Mondo Oggi

Luca Marcucci

Luca Marcucci

IL MIGRANTE CHE SI TRASFORMA, DIETRO DI SÉ LASCIA TANTI PROBLEMI

di Egidiu Condac
direttore Caritas Romania
Italia Caritas / Marzo 2008





L’economia del paese ancora non abbastanza sviluppata, la possibilità della libera circolazione delle persone nell’unione europea, la recente adesione all’Ue: sono questi i fattori che hanno generato l’alto livello di migrazione dalla Romania verso i paesi più sviluppati d’Europa. Il fenomeno è molto più ampio a partire dalle zone “povere”: attualmente, il nord-est del paese rappresenta la regione con il minore livello di sviluppo, soprattutto a causa del basso livello di urbanizzazione. Non a caso, è anche l’area da cui muovono le ondate migratorie più ingenti.

Una caratteristica dell’emigrante rumeno, molto più di qualunque altro emigrante, è quella di “rifarsi” la biografia: all’estero egli si “trasforma, perché si sente imbarazzato dalla sua origine, dal paese di provenienza, dal comportamenti dei concittadini; di conseguenza tende a “nascondersi”. Questo però ha come conseguenza che molti emigranti rumeni, prima persone rispettabili, serie, magari caratterizzate anche da una fede religiosa, finiscono per diventare prostitute, ladri, mendicanti, trafficanti di persone, in ogni caso delinquenti. Ma è nel paese d’origine che si scontano molti effetti sociali problematici. Anzitutto, l’età media delle comunità invecchia e la forza di lavoro viene decimata dall’emigrazione: il disavanzo è reale e si sente sempre di più. Gli emigranti, con l’andar del tempo, trovano posti di lavoro migliori e ricevono stipendi mediamente elevati per gli standard rumeni (anche oltre 1.500 euro nei paesi Ue), dunque fanno piani per stabilirsi per sempre nel paese di destinazione insieme alle famiglie: la tendenza allo spopolamento ne risulta accentuata.

Gli effetti negativi si osservano anche sul tessuto della famiglia, pure gratificata, in molti casi, dagli intuibili benefici economici: l’emigrazione determina la crescita del numero di divorzi, contribuisce a far abbassare il tasso di natalità, incoraggia rapporti di coppia meno stabili (si riduce il numero dei matrimoni e si innalza l’età media in cui ci si sposa). Inoltre, molto pesanti si rivelano le prolungate assenze di uno dei due genitori (più frequentemente il padre), anche se a recarsi all’estero sono talvolta entrambi: la qualità della comunicazione e del rapporto affettivo con il genitore assente ne può risentire, soprattutto quando ad allontanarsi è il padre e quando l’assenza si fa prolungata. Del resto, quando a partire è la madre, l’affidamento dei figli al padre o ai nonni suscita problemi nelle relazioni tra chi rimane. In ogni caso, la situazione generale può indurre nei ragazzi una forma di disinteresse per la scuola e per il lavoro in genere: ai problemi familiari si aggiunge infatti il falso mito circa il fatto che il lavoro all’estero, a cui pensano sin da bambini, sia una strada facile, che permette di guadagnare un sacco di soldi. Infine, non bisogna sottovalutare gli effetti spirituali: molti tra coloro che partono si allontanano dalla Chiesa, dai sacramenti, da Dio.

Rientri alcolici, partenze temporanee

Anche i ritorni spesso sono problematici: un grave problema è rappresentato dalle persone che, in seguito a un insuccesso sul piano sociale e professionale all’estero, tornate nel paese d’origine ricorrono all’alcol o sviluppano comportamenti devianti. Anche la differenza tra gli stipendi ricevuti nel paese d’origine e all’estero e lo statuto di “benestante”, avuto e poi perso, possono determinare un disagio psico-sociale foriero di gravi conflitti interni. Particolare attenzione va inoltre posta, quando si parla di ritorni, a certe categorie: studenti laureati in università straniere, popolazione rom, vittime del traffico di persone, minori senza famiglia, rimpatriati dalle autorità straniere.

Una tensione può insorgere anche sul piano dei valori e dei rapporti comunitari: l’affermazione, il successo, i soldi e la conseguente capacità di spesa possono non essere accettati dalla comunità d’origine, ciò che conduce a forme di disadattamento di chi ritorna. In molti casi, però, si registrano anche effetti positivi: un maggior benessere complessivo delle comunità d’origine per effetto delle rimesse dei migranti e l’avvio di imprese produttive e commerciali (piccoli negozi, specialmente in ambiente rurale, ma anche attività nei settori del trasporto, del commercio e dell’agricoltura) possono alimentare uno sviluppo comunitario.

La riflessione su dinamiche ed effetti del fenomeno deve tenere conto anche dei mutamenti (a partire dal 1991, dopo la caduta del regime comunista) dei meccanismi di migrazione dei romeni. Anzitutto, si sta consolidando il passaggio da un’emigrazione permanente a una prevalentemente temporanea. Inoltre, si sono sviluppate forme nuove di migrazione:

la Romania è diventata addirittura paese di transito per i migranti (spesso illegali) provenienti da paesi terzi, che ambiscono a raggiungere lo spazio Ue.

Sul versante legislativo, le norme adottate in Romania sono di carattere prevalentemente reattivo, per raggiungere la conformità alle richieste europee, più che tese a definire una politica migratoria con obiettivi ben definiti.

Un lavoro importante da compiere, infine, ha per destinatario l’opinione pubblica rumena: su questo versante, non si può affermare che i mass media abbiano portato un valido contributo a una presentazione e a una comprensione fedele del fenomeno nella sua complessità. Si presta un’attenzione speciale agli aspetti negativi e sensazionalistici, meno all’orientamento dei migranti, pur in presenza di uno scenario segnato da molteplici incertezze e componenti di rischio (clandestinità, corruzione nella gestione dei documenti, azione di soggetti criminali) - Anche in questo campo ci sono molti passi da fare, pur nella consapevolezza che l’attenuazione dei flussi in uscita e il cambiamento della loro natura (si prevede che le partenze saranno sempre più legali e controllabili) aiuterà a stemperare gli elementi più problematici e drammatici che hanno finora contraddistinto il panorama migratorio rumeno.

INVASIONE? È IL MOMENTO DI IMPARARE A CONOSCERSI

di Oliviero Forti e Manuela De Marco
Italia Caritas / Marzo 2008

Primo gennaio 2007: Romania e Bulgaria entrano a far parte dell’Unione Europea Un evento storico - ennesimo passo di un processo di allargamento ormai decisamente proiettato verso est -, ma anche foriero di timori e preoccupazioni. I precedenti stadi dell’allargamento non avevano prodotto, almeno in Italia, effetti così immediati e polemici, tali da ingenerare nell’opinione pubblica sentimenti contrastanti, come quelli a cui si è assistito in seguito all’arrivo di centinaia di migliaia di persone, soprattutto rumeni, nel nostro paese.

Che ne è, un anno dopo l’apertura delle frontiere (ma giova ricordare che gli arrivi di massa si erano consolidati negli anni precedenti, come ha ribadito di recente un rapporto di Ecas, centro studi di Bruxelles), delle ansie diffuse di quanti paventavano un “pericolo invasione”’ riferendolo in particolare ai rom, minoranza cospicua (ed emarginata) in Romania? La questione, soprattutto su quest’ultimo versante, presenta aspetti complessi, che Caritas (promotrice nelle diocesi di molte iniziative di accoglienza nei confronti dei rom e protagonista di un confronto istituzionale sia in sede governativa, sia con gli enti locali) non ha mai sottaciuto. Al contempo, va ricordato che l’applicazione delle leggi e la sicurezza sono valori condivisi anche dalla maggior parte degli immigrati. E non meno rilevante è la questione relativa alla tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale e lavorativo, che ha nella Romania uno tra i principali paesi di partenza e transito delle vittime. D’altro canto, anche considerati questi problemi, Caritas Italiana aveva affermato, in un documento all’indomani dell’allargamento, che la “aumentata presenza (dei migranti romeni, ndr) costituisce un ulteriore arricchimento della comune casa europea, ma anche un’opportunità per l’Italia (...). Risulta positiva la possibilità di questi lavoratori di circolare liberamente e di continuare a inserirsi nel mercato del lavoro come badanti, colf, operai edili, metalmeccanici e stagionali, senza essere più soggetti alla complicata procedura del decreto flussi e dello sportello unico”.

Quanti sono davvero?

Nei fatti, è stato evidente, negli ultimi dodici mesi, l’intensificarsi dei flussi dalla Romania verso l’Italia, anche se una quantificazione risulta impossibile. In passato, almeno per i regolari, si poteva conoscere il numero di permessi di soggiorno. Oggi, venendo meno quest’obbligo, non si è in grado di sapere quanti si trovano sul territorio nazionale. Anche i dati anagrafici, basati sul numero dei residenti, non sono esaustivi, poiché non tutti effettuano la prescritta registrazione, né richiedono, come prevede la legge, un permesso comunitario per soggiornanti di lungo periodo. Inoltre la consapevolezza di non poter essere espulsi, poiché una direttiva europea esclude categoricamente l’espulsione di un cittadino dell’Unione che si rende responsabile di un’irregolarità amministrativa, ha contribuito al processo di insediamento e permanenza non dichiarati. L’esito è una presenza rilevante di persone e lavoratori che appare contraddittoria: sappiamo che si tratta di concittadini europei, ma al contempo non li percepiamo come tali, tanto che molti ritengono che dovrebbero continuare a essere assoggettati alle regole che disciplinano ingresso e soggiorno in Italia degli extracomunitari.

