Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Gli strumenti delle Buone Opere
nell'insegnamento monastico di San Bernardo

di Sr. Maria Pia Schindele o. cist.


San Bernardo nei suoi insegnamenti monastici si serve spesso degli “strumenti delle buone opere” (osservanze con le quali i monaci e anche i cristiani dovranno purificarsi), senza menzionare espressamente il quarto capitolo della Regola in cui S. Benedetto indica le condizioni del cristiano (RB 4,1-9), della vita monastica (RB 4,10-40) e della speranza nella grazia santificante (RB 4,41-74). Per queste tre suddivisioni del suddetto capitolo della Regola benedettina presentiamo alcuni strumenti scelti dalla grande quantità proposta da San Benedetto.

1. Amare Dio ed il prossimo

Gli strumenti fondamentali per la vita del cristiano, elencati all'inizio del capitolo quarto sono indicazioni che riguardano l'amore verso Dio e verso il prossimo: “Amerai il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le tue forze” (RB 4,1) e “poi il prossimo come te stesso” (RB 4,2).

Dal momento che Bernardo parla di questo tema nel trattato "Sul dovere di amare Dio", dobbiamo riportare qui i pensieri più importanti.

a) Il trattato "De Diligendo Deo"

Nel trattato "Sul dovere di amare Dio" san Bernardo parte dall'inclinazione naturale dell'uomo verso l'amore, radicato nella sua tendenza all'amore di sé e che può svilupparsi soltanto in rapporto all'amore verso Dio e verso il prossimo. Bernardo spiega, che ogni tentativo dell'uomo di limitarsi all'amore di sé per se stesso, porta alla sua distruzione, perché nessuno può sussistere senza essere giusto. Chi si rifiuta di condividere i beni indispensabili per la vita, li condivide, in fondo, con il nemico della sua anima. Bernardo quindi interroga:

Non è più giusto e più onesto far partecipe di quei beni non il nemico, ma chi ha la natura in comune con te, cioè il prossimo?” (1).

Più avanti afferma:

Allora il tuo sentimento sarà equilibrato e giusto, se ciò che è sottratto ai personali piaceri non sarà negato alle necessità del fratello. Così l'amore carnale, essendo esteso alla comunità, si trasforma in sociale” (2).

Bernardo ritiene che: “è quindi atto di giustizia non tralasciar di dividere i doni di natura con chi ha la natura in comune con te” (3).

Lo sviluppo del nostro amore verso Dio, ancora inconscio, presuppone questo comportamento naturale nell'amore; la sua crescita dipende dalla nostra disponibilità ad aprire il nostro cuore a Dio. Per amare rettamente il nostro prossimo, afferma Bernardo, Dio deve essere considerato l'origine di tutto.

In realtà come si potrebbe amare puramente il prossimo, se non lo si ama in Dio? Ma non si può amare in Dio, se non si ama Dio. Occorre quindi che prima sia amato Dio, perché si possa amare in Dio anche il prossimo” (4).

Bernardo parla dell'aiuto che Dio ci dona nelle nostre necessità e in quelle del prossimo. Questo aiuto ci avvicina a Dio e ci insegna ad amarlo non solo per il nostro interesse, ma per Lui stesso:

A colui che avrà raggiunto questo grado d'amore non sarà difficile osservare il comandamento relativo all'amore del prossimo. Essendo arrivato ad amare Dio secondo verità, ama anche ciò che appartiene a Dio. Ama in maniera casta, e perciò non gli pesa obbedire ad un casto comandamento, rendendo più casto il suo cuore, come è stato scritto, nell'obbedire alla carità. Ama secondo giustizia e perciò accoglie volentieri un comandamento giusto. Questo amore è ben gradito perché è gratuito. È casto, perché non è profuso in vane parole, ma in opere di verità. È giusto, perché così come lo si riceve, tale lo si rende. Chi ama così, non ama diversamente da come è stato amato, ricercando anche lui a sua volta non il proprio interesse, ma quelle di Gesù Cristo, come egli non ha ricercato il suo interesse, ma il nostro, o meglio noi” (5).

Dopo averci spiegato il precetto dell'amore, Bernardo parla ancora di un altro tipo di amore verso Dio, interamente donato dalla grazia, in cui l'amore naturale di sé, raggiunge nella “dimenticanza di se stesso”, il perfezionamento dell'amore. Bernardo descrive tale stato spirituale con queste parole: “Arrivare a questo sentimento significa indiarsi” (6).

È l'offerta di Dio a noi, che cerchiamo la cosiddetta “realizzazione di noi stessi”. Le persone che hanno fatto una simile esperienza, tornano alla vita quotidiana, anelando con tutto il cuore l'adempimento della richiesta del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” (Mt 6,10). Bernardo esalta questo stato d'animo quando esclama:

O amore santo e casto! O sentimento dolce e soave! O volontà schietta e purificata, tanto più schietta e purificata in quanto non vi rimane commisto nulla che sia personale, e tanto più dolce e soave, in quanto tutto ciò che si avverte è di origine divina! Arrivare a questo sentimento significa indiarsi” (7).

2. Imitazione di Gesù Cristo

Bernardo addita nei suoi diversi sermoni gli strumenti delle buone opere che riguardano in particolare la vita monastica:

- Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo (RB 4,10);

- mortificare il proprio corpo (RB 4,11);

- rendersi estraneo alla mentalità del mondo (RB 4,20);

- non anteporre nulla all'amore di Cristo (RB 4,21).

a) Il Sermone nel mercoledì della Settimana Santa

Nel sermone del mercoledì della Settimana Santa Bernardo raccomanda questo strumento delle buone opere: “Rinunziare interamente a se stesso per seguire Cristo” (RB 4,10) e ci ricorda i patimenti di Cristo per la nostra salvezza quando afferma:

Nella sua vita ebbe un'azione passiva, nella sua morte sopportò una passione attiva, per operare la salvezza sulla terra” (8).

Bernardo esorta a considerare che il Signore mediante la sua fortezza divina e la sua somiglianza con la natura umana, ci salva se siamo decisi ad imitarlo e di conseguenza, a seguirlo, perciò afferma:

La sua forza e la sua somiglianza dunque agisce in me a condizione che non manchi l'imitazione, seguendo le sue orme” (9).

Inoltre egli ci pone davanti l'esempio di coloro che hanno seguito questa strada:

Questa imitazione è per me una validissima prova, sia la Passione del Salvatore, sia la somiglianza dell'umanità, vengono per mia utilità” (10).

b) Il Sermone sul versetto: "Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo" (Mt 13,44)

Nel Sermone 65° De Diversi, che, in riferimento al versetto del Vangelo di San Marco, è intitolato: “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo”, Bernardo medita sullo strumento delle buone opere: “Mortificare il proprio corpo” (RB 4,11). In questo sermone afferma:

Il campo è il corpo. Quando è ancora dominato dalle passioni dei desideri, esso giace incolto e vittima della maledizione, produce spine e rovi, e non si sa cosa nasconda al suo interno” (11).

Poi riguardo al nostro corpo precisa:

Non sai cosa vi è nascosto? Cosa se non il "regno dei cieli”? Trovare nel corpo questo regno significa produrre quelle opere di salvezza che permettono di conquistare il regno dei cieli. Compra dunque il campo e libera dalle concupiscenze il tuo corpo, pagando il prezzo richiesto, vendendo ciò che fomenta e stimola le concupiscenze stesse” (12).

c) Il sesto Sermone sull'Ascensione del Signore

Nel sesto sermone in occasione della solennità dell'Ascensione, Bernardo, medita sullo strumento delle buone opere: “Rendersi estranei alla mentalità del mondo” (RB 4,20).

Tutti, se non sbaglio, con l'intelligenza della fede e il giudizio della ragione, cerchiamo le cose di Lassù; però forse non tutti gustiamo allo stesso modo delle cose di lassù, dal momento in cui viviamo presi, fino a un certo punto, dalle cose di questa terra con una veemente attrazione” (13).

Poi aggiunge: “si esaurisce il flusso dell'olio, dove mancano i recipienti vuoti” (Cfr. 2Re 4,3-6), vale a dire, se siamo pieni delle cose del mondo ci vengono a mancare le grazie divine.

Ci esorta dunque a prendere in considerazione che: “da ogni parte si infiltra in noi l'amore del mondo con le sue consolazioni, o meglio con le sue desolazioni; spia le vie d'accesso, irrompe all'improvviso e prende in possesso il cuore” (14).

