Religioso Marista
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Educare alla pace
Conferenza Episcopale Italiana
Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace
1. - La pace è una promessa e insieme un'invocazione, che nasce nel profondo dell'essere di ogni uomo e ogni donna. In essa si proiettano immagini di tranquillità e di sconvolgimento, di fratellanza e di conflitto, di vita e di morte; essa vive della memoria del dolore, della paura che il dolore si rinnovi, della speranza di esserne risparmiati. La pace appare come la condizione e la sintesi di ogni altro bene desiderato.
Eppure c'è uno scarto tragico fra la sincerità dell'invocazione e la realtà della vita. Si fa la guerra affermando di avere in cuore la pace. In nome del proprio sogno si contrasta il sogno dell'altro e non gli si fa posto. Il conflitto è contrabbandato come il prezzo inevitabile da pagare per la quiete e l'ordine, spesso identificati con la vittoria e la tranquillità del più forte. E il sangue di Abele continua a gridare dai solchi della terra (cf. Gen 4,10).
2. - È allora spontaneo chiederci: perché questa contraddizione? Se la pace, sempre inseguita, sembra sempre sfuggire al possesso dell'uomo, non ci sarà nella stessa condizione umana qualcosa che impedisce il realizzarsi del sogno?
Certo la pace chiama in causa le istituzioni, nelle quali si esprimono e vengono regolate la vita e le relazioni dei popoli. Ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà. La guerra non è altro che la massificazione dei gesti di ostilità fra uomo e uomo, quotidianamente vissuti e dispersi nelle inimicizie, nelle sopraffazioni, negli egoismi individuali. Cambiare le istituzioni è quindi necessario, ma resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore dell'uomo.
Infatti il volto definitivo dell'uomo non è quello del carnefice né quello della vittima, perché entrambi si mostrano disumani. Nel profondo dell'esistenza personale l'uomo avverte che la propria "verità totale" è una sorta di traguardo: egli "diventa" uomo, nella continua tensione verso la pienezza del proprio essere. Poiché dunque il dinamismo che accompagna tale crescita è l'educazione, se si vuole che il seme dell'invocazione alla pace diventi frutto, occorre educare alla pace.
3. - È questa la prospettiva nella quale intendiamo metterci, concludendo un itinerario di riflessione e proposta, che è iniziato con il tema dell'educazione alla legalità (1991) ed è passato attraverso il tema dell'educazione alla socialità (1995).
Le pagine che seguono si propongono anzitutto di ascoltare, raccogliere e condividere con ogni uomo e donna le contraddizioni e le attese contenute nell'invocazione umana alla pace. Nelle ambiguità che accompagnano l'invocazione si profilano infatti appelli rigorosi alla conversione, che coinvolgono insieme credenti e non credenti. Nella tensione costruttiva, che comunque l'invocazione rivela, spuntano valori umani che vanno condivisi e stimati per se stessi, ma che - per chi crede in Gesù di Nazaret - si manifestano pure come germi del regno di Dio che cresce nella storia, fino alla pienezza di novità del giorno ultimo (cf. Parte prima).
I credenti in Cristo sanno di dover condividere l'invocazione di pace di tutta l'umanità, ma anche la ricchezza del messaggio evangelico sulla pace, donato loro per grazia, rivolto però a tutta l'umanità. Una sintetica proposta di tale messaggio viene quindi offerta fraternamente, come contributo al crescere della speranza e della responsabilità collettive (cf. Parte seconda).
Dall'ascolto e dallo scambio nasce infine la proposta di alcune linee per un progetto di educazione alla pace, con l'unico desiderio di contribuire all'elaborazione di un itinerario educativo che si mostri condivisibile e vivibile. Le sue ragioni vanno perciò fondate sull'invocazione umana più vera e drammatica, e vanno alimentate ai valori di vita che la fede cristiana aiuta a riconoscere e a vivere come dono dall'alto, ma che ognuno può scoprire scrutando il proprio cuore. La pace infatti è di tutti e può nascere solo con l'opera convergente di tutti (cf. Parte terza).
PARTE PRIMA
IN ASCOLTO DEL GRIDO DI PACE CHE NASCE DAI CONFLITTI
4. - Il secolo che si va chiudendo ha conosciuto esperienze terribili di guerre di sterminio e di ecatombe nucleare. Ma quando sono caduti i muri della contrapposizione tra blocchi politici e ideologici, la guerra - per certi versi diventata "fredda" e per altri spesso dislocata sui fronti dei popoli emergenti - ha mutato volto. Essa si è come frantumata e disseminata in una miriade di conflitti particolari, così orrendi da suscitare perfino il pudore di nominarli, nel timore che la ripetizione diventi "informazione consumatoria" e impedisca di sussultare e di gridare lo sgomento.
Si possono infatti usare con sufficiente distacco termini come conflitti locali o etnici o tribali, guerra civile, terrorismo, sfruttamento economico di massa... Ma con quali parole si possono nominare i genocidi e le violenze delle "pulizie etniche" di ogni tipo e colore? o le stragi sanguinose degli scontri tribali e delle azioni terroristiche organizzate contro i civili? Come parlare dei corpi dilaniati dalla bomba che esplode nel mercato? o delle masse dei disperati costretti a fuggire da una terra desertificata dallo sfruttamento operato da poteri economici estranei e incontrollabili?
La stessa religione può essere utilizzata come motivo per innescare o inferocire lo scontro, talora offrendo una specie di "bandiera" che serva a identificare il "nemico", o più spesso in nome di radicalismi e fondamentalismi che offendono il volto di Dio predicando l'odio per l'"altro" in nome di Dio. Quando poi il fondamentalismo nega la libertà religiosa, esso insidia la pace perché perseguita l'uomo e gli impedisce la libera ricerca dell'Assoluto, seminata da Dio stesso nel cuore umano.
Episodi di violenza, di razzismo, di esclusione, di rifiuto, di disprezzo della vita sono ormai ogni giorno sotto i nostri occhi, dentro la quiete apparente delle nostre città e delle nostre case; si consumano nelle relazioni politicihe ed economiche, nei rapporti sociali che mettono a confronto le diversità di ogni genere. Essi esplodono nella concorrenzialità efficientistica e spietata che - in ogni campo - espelle i deboli e i vinti, nei ricatti di una vita di coppia e di famiglia sempre più attraversata da linee di frattura, nella violenza fisica e psichica esercitata sulle donne e sui bambini, nell'aggressività cieca che devasta perfino i momenti del gioco e della competizione sportiva.
5. - Pure la situazione italiana Paese presenta forme di conflitto che mettono insieme radici antiche ed espressioni nuove. Permane la violenza indotta dalla criminalità organizzata, ma lo scontro tradizionale fra gruppi di potere per il controllo del territorio assume le strategie più raffinate delle vendette "trasversali", dei "veleni" riversati sulle istituzioni, dell'investimento nel mercato di morte della droga.
Più in generale, la vita politica risente della mancanza del senso dello Stato come mediatore dei conflitti e non come erogatore di vantaggi sulla base dei rapporti di forza. Il "bipolarismo incompiuto" della politica è vissuto come polarizzazione contrappositiva di forze e non come competizione democratica e progettuale. Il conflitto fra le istituzioni (magistratura, parlamento, partiti...) offre spazi e giustificazioni apparenti a rivalse personali o di gruppo. Le rivendicazioni localistiche sono spesso frutto delle inadempienze di un sistema statale centralistico e lontano dalla vita della gente, ma mostrano anche il volto duro della difesa ad ogni costo di un benessere costruito con il proprio sudore, diventato però a sua volta estraneo alle radici solidaristiche tradizionali. Così, problemi oggettivamente gravi e difficili, quali la regolamentazione saggia e solidale dei fenomeni migratori e l'armonizzazione dello sviluppo fra Nord e Sud del Paese, mancano del contesto sociale, e non solo politico, necessario alla loro soluzione.
La stessa "diaspora politica" dei cattolici non si configura come opportunità per l'animazione di progetti legittimamente diversi, ma alimenta scontri e diffidenze incrociate, che si riproducono talora anche all'interno delle comunità cristiane, le rendono incerte e quindi silenziose e assenti.
6. - È dunque profondamente mutato il volto di ciò che fino ad ora è stato chiamato "guerra" e, di conseguenza, non può non mutare il volto di ciò che si continua a chiamare "pace".
Un aspetto è certo: se il conflitto sta perdendo sempre più i caratteri della generalità e dell'ideologizzazione, tipici di un recente passato, ciò significa che esso si sta sempre più avvicinando al vissuto dei gruppi sociali e degli individui. È quindi sempre più un problema personale e di relazioni interpersonali. È sempre più un problema di educazione. Per questo la volontà di ascoltare e raccogliere il grido di pace, che nonostante tutto si fa strada nei conflitti del tempo presente, si orienta verso alcuni appelli rilevanti e coglie alcuni fatti significativi.