L’impressione generalizzata è che alla rapidità con cui si è addivenuti all’inclusione della Romania nell’unione europea non sia corrisposta un’efficace capacità di governare le conseguenze del processo. Il quadro, purtroppo, è stato aggravato da una serie di eventi di cronaca (culminati nell’omicidio di Giovanna Reggiani a Roma, nello scorso autunno), la cui eco mediatica ha rafforzato un diffuso senso di insicurezza, tanto da indurre il governo Prodi a disporre misure restrittive nei confronti dei cittadini europei, emanando un decreto d’urgenza con il quale si è disposta la possibilità, da parte dei prefetti, di espellere chi si rende responsabile di gravi atti contro l’ordine pubblico.

La consapevolezza dei limiti del provvedimento non deve far trascurare il fatto che il paese chiedeva e chiede segnali in questo senso. I motivi sono molteplici, certamente riconducibili a un’incapacità, da parte delle istituzioni, di accompagnare in maniera adeguata; sotto il profilo culturale, ancor prima che normativo, le conseguenze migratorie del processo di allargamento. Ogni afflusso massiccio da altri paesi è stato vissuto in Italia, nel recente passato, come un’inaccettabile invasione e questa volta non costituisce un’attenuante il fatto che ad arrivare siano cittadini comunitari. Per molti italiani si tratta semplicemente di stranieri che, spinti dal bisogno, si rendono responsabili di fatti criminosi. La stragrande maggioranza della popolazione italiana fatica a considerare i rumeni (e soprattutto i rom) alla stregua di francesi, inglesi o anche polacchi: a costruire questa percezione contribuiscono le distorsioni mediatiche e le strumentalizzazioni politiche, ma ciò accade anche perché, nei fatti, si tratta di un’immigrazione diversa, che necessita di tutte le attenzioni che andrebbero riservate ai flussi provenienti da paesi emergenti.

Inefficacia delle politiche

Questa constatazione, però, non deve spingere ad atteggiamenti di chiusura o, peggio, a compiere passi indietro rispetto a un processo di integrazione comunitaria necessario e ormai avviato. Tale fenomeno va agevolato nei modi e nei tempi più opportuni, anzitutto attraverso una maggiore conoscenza da parte di chi è chiamato a lavorare con questi migranti. Il convegno dell’8 febbraio, organizzato dall’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, in collaborazione con Caritas Italiana e Migrantes, ha costituito un primo passo nella direzione di un cammino di conoscenza reciproca e di documentato confronto. Oltre a delineare un quadro sulle caratteristiche dell’immigrazione romena in Italia, ha approfondito il punto di vista degli stessi immigrati e illustrato, attraverso l’intervento di un rappresentante di Caritas Romania, i problemi che la sostenuta emigrazione sta comportando per lo stesso paese neocomunitario. Nel convegno è stato trattato anche l’emblematico caso spagnolo, che presenta diverse analogie con quello italiano, riguardo sia all’integrazione dei migranti che alla questione rom, riacutizzatasi, nella percezione dell’opinione pubblica, con l’inizio della libera circolazione.

Proprio su questo punto si dovranno compiere ancora molti progressi: le relazioni hanno sottolineato l’inefficacia degli interventi sinora adottati dalle istituzioni nei confronti delle popolazioni rom, i cui membri (tanti, peraltro, di nazionalità italiana, benché molti siano ormai i rumeni), sono spesso privati dei più elementari diritti legati alla tutela della persona fisica e della dignità umana. Le esigenze di sicurezza che l’opinione pubblica manifesta dovranno conciliarsi, in proposito, con misure, altrettanto legittime e necessarie, di accompagnamento e integrazione sociale: non è escludendo, che l’Europa può consolidare la sua identità, la sua sicurezza e il suo benessere.

RAPPORTO UNICEF. LOTTA ALLA MORTALITÀ INFANTILE
OBIETTIVO LONTANO

di Carlo Stella

Nigrizia marzo2008

Il Rapporto Unicef 2008 sulla condizione dell’infanzia nel mondo, presentato a gennaio, focalizza l’attenzione sulla mortalità infantile. Il tasso che la esprime (numero di bambini morti entro il 5° anno su 1.000 nati vivi) è un indicatore sia della salute dei bimbi sia della politica di un paese. Una delle ragioni per riproporre questo tasso di mortalità al centro dell’analisi è rappresentata dal fatto che uno degli Obiettivi di sviluppo del Millennio ha l’ambizione di ridurlo dei 2/3 entro il 2015. Ma il traguardo appare lontano.

La sfida è enorme. Ogni giorno muoiono, per cause facilmente evitabili, 26mila bambini sotto i 5 anni (oltre un terzo entro il primo mese di vita). La quasi totalità vive in paesi del sud del mondo. Ciò significa che 9,7 milioni di bambini sono morti nel 2006, prima di raggiungere i 5 anni. Una situazione drammatica, appena attenuata dal fatto che, per la prima volta, nonostante la crescita demografica, il numero di bambini morti entro quell’età è sceso al di sotto dei 10 milioni (20 milioni nel 1960). Dal 1990 in poi il tasso di mortalità infantile è costantemente diminuito e oggi è del 72‰ (quasi un quarto rispetto al 1990).

Per raggiungere l’obiettivo, nei prossimi sette anni si dovrà ridurre della metà il numero dei decessi infantili, riportandoli a 13mila al giorno, o a 5 milioni l’anno. Al ritmo attuale, però, l’obiettivo non sarà raggiunto. La preoccupazione maggiore viene dall’Africa, in particolare da quella subsahariana, dove vive solo il 22% della popolazione mondiale ma muore la metà (4,8 milioni) dei bambini indicati nel rapporto, con il tasso di mortalità infantile più alto: 160‰  (186‰  nell’Africa occidentale e centrale). Il primato spetta alla Sierra Leone, con il più alto tasso al mondo: 270‰, cioè oltre un quarto dei bambini al disotto dei 5 anni.

L’Africa è anche la regione dove si sono registrati i progressi più lenti dal 1990 in poi. In alcuni paesi si è assistito addirittura a un aumento della mortalità infantile.

Su 46 paesi della regione, solo Capo Verde, Seicelle ed Eritrea sono sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo, mentre per 16 la situazione rimane molto critica.

Tra le cause dirette, il primo posto va alla polmonite (il “killer dimenticato”); seguono le malattie diarroiche e le gravi infezioni neonatali. L’aids incide solo per il 3% dei bambini morti, ma è l’Africa subsahariana che concentra il 90% delle infezioni pediatriche dovute all’epidemia. Le cause dirette sono spesso correlate tra loro e ad altri fattori. Si stima che la malnutrizione contribuisca alla metà dei decessi, Con una revisione radicale della propria politica, da alcuni anni l’Unicef propone pacchetti mirati di interventi tra loro coordinati. Laddove i governi hanno accettato tale politica, i successi sono stati più ampi.

LINK

Il Rapporto Unicef 2008 è scaricabile integralmente dal sito:

http://www.Unicef.it/flex/cm/pages/serveBLOB.php/L/IT/DPagina/4113

Per ascoltare l’intervista a Donata Lodi di Unicef Italia su Nigrizia Multimedia:

http://www.nimedia.it/argomentof.asp?idf= 105

Il video della visita in Sierra Leone dell’ambasciatore Unicef, David Beckham, campione della nazionale inglese di calcio (gennaio 2008):

http://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/DPagina4133
Lunedì, 23 Giugno 2008 23:12

COMUNICO, QUINDI MOBILITO

COMUNICO, QUINDI MOBILITO

Claudia Padovani

Docente di Comunicazione Internazionale
Università di Padova

Nigrizia – Marzo 2008

«Con la ricchezza della nostra pluralità e diversità (….), consapevoli della necessità di rafforzare la solidarietà e la convergenza fra le lotte e le campagne (...), ci impegniamo in una settimana di azione che culminerà, il 26gennaio 2008, in una Giornata globale di mobilitazione». Questo appello di decine di reti internazionali al Forum sociale mondiale (FSM di Nairobi 1 gennaio 2007). Su Nigrizia (marzo 2007) avevamo anticipato le sfide che l’edizione di quest’anno avrebbe dovuto affrontare: sviluppare una visione in cui informazione e comunicazione fossero percepite come spazi di azione partecipativa; adottare un piano di comunicazione capace di dare visibilità globale alla creatività locale. Ed eccola qui, l’edizione del Fsm 2008: decentralizzata, diffusa, quasi sfuggente e, al tempo stessa, connessa, concreta e transnazionale. Grazie (anche) alla comunicazione. Per la prima volta dal 2001, si è scelto d’investire in maniera esplicita nelle attività di comunicazione e di farla, sperimentando un diverso approccio e sfruttando le potenzialità offerte dalle tecnologie.

Da un lato, si è cercato il dialago con i media tradizionali: qui si è riproposta la difficoltà, da parte dei grandi network, di raccontare ciò che non è un evento, ma un processo. Notevoli le difficoltà in Italia; significativo, invece, la spazio che i media hanno dedicata al Forum in Messico, Brasile e Venezuela. Bene anche che video prodotti dal Forum e trasmessi da Eurovisione siano stati raccolti dalle reti pubbliche di Danimarca, Spagna, Croazia, Norvegia, Turchia...