Bernardo ci ammonisce a gioire della vera e santa letizia nel Signore che però, percepiamo soltanto, se rinunciamo alle gioie terrene, perché non può stare insieme “il vero con il falso, l'eterno con il caduco, lo spirituale con il carnale, il sublime con il basso”.

d) il terzo Sermone sul salmo 90

Nel terzo sermone sul salmo 90 Bernardo esorta a “non anteporre nulla all'amore di Cristo” (RB 4,21), ci induce dunque a riflettere intensamente sull'amore di Cristo, l'amore che il Signore vuole dai suoi discepoli. Dice infatti:

"I mondani, quando li esortiamo a fare penitenza, rispondono: "È duro questo linguaggio”. È appunto ciò che leggiamo nel Vangelo. Allora il Signore parlava proprio di penitenza, ma in figura, come a gente alla quale non è concesso di conoscere il mistero del regno di Dio. E sentendolo dire: “Se non mangerete la carne del Figlio dell'uomo e non berrete il suo sangue... Molti dei suoi discepoli dopo aver ascoltato dissero: "Questo discorso è duro” e se ne andarono (Gv 6,53.60)” (16).

Dal momento che Bernardo vede nel Signore “il sacramento primordiale”, contempla il legame fra l'eucaristia e la vita di Gesù. Dice quindi a proposito dell'amore verso Gesù Cristo:

Che cosa è infatti mangiare La sua carne e bere il suo sangue se non prendere parte alle sue sofferenze e imitare La condotta che egli tenne durante la sua vita terrena? Per cui, l'illibato sacramento dell'altare nel quale riceviamo il corpo del Signore ci insegna che come le specie e le apparenze del pane entrano visibilmente in noi, così dobbiamo pensare che egli stesso entra in noi con quella condotta che egli tenne sulla terra, per abitare nei nostri cuori mediante la fede. Quando, infatti, entra nelle nostre anime la giustizia, è colui che per opera di Dio Padre è divenuto per noi giustizia che entra. Così pure "colui che sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (l Gv 4,16)” (17).

3. Vivere nella speranza della salvezza

Riguardo al gruppo degli strumenti delle buone opere che hanno per tema principale la nostra speranza nella salvezza (RB, 4,41-74), Bernardo, ci offre in diversi sermoni le sue indicazioni. Approfondisce soprattutto i primi tre:

1. “Riporre la propria speranza in Dio (RB 4,41);

2. se uno scorge in sé qualche cosa di buono, lo attribuisca a Dio, non a se stesso (RB 4,42);

3. sappia invece che il male è sempre opera sua e se ne ritenga responsabile lui solo” (RB 4,43)

a) Il nono Sermone sul Salmo 90

Il sermone nono del salmo 90 è intitolato: “Sì, tu, Signore, sei la mia speranza, hai posto in luogo altissimo il tuo rifugio”, (cf. v. 9). Bernardo spiegando questo versetto commenta lo strumento delle buone opere: “Riporre la propria speranza in Dio” (RB 4,41).

Nessuno può dire dal profondo del cuore "tu, o Signore sei La mia speranza” all'infuori di colui, che, per un'intima convinzione proveniente dallo spirito... getta sul Signore il proprio affanno” (18).

In riferimento al versetto del salmista: “Hai posto in luogo Altissimo il tuo rifugio”, Bernardo dice: “Fuggiamo spesso fratelli, verso questo riparo è un luogo fortificato, là non c'e da avere paura di nessun nemico” (19).

Gli dispiace, però che in questa vita questo non sia possibile:

Quello che ora è rifugio, un giorno diventerà dimora, e dimora eterna. Per adesso, anche se non ci è dato di rimanervi, bisogna almeno ritornarci spesso. Infatti, per ogni tentazione, per ogni tribolazione, per qualsiasi necessità sta aperta per noi una città di rifugio, abbiamo un seno materno largo per accoglierci...” (20).

La meta altissima di ogni speranza è il Signore stesso, per spiegarlo Bernardo commenta il brano del salmista “Tu Signore sei la mia speranza”.

Le parole forse dicono qualcosa di più grande e più sublime, cioè che egli non soltanto spera nel Signore, ma che spera il Signore stesso... Forse vi sono alcuni che bramano di ottenere dal Signore beni corporali o spirituali di ogni specie, ma l'amore perfetto ha sete soltanto del bene sommo e grida con desiderio ardentissimo: “Che c'è per me in cielo e che cosa desidero da te sopra la terra? O Dio del mio cuore e mia porzione, o Dio, in eterno! (cfr Sal 73, 25-26)” (21).

b) Il Sermone: "Le sei giare della purificazione"

Nel sermone 55 “De Diversi" intitolato “Le sei giare della purificazione" Bernardo indica questi due strumenti delle buone opere:

1. “Se uno scorge in sé qualche cosa di buono, lo attribuisca a Dio, non a se stesso e

2. sappia invece che il male è sempre opera sua e se ne ritenga responsabile lui solo” (RB 4,42-43).

Bernardo, fra le sei giare della purificazione, menziona al secondo posto la forza purificatrice del canto dei salmi, afferma che l'uomo che prega attraverso la salmodia con cuore sincero, sarà mondato dalla lode di se stesso e dal disprezzo di Dio e descrive l'effetto di questa purificazione:

Una volta che uno si converte e confessa il suo peccato ed è istruito nei cantici divini, dopo aver corretto il suo modo di vivere, corregge anche le parole: accusa se stesso e attribuisce a sé i suoi mali; loda invece Dio e, il bene che vede in sé lo attribuisce a Lui non a sé. Tutto questo lo si canta nella salmodia” (22).

c) Il primo Sermone nella Festa dell'Annunciazione del Signore

San Bernardo che nei suoi diversi sermoni cita spesso san Paolo, medita i suddetti strumenti delle buone opere (RB 4,42-43) alla luce del versetto ai corinzi: “Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della coscienza...” (2Cor 1,12).

Il primo sermone per la festa dell'Annunciazione inizia con le parole del salmo 84:

Affinché la gloria [di Dio] abiti nella nostra terra, la misericordia e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate (v. 10-11). Poiché questo è il nostro vanto insegna l’Apostolo, la nostra coscienza” (23).

Questa testimonianza non ha niente in comune con quell'orgogliosa e falsa del fariseo (cfr. Lc 18,11-12), poiché è vera soltanto la testimonianza che ci dà lo Spirito stesso.

Io credo che tale testimonianza consti di tre elementi. Anzitutto credere che non puoi ricevere il perdono dei peccati, se non per la misericordia di Dio; poi che non puoi fare alcuna opera buona se non ti dà egli stesso di farla; infine che non potrai meritare la vita eterna con le tue opere, se egli non te la desse come dono gratuito” (24).

Infine Bernardo insegna:

Riguardo il perdono dei peccati, ho un argomento molto più valido: la passione del Signore... È stato messo a morte per i nostri peccati. Ora, non vi è dubbio che è più potente ed efficace per il nostro bene, la sua morte, che non i nostri peccati, per la nostra disgrazia. Quanto poi, alle buone opere, l'argomentazione più valida per me, ritengo, sia la risurrezione, perché "egli è stato risuscitato per la nostra giustificazione" (Rm 4,25). Inoltre, quanto alla speranza del premio, ne è testimonianza la sua ascensione, poiché egli ascese al cielo per la nostra glorificazione” (25).

NOTE

1) Le Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. I, De Diligendo Deo, VIII, 23, p. 305, (d'ora in poi Dil).

2)  Dil. VIII, 23, p. 305.

3) Dil. VIII, 24, p. 307.

4) Dil. VIII, 25, p. 307.

5) Dil. IX, 26, p. 309.

6) Dil. X, 28, p. 313.

7) Ibid.

8) SAN BERNARDO, Sermone nel Mercoledì della Settimana Santa, 11.

9) Ibid.

10) Ibid. 12.

11) Le Opere di san Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 2000, vol. IV, Sermoni diversi e vari, LXV, 1, p. 417, (d'ora in poi Div.

12) Div. LXV 1, p. 417.

13) SAN BERNAROO, Sermone sull’Ascensione del Signore, 6, 8.

14) Ibid.

15) Ibid.

16) SAN BERNARDO, Sermoni sul salmo 90, introduzione, traduzione e note a cura di I. Teli, Scritti monastici 20, Edi. Abbazia di Praglia 1998, 3,3, p. 19.

17) Ibid. 3,3, pp. 19-20.

18) Ibid. 9,6, p. 76.

19) Ibid. 9,7, p. 78.

20) Ibid.

21) Ibid. 9,8, p. 78-79.

22) Div. LV 1, p. 307.

23) BERNARDO DI CHIARAVALLE, Sermoni per le feste della Madonna, Ed. Paoline, sec. ed. rev., Milano 1990, Nell’Annunciazione del Signore, 1, 1, p. 141.