Pace e giustizia
7. - Ci sono situazioni in cui l'ordine regna; ma non sempre l'assenza della guerra è sinonimo di pace. C'è infatti assenza di conflitto anche nelle situazioni di oppressione, quando il debole soggiace alla prepotenza del forte e non è in grado di reagire e di opporsi. In tal caso la pace apparente è la maschera iniqua di un ordine perverso, fondato sulla forza e sull'ingiustizia: essa sconta la propria menzogna nella minaccia di rivolta che si genera dentro alla disperazione degli oppressi.
Il giogo dell'ingiustizia infatti non è sopportabile a lungo e l'uomo che la subisce è spinto a scuoterlo, anche a costo della vita. La rivolta per la libertà e la giustizia, così frequente nella storia, è sempre stata investita di significato ideale e di una forte carica etica, anche se la bontà dei fini porta talora a giustificare un'azione violenta che non si cura della bontà dei mezzi. L'umanità comincia dunque a capire che senza giustizia non c'è pace, che per fare pace occorre cominciare a fare giustizia. Anche la giustizia però è per l'umanità un'invocazione e un sogno, che deve faticosamente farsi strada fra la resistenza della malvagità presente nell'uomo e nella storia e la debolezza delle istanze e degli strumenti che dovrebbero fronteggiarla e impedirne, o almeno delimitarne, gli effetti degeneranti.
Il dinamismo della pace impone dunque una strategia di movimento, che si armonizza con il dilatarsi degli orizzonti della giustizia, sia nel tessuto ampio e complesso dei rapporti fra uomini e fra istituzioni sia, soprattutto, nel cuore dell'uomo. Infatti la coscienza etica progredisce quando passa dall'obbedienza imposta con la sferza dei castighi alla giustizia abbracciata e praticata nella gioia. Dentro a un mondo minacciato e divorato dai conflitti, la pratica della giustizia come virtù è un fattore dinamico e operoso della costruzione della pace: i giusti sono i veri operatori di pace.
8. - La ferita più profonda inferta dall'ingiustizia è quella della violazione dei diritti umani, e quindi dei diritti dei popoli. La pace infatti non può realizzarsi quando tali diritti propri sono oppressi da una relazione prevaricatrice, o quando sono trascurati o dimenticati dal silenzio e dall'indifferenza. Anche questa intuizione, per quanto possa apparire ovvia, riceve consensi finché rimane principio astratto e viene spesso contraddetta nei fatti, specialmente quando il grido di rivolta è debole o muto. Basta pensare al diritto alla vita, violentato fin dallo sbocciare dell'essere umano nel grembo materno o manipolato da pratiche di eutanasia, segno radicale dell'incapacità dell'uomo di affrontare da solo il mistero del dolore.
La stessa logica si verifica poi quando il godimento di diritti vitali - quali la salute, la casa, l'istruzione, il lavoro... - viene abbandonato all'incontro casuale con opportunità positive o negative e con la sollecitudine o con l'indifferenza degli altri. Diversi modelli di "Stato sociale" mostrano il limite dei progetti assistenziali certo a causa della scaltra usurpazione da parte di alcuni dei benefici preparati per altre povertà, ma anche e soprattutto perché l'apparato confida nell'efficienza organizzativa e dimentica che l'uomo, prima che un catalogo di bisogni, è un cuore che chiede ascolto.
Ritardare la promozione umana è dunque ritardare la pace. La strategia minimale che si appaga di avari e misurati consensi alle istanze di giustizia e quasi ne teme le rivendicazioni, deve cedere il passo alla radicalità del principio che la promozione dei diritti umani è il criterio fondante della speranza di una pace durevole.
9. - Lo sviluppo della condizione umana sulla terra sta anche mettendo in luce nuove frontiere della giustizia, che scavalcano il tempo e lo spazio e interpellano l'umanità sui diritti delle generazioni future. Ogni generazione consegna all'altra un mondo che a sua volta ha ricevuto: può essere un mondo migliore o peggiore, segnato dalla giustizia e dalla pace o prenotato alla tribolazione e alla sventura. Per questo quanto più crescono la conoscenza e il dominio dell'uomo nei confronti del cosmo, tanto più essi si caricano di responsabilità e di doveri.
La sensibilità per questi problemi, tenuta desta dagli allarmi ecologici, ripropone l'immagine dell'uomo come custode e non dèspota del creato, impegnato a non creare condizioni di vita per il pianeta che risultino irreversibili e immodificabili di fronte alle esigenze e ai rischi del futuro. La violenza alla natura prepara altre violenze.
Pace e solidarietà
10. - La pace è opera della giustizia, e la giustizia è legata all'osservanza della regola. Può accadere però che la legge sia osservata in modo solo astratto e formale, o sia subìta come un tributo alla paura della frusta. L'uomo intende invece il linguaggio della pace quando impara il linguaggio dell'amore, quando si affaccia sulla realtà dell'altro, lo riconosce e lo accoglie nella sua somiglianza e diversità, si fa solidale con lui.
La coscienza e l'esperienza comuni avvertono infatti che l'atteggiamento di pace contiene il senso della prossimità, della fratellanza. Nel loro nome la diversità non ispira diffidenza, ma dilata il dialogo, apre alla scoperta della natura umana nella sua pienezza, accoglie e condivide l'originalità di ogni fisionomia e cultura, arricchisce l'orizzonte della collaborazione. Lo scambio di un gesto d'amore diventa riconoscimento reciproco che rassicura e ridona il senso del proprio valore. Il rifiuto di tale gesto invece fa sentire esclusi e rifiutati, e quando l'essere dell'uomo viene squalificato - da sé o da altri - nasce l'odio. Esso è un veleno piantato nel cuore che mostra un'incredibile capacità riproduttiva e genera la coazione alla vendetta: è il "nemico ereditario" della storia dell'uomo, dei popoli, delle fazioni, dei gruppi ostili. Quanto più l'odio distende le radici, tanto più vi è ostacolo alla pace.
Non solo l'odio tiene l'uomo lontano dai sentieri della pace: c'è anche il nemico, più sottile ma non meno devastante, che si chiama indifferenza. Essa nasce dalla perdita delle radici e del senso di sé e delle cose, e diventa noia, livellamento delle coscienze nel vuoto dei significati, disamore per la vita, trasgressione vissuta senza nemmeno la consapevolezza dei propri motivi, fuga nella realtà "virtuale", talora anche violenza rivolta contro sé stessi mediante la droga, le malattie anoressiche, la sfida assurda del rischio, il brivido dell'autodistruzione. È sotto gli occhi di tutti il costume di vita disumanizzante delle metropoli fatte di "folla solitaria", dove l'indifferenza è eretta a sistema e lo svuotamento dei valori e dei rapporti avviene con la pura forza della suggestione e dell'abitudine.
Una società disintegrata, che non coltiva le ragioni dell'amore alla vita, non può essere una comunità di pace. La tempra dell'uomo costruttore di pace non si manifesta sulla soglia che distingue chi odia da chi è indifferente all'odio, ma su quella che separa chi ama da chi resta indifferente all'amore.
11. - La pace nasce dalla liberazione dall'odio e dal superamento dell'indifferenza, perché ambedue rimandano all'altro un messaggio di squalificazione e impediscono il riconoscimento reciproco. Nello stesso tempo bisogna riconoscere che il conflitto esprime in modo naturale e realistico la non eliminabile presenza di interessi concorrenti o divergenti, anche dotati di una propria razionalità, per quanto parziale.
Ci sono infatti interessi simili, che si trovano a spartire risorse insufficienti per tutti, e affermano simmetricamente il proprio diritto e il proprio bisogno, in concorrenza con l'altro e non necessariamente "contro". Ci sono poi interessi contrapposti che si escludono a vicenda, per cui la soddisfazione degli uni comporta la sconfitta degli altri. La pace quindi non può essere sognata nell'annullamento dei conflitti, ma nella costruzione paziente delle vie per la loro composizione, nella giustizia e nella solidarietà, per evitare che all'interno di questi meccanismi si insinui la dinamica dell'odio e che la percezione del bene e della verità si deformi nell'esclusione dell'"altro", visto come una minaccia potenziale. La realtà dei conflitti chiede un sistema di giustizia che abbia la forza di tenere in equilibrio le rivendicazioni concorrenti o contrapposte, temperandole e convogliandole nella ricerca di soluzioni concordate nel rispetto dell'altro e del metodo democratico. Ma tale sistema rivela a sua volta la necessità di educare coscienze che riconoscano l'antagonista come un uomo dotato di pari diritti e dignità, e sappiano chiedersi se le proprie "giuste pretese" non siano calcolate sulla misura o dismisura del proprio avere attuale e se non siano la contropartita della sottomisura o dell'esclusione di altri al banchetto dei beni della terra.