Dall’altra lato, si è organizzata un’ampia copertura mediatica alternativa, basata sull’idea che la comunicazione possa essere anche spazio d’azione. E così, grazie al contributo di circa 115mila euro, fornito da Oxfam-Novib (Olanda), e all’impegno di decine di professionisti dell’informazione indipendente (numerosi italiani: fra loro, Jasan Nardi, Francesca Diasia, Monica Di Sisto, Antonio Pacor), si sono costituite diverse “squadre”, ciascuna con il compito di produrre materiali per stampa, radio, televisione e web.

Date un occhio al sito ufficiale www.wfs2008.net, per capire come stia prendendo forma uno concezione nuova di fare comunicazione. Ciascun evento è caratterizzato da parole chiave, che riflettono le molteplici direttrici del movimento; ed è seguendo questi filoni tematici (Itag) che si possono scoprire eventi dedicati ai diritti umani, ai migranti, alla cultura, all’economia solidale, alle questioni ambientali. Per avere un’idea complessiva, http://www.wsf2008.net/ view/colendar/2008/01.

Ma per “entrare nel vivo” del Forum, vanno esplorati i video che raccontano gli eventi di Ramallah, Barcellona, Città del Messico e Korea (www.wsftv.net) o le parole dei protagonisti attraversa i file audio e la staffetta radiofonica realizzata da Amisnet e diverse radio indipendenti, grazie alla quale le voci del Forum hanno rimbalzato attorno al pianeta, per essere ritrasmesse in molti luoghi e in molte lingue, via etere, Internet e satellite (http://www.wsf 2008. net/it/node/3492). Altri documenti interessanti sui siti della Ciranda www.ciranda.net), di Terraviva (http://ipsterraviva.net/tv/wsf2008) e di Amarc (www.arnarc.org).

Come dare una valutazione del Forum dal punto di vista della comunicazione? Certo, non solo rimanendo dentro la logica dei media mainstream, che concentrano la loro attenzione su grandi assembramenti di persone, personaggi e azioni eclatanti. Forse dobbiamo iniziare a modificare i nostri criteri di giudizio, riconoscendo che, dove ci sono volontà politica e capacità di lavorare insieme, l’Informazione si può trasformare in Comunicazione. Ad esempio, grazie a quelle tecnologie che hanno consentito la connessione diretta, a basso costo e in tempo reale, fra alcune delle città in cui si sono svolte le 22 conferenze stampa di presentazione del Forum, il 22 gennaio, quando il messaggio comune sì è fuso con i linguaggi e i simboli locali, da Roma ad Atlanta, da Barcellona a Città del Messico, da Mumbay od Erbil, in lraq. Ma anche riconoscendo che, in questa trasformazione, la comunicazione diventa parte integrante dello mobilitazione: le persone coinvolte nella copertura mediatico hanno usato le tecnologie d’informazione per organizzarsi su scala mondiale (mailing list e conferenze telematiche su Skype); hanno contribuito a comporre il mosaico di voci, immagini e messaggi del Forum, rendendo accessibili non sala file, ma sentimenti e significati; si sono mobilitate per rendere accessibile anche a noi, globalmente, la creatività locale.

Mentre ora si procede a una raccolta preziosa di materiali, che rimarranno accessibili, liberamente, in un archivio permanente della memoria, si raccolgono anche commenti e suggerimenti attraversa il blog (www.wsf2008.net/blog). Informazione e comunicazione si trasformano da strumento a spazio di azione, da forma del messaggio a sostanza del movimento. Un movimento che non si spegne quando si abbassano i riflettori, ma prosegue la propria costruzione attraverso l’altra comunicazione possibile.

PESA IL VOTO NERO?
Primarie negli USA. Le scelte della comunità afro-americana

di Mariella Moresco
Nigrizia marzo 2008

Nonostante il “Supermartedì” elettorale del 5 febbraio, è una sfida ancora irrisolta quella in casa democratica tra Hillary Clinton e Barack Obama, la “prima donna” e il “primo nero” che potrebbero diventare presidente degli Stati Uniti. Altri candidati di colore, in passato, hanno partecipato alle primarie presidenziali: Dick Gregory nel 1968 Shirley Mita St. Hill Crisholm nel 1972 (prima donna eletta al Congresso), Jesse Jackson (erede di Martin Luther King e delle sue battaglie per i diritti civili) nel 1984 e nel 1988, e Al Sharpton nel 2004. Nessuno, tuttavia, ebbe mai qualche chance di farcela. Al contrario di Obama.

Le primarie presidenziali per la corsa alla Casa Bianca hanno avuto un’enorme copertura mediatica. Anziché tra i due maggiori partiti, il repubblicano e il democratico, la contesa più seguita è stata tra i due candidati democratici. I quali sono immediatamente divenuti candidati-simbolo, grazie a una identificazione razziale e di genere, che ha ben presto ottenuto l’effetto di rompere l’unità della base democratica, a volte in modo lacerante, come nel caso delle elettrici afro-arnericane.

The Joint Center for Political and Economic Studies, a sei settimane dal via delle primarie, pubblicò un sondaggio in cui Hillary Clinton raccoglieva oltre l’80% dei favori degli afro-americani, anche per l’effetto traino del marito, l’ex presidente Bill Clinton, molto popolare tra questo gruppo di elettori. Elettori che non riconoscevano, invece, in Barack Obama un african american, una persona, cioè, che, seppure indirettamente, aveva vissuto la realtà della segregazione e la grande stagione delle lotte per i diritti civili. Per di più, il consenso che aveva riscosso presso molti elettori bianchi aveva aumentato, inizialmente, la diffidenza dei neri verso Obama, che vedevano in lui «un nero dai modi di un bianco», ben educato e istruito nelle migliori scuole del paese. Comunque, la ripetuta enfasi su un candidato multirazziale (il senatore dell’Illinois è africano da parte di padre, bianco con sangue indiano da parte di madre) dimostra come non sia affatto vero che gli Stati Uniti sono una società che ha superato i traumi del razzismo. Il fatto che ai più alti livelli dell’amministrazione statale sono state cooptate persone come Colin Powell o Condoleeza Rice non significa che la popolazione di colore abbia un’effettiva uguaglianza di opportunità. Occorrerà ancora molto tempo prima che gli effetti del razzismo e della segregazione possano venire superati, dato che le condizioni economiche determinate da quella stessa situazione riproducono mentalità e atteggiamenti che tendono a perpetuarle e a mantenere, di fatto, un divario quasi incolmabile, non solo tra bianchi e neri, ma anche tra afro-americani e nuovi immigrati latini, caraibici e africani.

È noto come negli Usa le minoranze ammontino a circa 100 milioni di persone: 43 di ispanici, 40 di neri e 14,5 di asiatici. Ma il fatto nuovo è che il 22% dell’intera popolazione ha un parente stretto coniugato con una persona di etnia diversa. E nei prossimi decenni il 37% sarà di sangue misto.

Spesso si ricorre alla definizione “elettorato nero” per designare un gruppo di elettori che si presume condivida valori, aspettative, condizioni di vita e che, di conseguenza, esprima anche un voto tendenzialmente univoco. Anche se vero in linea di massima, l’assunzione acritica di questo giudizio fa perdere di vista una realtà più frammentata e complessa, fatta di retaggi del passato e di nuove spinte verso l’affermazione economico-sociale della borghesia e della recente immigrazione nera. Così, è fuorviante considerare la popolazione di colore come un corpo compatto, in grado di incidere in modo automatico sul risultato elettorale con la propria rilevanza numerica. Il voto nero è caratterizzato anche da un forte astensionismo e dalla preponderanza del voto femminile, causata dall’alta percentuale di giovani maschi incarcerati, cui viene precluso l’accesso al voto.

MIDDLE CLASS E IMMIGRATI

È negli anni ‘80 che nella vita economica e sociale statunitense emerge una nuova figura; la borghesia nera, costituita da professionisti, intellettuali e artisti, che compete con la classe media bianca nella conquista di vantaggi economici, e che non ha alcuna voglia di confondersi con chi vive nel degrado dei ghetti delle grandi città, divenuti centri di violente proteste, o negli stati rurali del Sud, dove è rimasto complicato affermare i propri diritti civili. Ancora oggi, in questi stati parte della popolazione bianca, gli angry white men (i “bianchi arrabbiati”, come vengono definiti), afferma: «We’re not racists; we just believe in segregation (“non siamo razzisti; solo che crediamo nella segregazione”).

Un recente sondaggio del Pew Research Center, svolto tra settembre-ottobre 2007, ha rilevato un crescente divario di reddito, e del conseguente stile di vita, tra la middle class nera e gli afro-americani più poveri. Un divario che rende impossibile considerarli un gruppo sociale omogeneo. Oltre il 65% degli intervistati ha dichiarato che negli ultimi dieci anni si sono accentuate le differenze nel modo di pensare tra neri poveri e borghesia nera, mentre si sono assottigliate quelle tra neri e bianchi, entrambi accomunati dalla propensione verso le politiche conservatrici, ritenute più adatte alla difesa dei privilegi raggiunti.