FONTI

Le opere di San Bernardo, testo latino/italiano, a cura di E Gastaldelli, Scriptorium Ciaravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, vol. I, De Diligendo Deo, Milano 1984; Sermoni diversi e vari, vol. IV, Milano 2000.

SAN BERNARDO, Sermoni sul salmo 90, a cura di I. Tell, Scritti monastici 20, Abbazia di Praglia 1998.

S. BERNARDO Dl CHIARAVALLE, Sermoni per le feste della Madonna, a cura di Giorgio Picasso, Ed. Paoline 1990.

BERNHARD VON CLAIRVAUX, Sämtliche Werke Lateinisch/deutsch, hg: v: Gerhard Winkler, Bd I-X' 1990 tI.

R. CARPENTIER, Conscience, Art. in DSp 2 (1953) 1548-1575.

CH. DUMONT, L'experience dans la discipline cistercienne. In: CollOCSO 35 (1973)157-160.

P EASTMAN, The Christology in Bernard's De diligendo Deo. In: CS 23 (1988)119-127.

A.C. HALFLANTS, Castitatem amare (RB 4,64). In: CollOCSO 45 (1983) 317-322.

CH. HARTMANN, St. Benedikts Ordnungen der geistlichen Werke. In: Benediktus. Der Vater des Abendlandes. St.Ottilien (1947) 233-240.

E. KLEINEIDAM, Die Nachfolge Christi nach Bernhard von Clairvaux. In: Asnt und Sendung 28 (1950) 432460.

R. O'BRIEN, Thoughts from Early Fathers on 'Conversion of Manners' that may help us today. In: CS (1977)121-130.

J. PIEPER, Ober die Hoffung. Mùnchen 1949.

J. LECQERCQ, Christusnachfilge und Sakrament in der Theologie des hl. Bernhard. In Archiv für Liturgiewissenschaft 8 (1963) 58-72.

_, Du Coeursensible au corps glorifie selon Bernard de Clairvaux. In Melanges à la Memoire du Père Anelme Dimier presentes par B.Chauvin, II/3: Ordre, moines. Arbois (1984) 341-347.

_, La spiritualitè di moyen Age, Paris 1961. L'ecole cistercienne, 233.274.

_, Temoin de la spiritualité occidentale. Paris (1965). Dans le rayonnement de S.Bernard, 264-321.

_, Disciplina. Art. In: DSp 3 (1957) 1291-1302.

_, Exercises spirituels. Art. In: DSp 4/2 (1961) 1902-1908. Ders.

_, La vie Parfaite. TurnhoutlParis 1948.

_, Observations sur les sermons de S. Bernard Pour le Careme. In: Citeaux 18 (1967) 119-129. 

_, S. Bernard ecrivain d'après les sermons sur le Psaume Qui habitat In: Revue benedictine 77 (1967) 364-374. Anche in: Recueil4. Roma (1987) 107-122.

_, Psychologie et saintéte. In. Nouveau visage de Bernard de Clairvaux. Paris (1976) 155-179.

E. LEDEUR, Imitation du Christ. Tradition Sprirituelie. In: DSp 7 (1970) 1562-1587.

TH. MERTON, St. Bernard on Interior Simpliciti. In: Thomas Merton on Saint Bernard, CS Ser.9,Cistercian Publications (1980) 107-157.

M.G. SORTAIS, Sur le Chemins que suivit Saint Bernard, In: CollOSCO 15 (1953) 241-250.

K. WISSER, Individuum und Gemeinschaft in den Anschauungen des hl. Bernhard von Clairvaux. In: CistC 49 (1937) 257-263.

Teologie a confronto:
Paul Tillich e Karl Barth
di Renzo Bertalot

Con la salita di Hitler al potere nel 1933 Karl Barth e Paul Tillich perdono le loro cattedre in Germania. Il primo trova rifugio in Svizzera e il secondo negli Stati Uniti d'America. Gia si è scritto molto su questi due teologi che hanno segnato profondamente la teologia del XX secolo. Non si tratta quindi di insistere sui contenuti delle loro opere, ma soltanto di rilevarne alcuni punti che hanno caratterizzato la loro testimonianza.

Insieme hanno partecipato alla crisi della società borghese che si era affermata con il liberalismo precedente. Le chiese avevano fatto il loro nido, con una certa soddisfazione, accanto ai poteri costituiti ed erano entrate in crisi per il crescente allontanamento del proletariato e dei giovani sempre più attratti dalle promesse di una secolarizzazione crescente.

Per Karl Barth e Paul Tillich era giunto il momento di far riemergere tutta la forza dell'Evangelo che contesta sempre le nostre sicurezze e riorienta il divenire della comunità cristiana.

Vi fu innanzi tutto una rinnovata attenzione di carattere politico. Il socialismo religioso di Paul Tillich e il socialismo democratico di Karl Barth erano entrambi tesi all'ascolto delle nuove esigenze della società e al carattere profetico delle attese che andavano manifestandosi. Si incarnava così un nuovo modo di vivere in riferimento alla riscoperta dell’Evangelo.

Intanto tra i due teologi si erano inseriti altri elementi. La distanza tra l'Europa e l'America e i venti di guerra che stavano preannunciando nuove catastrofi, non facilitavano i contatti delle rispettive esperienze.

Paul Tillich lasciò l'Europa con grande amarezza non certo per risentimenti personali, ma per la convinzione della maledizione della storia europea e della demonia della cultura tedesca che si era affermata. "La Germania sopra tutti" non aveva convinto solo i politici ma anche gli spiriti più avvertiti dell'epoca. La malattia radicale era dovuta al "provincialismo", cioè al metro con il quale andiamo costantemente misurando gli altri e li troviamo sempre mancanti. Gli Stati Uniti offrivano un crocevia di culture che, offrendo ognuna il meglio di se stessa, dà un carattere veramente universale alla ricerca e allo studio. Paul Tillich conobbe anche la contestazione pratica che ebbe modo di apprezzare. Al termine delle sue dotte lezioni gli veniva posta la domanda: "A che serve?" L'esistenzialismo europeo, al quale Tillich faceva spesso riferimento, si presentava come una corazza ingombrante per i popoli dell'America e dell'Asia: non era conforme al loro modo di intendere la vita.

La nozione di angoscia va curata dal medico in casi nevrotici, ma la scienza è impotente quando si tratta di mancanza di significati e di senso di colpa. Tuttavia, a sua grande meraviglia, Paul Tillich incontrò un russo che non conosceva affatto l'angoscia.

Per Tillich dalla nostra angoscia nascono gli interrogativi sulla nostra esistenza. Bisogna indagare attentamente per individuare i valori definitivi perché non possiamo dare risposte a domande mai poste! L'uomo non può che formulare interrogativi che per lo più puntano verso l'idolatria. La risposta viene solo (extra nos) dalla Parola di Dio.

Per Karl Barth la situazione è diversa. Si trovò impegnato nell'opposizione al nazismo cominciando con la stesura delle tesi di Barmen (1934) e il sostegno alla chiesa confessante che respingeva l'atteggiamento dei cristiano-tedeschi, perché non contestavano apertamente le avventure hitleriane. Barth era molto vicino a Bonhoffer che, per la sua opposizione manifesta al nazismo, venne impiccato.

Paul Tillich e Karl Barth condividono con termini molto forti il rifiuto di ogni teologia naturale: una teologia dalla situazione anziché rivolta alla situazione. La teologia e la filosofia non vanno confuse. Per Barth il teologo che dal basso (è in cammino inverso dell'incarnazione) tenta di risalire a Dio è un "criptoteologo" e il filosofo che parte dall'alto per fare della filosofia di questo mondo è un "criptofilosofo".

Per Tillich la teologia e la filosofia non vanno confuse. Tra di loro non v’è sintesi, non v'è terreno comune, perciò una filosofia cristiana è una "disonestà filosofica". Bisogna saper vivere sulla linea di confine. La religione (la religiosità) non produce fede anche se costituisce la sostanza della cultura e la cultura le dà una forma.

Tuttavia per entrambi una filosofia della religione, pur non essendo necessaria, può essere utile per indagare le forme della nostra religiosità. Da un lato ci aiuta a superare le nostre superstizioni e i nostri pregiudizi e dall'altro ci ricorda la nostra umanità (Cristo vero uomo). Non abbiamo strumenti sterili e non condizionati per parlare della rivelazione!

Sia Barth sia Tillich sono riconoscenti a Kant per averci liberati dalla metafisica dei "visionari" e ridotto le nostre dissertazioni entro i rigorosi limiti della ragione e del fenomeno. Per Tillich, Kant si conferma come "filosofo del protestantesimo". Per molti contemporanei Kant riesce sempre a riaffermarsi dopo il crollo o il tramonto delle varie filosofie.