Né va dimenticato infine il conflitto che nasce dallo scontro ideologico (anche di origine religiosa) e assume forme diverse ma ugualmente insidiose e implacabili. In tal caso la pace non domanda di barattare la verità con una quiete a ogni costo, né di dissiparla nell'equiparazione di ogni opinione soggettiva. L'amore per la verità sa invece distinguere l'errore dall'errante e ha la forza di mantenere l'irriducibilità delle diverse prospettive, senza compromettere la relazione umana, fatta di rispetto e di accoglienza nei confronti di ciascuno.
12. - La pace nasce dal riconoscimento reciproco e si sviluppa nel sentirsi uniti in un vincolo comune, entro un cerchio di relazioni definito e carico di interessamento affettuoso, che inizia dal rapporto familiare e si allarga sempre più fino ad abbracciare l'umanità intera.
La storia insegna come spesso la guerra sia stata scongiurata dallo stringersi di alleanze tra famiglie, gruppi, nazioni, e come la pace sarebbe definitiva se l'umanità trovasse le vie per un'alleanza globale e stabile. Per quanto però la realtà sia oggi diversa, non è comunque vano auspicare che il processo di unificazione umana continui attraverso l'ampliamento dei trattati e delle istanze di governo internazionali, non per imposizione, ma per lo sviluppo libero e condiviso della coscienza di fraternità universale.
Scelte e gesti di pace
13. - L'ascolto attento di quanto risuona nell'invocazione umana alla pace rivela anche alcune scelte e alcuni gesti già concretamente realizzati e visibili, nei quali è possibile riconoscere con gioia i germi di un futuro di speranza. Attorno a questi "semi di pace" sono anche nati movimenti di opinione a favore della pace, che si impegnano su diversi fronti per influenzare le scelte degli Stati e rivelano la loro incisività e credibilità nel riferimento a valori umani universali, non a letture ideologiche o "schierate" dei problemi. È giusto allora richiamare e riconoscere tali percorsi.
a) Il rifiuto della logica delle armi: fa ormai parte della coscienza comune la distinzione fra la violenza, che aggredisce e opprime, e la forza, che difende e soccorre. Così anche l'intervento armato può assumere il volto dell'intervento umanitario, quando più nessun'altra ragione umana si rivela capace di fermare lo sterminio e le atrocità contro gli indifesi. Non è però pensabile che la soluzione dei conflitti possa essere demandata al confronto tra i potenziali bellici messi in campo. In più la corsa agli armamenti continua a rappresentare oggi una delle piaghe più gravi dell'umanità e una delle cause più acute delle povertà nel mondo. Anche per quanto riguarda l'Italia si sa a sufficienza, malgrado i troppi e fitti silenzi, che molte armi impiegate altrove per seminare morte (comprese le micidiali mine-giocattolo che straziano i bambini) recano il marchio di fabbriche italiane. È quindi legittimo e doveroso che nel dibattito democratico siano presenti voci e strategie mirate a far cessare la produzione e il commercio delle armi, perché i loro ricavi grondano sangue.
b) La non-violenza: l'opzione per la pace si fa visibile nello stile di vita personale e di gruppo. Lo stile della non-violenza rivela una singolare capacità di provocazione. L'uomo non violento non distoglie il volto dalla brutalità dell'oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole "nemico" perché altri lo hanno definito come tale.
c) L'obiezione di coscienza al servizio militare: è una scelta che non sottrae alla responsabilità verso il proprio paese e non smentisce il principio della liceità di quel servizio. Essa si propone dunque non come disobbedienza alla legge, ma come obbedienza a una norma superiore, che vincola la coscienza; non nasce dalla semplice ripugnanza per la guerra né dalla volontà di fuggire la complicità e i rimorsi, ma è profezia di valori e di atteggiamenti non manipolabili dalle leggi dell'uomo. La stessa cultura giuridica moderna riconosce ormai in modo generalizzato l'esistenza del diritto soggettivo al rispetto della coscienza e, in numerosi Stati, l'obiezione al servizio militare è regolata per legge attraverso la sostituzione con il servizio civile. Si fa anzi strada un'ulteriore tendenza secondo la quale le ragioni della coscienza non possono essere sottomesse al vaglio di un'autorità amministrativa, per cui la scelta fra servizio militare e civile diventerebbe una pura opzione individuale. Al di là di ogni giudizio sulle scelte giuridiche che potranno essere compiute, l'originario valore di profezia dell'obiezione di coscienza non dev'essere comunque stemperato in una scelta, priva di prezzo, fra pari opportunità giuridiche. Essa deve invece suscitare la ricerca di forme più rigorose di generosità, affinché l'adesione al valore affermato (la pace) si traduca in vita reale (essere operatori di pace). Il significato autentico dell'obiezione infatti si misura sulla condotta effettiva dell'obiettore: un servizio civile offerto coscienziosamente in risposta generosa e sincera a bisogni umani reali, si propone come stile di vita che annuncia e costruisce la pace.
d) La cooperazione internazionale: si articola e si sviluppa nei rapporti fra le istituzioni mondiali, ma conosce pure la fecondità delle realizzazioni promosse dal volontariato organizzato o individuale e da esperienze del genere "non profit", quali le "banche etiche", il "commercio equo e solidale", ecc. Spesso anzi proprio le "organizzazioni non governative" raggiungono gli avamposti dove i soccorsi ufficiali non arrivano (magari perché prosciugati o dirottati strada facendo), dove "uomini senza frontiere" accostano direttamente il dolore e il bisogno, impegnando la vita per amore e non per calcolo. La cooperazione internazionale è seme di pace, perché restituisce visibilità all'appartenenza all'unica famiglia umana, scioglie la diffidenza e il timore reciproci, sostituisce la rapina con il dono.
PARTE SECONDA
CON IL DONO DELLA PACE CHE VIENE DA DIO
14. - I cristiani sanno di dover condividere con ogni uomo e ogni donna di questa terra la speranza per la pace che cresce e la responsabilità per gli ostacoli che essa incontra. Essi però sanno anche di aver ricevuto un messaggio capace di illuminare e sostenere il cammino dell'umanità e di essere quindi chiamati a testimoniarlo e a condividerlo, perché contribuisca a far fruttificare la speranza e l'impegno.
Il messaggio evangelico sulla pace infatti va incontro alla domanda dell'uomo, il quale - nell'apparente irraggiungibilità di una mèta tanto sognata - è tentato di vedere e gridare una sorta di imperfezione di sé e del cosmo, che sembra condannare all'assurdità le attese più profonde. Tale messaggio infatti rivela la fonte ultima di ogni possibilità di pace nell'amore di Dio Padre, che "ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16). Per chi crede in Gesù di Nazaret, la sua croce e la sua resurrezione sono la promessa, la via, il compimento della pace, già operanti nel cuore della storia, anche se non ancora nella pienezza dei frutti.
La pace: continua offerta di Dio nella storia dell'uomo
15. - Nel racconto biblico della Genesi, i giorni della creazione sono scanditi dalle parole: "E Dio vide che era cosa buona" (Gen 1,4ss). Il cosmo dunque è uscito buono dalle mani di Dio. La pace - come assenza di morte e pienezza di vita, di bontà, di armonia (shalom) - è un costitutivo essenziale del mondo così come è uscito dalle mani del suo Creatore. Nello stesso tempo Dio ha deciso di affidare all'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, la responsabilità di coltivare e custodire il giardino del mondo; gli ha chiesto pure di accogliere questo compito come una libertà ricevuta in dono, non come spazio di chiusa autosufficienza (cf. Gen 2,15-17).
L'uomo aveva però - e ha costitutivamente - il potere di accettare o rifiutare il disegno di Dio e la sua risposta è stata negativa. Così il peccato delle origini ha scatenato il conflitto nei rapporti umani, nei confronti di Dio e del creato (cf. Gen 3). Caino uccide il fratello Abele (cf. Gen 4,1-16) e nella prima città si innalza il canto sinistro di Lamech "Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette" (Gen 4,23-24). La violenza e la divisione si estesero poi al punto che troviamo scritto: "Il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra" (Gen 6,6) e decise di mandare il diluvio. Ma Dio è Dio della vita e non della morte: quando il mondo, con il piccolo nucleo dei salvati, riemerse dall'abisso delle acque, l'amore infinito di Dio tracciò nel cielo l'arcobaleno, promessa di un nuovo e definitivo patto di pace (cf. Gen 9,12-17).
Così tutta la storia della salvezza, testimoniata dalla rivelazione biblica, è la storia dell'appassionata ri-offerta all'uomo della possibilità e della responsabilità di aderire al "regno di Dio", cioè al progetto di costruire la storia umana come storia di pace. La chiamata di Abramo, promessa di benedizione per tutte le genti (cf. Gen 12,1-3), è l'avvio di questo cammino. La liberazione di un popolo di schiavi - con l'offerta di un patto d'amore e con la proposta di una legge che temperasse l'istinto della violenza - è il gesto decisivo e rivelatore di una via ormai aperta (cf. Es 3,7-12; 21,23-25).