Non tutti i neri che vivono negli Usa sono identificati come afro-american o black american, definizione utilizzata dai movimenti per i diritti civili degli anni ‘60, o ancora come african american, cioè africani che vivono in America, nella definizione preferita da Malcon X, l’attivista dei diritti dei neri assassinato a New York nel febbraio 1965. Nell’accezione statunitense, african american sono i neri anglofoni, residenti negli Usa e discendenti dagli schiavi tratti dall’Africa nelle colonie britanniche per venire impiegati, dopo la guerra di indipendenza, soprattutto nelle piantagioni del Sud, dove rimasero privi del diritto di voto e in uno stato di assoluta inferiorità sociale fino a tempi assai recenti. Non rientrano, quindi, in questa definizione i neri di altri paesi (ad esempio, brasiliani, caraibici, africani), né gli africani bianchi residenti negli Usa.

Negli ultimi anni, è aumentato il numero di persone di colore provenienti dall’Africa, dai Caraibi o da altri paesi dell’America Latina e, per distinguerli, è entrato nell’uso il termine new black o new black people, dei quali è ancora poco studiata la rilevanza politica.

Gli immigrati di colore, che hanno contribuito a una crescita del 25% del numero globale di neri americani tra il 1990 ed il 2000, sentono come un ostacolo la comunanza del colore della pelle con un gruppo posto ai più bassi livelli sociali. Preferiscono identificarsi come gruppi distinti, investendo più nella loro specificità nazionale che in quella di razza.

Si sono formate, di conseguenza, molte comunità nere separate da lingua, cultura e origine. Un fatto, questo, che ha un peso notevole specialmente nelle grandi aree metropolitane, dove i gruppi dei new black possono costituire anche il 20% dell’intera popolazione nera, arrivando a occupare cariche amministrative importanti. Un caso è quello di Boston, una delle 10 aree metropolitane con il maggior numero di cittadini neri, dove nel 1999 è stato eletto il primo haitiano nell’organo legislativo del Massachusetts. E se nel 1972 gli amministratori neri negli Usa erano solo 1.469 su un totale di 500mila circa, nel 2000 il numero è salito a 9.040, una cifra ancora pari solo al 2% del totale, ma 6 volte superiore a prima.

Il censimento del 2000 ha evidenziato, poi, che il 60% dei nuovi black people proviene da Haiti e Giamaica e vive sulla costa orientale, concentrandosi nelle aree metropolitane di New York, Miami e Fort Lauderdale. Invece chi proviene dai paesi dell’Africa subsahariana è più disperso, preferendo risiedere nelle città di Washington, New York, Atlanta, Minneapolis e Los Angeles. Anche se soffrono della discriminazione comune a tutti i neri ed esprimono naturali differenze di classe sociale, in genere i caraibici sono più istruiti e vivono meglio degli african american: di questi non condividono il substrato culturale della schiavitù, pur provenendo da paesi la cui storia ne è stata segnata, e come gli altri immigrati vivono gli Stati Uniti come il paese delle opportunità, nonostante una quotidianità che li accomuna ai neri nativi e tende a relegarli ai livelli più bassi della scala sociale. I giamaicani hanno vissuto, quindi, con grande orgoglio la nomina di Colin Powell a segretario di stato americano. La loro “diversa negritudine” è percepita dall’opinione pubblica nord-americana come una caratteristica più positiva rispetto a quella dei nativi: un successo che ha rafforzato nei caraibici la resistenza all’assimilazione con gli afro-americani. Una separazione aumentata anche dall’atteggiamento della popolazione bianca, che guarda ai caraibici come a un gruppo modello, meglio educato, non segnato dalle tensioni razziali e con l’ottimismo degli immigrati recenti, contrapposto agli african american, considerati fomentatori di problemi. Si favoriscono, in tal modo, tensioni e competitività tra gruppi già divisi da rilevanti differenze culturali, che giocano a sfavore dei nativi in termini di possibilità di lavoro e di istruzione.

Forse si può azzardare l’opinione che negli Stati Uniti, sia pure in maniera inconsapevole, è in atto una vera e propria ridefinizione dell’idea stessa di “nero”. Minacciati anche dalla crescita demografica dei new black e dai loro successi nell’occupare posizioni di grande rilevanza e visibilità sociale con un ritorno di prestigio sull’intero gruppo di origine, i leader degli african american diffidano di chi non ha fatto esperienza delle conseguenze, anche culturali, del razzismo e dell’emarginazione. È il caso di Obama, di cui è stata messa in dubbio la lealtà verso la causa dei neri, in quanto uomo che è venuto «dal di fuori della nostra storia».

VOTO E CONTROLLO SOCIALE

A partire dalla fine degli anni ‘60 - da quando si concluse, da un punto di vista legislativo, il lungo cammino dell’abolizione della segregazione, ma con l’avvio di politiche sociali sempre più discriminanti la popolazione più povera - il voto bianco, specie negli stati più conservatori del Sud, si è progressivamente spostato verso il partito repubblicano. È da quegli anni che gli Stati Uniti diventano il paese con il più alto tasso di incarcerazione (quadruplicato a partire dagli anni ‘70): situazione che colpisce in modo spropositato i ceti più poveri e le minoranze etniche, spesso per crimini non violenti, come quelli inerenti lo spaccio di droga. Alcuni studiosi hanno indicato nell’ampliamento eccessivo delle misure di incarcerazione una forma, per quanto degenerata, di controllo delle minoranze, attuato anche attraverso la lotta alla droga e la riduzione dell’assistenza sociale.

È importante ricordare che in molti stati vige il disenfranchisement, ossia la perdita del diritto di voto, per gli ex carcerati, anche se condannati a pene lievi. Ciò comporta la drastica riduzione del voto maschile nero rispetto a quello femminile, diviso, in queste ultime primarie, fra una identificazione razziale e una di genere, che ha impedito l’automatismo del voto nero indirizzato al candidato nero. Secondo un rapporto del Dipartimento di giustizia degli Usa, nel 2003 era incarcerato il 12% dei giovani afro-americani maschi tra i 20 e i 34 anni, contro il 3,6% degli ispanici e l’1,6% dei bianchi non ispanici della stessa fascia di età, raggiungendo la cifra più alta mai registrata fino ad allora. Più recenti ricerche delle università di Columbia, Princeton e Harvard hanno rilevato che fra i giovani afro-americani meno scolarizzati la disoccupazione è in continuo, allarmante aumento, favorendone l’emarginazione e le probabilità di commettere reati. Nonostante il diminuito numero di crimini, la popolazione carceraria nera è in costante crescita, tanto che nel 2004 il 72% dei ventenni afro-americani maschi che non aveva terminato gli studi era disoccupato (contro il 34% dei bianchi e il 19% degli ispanici) e il 20% era in carcere; nello stesso periodo, il 60% dei trentenni neri aveva già avuto un’esperienza carceraria.

Nonostante le sfavorevoli condizioni sociali che incrementano l’astensionismo (come la bassa scolarizzazione) o che addirittura impediscono il diritto di voto (come l’alta percentuale di maschi neri con trascorsi carcerari), l’appoggio, degli afro-americani è fondamentale per assicurare la vittoria del candidato democratico. Un sondaggio del Wall Street Journal, effettuato dopo le elezioni di metà mandato del 2006 per il rinnovo delle Camere, ha evidenziato come il voto bianco si fosse distribuito in modo paritario tra repubblicani (49%) e democratici (48%), rendendo quindi decisivo il voto delle minoranze, in gran parte riservato ai democratici, che nel novembre di quell’anno vinsero in entrambi i rami del parlamento, sostenuti dall’87% dei votanti neri, dal 72% degli ispanici e dal 61% degli asiatici.

È forse il timore di questa forza elettorale, comunque sottorappresentata a livello nazionale nella storia degli Stati Uniti (Obama è solo il quinto senatore nero), a indurre alcuni politici a tentare di limitare la partecipazione al voto dei neri: dalla manipolazione delle liste elettorali fino alla proposta (bloccata poi dalla magistratura e avanzata nel 2005 dal partito repubblicano della Georgia) di reintrodurre

la PoIl Tax, una tassa di venti dollari per l’iscrizione nelle liste elettorali, con la speranza di allontanare dal voto i più poveri, in grande maggioranza neri.

Lunedì, 23 Giugno 2008 23:08

Kenia - TERRA E MISERIA

Kenia - TERRA E MISERIA

di Nicholas Muthoka
MC – Marzo 2008

Quella che stiamo vedendo in Kenya non è una violenza qualsiasi. La causa apparente sono i brogli elettorali, ma questo accade in tanti paesi dopo le elezioni, e non scatenano tali reazioni. I veri problemi non sono politici. Altrimenti le manifestazioni e gli attacchi sarebbero state contro il governo e non gente contro gente, etnia contro etnia.

La ragione non riesce a spiegare come si possa uccidere un contadino, tuo vicino da anni, semplicemente perché il candidato che appartiene alla sua etnia è accusato di avere imbrogliato. Lo stretto collegamento che è stato fatto tra il presidente Kibaki e la tribù kikuyu a cui appartiene, ha fatto si che questo gruppo sia stato preso di mira. E non è la prima volta che in diverse parti del paese si accende una campagna contro di loro.

I problemi veri, rimasti irrisolti fin dall’indipendenza sono: il tribalismo e la questione kikuyu e i legami politici, la terra, la criminalità organizzata legata ad etnie diverse e la povertà. Questi problemi sono interconnessi, vanno esaminati l’uno in relazione con l’altro.