Per Tillich il mondo creato da Dio non è stato abbandonato come una nave senza timone nella tempesta. Dio gestisce la storia e ne prende le redini nei momenti da lui ritenuti opportuni. È quindi in atto una vittoria di Dio sia pure frammentariamente e saltuariamente, sulle nostre distorsioni e i nostri fallimenti. Questa vittoria, per chi ha occhi per vedere e orecchi per udire rende la nostra storia trasparente. E la storia del Christus Victor!

Anche per Barth meno propenso ad indagare quello che passa nella mente del filosofo (o di qualunque uomo) siamo tuttavia strutturati in vista del nostro destino del Regno di Dio La creazione non gli è estranea: v’è un’analogia creationis.

Con entrambi assistiamo ad una concentrazione cristologia riguardo alla teologia sistematica. Per Barth la cristologia è tutto o siamo di fronte al vuoto. Già nel 1957, riprendendo con Hans Kùng il tema della giustificazione per fede, prevedeva che tra cattolici e protestanti si andasse evidenziando una stessa fede, non più alternativa anche se formulata in maniera diversa. Per Tillich il pensiero teologico gravita intorno al Nuovo Essere che si esprime in Gesù il Cristo.

Intanto si affacciano all'attenzione delle nuove generazioni altri problemi di grande attualità. Qual è il rapporto con le altre religioni? Per Tillich bisognerà interrogarsi sullo Spirito Concreto nella prospettiva del pan-en- tei-smo: tutti raccolti in Dio.

Per Barth nelle varie religioni ci sono delle parole vere, buone, autentiche e notevoli: sono combinazioni o luci non concorrenziali con Dio.

Un'ultima parola sull'uomo: Barth rovescia la tesi di Cartesio "cogito ergo sum". È importante affermare invece "cogitor ergo sum". Quello che io penso di Dio può essere significativo e importante per le nostre biblioteche, ma è decisivo sapere quello che Dio pensa di noi. Io sono quel che sono all'interno del suo pensiero. Chi cerca se stesso non troverà nulla; chi è trovato da Dio troverà se stesso.

(da: Quaderni di Studi ecumenici, Fede e cultura, 8, I.S.E. Venezia)

Sabato, 11 Febbraio 2006 14:54

Il vero digiuno

Perché mentre noi e i farisei digiuniamo i tuoi discepoli non digiunano?”

Lombardini, partigiano disarmato
di Luca Maria Negro


«Ditegli che con lui credo nella realtà della nostra fratellanza cristiana internazionale, che si erge ai di sopra di tutti gli interessi e conflitti nazionali, e che la nostra vittoria è certa». Sono le ultime parole dl Dietrich Bonhoeffer, un messaggio per l'amico George Bell, vescovo dl Chichester. È significativo che l'ultimo messaggio del teologo e martire luterano prima della morte (avvenuta il 9 aprile 1945) sia rivolto a un vescovo anglicano, e abbia per oggetto il movimento ecumenico di cui Bonhoeffer fu uno dei pionieri. I sessant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale sono un'occasione preziosa per fare memoria di questo e di molti altri «martiri ecumenici» che hanno testimoniato e difeso la purezza del Vangelo negli anni della guerra. La proposta di creare un «martirologio ecumenico» è uno dei recenti contributi cattolici al movimento ecumenico: l'idea è stata cara a Giovanni Paolo II; la comunità di Bose ha compilato un voluminoso «Libro del martiri» ecumenico e a Roma la basilica di San Bartolomeo all'isola Tiberina è stata dedicata ai «Nuovi Martiri»: tra di essi cattolici e ortodossi del Ventesimo secolo, ma anche protestanti come Bonhoeffer e il pastore Paul Schneider.

Da un punto di vista protestante - e particolarmente da quello di un protestantesimo minoritario con una storia di secolare persecuzione, come quello italiano - la proposta del «martirologio ecumenico» non è esente da aspetti problematici. Vi è intanto la diversa concezione che i protestanti hanno della santità (che tuttavia non ci impedisce di fare memoria dei testimoni-martiri della fede). Vi è soprattutto la sensazione che, prima di arrivare a una memoria comune del martiri del Ventesimo secolo, occorrerebbe operare una «guarigione delle memorie» delle ferite che i cristiani si sono reciprocamente inferti nei secoli precedenti. Tale guarigione implica, in Italia, il recupero della memoria delle centinaia di nomi di martiri della persecuzione (anti-eretica prima e anti-protestante poi) che giacciono nell'oblio più totale. Qualcuno di questi comincia ad essere ricordato, come quello del pastore valdese Goffredo Varaglia da Brusca (Cuneo), a cui il Comune di Torino, il 15 novembre 2000, ha dedicato una lapide in piazza Castello, luogo in cui fu arso nel 1558. Alla cerimonia ha partecipato, fra gli altri, mons. Pietro Giachetti, vescovo emerito di Pinerolo.

In ogni caso i due «martirologi», quello del Ventesimo secolo e quello relativo ai secoli dell'inquisizione e delle guerre dl religione, non sono alternativi, ma complementari. E per contribuire alla memoria dei «nuovi martiri» vorrei ricordare, nel sessantesimo anniversario della morte, un protestante italiano: Jacopo Lombardini, predicatore laico metodista e insegnante presso il Collegio Valdese di Torre Pellice. Lombardini è stato uno degli ultimi martiri della seconda guerra mondiale, perché fu ucciso in una camera a gas di Mauthausen proprio alla vigilia della liberazione, il 24 aprile 1945. Educatore, poeta, antifascista convinto, raggiunse i partigiani di Giustizia e libertà nelle Valli Valdesi del Piemonte con li doppio ruolo di «commissario politico» delle Brigate e di cappellano valdese. Ruolo, quello di cappellano, che svolse anche nei confronti dei partigiani cattolici, pur nel pieno rispetto della loro identità. Partigiano disarmato, durante tutta la Resistenza non imbracciò altra arma che la Bibbia e, come ricorda Giorgio Spini, «non odiò mai i fascisti», giungendo a «supplicare la grazia della vita per una spia catturata e destinata alla fucilazione». Arrestato in un rastrellamento, Lombardini proseguirà li suo ministero di cappellano anche nel lager, dapprima a Fossoli (Carpi) e poi a Mauthausen. In quel campo «non vi erano più preti» - ricorda un compagno di prigionia, il cattolico Nino Monelli - «ma Lombardini non esitava a rincuorare i suoi fratelli cattolici nella loro propria fede. Ripeteva loro che il sacrificio dei giusti è utile alla patria e gradevole a Dio. E in quei giorni non si domandava che di credervi! E se, nell'abbrutimento raccapricciante della disperazione dovuto alla fame e alla sensazione di catastrofe imminente, i giovani italiani non caddero in eccessi irriferibili, anche questo fu dovuto all'azione di Lombardini».

(da Mondo e Missione, giugno-luglio 2005, p 25)


Giovedì, 09 Febbraio 2006 00:02

La prova del diabolico (Marie Balmary)

La prova del diabolico
di Marie Balmary (1)

Le religioni monoteistiche riconoscono un solo spirito del male, una creatura che può entrare nell'uomo e possederlo. Il male si trova allora a essere incarnato? Lo si è creduto e per molti secoli un potere religioso ha voluto risolvere questo male bruciando posseduti e streghe…

Quando compare la medicina scientifica, essa rifiuta ogni soprannaturale. Per essa non esiste né possessione diabolica né miracolo. Tuttavia, nel secolo XIX, alcuni medici dell'anima umana che cercavano di comprendere disturbi come l'isteria, si trovano di fronte a un curioso ritorno e Freud può scrivere all'amico Fliess (17 maggio 1897) (2) : “Tu ti ricordi di avermi sempre sentito dire che la teoria medievale della possessione, sostenuta dai tribunali ecclesiastici, era identica alla nostra teoria del corpo estraneo e della dissociazione del cosciente. Perché le confessioni estorte con la tortura assomigliano tanto ai racconti dei miei pazienti durante il trattamento psicologico?”.

Freud si lancia allora nella sua autoanalisi, viaggio agli inferi in cui incontra “forze oscure venute dal fondo dell'anima” che in seguito paragonerà al diavolo (3); l'inconscio, le pulsioni sessuali rimosse, il padre seduttore… “Il rispetto degli Antichi per il sogno dimostra che essi presentivano giustamente l'importanza di quel che l'anima umana custodisce di incontrollato e di indistruttibile, il potere demoniaco che crea il desiderio del sogno che ritroviamo nel nostro inconscio”. (4) Con l'ipotesi dell'inconscio, il diavolo che i Lumi avevano fatto scomparire trova una nuova abitazione. Il “possesso” diventa malattia e non colpa.