L'annuncio profetico del Messia attraversa tutta la storia di Israele come una promessa di pace (cf. Is 11,1-9) e culmina nella figura del Servo di Jahweh, che prende su di sé la violenza dei propri carnefici e li redime (cf. Is 52,13-53,12). Alla coscienza scoraggiante dei fallimenti umani, è offerta la promessa del dono di un "cuore nuovo", che cambi dall'interno i passi e le vie dell'uomo (cf. Ez 11,19; Sal 51,12).
La pace: dono di Dio in Cristo crocifisso e risorto
16. - Il dono divino della pace culmina nella persona, nell'insegnamento e nella vicenda di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, l'uomo nuovo che può dare al mondo una pace diversa da quella che il mondo stesso pensa di offrire e che risulta impossibile senza la conversione del cuore (cf. Gv 14,27). Infatti la pace offerta da Cristo è il frutto della sua decisione, libera e amorosa, di dare la vita sino al termine estremo della morte di croce, accompagnata dal perdono per i crocifissori: "Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia... per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia" (Ef 2,14-16). Chi opera in questo modo non è lo sconfitto, ma il vincente, perché Dio garantisce per lui. La risurrezione di Cristo infatti è la conferma della fedeltà di Dio e il primo saluto del Crocifisso-Risorto ai discepoli diventa il nucleo stesso del messaggio evangelico: "Pace a voi!" (Gv 20,19).
Ogni giorno, di fronte alle sconfitte che la pace conosce anzitutto nella vita personale di ciascuno, possiamo lanciare verso il cielo la domanda, che anche Paolo di Tarso ha sperimentato: "Io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Sono uno sventurato. Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Rm 7,15.24).. Di fronte all'annuncio di Cristo risorto però possiamo anche sperare nella possibilità che la nostra domanda non si perda in un cielo vuoto, ma incontri un dono e divenga grido di riconoscenza: "Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!" (Rm 7,25). Se il sangue di Abele continua a gridare dalla terra le sconfitte generate dall'odio, il sangue di Cristo, "dalla voce più eloquente di quello di Abele" (Eb 12,24), grida più forte la speranza di pace.
La pace: dono di Dio affidato all'invocazione dell'uomo e alle sue mani
17. - La pace del Signore Gesù Cristo ci è già donata, ma l'uomo ha il potere tremendo di respingere il dono e il seme, per quanto rigoglioso, deve conoscere i tempi lunghi e incerti della fioritura, prima che si possa mietere la spiga (cf. Mc 4,26-29). L'attesa umana della pace allora si colloca al crocevia fra l'invocazione alla grazia divina che cambia il cuore e il proposito di non rinnegare il compito affidato da Dio alla nostra libertà, alla nostra sapienza, alla nostra generosità.
Perciò il discepolo di Cristo deve fare propria con decisione la logica della croce, cioè la logica del dono di sé e non del dominio e del possesso (cf. Mc 10,32-45); e in tale cammino scopre una giustizia "nuova" e "superiore", che trasforma radicalmente le dinamiche di ogni rapporto umano, fino a chiedere forme d'amore inattese e impensabili (cf. Mt 5,20-48). Di conseguenza l'impegno a edificare la pace diventa testimonianza resa all'amore di Dio (cf. Mt 5,9), perché si alimenta al distacco dall'ansia dell'avere, proprio di chi si sa affidato all'amore del Padre (cf. Lc 12,22-32) ed è quindi capace di condivisione fraterna (cf. 1 Gv 3,16-18). La fatica quotidiana della riconciliazione nell'unità, diventa segno offerto al mondo, perché possa credere che Cristo è venuto (cf. Gv 17,20-21).
La pace: dono di Dio offerto nella speranza
18. - La croce di Cristo ci pone in cuore la fiducia che il regno di Dio già opera come lievito nella storia e che alla fine ci saranno "un nuovo cielo e una nuova terra" (Ap 21,1), nei quali giustizia e pace regneranno e ogni lacrima sarà asciugata. Ma tutto ci è donato nella forma del "già e non ancora". È quindi nostro compito rendere ragione di fronte alla storia della speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3,13) e assumere la fatica fiduciosa di orientare tale storia al suo traguardo, contro ogni pronostico disperato e con la consapevolezza che fino all'ultimo le tracce del male renderanno la pace incompiuta.
Tale impegno coinvolge i gesti e i pensieri della vita quotidiana, nei suoi aspetti più semplici e in quelli più alti, per cui coloro che lo assumono devono mettere in conto il rischio di trovarsi "come pecore in mezzo ai lupi" (Mt 10,16), di suscitare divisioni, di offrire pace e di ricevere rifiuto, ostilità, persecuzione e morte (cf. Mt 10,1-25). Ma, come Cristo risorto, i discepoli continueranno portare al mondo il saluto di pace (cf. Mt 10,12s), a dire con efficacia: "Pace a voi" (1 Pt 5,14), così che la pace augurata diventi dono maturo.
La pace: dono di Dio e frutto del perdono
19. - L'ascolto dell'invocazione umana alla pace e della risposta che ad essa offre l'amore di Dio conduce alla soglia di una parola grande e tremenda: il perdono. Esso è desiderio di un abbraccio che rigenera e domanda di riparazione e riconciliazione; non distrugge la memoria di ciò che è accaduto, ma proprio perché non dimentica, può misurare per intero l'irreparabilità del dolore e della violenza e compiere il miracolo dell'andare oltre. L'uomo che tenta di chiedere o di dare il perdono sa che nessuno ha forza e vita bastanti per compensare il male inflitto o subìto, ma riconosce che anche un solo ultimo respiro può bastare a strappare il peso dal cuore e a tentare un nuovo azzardo d'amore.
La via del perdono rimane comunque una via che appare talora assurda per l'uomo, e lo sarebbe se fosse affidata soltanto alle sue forze. Il perdono invece corrisponde sì a una delle aspirazioni umane più profonde, ma è anzitutto dono e grazia da accogliere, perché è attributo dell'amore di Dio. Dio infatti perdona perché sua è l'onnipotenza dell'amore che crea ogni cosa e, sola, può ri-fare il cuore traviato dell'uomo. Gesù di Nazaret manifesta tale onnipotenza perdonando il peccato nel gesto stesso di guarire il male fisico dell'uomo (cf. Mc 2,1-12), perché ha riscattato personalmente ogni male e ogni crudeltà, morendo per amore sulla croce.
Non si può dunque annunciare al modo la pace se non si annuncia il perdono. Il nostro perdonare è partecipazione al perdono di Dio: a Lui lo chiediamo con la preghiera del "Padre nostro"; da Lui lo riceviamo per le nostre colpe e lo impariamo giorno per giorno vivendo gesti umili e concreti di riconciliazione, di giustizia, di solidarietà e di misericordia; nel suo nome lo doniamo, per rinnovare il miracolo di una nuova creazione che cancella l'inimicizia nel mondo. Sul canto sinistro di Lamech, che prometteva settanta volte sette vendetta, si impone il comando di Cristo di offrire settanta volte sette il perdono (cf. Mt 18,21s).
PARTE TERZA
PER UN PROGETTO CONDIVISO DI EDUCAZIONE ALLA PACE
20. - L'invocazione di pace che sale dalla terra chiede di essere tradotta in coerenza di vita; il dono della pace che viene dall'alto attende di essere accolto e custodito. La via da percorrere è quella dell'educazione alla pace, perché su questa via la pace diventa possibile.
Ci si può chiedere, talvolta con scetticismo, se i tempi siano maturi per tale progetto, ma per chi ha cuore e occhi trasparenti i segni della speranza sono visibili nella nostra storia e il "vangelo della pace", che abbiamo condiviso, apre vie nuove e insospettate a chi si lascia raggiungere da Cristo, a ogni uomo e donna di buona volontà. È dunque possibile, ed è necessario, che l'educazione alla pace diventi una scelta decisa.
Ora si può "imparare la pace" anzitutto esercitandosi a praticarla ogni giorno, all'interno di ogni relazione e in ogni àmbito di vita. L'educazione alla pace però si propone pure come processo esplicito, intenzionale e permanente, che prevede spazi di ricerca, di elaborazione e di esperienza organicamente strutturati all'interno dell'itinerario educativo globale. Ci sono poi contesti umani (la famiglia, la scuola...) che sono per natura ordinati allo sviluppo libero e responsabile della persona umana, e quindi a far crescere uomini e donne di pace, con una proposta educativa continua e consapevole.