LA QUESTIONE KIKUYU

In Kenya, ci sono più di 50 tribù (etnie) che parlano lingue diverse, le quali si possono suddividere in due ceppi: bantu e nilotico. Le usanze e tradizioni non differiscono molto anche se ogni tribù è ben distinta dalle altre. Questo da una parte arricchisce culturalmente, socialmente ed economicamente il paese, ma la cattiva gestione di queste diversità ha generato, fin dai tempi precoloniali, tensioni e conflitti. Esistono dei pregiudizi tra le tribù, specialmente tra la gente di campagna non abituata a convivere con gli altri. Non si può parlare di odio, ma ci sono altri problemi come, per esempio, la terra. Il tribalismo è dunque una questione che rimane, anche se si parla molto di come superarlo, nella pratica non ci sono stati degli impegni reali.

Tra i pregiudizi che si hanno, ce n’è uno che è molto serio sui kikuyu, il gruppo più numeroso. Fin dall’indipendenza si dice che sono stati favoriti dal primo presidente e che si sono procurati proprietà, posti di lavoro, possibilità di commercio e terra in quasi tutte le parti del paese. Questo pregiudizio si è incarnato in conflitti soprattutto dove sono in gioco terra e commercio. In particolare dove la convivenza è con altre tribù che credono di possedere la terra per motivi ancestrali. Questo non avviene solo per i kikuyu ma anche per altri gruppi, in particolare in zone di confine, Ad esempio il conflitto costante tra samburu e turkana nel Nord del paese, tra pokot e marakwet nella parte occidentale ed altri ancora.

I kikuyu si trovano in molte zone del paese, fuori dalla provincia centrale che è la loro terra di origine. La costituzione concede a tutti la possibilità di potersi stabilire da qualsiasi parte del paese e possedere delle proprietà. Ma questa libertà non è stata ben riconciliata con altri concetti, per esempio, quello di terra ancestrale che è molto forte. Nelle violenze, si mirava soprattutto a loro, e membri di altre etnie (luo, kalenjin, luhyia e samburu) hanno assalito i loro vicini kikuyu che si trovano in zone dove queste tribù formano la maggioranza. E’ anche vero che i politici hanno strumentalizzato questi pregiudizi per i loro interessi, incitando la gente a far violenza, soprattutto dove le convivenze sono difficili.

LA POLITICA

Un altro problema legato al tribalismo è che i partiti politici, pur essendo nazionali, sono organizzati in linee tribali. Se voglio prendere i voti di un’etnia, devo avere nel mio partito un politico autorevole e forte politicamente di quel gruppo. Così, dipendendo da chi «rappresenta» una tribù in un partito politico, i gruppi etnici sono identificati con quel partito. In queste elezioni per esempio, i kikuyu, indipendentemente da chi hanno votato, erano in genere identificati con il partito del presidente (Pnu), e i luo con quello di Raila Odinga (0dm). I kalenjin, che per anni sono stati associati al partito dell’ex presidente Moi (Kanu), questa volta erano abbinati al partito di Raila, e hanno bruciato le case dei kikuyu nella Rift ValIey, che ai loro occhi appartengono al partito di Kibaki. La tribù, identificata con il partito avversario è vista come nemico.

LA TERRA

I vescovi del Kenya, in una lettera sulle violenze, hanno individuato la terra come uno dei problemi che ha giocato un ruolo importante. La maggioranza dei keniani pratica l’agricoltura e la pastorizia, perciò la terra è molto preziosa: da essa dipende la loro sopravvivenza. Inoltre, la terra è ancestrale, cioè è legata all’eredità dagli antenati, Il Kenya è diviso in otto province a loro volta suddivise in distretti. In genere questi sono legati alle etnie, e dove vivono popolazioni di diverse etnie, la convivenza è spesso difficile. Questo perché intere tribù si trovano nello stesso luogo e credono che quella sia la loro terra, ricevuta dagli antenati molti secoli fa. La presenza di altre etnie non è gradita perché è vista come una intrusione, un tentativo di rubare la terra. Sono frequenti anche i conflitti nelle zone di confine tra tribù.

Così molti dei kikuyu che si trovavano in terre «straniere» hanno subito omicidi e le loro case sono state bruciate, in Eldoret, Burnt Forest, in diverse parti della provincia occidentale, nel nord, ecc. Il problema sta nel fatto che la questione della terra non è mai stata affrontata e risolta, pur producendo da molto tempo tensioni tribali. Questo non solo per i kikuyu ma anche tra altre tribù e all’interno delle tribù stesse. Un conto è avere un sistema titoli di proprietà e un altro conciliarlo con il concetto di terra ancestrale, che corre nelle vene dei keniani.

LA POVERTÀ

Nelle città, le violenze più brutte si sono verificate nelle baraccopoli e in altri quartieri poveri, tra la gente disoccupata e spesso non istruita. La chiave qua è la vulnerabilità a essere incitato dai politici e potenti. Papa Paolo VI diceva: «L’altro nome della pace è sviluppo». Se la gente avesse lavoro e una vita dignitosa, non si sarebbe prestata alle incitazioni alla violenza e una soluzione pacifica sarebbe stata trovata presto. C’è poi la criminalità organizzata, come i mungiki e altri gruppi.l mungiki sono associati con i kikuyu. E’ un movimento politico - religioso, che s’ispira alla religione tradizionale e al movimento per la liberazione del Kenya dai colonialisti, chiamato Mau Mau. E’ un gruppo molto conosciuto per le sue attività criminali e per l’efferata violenza.

SOLUZIONI RADICALI

Una soluzione politica è indispensabile adesso per fermare il conflitto, ma non sarà sufficiente, perché i problemi rimangono. La gente è ferita. Né una soluzione solo politica né il tempo guariranno ferite interne e profonde. Ci vogliono iniziative concrete da parte di tutte le istituzioni capaci di affrontare i veri problemi del paese. Il governo deve saper trovare modi di «creare» un paese e non frammenti etnici messi insieme, rispettando le diversità che arricchiscono la società. Senza un impegno per un equo e costante sviluppo nel paese, non si potrà mai avere la vera pace. Questa non si può mantenere con la forza delle armi. Occorrono la riconciliazione e il perdono, affrontando soprattutto il problema della terra.

Le comunità cristiane devono prendere delle iniziative, possono giocare un grande ruolo nel superamento del tribalismo con progetti concreti, con la predicazione dell’amore, la fraternità e unità nella diversità.

Anche il sistema educativo deve essere coinvolto nella promozione dell’unità nel paese con programmi specifici mirati ad affrontare le diversità e a far crescere nei giovani i valori più alti e interessi più globali di quelli della propria etnia. Questo perché le sfide sociali come quelle che sono emerse in questi giorni chiedono tempo ed energie per essere affrontate.

Il fuoco è stato acceso dalla politica, ma è stato alimentato da questi aspetti molto concreti. Sono essi che hanno causato le violenze, nelle grandi città come nei paesi. Le violenze si sono verificate solo dove convivono tante etnie. Sono questi i veri problemi che dovranno essere affrontati seriamente nei prossimi anni con il coinvolgimento di tutti.
Lunedì, 23 Giugno 2008 23:06

PROTOCOLLI, CONVENZIONI, DECRETI…..

PROTOCOLLI, CONVENZIONI, DECRETI…..

MC Marzo 2008

Sano almeno 4 milioni, secondo le Nazioni Unite, le donne che ogni anno vengono vendute nel mondo ai fini della prostituzione, della schiavitù o del matrimonio e circa la metà sono bambine tra i 5 e i 15 anni, che vengono introdotte nel mercato del sesso. Di queste donne e ragazzine circa 2 milioni arrivano in Europa occidentale; la metà proviene dai paesi dell’Est. Si tratta tuttavia di dati approssimativi e incerti, vista la natura clandestina e illegale del traffico e la mancanza, in molti paesi, di legislazioni adeguate contro la tratta delle persone. Del resto, molti governi ancora non dedicano abbastanza risorse alla prevenzione e alla repressione del fenomeno e le vittime stesse, dal canto loro, sono restie a denunciare i propri sfruttatori alle autorità, anche in presenza di legislazioni che potrebbero tutelarle.

Il fenomeno ha conosciuto un vero e proprio boom a partire dagli anni ‘80, quando migliaia di donne straniere hanno cominciato a riversarsi in Europa in fuga da condizioni di povertà, miseria, guerra... E ha continuato a crescere negli anni ‘90, assumendo proporzioni mondiali. In particolare il traffico delle ragazze nigeriane si è consolidato su nuove rotte, o che le ha portate sempre più in Italia, con base e centro di smistamento a Torino. Ma il fenomeno in Africa non riguarda unicamente

la Nigeria, anche se in questo paese la tratta mantiene le proporzioni più vaste e drammatiche.

Secondo l’Oim, l’incremento del traffico di donne nel continente si fa sempre più preoccupante e coinvolge circa 500 mila donne l’anno.