Localizzato nella psiche umana

Si presenta allora un problema: se il diavolo è ormai localizzato nella psiche umana e non più nel mondo soprannaturale, verranno invalidate le pagine della Scrittura che lo riguardano? Oppure, per un imprevisto rovesciamento, possiamo farne una lettura nuova? Tentiamo.

Il diavolo compare principalmente in tre racconti, due nella Bibbia e uno nei vangeli. Dapprima nell'Eden (5): “Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna. Il serpente era la più astuta (nuda) di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio”.

Mentre l'uomo e la donna non si sono ancora riconosciuti differenti, la menzione della loro nudità e l'apparizione del serpente nudo si seguono immediatamente. Il serpente, simbolo maschile quant'altri mai, si rivolge alla donna, presentandole il sesso che essa non ha. Questo sesso-serpente è una riprova che il dio non ha dato tutto agli esseri umani, poiché li ha fatti mancanti di qualche cosa e la donna è la prima ad accorgersene. In precedenza, fra la formazione dell'uomo e quella della donna, il dio aveva posto una proibizione: non mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male. Il serpente, parlando alla donna, presenta il dio come colui che vuole conservare per sé solo la conoscenza divina. Per diventare “come dei” il serpente incita gli esseri umani a non accettare limiti. Questo discorso del serpente è diabolico, perché la proibizione data dal dio era al contrario l'accesso alla parola, il limite che consente a due soggetti di trovarsi l'uno di fronte all'altro senza mangiarsi. Il sessuale non simbolizzato… il diabolico seduttore…, non è forse ciò che Freud, anche lui, aveva incontrato?

Nei vangeli (6) Gesù affronta il diavolo. È lo stesso? Quest'uomo che risale da un battesimo, è stato chiamato “figlio” da una “voce dal cielo”; egli è condotto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo. “Allora il diavolo gli disse: Se tu sei figlio di Dio… ”, provalo comandando alla materia: (“…dì che questi sassi diventino pani”), alla morte: (“…dal pinnacolo del tempio… buttati giù”) e a tutti gli altri uomini: (“…tutti i regni della terra… ti darò… se ti prostri dinanzi a me”). Il diavolo fa del tutto-potere, del tutto-godere la prova della filiazione divina. E Gesù risponde con parole della sua tradizione che gli consentono di sventare le parole di Satana e di smascherarlo.

Senza continuare a lavorare su questo testo, sul quale ci sarebbero tante cose da ricercare, me ne ritorno alla Bibbia dove si trova la storia più lunga del diavolo. Giobbe (7), l'uomo integro. E tuttavia… “i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: Forse i miei figli hanno peccato e hanno benedetto - l'autore non ha osato scrivere “maledetto” - Dio nel loro cuore. Così faceva Giobbe ogni giorno.

Dei sacrifici per annullare, non una colpa reale commessa dai figli, ma una colpa immaginaria supposta da lui, Giobbe. Colui che crede di incarnare il Bene suppone negli altri il male e colpisce - qui a colpi di sacrifici preventivi e illimitati (“tutti i giorni”). Certo Giobbe non bombarda i suoi figli, ma annulla la loro parola. Ora, ecco il seguito: Satana, parlando con Dio, gli dice che Giobbe non è per niente integro, ma che lui, Dio, “ha messo una siepe intorno a lui”. Ma, aggiunge Satana, “tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”. E infatti quando Giobbe ha perduto tutto, persino la pelle, egli “aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un uomo!”.

Ciò che esce dalla bocca di Giobbe quando infine “apre la sua bocca” è molto vicino a quel che supponeva nei suoi figli: egli maledice, non il suo dio, ma “il giorno” che da Lui ha ricevuto, e vorrebbe abolire la sua nascita. Così la voce chiamata “Satana” portava veramente in sé ciò che Giobbe rimuoveva: il desiderio di maledire la propria vita, lui l'uomo troppo perfetto che non aveva accesso a “ciò che l'anima umana custodisce di incontrollato”, come dice Freud, se non proiettandolo sugli altri. È forse una coincidenza? all'inizio del libro le tre figlie di Giobbe non avevano casa (andavano dai fratelli). Alla fine Giobbe, finalmente chiamato “loro padre”, nomina le sue tre figlie e “le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli.” Aveva dunque all'inizio misconosciuto l'immagine di Dio, il maschile e il femminile.

La diabolizzazione degli altri

Il diabolico sarebbe insieme interno alla psiche e emanerebbe dalla relazione con gli altri, là dove un limite è stato misconosciuto o violentato: non soltanto i limiti dei sessi e delle generazioni, ma anche quelli che separano l'umano dall'animale e dal divino, il vivo dal morto, e tutti gli altri… Il diavolo non è forse rappresentato il più sovente come un miscuglio: un volto di uomo, dei seni, una lunga coda? Ciò che l'uomo non può intendere dalla sua anima incontrollata, un giorno o l'altro gli ritorna. O diabolizza gli altri, come Giobbe al principio. Oppure prende la strada della parola, ancora come Giobbe - parlare del proprio dolore, dire la propria collera contro l'origine… Rimane la soluzione di Gesù, ma sono pochi coloro che trovano al primo impatto nella prova del diabolico il simbolismo che ne viene a capo.



Note

1) Marie Balmary, psicanalista. Ha pubblicato diverse opere fra cui Le Sacrifice interdit, Freud et la Bible (Grasset, 1986) e Abel ou la Traversée de l'Eden (Grasset, 1999).

2) La naissance de la psychanalyse (Puf, 1973, p.165).

3) Cf. Louise de Urtubey, Freud et leDiable (Puf, 1983).

4) Sigmund Freud, L'Interprétation des rêves (Puf, 1976, p.521).

5) Genesi 2,25 e 3,1.

6) Luca 4, Matteo 4.

7) Il Libro di Giobbe.


(in Le monde des religions, 2005, 10, p. 40-41)
Domenica, 05 Febbraio 2006 17:27

Diagnosi del peccato (Vincenzo Scippa)

Diagnosi del peccato

di Vincenzo Scippa





1. AMOS: PECCATO E CASTIGO

Amos, il primo profeta scrittore dell'VIII secolo, di Tekòa, villaggio non molto distante da Gerusalemme, possidente agricolo ed allevatore di bestiame nonché incisore di sicomori (1,1; 7, 14) fu mandato da Dio a predicare nel regno del Nord (7, 15) al tempo del re di Giuda Ozia e del re d'Israele Geroboamo II. Franco ed essenziale, in conformità al suo stile di vita, Amos va direttamente al nocciolo dei problemi, stigmatizzando il male del suo tempo nei suoi molteplici aspetti. Esso derivava, come ovvia e naturale conseguenza, dal periodo di particolare benessere del regno di Geroboamo II, dovuto alle sue conquiste e diplomazia, e dal momentaneo ecclissarsi sulla scena mondiale delle superpotenze del tempo: Assiria ed Egitto.

Forte della chiamata di Dio (7,14-15) e psicologicamente condizionato da Lui come dal ruggito del leone (3,8), Amos denuncia la situazione generale di grande ingiustizia e di grande ipocrisia venutasi a creare, nonché il conseguente castigo divino. E così il libro quasi per intero (ad eccezione di 9,11-15, di mano posteriore) è pervaso dal tema del peccato e del conseguente castigo divino. Per quanto riguarda il peccato sono accusati sia gli Israeliti, sia le nazioni.

Il peccato degli Israeliti

A parte l' accusa generale contro tutta la stirpe che Dio ha fatto uscire dall'Egitto (cf 3,1-2), Amos scaglia le frecce più pungenti in particolar modo contro i notabili del popolo, chiamati «spensierati di Sion» (6,1), contro i commercianti (8,4-8), contro le donne ricche di Samaria, chiamate in senso dispregiativo «vacche di Basan» (4,1) e contro altri, di cui si denuncia il peccato anche senza individuarli secondo la loro categoria (3, 10.12; 5,7.10-11.18; 8,13-14).

Scendendo più nel concreto possiamo riassumere la situazione di ingiustizia denunciata da Amos sotto due aspetti: contro il prossimo e contro Dio.

Ingiustizia contro il prossimo

Si denuncia, da una parte, l'oppressione e l'esosità dei ricchi nei riguardi dei più poveri e più deboli e, dall'altra, la ricchezza illecita ingiustamente acquisita da un 'avidità che non si fa scrupoli di calpestare gli altri (3,9-10; 5,11; 8,5-6) e che sfocia nel lusso sfrenato, portando all'indifferenza per il destino del popolo (6,1-2.6.13) e alla licenziosità dei costumi (3,12-15; 4,1; 5,11; 6,4-6). Si parla di disordini, violenze e rapine (3,9-10). Le donne di Samaria sono accusate di opprimere i poveri; sulla loro pelle, esse prendono l'iniziativa, rivolgendosi ai loro mariti o amanti, di incominciare la gozzoviglia che sfocia poi nella lussuria (4,1).