L'educazione alla pace deve quindi anche tradursi in un progetto formale, che determini gli obiettivi e le condizioni per il loro raggiungimento, individui i soggetti da chiamare in causa e i percorsi da compiere. Tale progetto deve però nascere come esito condiviso di un confronto libero e sereno, nel quale le diverse opzioni culturali vengono sinceramente vissute e offerte come contributi alla crescita comune e non come motivi di contrapposizione. Per questo sembra utile definire qui alcune linee essenziali, rimandando ad altri àmbiti e ad altre competenze l'individuazione di itinerari più precisi e specifici.
Il contesto sociale dell'educazione alla pace
21. - Un progetto di educazione alla pace richiede un contesto sociale che offra le condizioni necessarie per un'esperienza quotidiana di relazioni costruttive e per una proposta educativa non resa vana dalle circostanze nelle quali si compie. In continuità con il precedente documento Educare alla legalità quindi, si vede necessario mettere a fuoco l'esigenza di promuovere un'adeguata cultura della regola, al di là di ogni prospettiva puramente formale. L'illegalità infatti è nemica della pace e ogni giorno verifichiamo i frutti amari di questa realtà, specialmente quando essa diventa organizzazione e logica di vita, propone modelli esistenziali di sopraffazione e di facile arricchimento, destabilizza con il terrore e il sospetto il tessuto delle relazioni sociali, inquina i processi della politica e dell'economia.
La cultura della regola (o della legalità) diventa invece via di educazione alla pace anzitutto e normalmente attraverso la prevenzione, ma anche proponendo vie di riconciliazione là dove le contese già insorte chiedono una soluzione pacificante e non soltanto tecnica. In questa linea il mondo della legge ha introdotto la figura del giudice di pace, che dovrà comunque esprimere sempre meglio il volto del compositore dei conflitti, non l'immagine tradizionale di chi alla fine sentenzia in forza della legge. Per quanto riguarda invece il processo penale va incoraggiata la ricerca di "mediazioni" che - accanto alla specifica dinamica processuale e punitiva, nella quale non c'è spazio per la composizione - pongano attenzione al tema della riparazione, non per risarcire perdite inguaribili, ma per stabilire uno spazio di incontro e di possibile pacificazione fra il reo e la sua vittima. Lo stesso fenomeno del "pentitismo" dovrà sempre meglio configurarsi dentro questo orizzonte, al quale concorre in modo determinante anche la proposta evangelica del perdono.
In ogni caso ciò che passa per le aule dei tribunali è pur sempre una parte minima della conflittualità già esplosa e che attende riconciliazione. Per questo vanno sostenuti gli organismi di mediazione (consultori familiari, altre iniziative di volontariato per l'"ascolto", alle quali può contribuire anche la comunità ecclesiale), che aiutino i cittadini a sanare le fratture e a evitare il senso della sconfitta che diventa voglia di rivalsa. Infatti quando un equilibrio infranto si ricompone per una scelta non subìta ma condivisa, un reale esercizio di pace si è compiuto.
22. - Un secondo aspetto da considerare è lo sviluppo di una cultura politica che sia supporto autentico all'educazione alla pace. La competizione anche dura è parte integrante del gioco politico, ed è anzi garanzia della democraticità del sistema. Quando però la competizione non si colloca sul piano del confronto democratico fra progettualità diverse e assume le forme dell'aggressione personale e della contrapposizione preconcetta e senza scambi fra blocchi, o quando diventa l'arena di singoli protagonismi o di interessi di parte, allora la politica degenera e i cittadini non possono che smarrire il senso dello Stato e delle sue finalità. Se quindi le recenti vicende della politica italiana hanno inferto un duro colpo alle connivenze fondate sullo scambio di favori, va ora incoraggiato ogni sforzo destinato a far ritrovare alla politica il suo profilo alto, che significa capacità autentica di governare democraticamente lo sviluppo del Paese, in spirito di servizio nei confronti del bene comune e nel contesto di una globalizzazione sempre più ampia dei problemi e dei rapporti.
Ci sono in particolare due àmbiti nei quali la cultura e la prassi della politica devono oggi mostrare la propria capacità di essere strumenti di educazione alla pace. Il primo riguarda lo sviluppo effettivo della partecipazione, attraverso la definizione di un sistema compiuto di autonomie, che faccia arretrare lo stato dall'invasione burocratica della società civile e riapra la "vicinanza" e la corresponsabili fra cittadini e istituzioni. La seconda riguarda la capacità di comporre le autonomie in un quadro unitario di responsabilità e di solidarietà, che garantisca in tutto lo Stato eque opportunità di sviluppo e non abbandoni i rapporti reciproci alle spinte egoistiche locali o di gruppo. Una comunità di pace infatti è una comunità di uomini liberi e responsabili, capaci di costruire insieme rapporti di condivisione e di scambio.
23. - Una terza condizione per l'educazione alla pace è lo stabilirsi di un contesto caratterizzato da un'economia per l'uomo e per la comunità. Anche l'economia infatti è una realtà strutturalmente conflittuale, perché si trova a soddisfare bisogni molteplici con risorse sempre limitate e perché la distribuzione dei beni è talora inestricabilmente legata a rapporti di forza. Già la precedente riflessione su Stato sociale ed educazione alla socialità aveva messo in luce che molti conflitti sociali nascono proprio dallo squilibrio nell'accesso ai beni della terra e possono essere affrontati solo con la rimozione delle ingiustizie, a livello mondiale e locale. Il problema però si pone dentro a ogni uomo, quando l'avere è vissuto come segno di successo e di autoaffermazione; quando il rifiuto della condivisione viene giustificato con il "merito" di chi ha accumulato beni con la propria intraprendenza, anche se la bilancia del merito è spesso truccata da condizioni di partenza disperatamente diseguali; quando la legittima soddisfazione dei bisogni personali viene sopraffatta dalla bramosia dilagante che diventa rapina e sfruttamento sistematici.
Esiste quindi un nesso profondo fra la pace e la "questione sociale" della giusta distribuzione dei beni, secondo criteri dinamici di valutazione, che tengano conto dello sviluppo tipicamente umano dei bisogni, ma anche delle condizioni di reciprocità del loro soddisfacimento, in un contesto di effettiva condivisione fraterna, che riceve forza dalla scoperta della paternità universale di Dio. Inoltre una sapiente politica economica, orientata alla pace sociale, non può accontentarsi di moltiplicare i beni materiali, ma deve contribuire all'innalzamento generalizzato della qualità della vita, al rispetto dell'ambiente e alla diffusione dei beni spirituali, che salvano dalla tristezza del consumo diventato costrizione priva di senso umano.
Una particolare attenzione va riservata al tema del lavoro, che si rivela sorgente continua di conflitti e postula il confluire delle rivendicazioni contrapposte in un "patto" condiviso. Appare dunque provvida la rete di regole dettate direttamente dallo Stato a tutela di diritti non negoziabili che toccano l'integrità e la dignità della persona che lavora (rifiuto delle discriminazioni, difesa della salute, libertà sindacale...). Al di là di tale rete però si pone il campo della contrattazione collettiva, nel quale si definiscono altre regole di condotta, non imposte dall'alto ma generate dal consenso. Educare alla pace quindi significa maturare la coscienza che lo strumento della contrattazione deve servire a fondere interessi divergenti in un obiettivo comune; a stipulare accordi che non dimentichino o cancellino le giuste rivendicazioni di altri settori, magari troppo deboli per farsi sentire, come quello dei senza-lavoro. Il controllo dell'asprezza del conflitto e del suo dilagare sociale, chiede pure che vengano utilizzati metodi di lotta adeguati al fine, senza che improvvise negazioni di servizi essenziali si ritorcano contro la comunità invece che diventare mezzo di pressione sulla reale controparte.
24. - Ma c'è un'ultima condizione, che oggi si rivela assolutamente necessaria per educare alla pace, ed è la comunicazione, intesa non semplicemente come gestione di mezzi informativi, ma come via privilegiata alla fraterna messa in comune dei pensieri, dei sentimenti, delle ragioni di vita, in un incontro libero dall'inganno e dalla violenza.
Esistono infatti conflitti interpersonali, generazionali e sociali che derivano o sono resi più acuti da una comunicazione mancante o scorretta, per cui diventa necessario approfondire e stabilire concretamente il rapporto fra educazione alla pace e comunicazione. Tale rapporto va anzitutto definito sul piano personale e interpersonale, quando la comunicazione innesca una ricerca continuamente sollecitata dalla più profonda istanza veritativa, che non prescinde dalla domanda sull'Assoluto; favorisce la formazione di convinzioni e atteggiamenti responsabili, liberi e coscienti; permette la condivisione e l'interscambio di valori comuni in base ai quali costruire la convivenza, a partire dalle comunità originarie; assicura il riconoscimento effettivo dei diritti della persona e l'educazione a viverli in modo solidale e non contrappositivo.