Nel 2000, le Nazioni Unite hanno pubblicato un nuovo Protocollo per prevenire, reprimere e sanzionare la tratta di persone, specialmente di donne e bambini, a integrazione della Convenzione Onu contro la delinquenza organizzata transnazionale (http://www.hriawgroup.org/initiatives/rrafflckingpersons/). Ma già nel 1949 era stata promulgata una Convenzione (entrata in vigore nel 1951) per la soppressione del Traffico di persone e dello sfruttamento di altre persone ai fini della prostituzione. Per la prima volta, in un documento internazionale, si dichiarava che la prostituzione e il traffico di persone sono incompatibili con il valore e la dignità dell’essere umano, in quanto pongono in pericolo il benessere dell’individuo, della famiglia e della comunità.

L’articolo 3 del Protocollo del 2000 definisce la tratta di persone come «la captazione, il trasporto, l’accoglienza o la ricezione di persone, facendo ricorso alla minaccia, all’uso della forza o ad altre forme di coazione, al rapimento, alla frode, all’inganno, all’abuso di potere o di una situazione di vulnerabilità, o alla concessione o al ricevimento di pagamenti o benefici, per ottenere il consenso di una persona che abbia autorità su di un’altra ai fini dello sfruttamento di quest’ultima».

Nel marzo dello scorso anno, sempre le Nazioni Unite hanno lanciato

la GlobaI Iniziative to Fight Human Trafficking (iniziativa globale per combattere il traffico di esseri umani, Un.Gift — www.ungift.org), che coordina varie agenzie dell’Onu, al fine di prevenire e combattere la tratta, e assistere e riabilitare le vittime del traffico di esseri umani non solo finalizzato allo sfruttamento sessuale.

Lo scorso febbraio, Un.Gift ha organizzato a Vienna il primo Forum globale sul tema, al fine di creare maggior consapevolezza del problema e promuovere partnership e collaborazione tra i vari soggetti che lavorano in questo ambito.

Sempre a livello di Onu, oltre alla Dichiarazione universale dei diritti umani, diverse Dichiarazioni e Programmi di azione delle principali Conferenze mondiali contengono principi e normative di riferimento, a cui i diversi governi sono chiamati ad adeguarsi, senza tuttavia creare obblighi dal punto di vista giuridico. È così che vengono spesso disattesi e lasciano ampio margine alle organizzazioni criminali per i loro traffici.

Anche l’Unione Europea si è mossa per combattere il fenomeno della tratta e il primo febbraio 2007 è entrata in vigore

la Convenzione del Consiglio d’Europa, in seguito alla ratifica da parte di Cipro, decimo stato a siglarla. Secondo Terry Davis, segretario generale del Consiglio, «

la Convenzione usa intenzionalmente la mano forte nei confronti dei trafficanti e fa la differenza per le vittime, che beneficeranno di un grande aiuto a tutela dei loro diritti fondamentali».

Per quanto riguarda l’Italia, esistono due leggi di riferimento: l’articolo 18 del Decreto legislativo 286/98 - strumento di lotta a forme di violenza e di sfruttamento nei confronti degli immigrati - e l’articolo 13 della legge n. 228/2003, che riguarda la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Entrambi prevedono l’avvio di un percorso di protezione sociale, qualora la persona oggetto di violenza o reato denunci il fatto. L’articolo 18, inoltre, prevede - sia in seguito alla denuncia che in situazioni di particolare rischio - il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Spesso, però, là dove non esiste una buona collaborazione tra le associazioni del privato sociale e le questure, quest’ultime tendono a rilasciare il permesso di soggiorno solo in seguito a una denuncia. Cosa che molte ragazze non vogliono o non possono fare per paura o perché minacciate. I trafficanti hanno un enorme potere di ricatto, non solo sulla ragazza in Italia, ma sulla sua famiglia nel paese d’origine.

Anche per questa ragione il percorso di uscita dalla strada e di risocializzazione delle ragazze con il coinvolgimento di comuni, associazioni e case di accoglienza è sempre lungo, complesso e articolato e incontra molte difficoltà di attuazione, spesso per mancanza di volontà, mezzi e coordinamento tra coloro che lavorano in questo campo. Intanto, i trafficanti perfezionano le vie e gli strumenti della tratta.

Il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha bandito dal 2000 al 2007 il progetto «Avvisi», finalizzato alla realizzazione di programmi di protezione sociale. Complessivamente sono stati finanziati, su base nazionale, 490 progetti che hanno assistito 11.541 persone, di cui 748 minori. Secondo il rapporto Caritas/Migrantes 2007, «le persone che nel corso di questi anni sono entrate complessivamente nell’ambito di operatività dei progetti e hanno ricevuto una prima assistenza, raggiungono le 45.331 unità e sono per la quasi totalità donne vittime di sfruttamento sessuale».

L’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi del Ministero dell’interno - di cui fanno parte molte espressioni della società civile, dalla Caritas al Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca) - ha pubblicato il suo primo rapporto il 2 ottobre 2007: una fotografia della situazione, degli interventi e una serie di proposte per fronteggiare il fenomeno (www.interno.it, sala stampa, documenti). «Lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile – vi si legge –, è l’attività principale dei gruppi criminali nigeriani e rappresenta il maggiore strumento di autofinanziamento per lo sviluppo di altri traffici o di attività commerciali, quali “African markef’, beauty center, ristoranti, discoteche e altri luoghi di ritrovo...».

Infine, è stata promossa una Campagna informativa nazionale dal titolo: «Tratta no!... Ora Io sai», una collaborazione tra il progetto europeo «Tratta no!», in partnership con il Ministero per i diritti e le pari opportunità (www.trattano.it).

PER SAPERNE DI PIÙ:

lsoke Aikpitanyi, L. Maragnani, Le ragazze di Benin City. La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia, Melampo, 2007 (www.isoke.org)

Wendy Uba, P. Monzini, Il mia nome non è Wendy, Laterza, 2007

R. Giarretta, Mai più schiave. Casa Ruth, il coraggio di una comunità, Marlin edizioni, 2007

R. Poulin, Prostituzione. Glabalizzazione incarnata, Jaka Book, 2006

Forum permanente sulla prostituzione (a cura di), Prostituzione: oltre i luoghi comuni, Gruppo Abele, 2008

A. Deaglio, Nera- Not the promised land. Documentario: storia di una ragazza nigeriana arrivata in Italia, costretta a vendersi in strada e a pagare i suoi sfruttatori. (www.colombre.it - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. - 011.19703402)

Esohe Aghatise, Viaggio di non ritorno. Documentario: denuncia delle condizioni di violenza e schiavitù a cui le donne nigeriane vittime della tratta sono esposte in Italia.

Kit formativo su traffico di esseri umani, a cura del gruppo giustizia e pace di Uisc-Usg (disponibile in 7 lingue; info: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.).

MAI PIÙ SCHIAVE: mostra fotografica itinerante.

Mercoledì, 18 Giugno 2008 21:38

Roma, sponsor poco etici

ROMA, SPONSOR POCO ETICI

Nigrizia Dossier

Il comune di Roma è l’esempio più eclatante. Copiato, poi, anche dall’amministrazione di Lecce. Il regolamento, votato all’ombra del Campidoglio nel novembre del 2004 dopo una forte mobilitazione della società civile, impegna il comune a scegliere gli sponsor non solo in base alla convenienza economica, ma anche tenendo conto del rispetto dei diritti umani, di quelli dei lavoratori e dei danni all’ambiente. Si prevede l’esclusione, ad esempio, delle sponsorizzazioni delle imprese «coinvolte a qualunque titolo nella produzione, commercializzazione, finanziamento e intermediazione di armi di qualunque tipo». Squilli di tromba mediatica il giorno della sua approvazione. Sembrava si fosse riusciti a trovare un percorso serio ed efficace per sperimentare un modello collettivo di consumo critico. Sembrava. Perché, come è noto, pecunia non olet. E quel regolamento oggi appare come pura carta straccia, violata e maltrattata in più occasioni. Gli ultimi due casi clamorosi sono scoppiati qualche mese fa.

Settembre: il Comitato etico, dotato dal regolamento comunale di un semplice potere consultivo, ha bocciato quattro big dell’imprenditoria che finanziano importanti eventi culturali nella capitale, compresa

la Notte bianca. Le aziende cassate erano: l’Eni («esistono circostanziate denunce per gravi violazioni in materia ambientale in Nigeria»); Bnl e Banca di Roma (già banche tesoriere del comune, sono «istituti di credito che supporterebbero il mercato delle armi»); Telecom («sussistono violazioni accertate in materia di pubblicità ingannevole»).

Ovviamente, Veltroni &Co., dopo aver letto il parere del Comitato e aver ringraziato il suo presidente (Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale), hanno cestinato il consiglio. Del resto, come rifiutare oltre un milione di euro di finanziamento, in questo periodo di vacche magre per i bilanci pubblici? «Le banche ci hanno assicurato che non finanziano il commercio delle armi. Gli altri rilievi mossi si basano su responsabilità da accertare», la risposta tranquillizzante del Campidoglio.

Ottobre, stesso copione. Stavolta, nel mirino, il Festival del Cinema, il “Romacinemafest”. Dei 15 milioni di budget, il 60% è stato coperto da sponsor privati (136, per la precisione). Almeno 9 di questi, tuttavia, violavano il regolamento comunale. Tra le aziende contestate, Finmeccanica e la solita Bnl.