Amos denuncia i ricchi di schiacciare l'indigente estorcendogli ingiustamente una parte di grano, con il cui disonesto profitto vengono costruite case lussuose con pietre squadrate e vigneti deliziosi (5, 11 ); rimprovera i commercianti di calpestare gli umili del paese, esercitando un'attività truffaldina e fraudolenta diminuendo le misure (di capacità), aumentando il siclo (misura di peso) e usando bilance false (8,4-8); comprando inoltre per denaro gli indigenti ed il povero per un paio di sandali, bisognosi cui si riesce a vendere anche lo scarto del grano (cf 2,6-8).

Questo stato di cose è sfacciatamente messo in mostra dal possesso di beni che non sono alla portata di tutti, e dalla vita lussuosa che i ricchi conducono. Amos denuncia infatti il possesso di divani e coperte preziose, della doppia casa: quella d'inverno e quella d'estate, delle case d'avorio, dei grandi palazzi (3,12.15), delle case fatte con pietre squadrate, delle vigne deliziose (5, 11), dei letti d'avorio (6,4), tutte cose che i poveri non si potevano permettere. La mollezza e la sfrenatezza della vita è mostrata ancora dalle gozzoviglie (4,1; 5,11) al suono dell'arpa e degli strumenti musicali, dell'uso di unguenti raffinati (4,4-6), dall'immoralità e dalla prostituzione (2,7-8).

Ingiustizia contro Dio

L 'ingiustizia contro il prossimo non è che una delle facce della medaglia. L 'ingiustizia contro Dio consiste nel tentativo di camuffare la grave ingiustizia sociale con il culto esteriore formalistico, che si macchia anche di impurità, per che sincretistico e idolatrico. Infatti le stesse visite-pellegrinaggi ai santuari (Betel, Galgala. ..) sono inquinate. Esse servono a far peccare ancora di più (4,4-5) e provocano l'ira di Dio che infierisce contro gli altari di Betel «i cui corni saranno spezzati e cadranno a terra» (3,14). Il Signore non vuole tale culto falso ed ipocrita. È impressionante, per la forte presa di posizione contro le feste e contro il culto formalistico in genere, la seguente profezia:

« lo detesto, respingo le vostre feste
e non gradisco le vostre riunioni,
anche se voi mi offrite olocausti
io non gradisco i vostri doni
e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo.
Lontano da me il frastuono dei tuoi canti:
il suono delle tue arpe non posso sentirlo!
Piuttosto scorra come acqua il diritto (mishpat)
e la giustizia (sedaqah) come un torrente perenne.
Mi avete forse offerto vittime e oblazioni nel deserto
per quarant'anni, o Israeliti?
Voi avete innalzato Siccùt vostro re
e Chiiòn vostro idolo,
la stella dei vostri dèi che vi siete fatti.
Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco,
dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti»
(5,21-27).

Con una sequenza di espressioni molto forti il Signore afferma decisamente che «odia» (sāne’tî) e «rigetta» (mā’astî) offerte ed olocausti e cerimonie liturgiche, ma che vuole giustizia e che si cerchi sinceramente lui (5,4.6). Il culto genuino è perciò subordinato a questo, altrimenti è solo segno di ipocrisia e di vanità.

A causa di questi peccati, sia di Israele, sia di Giuda (2,4-5), che sono numerosi ed enormi, il Signore deve necessariamente comminare il castigo. Tali peccati infatti comportano anche l’incapacità di emendarsi, data l'assuefazione ad essi, per cui non si ascolta più «chi ammonisce alla porta» e «chi parla secondo verità» (5, 10), si resta incalliti nel male e insensibili a tanti avvertimenti (4,6-12). Il castigo ha, sì, il carattere di punizione (cf 3,11; 4,2-3; 6,7), ma è principalmente un estremo tentativo per indurre i peccatori a penitenza. È interessante a proposito la profezia di 4,6-12 ove il profeta, sulla falsariga delle dieci piaghe dell'Esodo (Es 7,8-12,34), ricorda la mancanza di pane, il rifiuto della pioggia, l'invio della ruggine e del carbonchio e delle cavallette che hanno mangiato il raccolto, della peste e la conseguente moria degli animali, e l'uccisione di spada dei giovani. E dopo queste reminiscenze, come un intercalare si ripete ben cinque volte, a mo' di ritornello, l'amara seguente constatazione: «e non siete ritornati a me (we lo'-shavtem 'aday), dice il Signore ».

Il castigo è caratterizzato sia da affermazioni generali (2,13; 5,17) sia da punizioni più circostanziate quali: invasione nemica (3,11; 6,14), rovina e devastazione (5,9; 6,11), esilio (5,27; 6,7), morte e lutto conseguente (5,16-17) e deportazione (4,2-3; 6,6; 9,4.9).

Il peccato delle nazioni

Anche gli altri popoli sono accusati di peccato, anche se per lo più non si tratta di azioni contro lo stesso Israele. Ciò vuol dire che Amos crede alla validità universale di alcune regole morali garantite da Dio, sebbene non in riferimento al patto di alleanza. Si può affermare perciò che in Amos I 'universalismo teologico sfocia nell'universalismo morale.

Il profeta rimprovera a Damasco (Siria) di aver annientato i vinti di Galaad passando sui loro cadaveri come si passa con la trebbiatrice sui campi (scena di freddo sadismo e brutalità che raccapriccia) (1,3). Rimprovera i Filistei, gli Edomiti e i Fenici di Tiro di aver praticato il commercio degli schiavi («hanno deportato popolazioni intere») (1,6-10). Rimprovera gli Ammoniti per aver compiuto in guerra misfatti atroci, come sventrare le donne incinte (1,13). Rimprovera i Moabiti per aver bruciato le ossa del re di Edom. La cremazione infatti era ritenuta un crimine abominevole perché rendeva infelice il defunto nell'oltretomba (2,1). Rimprovera gli Edomiti per aver lottato contro il loro «fratello» (Israele), discendendo essi da Esaù fratello di Giacobbe capo stipite degli Israeliti (cf Gn 25,21-24.29-30). Essi hanno mantenuto viva la loro inimicizia e ostilità verso gli Israeliti con «un'ira senza fine» (1,11) e conservando «lo sdegno per sempre » (1, 12). Rimprovera infine i Fenici di Tiro perché non hanno rispettato l'alleanza fraterna con Israele, alleanza di antica data (cf 1 Re 5,26; 9,10-14) sancita anche con matrimonio (1 Re 16,31) (1,9).

Come per i peccati d'Israele, anche per quelli dei popoli sono preparati i castighi. Essi sono per lo più di tre tipi: la distruzione con il fuoco (1,4.7.10.12.14; 2,2.5), la deportazione in esilio (1,5.15), la guerra (1,8.14; 2,2). I peccati infatti violano l'ordine divino delle relazioni tra i popoli, ordine voluto da Dio come uno scudo di salvezza per tutti gli uomini. Perciò Dio non può restare indifferente a tale violazione, che è anche fondamentalmente ingiustizia.

Dall'analisi precedente si deduce che in Amos prevale la tematica del peccato e del castigo, ma non è assente quella della salvezza, sebbene in prospettiva, quasi in sottofondo e in tono sfumato. A parte i due oracoli di salvezza tardivi (9,11-12.13-15), si può scorgere tale speranza nel tema del «resto» d'Israele (3,12; 5,1-3.15) a patto che esso ritorni a Dio: «Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto (mishpat); forse il Signore, Dio degli eserciti avrà pietà del «resto» (she'erît) di Giuseppe» (5,15).


2. OSEA: PECCA TO E PERDONO

Osea ha predicato nel Regno del Nord fra il 750 ed il 752 circa, nello stesso quadro storico mondiale in cui si è elevata la protesta ferma di Amos contro l'ingiustizia e l'ipocrisia. L 'epoca di Geroboamo Il è alla fine (7,8) e la prosperità del suo regno sta volgendo al termine. Il messaggio di Osea quindi coincide in parte con quello di Amos per la denuncia delle ingiustizie, della corruzione (4, 1-2) e del falso culto (6,4-6; 5,6; 8, 11.13).

Il profeta è simbolo vivente del messaggio di Dio al popolo: in se stesso, nella persona della moglie e in quella dei suoi tre figli, i cui nomi stessi (Lo' -rûhamah «Non-amata», Lo'- 'am-m î«Non popolo mio», Jizre'el «Dio semina»; cf Os 1,4.6.9) suonano come un atto di denuncia dell'infedeltà d'Israele nei confronti dell'alleanza.