Sul piano invece dell'organizzazione e della gestione dei mezzi, la comunicazione educa alla pace quando offre conoscenze che garantiscano alla persona di crescere in dignità e di non essere ingannata su se stessa e sul mondo; rende possibile un'effettiva integrazione tra persone e comunità, in un contesto ormai definito di globalizzazione integrale del mondo; consente agli utenti di non essere fruitori passivi e deresponsabilizzati, ma li stimola ad essere artefici e protagonisti di cultura nella propria comunità.
C'è una comunicazione che educa alla partecipazione e quindi alla pace, perché la partecipazione induce alla condivisione e alla corresponsabilità, genera democrazia. C'è invece un circolo di informazioni nel quale troppi uomini non sanno e troppo pochi sanno e determinano ciò che gli altri devono sapere; ma esso serve soltanto a consolidare emarginazioni e sopraffazioni che minano alla radice ogni reale possibilità di pace.
Obiettivi per un progetto di educazione alla pace
25. - L'articolazione di un organico progetto di educazione alla pace chiede la definizione formale di un insieme coerente di obiettivi, che si presenti strategicamente organizzato e si traduca poi in percorsi più propriamente culturali, pedagogici e didattici, da elaborare in altre sedi. È qui sufficiente offrire alcune indicazioni essenziali, e la prima riguarda l'obiettivo del dialogo, con tutto ciò che esso comporta.
A tale proposito occorre anzitutto denunciare i limiti di una tolleranza di matrice illuministico-borghese, che presuppone un soggetto umano individuale così sicuro di sè da poter "portare" (o sop-portare) l'altro e il diverso "anche se" diverso, con magnanimità e distacco. Nella prospettiva invece di una soggettività in relazione (alla quale concorre anche il volto di Dio-Trinità e il continuo definirsi di Gesù di Nazaret in relazione al Padre), l'altro diventa un elemento di costruzione dell'identità individuale, "perchè" diverso, in quanto la sua diversità apre e arricchisce. Così perdono di significato i razzismi e le esclusioni di ogni tipo e maturano possibilità di pace in una convivenza effettivamente interetnica, interculturale, interreligiosa.
26. - Un altro obiettivo dell'educazione alla pace è individuabile nel "circolo virtuoso" che deve stabilirsi fra sobrietà e solidarietà, allo scopo di ridurre i conflitti che si generano nell'accedere al banchetto dei beni della terra. Infatti la globalizzazione e l'interdipendenza dei problemi economici ed ecologici fanno sì che ogni scelta personale abbia ripercussioni molto ampie e si traduca spesso in un aggravio di peso sulle spalle di chi è meno fortunato. Di conseguenza educare alla sobrietà nell'uso dei beni (evitando sia l'accumulo che lo spreco) diventa condizione per una più giusta distribuzione degli stessi, per oggi e per domani, e colloca la solidarietà in una prospettiva di giustizia e non di elemosina.
27. - Un'ultima indicazione può essere data circa l'obbiettivo dell'educazione alla gestione dei conflitti. Essi infatti sono un'esperienza ineliminabile del rapporto interpersonale e sociale, e la loro presenza esige che le persone maturino atteggiamenti, convinzioni e strumenti per vivere dentro la tensione in modo non distruttivo. A questo proposito sembra opportuno segnalare due percorsi. Il primo riguarda la consapevolezza dei diritti e dei doveri, che genera rapporti paritari, non permette di sbilanciare le attese soltanto sui bisogni individuali, impone che ciascuno faccia la propria parte e apre a istanze più alte, come quella del perdono. Il secondo si riferisce all'assunzione competente e responsabile del metodo democratico, in base al quale i conflitti vengono risolti non semplicemente con la forza dei numeri, ma con l'accettazione sincera e consapevole di una regola che cerca di garantire il maggior bene possibile per il maggior numero possibile di persone.
Luoghi e soggetti dell'educazione alla pace
28. - In un progetto di educazione alla pace emerge in primo luogo e con forza la responsabilità della famiglia, modulo primo e naturale della vita, cellula e paradigma della convivenza sociale. In essa l'educazione alla pace inizia con l'esperienza del "prendersi cura" della diversità di ciascuno rispetto all'altro. Ciò accade anzitutto nella relazione coniugale, quando le inevitabili ferite reciproche - tanto più crudeli perché inferte in un contesto di "prossimità" intensamente voluto - vengono riconosciute sinceramente e lenite nell'esercizio quotidiano della comprensione, della riconciliazione, del perdono.
Il percorso di accoglienza reciproca e di continua riconciliazione della coppia, ha anche il potere di ripercuotersi positivamente sui figli, per sé esposti ai traumi derivanti dalle tensioni dei genitori e talora al rischio di essere usati come "ostaggi" o oggetti di ricatto nella contesa. Nel contesto del "prendersi cura" dell'altro va però inserito anche il tema dell'accoglienza della vita, di fronte al fenomeno inquietante della denatalità che si manifesta in Italia. Tale fenomeno infatti è contrario alla cultura di pace perché spesso è segno di un conflitto fra la responsabilità verso una nuova vita e la conservazione della libertà e del benessere personali; e perché riduce le possibilità di sperimentare l'"essere fratelli" nel suo contesto primario e naturale.
L'educazione alla pace in famiglia si sviluppa poi nel modo di vivere le relazioni e i conflitti generazionali, tra genitori e figli, superando da una parte l'autoritarismo che impone senza motivare e dall'altra la tentazione di liquidare facilmente la saggezza maturata dall'esperienza di vita. Per questo occorre definire regole semplici e condivise di vita familiare, dove ciascuno possa conoscere e sperimentare diritti e doveri; e soprattutto occorre stabilire un dialogo che affronti i temi forti della vita, superando l'impaccio delle differenze in un clima fatto di accoglienza, ascolto, rispetto e amore donati senza riserva. In tale clima si rivela particolarmente il "genio" femminile dell'educare alla pace, perché la contiguità della relazione educativa con quella connessa al dono della vita (fin da quando essa è custodita nel grembo) può fondare un rapporto che porta in sé l'offerta e la certezza dell'essere accolti e amati.
Infine, la famiglia educa alla pace quando rifiuta ogni chiusura egoistica, in nome della propria quiete, e diventa luogo nel quale trovano risonanza, ascolto e risposta le sofferenze e le attese del mondo, con la collaborazione di tutti i membri. Ciò comporta scelte quali la determinazione del livello di benessere familiare con attenzione ai bisogni altrui e non solo al calcolo delle risorse possedute; la disponibilità a mantenere nell'àmbito familiare i membri che hanno bisogno di cure particolari e di aprire la casa a forme di affido, di adozione o simili; la capacità di assumere responsabilità negli spazi di partecipazione civile ed ecclesiale, particolarmente in quelli che richiedono l'esperienza di coppia o di genitori (scuola, consultori matrimoniali, ecc.). Ovviamente, perché la famiglia possa far fronte alle proprie responsabilità verso la vita e verso l'educazione, occorre anche una politica familiare che risponda all'esigenza di conciliare il lavoro con la maternità e le cure parentali; e che ponga le condizioni per un effettivo esercizio del diritto alla casa, alla salute, al lavoro e alla libertà educativa, anche in riferimento alla scelta scolastica.
29. - Accanto alla famiglia, un progetto di educazione alla pace chiede il coinvolgimento della scuola. Infatti, in un contesto di corretta sussidiarietà, la scuola si affianca alla responsabilità primaria della famiglia per proseguire l'educazione alla pace, attraverso un intervento pedagogico che ha al suo centro l'esperienza culturale. Tale compito (dal quale non va ritenuto assente il mondo universitario, pur con la specificità che lo caratterizza) riguarda anzitutto i modi concreti nei quali sono vissute le relazioni scolastiche e nei quali la scuola si inserisce nel più ampio contesto sociale, coinvolgendo i diversi soggetti in una prospettiva di "comunità educante". Si può allora "imparare la pace" a scuola, vivendo processi effettivi di partecipazione, democrazia e responsabilità nel lavoro, nel rispetto dei diversi ruoli e competenze; prendendosi cura di chi è più debole ed evitando che l'apprendimento diventi puro spazio di competizione per il successo personale e quindi radice di conflitti, invece che strumento di relazione e di aiuto reciproco.
In secondo luogo la scuola risponde al progetto di educazione alla pace con l'offerta di un "sapere per la vita", identificato nell'apprendimento dei percorsi cognitivi-valutativi e delle conoscenze che rendono possibile il distacco critico e l'autonomia personale, senza dei quali non ci sono libertà e responsabilità, e neppure cultura di pace. Ciò non significa ovviamente che il tema della pace debba configurarsi come contenuto di una particolare disciplina scolastica. È invece necessario che nella didattica e nei contenuti dei diversi saperi siano fatti emergere esperienze comunicative, quadri di riferimento e significati valoriali che possono dar vita a un'organica cultura di pace. Nella programmazione di particolari saperi poi si potranno prevedere utilmente alcune unità didattiche finalizzate ad esplicitare organicamente il tema della pace nel contesto della ricerca storica, letteraria, religiosa, filosofica, economica, geografica, ecc.