Veltroni si è posto il problema di non accettare quel denaro? Nemmeno per idea. L’ipocrisia impera. Ma, allora, perché non mandare al macero un regolamento, tanto strombazzato nei giorni della sua approvazione, che risulta inutile e continuamente calpestato?
Mercoledì, 18 Giugno 2008 21:34

Tessitrici di speranza

TESSITRICI DI SPERANZA

di Emanuela Baio
MC – Ottobre/Novembre 2007

Sfruttate, oppresse, denigrate, a volte invisibili, eppure incarnano la frontiera della speranza e del bene comune. Donne in trincea, donne dai mille colori, donne del Terzo e, ormai, Quarto mondo, diventano oggi la grande sfida dell’umanità. Il loro grido di aiuto è arrivato al cuore di chi può decidere. Qualcosa sta cambiando, erano in pochi a credere, solo alcuni anni fa, che donne come Angela Merkel e Michelle Bachelet potessero guidare una potenza come

la Germania e una nazione come il Cile. Non è un processo semplice e neppure scontato, ma può essere un segno di speranza anche per l’universo femminile del Sud del mondo che chiede dignità, attenzione, rispetto e promozione. Queste donne rappresentano l’emblema, ma anche il simbolo di un cambiamento in corso.

I dati statistici non sono confortanti: analfabetismo, fame, carenze sanitarie, acqua potabile e condizioni igienico-sanitarie adeguate. Eppure nel puzzle del mondo non mancano tasselli diversi e sono le donne a viverli, a promuoverli, a farli crescere.

Africa, Asia, America Latina e Oceania, milioni di persone con diverse culture, religioni e lingue presentano problematiche e peculiarità differenti. Tutti sono travolti dal fenomeno dell’economia globale che permea il nostro mondo. A dispetto delle sue grandiose promesse, questo processo si è tradotto in un crescente divario tra ricchi e poveri e, paradossalmente, ha intensificato le interferenze comunicative, proprio in un pianeta “a portata di mano”, milioni di persone, soprattutto donne, sono ancora costrette a emigrare.

Siamo tormentati dall’impoverimento, dall’assenza di buon governo, dal diffondersi di malattie e dal terrorismo. A dispetto di questo quadro, però, il popolo del Terzo mondo non si è rassegnato al suo destino. In Ecuador, in Perù, in Africa si incontrano donne e uomini che soffrono, ma lottano. Le loro lacrime e le loro speranze per un domani migliore ci arrivano attraverso l’insostituibile opera dei missionari. La loro profonda spiritualità, l’impegno per la sopravvivenza e per la difesa della dignità umana rappresentano un primo grande apporto per questi popoli e un forte segnale di civiltà per tutti noi.

Una tessitrice paziente

Popoli di tutti i continenti sono alle prese con l’analisi dei processi storici di sfruttamento che li hanno privati dei loro diritti, della lingua, delle religioni. Le popolazioni indigene hanno ancora di fronte i problemi di culture e terre messe in pericolo. Il diffondersi di questa consapevolezza, la maggiore mobilità delle donne, ci porta in contatto con realtà raccapriccianti, con storie di diritti violati (come l’infibulazione), ma allo stesso tempo, ci consegna una speranza: in quei paesi il processo di evoluzione passa attraverso le donne, legate alla capacità di procreare e, forse per questo, più disponibili al dialogo, alla trattativa e in ultima istanza alla pace. Non è retorico ricordare che sono proprio le donne indigene brasiliane a essere state accanto ai loro uomini, ad averli supportati e amati, anche quando l’alcool li aveva privati della dignità, ad averli sostenuti per la riconquista della loro terra.

Quando tutto sembra franare, le donne rappresentano l’ancora di stabilità. Diventano il sostegno e l’unica chiave di volta, hanno la tenacia di mandare i loro figli a scuola, perché sanno credere in un futuro migliore.

La globalizzazione, in questo senso, è un’esperienza positiva, aiuta donne e movimenti fioriti nel mondo occidentale, a condividere un processo di «emancipazione» umana, che proprio attraverso le donne sta crescendo in tutti gli angoli della terra. Si moltiplicano i progetti di sviluppo che hanno per protagonista l’economia femminile, si registrano importanti esempi di questo modello in Africa con le produttrici di tappeti o in sud America dove la lavorazione del giunco serve da un lato per la sussistenza e dall’altro ad acquisire autonomia e a sviluppare lo stesso concetto di «diritto».

Anche nei paesi occidentali qual cosa si muove, l’esempio più positivo di questa rinascita al femminile è rappresentato da Angela Merkel: le sue doti di paziente tessitrice ha dato i suoi risultati sul fronte ambientale, all’ultimo G8 è riuscita, seguendo la via del dialogo e del negoziato, a strappare un impegno all’America di Bush, prima «sorda» a questi problemi. Si tratta di un esempio chiaro del valore aggiunto di cui è portatrice la componente femminile.

Le donne, grandi migranti, sono l’elemento costitutivo della casa e di ogni stato, ma anche di economie virtuose, simbolo dei compiti di cura di anziani e bambini, che nessuna struttura può sostituire. É evidente che siano più portate al bene comune, proprio per il forte legame che mette le donne in contatto diretto con la creazione.

«Non violenza creativa»

Molti sono i paesi del Terzo mondo che, quotidianamente, affrontano le conseguenze di continui e cruenti conflitti religiosi, etnici e di classe. In questo clima, riuscire ad aprire un varco per dare spazio alla cultura del dialogo diventa sempre più difficile. Difficile l’interazione e l’intermediazione, difficile intravedere tra le distese in fiamme e le tante vite spezzate, un piccolo segno di speranza. Eppure la speranza c’è, anche negli angoli più lontani e misteriosi del mondo.

Con questa consapevolezza e con la perseveranza che le contraddistingue, le chiese dei paesi dimenticati insistono a cercare una via comune di dialogo tra i popoli, anche di fede diversa, che consenta il superamento dell’intolleranza a favore della giustizia, dell’uguaglianza e della pace. Sono proprio questi i tasselli mancanti che, in questo contesto, evidenziano come e quanto le donne di tutto il mondo, risentano, più di ogni altro essere umano, dei crudeli meccanismi di discriminazione, emarginazione e violenza. Sono spesso le più povere tra i poveri, ma lottano contro le strutture gerarchiche e patriarcali in tutte le istituzioni, che siano famiglie, governi, o intere società. La loro forza e la loro tenacia non ha eguali, supera ogni confine geografico, culturale e politico, possiamo sentirla come un’eco lontana che non perde mai la sua intensità.

In Asia, per esempio, continente ad alto potenziale,che presenta la più grande diversità di culture, storia e religioni del mondo, si registra anche una grande quantità di poveri, oppressi, ridotti in condizioni igienico-sanitarie precarie, senza contare che l’impatto con la globalizzazione aumenta le differenze e conduce a un conflitto interno. Eppure, la solidarietà che viene espressa tra i popoli di tutte le fedi e culture nella lotta per un’umanità piena, è prepotentemente fiorita. Questa forza silenziosa, che la donna è in grado di sprigionare e che alimenta la lotta per il bene comune, è legata alla categoria non patriarcale che Gandhi ha definito «potere creativo in forma pacifica».

Violenza e non violenza sono una costruzione sociale e non devono essere legate al sesso. L’input femminista serve a dire che i problemi che le donne del Terzo mondo sollevano sono i problemi del mondo. La riscoperta del principio femminile costituisce la sfida intellettuale e politica al «malsviluppo», inteso come progetto patriarcale. Mentre la distruzione è aggressiva, dunque visibile, l’equilibrio e l’armonia non sono visibili, si sperimentano. Il mantenimento della vita a opera delle donne nel Terzo mondo si basa su questa attività celata. Una visione femminile nella donna come nell’uomo, dunque, permette di vivere in una logica di sopravvivenza, in cui alla pianificazione a breve termine, si sostituisce una visione di lungo periodo. Ma è altrettanto chiaro che solo attraverso l’interazione tra i generi, il dialogo può svilupparsi. Questo consente una spiritualità autentica, perché il primo passo verso i diritti, è proprio la consapevolezza. Un processo nel quale le donne sono maestre.

Microcredito in rosa

La millenaria esperienza di duro lavoro nei campi, ha permesso alle donne del Terzo mondo di creare una tipicità di conoscenze agricole, nelle quali tuttora si distinguono rispetto agli uomini e, da sempre, ha rappresentato una fonte di guadagno e sostentamento. La maggior parte del pianeta ha soddisfatto i propri bisogni alimentari grazie a una agricoltura praticata dalle donne. In questo modo le conoscenze vengono condivise, specie e piante non vengono considerate «proprietà», ma parenti, e la sostenibilità si basa sul rinnovo della fertilità della terra, sulla rigenerazione della biodiversità e delle specie.

Questa diversità di sistemi di conoscenze è la strada da seguire per far sì che le donne del Terzo mondo continuino ad avere un ruolo centrale come conoscitrici, produttrici e approvvigionatrici di alimenti. Ma non basta. Oggi questo equilibrio apparente, sembra minacciato dall’attuale modello agricolo-industriale. Lasciare che le donne si occupino esclusivamente dei campi, contribuisce a costruire un corollario di conoscenze ma, nella pratica, continua a lasciarle in disparte, lontane dalla vita e dagli interessi dell’uomo e viceversa.