Ma Osea rispetto ad Amos sottolinea fortemente la condanna dell'idolatria che, stando al suo vocabolario sponsale diffuso in tutto il libro, chiama prostituzione (zenût). Essa si può considerare sotto due aspetti: idolatria cultuale e idolatria politica. Questo è dovuto in particolar modo alla crisi religiosa che imperversa nel paese (cf 2 Re 14,24; 15,9.18.24.28; 17,2) (favorita dalla situazione politica, specialmente dopo la morte di Geroboamo Il) e all'influsso assiro, che causa la spaccatura dell'unità politica e il formarsi di diverse fazioni.

L 'idolatria cultuale

In un quadro molto realistico Osea descrive la situazione religiosa della Samaria.

Il culto jahvista nei santuari nazionali è solo formale ed esteriore (7,14a; 8,11-13) e, in più, fortemente contaminato (6,10). Gli altari stessi sono diventati occasione di peccato (8,11-13). Si adora Baal e si praticano i suoi riti di fertilità (4,12-13; 7,14b; 9,1); si adora il vitello d'oro, che il popolo equivocando ha identificato con Iahvè stesso (8,5-6), mentre al principio quando fu istallato da Geroboamo I (1 Re 12,28-30) era solo simbolo della presenza di Dio in mezzo al popolo senza fare alcuna difficoltà (il suo culto non è stato mai osteggiato da Elia ed Eliseo!).

Si viene così meno al I e Il comandamento; come se ciò non bastasse, tale culto portò di conseguenza alle pratiche immorali, proprie delle religioni cananee.

Le stesse classi dirigenti, civili e religiose, non ne furono esenti e, prese dalla violenza della contaminazione, dimenticarono anche i loro doveri e obbligazioni.

Così si scaglia Osea contro i sacerdoti ed i profeti del tempo, accusandoli:

« Ma nessuno accusi. nessuno contesti..
contro di te, sacerdote, muovo l'accusa.
Tu inciampi di giorno
ed il profeta con te inciampa di notte
e fai perire tua madre,
Perisce il mio popolo
per mancanza di conoscenza.
Poiché tu rifiuti la conoscenza,
rifiuterò te come mio sacerdote;
hai dimenticato la legge del tuo Dio,
io dimenticherò i tuoi figli.
Tutti hanno peccato contro di me;
cambierò la loro gloria in vituperio.
Essi si nutrono del peccato del mio popolo
e sono avidi della sua iniquità.
Il popolo e il sacerdote avranno la stessa sorte;
li punirò per la loro condotta,
e li retribuirò dei loro misfatti.
Mangeranno. ma non si sazieranno,
si prostituiranno, ma non avranno prole,
perché hanno abbandonato il Signore
per darsi alla prostituzione»
(: culto idolatrico) (4,4-10)

E così rimprovera le autorità civili e religiose:

« Ascoltate questo, o sacerdoti,
state attenti, gente d’Israele,
o casa del re, porgete l'orecchio.
poiché contro di voi si fa il giudizio...
Io conosco Efraim
e non mi è ignoto Israele.
Ti sei prostituito, Efraim!
Si è contaminato Israele.
Non dispongono le loro opere
per far ritorno al loro Dio,
poiché uno spirito di prostituzione è fra loro
e non conoscono il Signore.
L’arroganza d’Israele testimonia contro di lui,
Israele ed Efraim cadranno per le loro colpe
e Giuda soccomberà con loro.
Con i loro greggi e i loro armenti
andranno in cerca del Signore,
ma non lo troveranno:
egli si è allontanato da loro.
Sono stati sleali verso il Signore,
generando figli bastardi:
un conquistatore li divorerà
insieme con i loro campi»
(5,1-7).

Le conseguenze di questa irreligiosità e immoralità si fanno sentire nella vita sociale. Infatti dice amareggiato il profeta: «Non c'è sincerità, ne amore del prossimo, ne conoscenza di Dio nel paese. Si giura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio, si fa strage e si versa sangue su sangue» (4,1-2); «come banditi in agguato una ciurma di sacerdoti assale sulla strada di Sichem, commette scelleratezze» (6,9); «...si pratica la menzogna: il ladro entra nella casa e fuori saccheggia il brigante» (7, 1).

L 'idolatria politica

Il tentativo della monarchia di cercare la salvezza al di fuori del vero Dio (12,1-2) alleandosi con altri popoli come l' Assiria e l'Egitto, le due superpotenze più in auge del momento (5,13; 7, II; 8,9) rivela in fondo la perdita della fiducia in Dio Salvatore. La monarchia si è allontanata da Dio (8,4; 9,15) e ha perso il senso religioso della sua origine considerandosi alla pari di quella di altri popoli (7,8; 8,8.14). L'istituzione monarchica secondo Osea, è «frutto della collera di Dio» (13,11), quasi una concessione strappata a forza e concessa malvolentieri (cf 1 Sam 8-12, ove si fondono insieme la col1cezione a favore dell'istituzione monarchica e quella contraria ad essa).

Per questo Osea annuncia il castigo, che seguirà la legge del contrappasso :

« Non darti alla gioia, Israele,
non far festa con gli altri popoli,
perché hai praticato la prostituzione,
abbandonando il tuo Dio,
hai amato il prezzo della prostituzione
su tutte le aie da grano.
L'aia e il tino non li nutriranno
e il vino nuovo verrà loro a mancare.
Non potranno restare nella terra del Signore,
ma Efraim ritornerà in Egitto
in Assiria mangeranno cibi immondi»
(9,1-3).

Il perdono

L 'atteggiamento di Dio davanti al peccato del popolo e dei suoi governanti è delineato dal poema di 2,4-25, ove si enumerano tre possibilità di atteggiamento davanti alla sposa infedele ed adultera: a) porle davanti degli ostacoli per impedirle di andare dagli amanti (idoli) e quindi costringerla a ritornare (vv. 8-9); b) castigarla in pubblico duramente (vv. 10-15); c) concederle il perdono solo per puro amore, fare un nuovo viaggio di nozze ed un nuovo regalo nuziale per restaurare l'intimità coniugale come in un nuovo matrimonio. Prevale infine questa terza ipotesi: quella dell'amore gratuito di Dio.

Si ha, quindi, in Osea, una logica nuova rispetto a quella che ci saremmo aspettato. Anziché la sequenza «peccato-conversione-perdono», si ha «peccato-perdono-conversione». Il perdono precede la conversione (è la novità che apre al Nuovo Testamento! ; cf Rm 5,8). Dio perdona prima che il popolo si converta e sebbene non si sia ancora convertito! La conversione è risposta all'amore di Dio, più che una condizione previa allo stesso perdono (cf 1 Gv 4,10). Si ha così il passaggio dall'immagine di Dio «sposo» a quella di Dio «padre» (11, 1-9; 14,2-9). Questa consolante rivelazione diventa più esplicita e attuale con Cristo che incarna e manifesta la misericordia del Padre!

(da Parole di Vita)

Venerdì, 03 Febbraio 2006 21:41

La salvaguardia del creato (Faustino Ferrari)

Si potrebbe ritenere che sia ben poca cosa l’abbattimento di qualche albero, di fronte allo scempio cui quotidianamente alcune potenti multinazionali sottopongono vaste zone delle foreste tropicali.

Il tema della formazione liturgica di pastori e laici appare indispensabile alla luce dell'icona additata da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo millennio ineunte.

Venerdì, 03 Febbraio 2006 21:19

Lezioni di storia (Marcelo Barros)

Lezioni di storia
di Marcelo Barros


Proviamo a sognare! Vi invito a immaginare un'umanità che è riuscita a porre fine a progresso della natura, a mettere da parte il dogma neo-liberalista, che sacrifica tutto al dio-mercato, e a eliminare per sempre l'industria delle armi. Immaginiamo ancora che, nel secolo XXII, i giovani leggeranno soltanto sui libri di storia i tristi capitoli scritti dalle sofferenze attraverso cui gli esseri umani sono passati, per poi uscire finalmente dalle barbarie della competizione e entrare nella civiltà della collaborazione e della pace.

Non ho mai creduto nella linearità della storia, né che esista un modello di cultura più avanzato degli altri. Sto solo servendomi di una "parabola" che ha il solo scopo (forse anche il vantaggio) di consentirci, almeno con l'immaginazione, di collocarci nel futuro per parlare del presente. Si tratta, dopo tutto, di una tecnica cui fecero ricorso i profeti di un tempo e Gesù Cristo, L'hanno definita "apocalittica", nel senso di "svelamento", "sottrazione del mistero".