30. - L'educazione alla pace costituisce però un itinerario di formazione permanente, che deve coinvolgere tutte le esperienze nelle quali si realizza lo sviluppo integrale della persona umana, valorizzando anche dimensioni interiori e "gratuite", quali la contemplazione, la creazione e ri-creazione estetica, la riflessione sapienziale, e non solo ciò che riguarda gli aspetti sociali del conflitto.
Per questo un progetto di educazione alla pace interessa il vasto e complesso mondo dell'associazionismo, nel quale le persone di ogni età si raccolgono spontaneamente per rispondere al bisogno di continua crescita personale, di comunicazione e di socializzazione, di cultura, di esperienza religiosa, di sport e tempo libero, ecc.; o per mettere a disposizione competenze ed energie in varie forme e organizzazioni di volontariato sociale e di impegno civile, sindacale e politico. Anche tali aggregazioni infatti possono offrire percorsi esperienziali, animati dai valori che fanno crescere le possibilità di pace ad ogni livello.
Comunità cristiana e educazione alla pace
31. - La comunità cristiana si riconosce come un popolo di fratelli e di sorelle riconciliati per grazia dall'amore di Dio, nonostante le continue resistenze e cadute, attraverso la morte e la resurrezione di Cristo e con l'opera incessante dello Spirito di carità e verità. Essa quindi risponde all'invocazione umana di pace anzitutto accogliendo e celebrando nella storia il mistero della pace che viene dall'alto, e sottoponendosi alla sua potenza rinnovatrice per rendergli testimonianza davanti a tutti.
I segni di questo cammino sono dunque l'ascolto della Parola, che convoca l'umanità attorno allo svelarsi del progetto di Dio; la partecipazione, soprattutto domenicale, al banchetto del Corpo e del Sangue di Colui che ha dato se stesso per riconciliare i dispersi; la gioiosa esperienza del perdono del Padre, reso presente nel sacramento della riconciliazione; l'appartenenza a una comunità che vive, custodisce e manifesta - anche se con mezzi e gesti poveri e compromessi - una comunione che è partecipazione alla vita stessa di Dio e si apre a una fraternità senza confini; la possibilità di posare sul mondo uno sguardo che riconosce in ogni "ultimo" la presenza di Colui che si è fatto servo di tutti per amore, e quindi di offrire gesti di carità che diventano annuncio e svelamento del volto di Dio, perchè solo a Lui sia resa gloria.
L'esperienza del dono divino della riconciliazione, accolto e testimoniato, diventa per la Chiesa possibilità concreta di uno stile di vita che educa alla pace.
a) Il dono della pace va chiesto con insistenza nella preghiera e va accolto in modo particolare nella liturgia, dove Dio attualizza il suo fare grazia. È quindi importante valorizzare i segni liturgici che esprimono e fanno sperimentare il dono e l'impegno della pace, in particolare nella sequenza penitenziale di gesti di riconciliazione che preparano alla celebrazione sacramentale del perdono di Dio e da essa promanano. Il tema della pace poi, con le sue valenze di fede, trova il suo spazio naturale nei momenti formativi della vita comunitaria, nelle occasioni che convocano tutto il popolo di Dio (come la celebrazione della Giornata mondiale della pace), nelle esperienze di catechesi per ogni età e condizione, negli itinerari di formazione propri di gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali, nelle "scuole di pace" promosse dalla comunità ecclesiale.
b) Le comunità cristiane sono chiamate a una costante attenzione verso i problemi della pace nel mondo, con un duplice obbiettivo: operare su di essi un discernimento sapienziale di fede, dal quale derivino motivi di conversione e di impegno; e esprimere nei loro confronti prese di posizione e gesti di partecipazione visibili e coerenti, anche incoraggiando scelte generose come quelle della non violenza, dell'obiezione di coscienza, dell'autotassazione a vantaggio dei poveri ecc. Questo impegno, che ha la sua sede naturale nei Consigli pastorali parrocchiali e diocesani, chiede la valorizzazione delle competenze dei laici cristiani e delle aggregazioni laicali ecclesiali e un dialogo fiducioso e collaborativo con i movimenti e le organizzazioni a favore della pace che operano nella società civile.
c) Nella comunità cristiana si incontrano gruppi e persone che interpretano in modi diversi il cammino di fede e il rapporto con il mondo; non di rado tale diversità diventa motivo di dubbi incrociati e di scarsa collaborazione, rischiando anche di rendere meno efficace la testimonianza della comunione. Lo stile di pace esige allora che ogni posizione accetti di subordinarsi
L'esperienza vissuta a contatto con persone immigrate in un Centro di ascolto della Caritas di Roma, nell'ostello, ma anche in servizi sociali pubblici, nel mondo del lavoro, in paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina nella cooperazione o in missioni operative di ONG, ha sollecitato un gruppo di persone a riflettere su questi temi, sulle contraddizioni che caratterizzano la società e a voler fare qualcosa per promuovere i diritti umani, i valori della solidarietà della giustizia e della pace, per vivere la città con persone immigrate in modo creativo e solidale.
Si può capire perché una teologia della creazione possa derivare e non "fare da premessa" alla fede che presuppone l'esperienza dell'alleanza e della liberazione.
Solo raccogliendo la sfida teologica è possibile affrontare la sfida storica posta alla chiesa dalle tragiche condizioni di ingiustizia, di miseria, di dominio, emerse rapidamente degli ultimi decenni e tuttora in veloce e imprevedibile sviluppo sia tecnologico che politico.
Quei bambini, che non possono disegnare
la riga del cielo e della terra
di Ettore Masina
Non c'è niente di peggio per i poveri (i "dannati della Terra come li chiamava lo psichiatra francese Franz Fanon) che essere condannati al ruolo di astrazioni: cifre e non persone doloranti, talvolta sino allo spasimo, problemi da risolvere con scelte politiche ed economiche invece che padri, madri, figli, nonni, case distrutte, patrie abbandonate in seguito a minacce terrorizzanti, violenze, talvolta torture; e fame e freddo e disperazione, e necessità assoluta di attenzione e di tenerezza. Le statistiche possono essere esaminate con un minimo di pietà; e quanto più rivelano tragedie immani, tanto più finiscono per essere messe in conto dell'utopia: c'è bisogno di un governo mondiale, di imponenti esborsi da parte dei cosiddetti Paesi del benessere. Ma un governo mondiale non c'è, le potenze imperiali non pagano all'Onu se non quote infinitesimali, i governi dei Paesi sviluppati tagliano progressivamente gli aiuti allo sviluppo. A cominciare dall'Italia, che ormai è in testa alla classifica dell'egoismo internazionale.
I profughi nel mondo sono circa 22 milioni e già in quel "circa" c'è una condanna all'insignificanza. Se si mettessero a gridare o anche a piangere tutti insieme, nelle nostre strade, non potremmo lavorare, ridere, portare a scuola i bambini, scrivere poesie e tanto meno dormire. Ventidue milioni di bocche sarebbero un coro da apocalisse. Ma i campi dei profughi, quando ci sono, sono ben lontani dalle nostre città, nei terreni più aridi che nessuno coltiva, nelle periferie più misere, dove confinano con le discariche, nelle aree flagellate da insetti, su altipiani in cui gli aiuti arrivano a stento, quando arrivano; in zone in cui sono ancora attivi campi minati o in cui penetrano facilmente i persecutori.
Milioni di bambini nascono, crescono, diventano adulti, se ci riescono, dentro i recinti di baraccamenti che avrebbero dovuto essere provvisori e hanno ormai mezzo secolo e più. Fanno parte di quei 50 milioni di piccoli che, secondo l'ultimo rapporto dell'Unicef, risultano invisibili ai governi ma anche a noi. Piccini venduti, trattati come piccole bestie da soma o da piacere, insidiati, mutilati della propria infanzia... Pensavo a queste cose, giorni fa, visitando una mostra di disegni dei bambini dei campi profughi palestinesi nel Libano. Mia moglie mi ha fatto notare un elemento inquietante: la maggior parte di quei disegni non aveva la linea di base, del terreno. Ne ho parlato con quel grande pedagogo che è il vecchio ma ancora lucidissimo Mario Lodi, che mi ha risposto con accenti di profonda pietà. Tutti i bambini, di tutti i Paesi del mondo, appena cominciano a disegnare - dice Lodi - tracciano due linee che contengono la loro realtà: la linea del suolo su cui vivono e la linea del cielo. La mancanza di una di quelle due linee indica che il bambino vive una vita inquietante, non ha una sua terra. Ma terra, penso io, terra significa spazio di vita, patria, socialità, sicurezza, base per la costruzione del futuro. Quei bambini che sembrano fluttuare in un immenso vuoto indicano che la nostra è una civiltà potente e spietata.
