente Correa, ha la maggioranza assoluta nell' Assemblea costituente e può cambiare radicalmente il modo di governare il Paese. I lavori della nuova Assemblea sono iniziati lo scorso 29 novembre nella città di Montecristi. I deputati hanno 180 giorni di tempo, con una proroga massima di 60, per redigere una bozza di Costituzione che dovrà poi essere sottoposta a referendum nel 2008 (cfr.M.M., dicembre 2005, pp. 70-73; M.M., agosto-settembre 2007, pp. 65-67).

Come annunciato, dato che Alianza Pais non ha rappresentanti in parlamento, la prima mossa dell' Assemblea costituente è stata quella di sospendere l'attività del parlamento unicamerale, definito «corrotto e incompetente», le cui funzioni sono state assunte dall'Assemblea stessa. Il passo successivo dovrebbe essere aumentare il controllo dello Stato sull'economia. Correa concepisce le sue proposte come un modo per restituire potere al popolo - quella che lui chiama revolución ciudadana -, mentre l'opposizione vede in tutto questo un disegno del presidente per concentrare ulteriore potere nelle sue mani.

Più complicata e drammatica, invece, appare la situazione boliviana. Il presidente Morales voleva un'Assemblea costituente che «rifondasse» il Paese. Ma l'anelito al cambiamento, duramente contrastato da un'opposizione razzista e separatista, ha portato la Bolivia sull'orlo di una guerra civile.

L'Assemblea costituente boliviana, dopo mesi di paralisi dovuta alla disputa tra Sucre e La Paz su quale città dovesse essere la capitale, lo scorso 24 novembre ha approvato «in grande» - solo con la lettura dell' indice - la nuova Carta magna, in una sessione in cui l'opposizione non si è presentata. I membri della Costituente hanno lavorato asserragliati dentro il liceo militare di Sucre, mentre fuori echeggiavano vibranti proteste che hanno causato quattro morti e centinaia di feriti.

L'opposizione ritiene il testo illegale e ha iniziato la «resistenza civile». «Un' Assemblea costituente in una caserma e senza la presenza dell'opposizione non sarà mai accettata dal popolo», ha avvertito Branco Marinkovic, presidente del Comitato civico di Santa Cruz, la capitale dell'opposizione. Restano comunque da approvare i singoli articoli della nuova Costituzione, che contempla una riforma della terra e la nazionalizzazione delle risorse naturali. Perché il testo venga approvato, servono i due terzi dell'Assemblea costituente. MoraIes non li ha ed è obbligato cercare accordi con l'opposizione. Ma cosa accadrà se l'opposizione si rifiuta di dialogare?