Come può esistere integrazione se non si percorre una via comune al dialogo? Proprio attraverso lo sviluppo di una economia settoriale si può sperare in una rinascita economica e nel benessere sociale. L’istituzione di piccole aziende manifatturiere potrebbe dare la possibilità alle donne di emergere anche in altri settori, estendendo le conoscenze, la cultura ma anche i campi di azione. Il settore tessile, per esempio, può vedere l’utilizzo di manodopera sia maschile che femminile e allo stesso tempo può rappresentare un terreno di confronto culturale. La miseria, la fame la prostituzione spesso prendono il posto del buon senso e della civiltà che deve credere alla diffusione di buone pratiche come il microcredito. Sono sufficienti pochi euro consegnati a una donna che, impegnata in un progetto di sviluppo locale, sappia trasformarli in una risorsa a vantaggio dell’intera comunità.

Le altre donne combattono ogni giorno sul posto di lavoro per cercare di dimostrare al mondo che esistono, che valgono, che sono in grado. Se pensiamo al Terzo mondo l’immagine di ritorno che proviene dai nostri ricordi stereotipati ci mostra un quadro assai triste: donne sole in disparte, coperte dall’ombra dell’ignoranza e della discriminazione; donne sfruttate, minacciate, usate come merce di scambio; donne spaventate dagli occhi spenti, rifiuti di una civiltà che le considera inutili, eppure,dietro quell’apparente debolezza si nasconde una determinazione che non ha eguali. I loro passi sono piccoli ma importanti perché spesso «quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non ci fosse quella goccia all’oceano mancherebbe» (MadreTeresa di Calcutta). Donne forgiate dal sacrificio e dalle privazioni che sanno cosa vuol dire essere dimenticate, oggi più che mai dimostrano a tutti noi la loro forza.

Situazione socio-economica

Dal rapporto dell’Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) emerge che dei 2,8 miliardi di esseri umani al lavoro,la metà guadagna meno di due dollari al giorno. Degli occupati, le donne sono le più sfruttate e sono la maggioranza tra i disoccupati.

Il rapporto della Fao (Organizzazione per l’alimentazione e agricoltura) mette in luce lo stretto legame tra sottoalimentazione, analfabetismo e frequenza scolastica. Fame e impossibilità di accedere a un livello minimo di istruzione si coniugano in una miscela letale che colpisce soprattutto loro: due terzi delle donne nel Terzo mondo è analfabeta, con la conseguente riduzione della possibilità di procurarsi un reddito decente, sono, quindi, le più colpite dalla fame, che miete 852 milioni di vittime.

Il rapporto di Amnesty lnternational ci dice che nel XXI secolo le donne sono quelle che pagano il prezzo più alto alla violenza endemica della guerra, non solo come profughe costrette a lasciare tutto per salvarsi dalle distruzioni dei conflitti bellici, ma come oggetto specifico di violenza che le svilisce in quanto donne.

Il rapporto di Amnesty colpisce perché evidenzia come coloro che si macchiano di crimini e violenze contro le donne, godono dell’impunità che si basa sul trinomio donna-oggetto-proprietà privata. In un mondo in cui continuamente si parla di diritto, giustizia, libertà e democrazia, c’è uno spazio vuoto in cui sprofonda la maggior parte dell’umanità, le donne, appunto, nei confronti delle quali, tutto è lecito.

Oltre allo strapotere violento degli uomini, contribuisce all’impunità anche l’autocensura, che, sia per paura, sia per consuetudine, da sempre le condanna: in quanto oggetti non possono ribellarsi, rispondere, replicare. È chiaro che parlare di sviluppo economico in un clima simile risulta improbabile, ma la sfida sta proprio qui.

Un’opera complessa che deve garantire la salvaguardia delle singole culture e il rispetto delle differenti religioni e tradizioni. Un esempio concreto ci viene dalla Scandinavia che ha dato il premio Nobel per la pace a una signora africana che da 30 anni si batte cercando di coniugare diritti delle donne, democrazia, economia sostenibile e tutela ambientale: la kenyana Wangari Maathai che lavora con la sua associazione, il Green Belt Movement, piantando alberi in zone affamate. Con tutto quel che può voler dire in termini di coinvolgimento delle popolazioni locali e di creazione di un circolo economico virtuoso.

Dobbiamo partire da due occhi che non chiedono, ma che ci raccontano dei colori,e dalle tinte forti dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina: un arcobaleno che aspetta, pazientemente, la fine del temporale per poter essere visibile.

La luce è vita, quindi speranza. Una battaglia che fortunatamente ha contagiato il Dna dei singoli stati, dell’Unione europea e che oggi esige di entrare a pieno titolo nell’agenda politica in tutti i consessi internazionali in grado di cambiare le sorti del mondo, Così come sempre più e con maggiore efficacia l’impegno per i diritti umani deve entrare nelle politiche estere perseguite anche dai singoli governi, all’insegna di una globalizzazione dal volto veramente umano.

Mercoledì, 18 Giugno 2008 21:24

L'esercito della salvezza

L'esercito della salvezza


dal blog www.unaltrogiro.it




In questi giorni sta prendendo corpo l’ipotesi di utilizzare personale dell’esercito per azioni di pattugliamento e perlustrazione delle città metropolitane.

E la contrapposizione tra fautori e detrattori vede salire i toni. Da una parte si sente dire che si tratta semplicemente di “un esperimento”, che serve per “garantire la sicurezza” e si accusa la controparte di essere portatrice “dei pensieri di Provenzano e della camorra”. Dall’altra si parla di proposta da “regime autoritario”, di “rischio di militarizzazione” e di intervento “da Paesi del Sud America”.

Premesso che il provvedimento in questione lo si ritiene di tipo repressivo, non è su questo che ci si vuole soffermare. Infatti, sempre in questi giorni vi sono notizie di provvedimenti, per ora solo nelle intenzioni, che intervengono e vanno a modificare sia le modalità di indagine che di istruttoria dei processi.

Il disegno di legge sulle intercettazioni prevede che la magistratura possa ordinarle per reati superiori ai 10 anni (resterebbero fuori, per esempio, indagini come quelle sulla clinica Santa Rita di Milano). E’ prevista poi una rigidità enorme sulla durata, escluse mafia e terrorismo, il limite è di 3 mesi. Altra assurdità è rappresentata dal fatto che se due intercettati per un reato fanno il nome di un terzo, come possibile autore di altro reato, questo non potrà essere sottoposto ad intercettazione se non vi sono altri riscontri. Inoltre non potrà più essere il GIP (Giudice per le Indagini Preliminari) a valutare la richiesta di autorizzazione delle intercettazioni, ma un collegio di tre giudici. Soprattutto per i piccoli tribunali e quelli sotto organico vi è il rischio della paralisi a causa della incompatibilità tra lo sviluppo futuro del procedimento e chi autorizza le intercettazioni. Inoltre viene introdotto un bavaglio all’informazione, non potremmo più essere messi al corrente di inchieste fino a quando il giudice non avrà disposto il rinvio a giudizio, potrebbero trascorre degli anni dalla scoperta del reato.

Le ultime sui processi, poi, riguardano la presentazione di due emendamenti che potrebbero sospendere delle azioni giudiziarie.

Con il primo si danno indicazioni di quali processi, in funzione dei reati, devono avere la priorità rispetto ad altri. Si ritiene che debbano avere la precedenza i “procedimenti relativi ai delitti puniti con l’ergastolo, o la reclusione superiore nel massimo a 10 anni, ai delitti di cui agli articoli 51 comma 3 bis, 3 quater e 407 comma 2, lettera ‘a’ del Codice di procedura penale, ai delitti di criminalità organizzata, ai processi con imputati detenuti anche per reati diversi da quelli per cui si procede e ai procedimenti da celebrarsi con giudizi direttissimi e con giudizi immediati”, gli altri possono stare un pò più tranquilli.

Con il secondo, invece si prevede l’immediata sospensione (al momento dell’entrata in vigore della legge, se dovesse essere approvata) dei processi penali relativi a fatti commessi sino al 30 giugno 2002 “che si trovino in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado”. La sospensione avrà durata di un anno e, nel caso “di pluralità di reati contestati si ha riguardo alla data dell’ultimo reato”. Il corso della prescrizione, durante questo periodo, è sospeso. La sospensione, inoltre, “non opera nei processi per la criminalità organizzata, l’ergastolo, la reclusione superiore ai 10 anni e nei procedimenti relativi agli infortuni sul lavoro.

Ed intanto si lavora al “lodo Schifani”, bocciato dalla Corte Costituzionale nel 2004, per essere riveduto e corretto in modo da introdurre la sospensione dei processi per le cinque più alte cariche dello Stato.

Rivolgendo poi lo sguardo un pò più indietro non si possono dimenticare, tra le altre norme, la “ex Cirielli”, che ridotto i tempi di prescrizione; la “Pecorella”, per mezzo della quale nel caso di assoluzione dell’imputato al primo grado di giudizio il PM (Pubblico Ministero) può ricorrere solo in Cassazione, mentre se l’imputato viene condannato questo può andare in appello (bocciata poi dalla Consulta); la depenalizzazione del falso in bilancio, l’indulto, e quanto ancora si riesca a ricordare...

Da tutto ciò si ha l’impressione che si siano e si continuino ad apportare delle complicazioni, delle difficoltà, se non delle scappatoie sia al regolare corso delle indagini che allo svolgimento dei processi, e non solo per personaggi più o meno noti.

Però ci sarà l’esercito per le strade: più sicurezza per tutti!