Se avete la bontà di ascoltare il mio sogno, allora ve lo racconto in poche battute. Sogno un'Organizzazione dei Popoli Uniti (Opu), che avrà sostituito quella delle Nazioni Unite (Onu, oggi già "vecchia" e decrepita a soli 60 anni!) e che, tra le altre cose, avrà il compito di gestire musei specializzati per ricordare alle generazioni future come le società evolvono, fino alla possibilità che ogni popolo si organizzi sul proprio territorio come meglio crede, abbia la necessaria autonomia, senza, per questo, vivere isolato dal resto dell'umanità. La immagino come Assemblea generale di popoli, che avrà come primo scopo quello di valorizzare le diverse culture e sviluppare il riconoscimento della Terra come Madre comune di tutti gli esseri umani, senza barriere di circolazione, e senza alcuna discriminazione razziale, sociale ed economica.

Questo "balzo in avanti" mi aiuta a sorridere di me stesso e del mondo di oggi. Come si farà nel 2250, ad esempio, a spiegare la bontà, la logicità di alcune scelte fatte dall'umanità alla fine del XX secolo? Come si racconterà l'incontro dei G8, avvenuto nel lontano luglio 2005, in una sperduta località della Scozia, chiamata Gleneagles, in cui i capi delle nazioni più ricche del mondo si riunirono per garantire che il sistema economico dominante (e che beneficiava esclusivamente loro stessi) si perpetuasse il più a lungo possibile? Nei libri di storia di nostri pro-pro-nipoti, ci potrà essere un riquadro, intitolato: "Mostruosità di altri tempi", in cui si leggerà: «All'inizio del XXI secolo, il reddito annuo delle 70 famiglie più ricche dell'emisfero nord superava quello annuo complessivo di l.455.000.000 di persone che abitavano nell'emisfero sud».

Negli stessi testi figureranno altre "bruttezze estreme": «In quei tempi, in una sola mezza giornata, l'esercito nordamericano spendeva l'equivalente di quanto l'allora Onu aveva a sua disposizione in un intero anno per combattere in Africa l'Aids (sigla formata con le iniziali dell’espressione inglese Acquired Immune Deficency Syndrome, con cui si indicava, fino al 2025, una malattia che colpiva prevalentemente tossicodipendenti e omosessuali nel nord del mondo, e tutti indistintamente nel sud, caratterizzata da una riduzione delle difese cellulari dell'organismo e da manifestazioni cliniche spesso mortali) e malaria (una malattia parassitaria, oggi sconosciuta ma allora mortale, causata da plasmodi che, introdotti nell'organismo umana da zanzare [sic!] del tipo anofele, si riproducevano in seno ai globuli rossi provocando tipici accessi febbrili, con distruzione dei globuli rossi e conseguente anemia)».

E ancora: «Disumanità passate - In un incontro dei leader delle nazioni più ricche del mondo, avvenuto agli inizi del XXI secolo, si declinò l'invito a mettere a disposizione delle agenzie umanitarie di quel tempo la cifra irrisoria di 13 milioni di dollari (moneta usata allora negli Stati Uniti ma adottata da tutti come valuta di scambio, ndr) perchè si potesse eliminare la fame nel mondo. La crudeltà di quel rifiuto stava nel fatto che gli abitanti di una sola di quelle nazioni, gli Stati Uniti, consumavano ogni anno 17 milioni di dollari in cibo per cani e gatti. Anche gli Europei di quel tempo amavano molto i propri animali: erano, infatti, pronti a sovvenzionare ogni loro mucca con 913 dollari l'anno, destinando 8 dollari l'anno agli affamati abitanti del continente africano».

I futuri scolari e studenti ci considereranno "autentici barbari". E costateranno - come si è sempre costatato durante secoli di storia - che non sono i ricchi e i potenti a liberare o sviluppare i poveri. Studieranno che la liberazione dalle varie schiavitù, il superamento del razzismo e la fine di ogni tipo di discriminazione sono sempre state conquiste fatte dalle vittime (anche se non è da sottovalutare il sostegno ricevuto da intellettuali onesti e persone di buona volontà).

Questo sogno, ovviamente, appartiene al futuro. Se dovrà realizzarsi, sarà necessario che la storia di oggi conosca radicali svolte. Svolte che saranno - manco a dirlo! - soprattutto sforzo di africani, latino-americani e asiatici, decisi a diventare protagonisti della propria vita e fautori di trasformazioni.

Ha detto un capo indio: «La tua azione di oggi sarà buona, se penserai al risultato concreto che potrà produrre. Sarà ancora migliore, se saprai anche prevedere le sue conseguenze per le generazioni future. Oggi dobbiamo agire, estendendo il nostro pensiero fino all'ottava generazione a venire».

(da Nigrizia, settembre, 2005)

Venerdì, 20 Gennaio 2006 00:40

Chi semina vento... (Giuseppe Scattolin)

Chi semina vento...

di Giuseppe Scattolin


Fare i profeti è sempre stato un mestiere rischioso. Oggi che il termine "profeta" è stato banalizzato e ridotto a "futurologo", è addirittura temerario. Eppure, la futurologia va molto di moda nel nostro mondo così secolarizzato e così pieno di banali superstizioni. (Quale interessante materia di studio per gli antropologi!).

Se però "profeta" sta ad indicare uno che cerca di leggere in profondità la realtà presente, per indicare quali potrebbero essere le conseguenze di alcune premesse, allora siamo in piena tradizione biblica. In tal caso, la mia risposta è la seguente: «Il futuro dipenderà dalle premesse che insieme creiamo».

Come ho già più volte detto da queste pagine, il mondo islamico odierno ha bisogno di una seria riflessione per uscire da un atteggiamento puramente apologetico (per lo più rivolto al passato) e per assumere più seriamente le sfide che la convivenza nel "villaggio globale" umano impone a tutti. Mi riferisco, in particolare, al tema dei diritti umani fondamentali, quali una vera libertà di coscienza, l'esigenza di un'autentica giustizia sociale, e l'apertura alle altre religioni e culture. A questo riguardo, non mi stancherò mai di ripetere che non tutti i musulmani sono estremisti. Esistono pensatori musulmani che affrontano tali tematiche con serietà ed impegno, ma sono per lo più isolati, se non addirittura perseguitati ed eliminati dalle società islamiche. Ed è la prima "premessa" negativa.

Se però questi pensatori trovassero maggior sostegno, sia dentro che fuori i loro paesi di origine, allora si potrebbe cominciare a respirare un’aria più pluralista all’interno delle società islamiche. Da qui, la fondata speranza che a prevalere non sarà l’islam del tradizionale "imperialismo religioso islamico" (come personalmente preferisco chiamarlo) o dell’"islam politico" (come viene definito più correttamente), ma l’islam dei valori umani di libertà e giustizia, cioè quell’islam che dà una ragione d’essere ad un "umanesimi islamico".

Nelle società occidentali, invece, bisognerà vedere se a fare la parte del leone sarà la politica dell'"imperialismo liberista (o libertinista) finanziario" americano, tragicamente caratterizzato dall'arroganza e dalla più totale ignoranza della situazione culturale dei popoli islamici. Se sarà così, allora si sarà posta una premessa tragicamente negativa, che avrà, come conseguenza, una sempre più violenta reazione da parte dei popoli islamici, dominati da correnti estremiste e violente, che soffocheranno sul nascere ogni tentativo di rinnovamento interno. L'Iran dal post-Khomeini è lì a dimostrare ciò.

Se, invece, come ci si augura, prevarrà una politica illuminata dal rispetto dell'altro e dal sincero impegno per un apertura verso un pluralismo culturale e religioso, sostenendo persone e movimenti che si muovono in tal senso (anche se non potranno contraccambiare con i pertrodollari), allora non è da escludere la speranza che anche i popoli del mondo islamico potranno aprirsi agli altri "quartieri" del villaggio globale in spirito di fraterna collaborazione ed amicizia.

Non vorrei apparire pessimista. Ma ritengo che i recenti sviluppi della situazione mondiale abbiano avuto un segno più negativo che positivo, sia dentro che fuori i paesi islamici. Ma siamo sempre in tempo. Anzi, è necessario cambiare la nostra politica ed il nostro indirizzo culturale. Non si tratta più di domandarci se sia o meno possibile il dialogo, ma di convincerci che non esiste alternativa ad un dialogo serio ed impegnato. L’altra alternativa, infatti, sarà una terza guerra mondiale. Che, in parte, è già cominciata con la guerra scatenata dalle bande "terroriste", e che noi occidentali abbiamo alimentato con la nostra miope politica dei petrodollari.

Si tratta, quindi, d'impegnarci seriamente a creare premesse positive, certi che l'albero buono darà frutti buoni.

(da Nigrizia, gennaio 2004)

Search