(da Jesus, gennaio 2006, p. 25)
Dichiarazione universale dei diritti umani:
versione popolare
di Frei Betto
Tutti nasciamo liberi e siamo uguali in dignità e in diritti.
Introduzione
di Max H. Begouen
Sin dal 1937, Pierre Teilhard de Chardin, scienziato dall’intelligenza lucida, l’uomo dal cuore abbastanza forte da poter abbracciare il mondo, discerneva la salita delle forze distruttive sul punto di minacciare il pianeta, ed invitava gli uomini ad unirsi per costruire tutti insieme la città universale.
I popoli, “unità umane naturali” (1), dovevano secondo lui realizzare l’armonia terreste nelle varietà delle loro caratteristiche razziali, arricchendosi reciprocamente . dava a ciascuno questa direttiva “pur mantenendo sulla vostra propria linea, salite sempre verso maggior coscienza e maggior amore. Alla cima vi troverete riuniti a coloro che, da varie parti, avranno intrapreso una ascensione analoga. Poiché TUTTO CIO’ CHE SALE CONVERGE”.
Come le cellule le diverse membra di un corpo che tendono a costituire per il loro stesso sviluppo un unico essere vivente nella cui costituzione trovano, alla fine, ciascuna la propria perfezione, così gli individui e le nazioni debbono, sviluppandosi, mirare all’unità umana che essi sono chiamati a realizzare per poter pienamente vivere.
Uno slancio nuovo scuote tutti i paesi verso un tal fine, ancora occultato a molti. Non soccombano alla tentazione mortale di costruire ciascun solo per sé! E’ infatti in vista del compimento della totalità che la linfa sale in essi: “L’età delle nazioni è passata. Se non vogliamo perire, si tratta ora per noi di costruire la terra”.
Dunque non vi siano più blocchi avversi che portino al parossismo le forze di distruzione! Ma si manifesti una cooperazione universale nella passione di edificare un mondo degno dell’Uomo. Il valore di una visione del futuro viene dimostrato dal dinamismo che esso suscita. Non ha bisogno di bombe atomiche per imporsi. Teilhard sapeva, che al di sopra delle ideologie agonizzanti, ve ne era una incomparabilmente più ampia e potente. Vi si è abbandonato con tutto il cuore. Vi ci trascina.
Se i gruppi sociali ed etnici, nelle circostanze tragiche che ci spingono, sapessero solo avanzare rivendicazioni, dimostrerebbero la loro propria decadenza. L’amore, energia suprema, non rivendica, ma si tende in avanti. Realizza la condizione umana quale deve essere. Ci sospinge irresistibilmente a purificare, ad elevare, a perfezionare la terra.
Nella stessa carne dei popoli il corpo del mondo nuovo è in gestazione, nonostante i dissidi interni che la straziano. Bisogna prendere coscienza di questa prodigiosa attesa. Concentriamo pacificamente le nostre forze spirituali. Prepariamo, in ogni paese, gli uomini che, dapprima a casa loro, poi alla testa delle organizzazioni internazionali, presiederanno al vero destino dell’umanità.
Dobbiamo essere avanguardia di questo Fronte di avanzata umana invocato, nelle pagine che seguono, da colui che, dalla vetta eroicamente conquistata, ha intravisto quale potrebbe essere la magnificenza della “Terra degli Uomini”.
1) P. Teilhard de Chardin, Le unità umane naturali, in La visione del passato, Milano, Il Saggiatore, 1973, pp. 321-361.
Ebrei e cristiani un solo destino
40° Anniversario della Nostra Aetate
di Jean-Marie Lustiger*
Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e cristiani, da oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell'arrivo delle truppe sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando nuove forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di misurare l'enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle coscienze per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a quel momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia .
Qui bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di fiducia, di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono numerosi da una parte e dall'altra. Permettetemi di citarne uno solo, papa Giovanni Paolo II.
Ho voluto, per questa occasione, riflettere sull'appello che ci ha lanciato papa Benedetto XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga di Colonia. Ci invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al giorno d'oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», il più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società.
Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo quanto dall'ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della bilancia.
Individuare nel cuore della nostra civiltà una Weltanschauung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i cristiani, ma attesta dall'esterno due fatti essenziali dal nostro punto di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità rispetto alla civiltà e a tutta l'umanità; secondo, ebrei e cristiani portano insieme il peso della rivelazione biblica.
In questo quarantesimo anniversario della Nostra aetate vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo esterno e di riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può e deve apportare al mondo l'incontro degli ebrei e dei cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca riscoperta in un'epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria fatta di conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di ripiegamenti? Non è senza significato che la 'riscoperta' tra ebrei e Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di grandi sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze.
1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani - almeno per quel tanto che sono coerenti con la propria fede - nel fare appello alla necessità di una morale per il bene della vita della società.
Durante l'ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare i poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si sono eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è tentato di farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto chiara: la legge che s'impone alla coscienza umana ha una fonte più alta dell'uomo, il bene non è definito dall'arbitrio dei voleri o delle opinioni ma s'impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto alle scelte della libertà; e questa norma irrecusabile nella gestione degli affari temporali rende la politica una realtà degna della condizione umana.
La saggezza della legge umana e la sua forza rispetto alle coscienze non emerge solamente dalle sanzioni che l'accompagnano, ma innanzi tutto dalla giustizia che essa introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge giusta, giace nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della volontà santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell'altro la legge trae da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l'uomo a cui è rivolta.
Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l'affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale si fondano in definitiva i diritti dell'uomo. Permettetemi di citare qui un retroscena poco conosciuto della redazione della costituzione Gaudium et spes del Vaticano II. Per superare le formulazioni classiche del diritto naturale l'arcivescovo Karol Wojtyla, sulla scia di Max Scheler, propose la propria prospettiva personalista, in cui un vescovo riconobbe il pensiero di Martin Buber...
Questa prospettiva etica sulla politica ne contesta dall'interno l'arbitrarietà; essa mira a chiarire l'esercizio del potere, non a distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere. Essa è il testimone dell'autentica saggezza che la Bibbia ci dice venire da Dio. Non c'è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l'obbligo rispetto all'intera umanità di questa ragione politica?
Non si trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di forza e di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il diritto (cf. Gen 18,19), e cioè con efficacia?
2. Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale dell'osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche.
Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che cosa significa l'osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell'ebreo religioso, dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a tutti gli altri ambiti dell'esistenza: morale, vita familiare, professionale ecc. Essi sono tutti recepiti come provenienti espressamente dalla volontà divina. Il migliore paragone della vita ebraica così concepita sarebbe, nel cristianesimo, la vita monastica, benché si tratti qui di una vita familiare con tutti gli obblighi propri della vita laica...
E per un cristiano? Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco la dottrina cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che, sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II. La morale vi è esposta nel quadro delle dieci parole, all'interno delle quali si situa la riflessione morale sull'agire umano personale e sociale.
Certo, come discepoli di Gesù differiamo senz'altro sulla maniera d'intendere e applicare questi comandamenti. Per un cristiano il commentario autorizzato dei comandamenti è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e in cui ci chiede di vivere. È un'interpretazione determinata da «Shemà, Israele (...) amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima regola dell'agire ricapitola la Legge e i profeti nel comandamento dell'amore di Dio e dell'amore fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine e retaggio dell'amore insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12).
Uno sguardo miope potrebbe vedere tra queste due visioni delle differenze inconciliabili. Uno sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è comune: è in Dio. Le conseguenze sull'agire umano sono analoghe, anche quando la giustizia e la pace si dispiegano secondo modalità diverse e sono vissute facendo appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste differenze non sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla nostra esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette loro di affermare con più forza e rispetto la propria missione di vigilanza e di testimonianza nei confronti dell'umanità.
L'esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l'amore di Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l'ebreo, la pienezza della Legge: l'espressione non potrebbe essere più esatta, forte e bella. Rimane imprescindibile che le esigenze dell'amore siano rigorosamente comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine. Un incontro fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non possono tralasciare quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il comandamento dell'amore posto all'inizio dello Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei rapporti umani come nei riguardi di Dio.
L'universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a Israele sul Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai cristiani, per il bene comune di tutta l'umanità.
3. Dobbiamo dunque ora interrogarci sull'universalismo della rivelazione. Che significato può avere per l'insieme dell'umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani?
Evidentemente non voglio rispondere a questa domanda limitandomi a esporre l'opinione corrente. Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per la messa a rischio dell'indipendenza e della libertà delle identità particolari nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha fino a questo punto separato possano unire le proprie forze per contribuire a una convergenza delle culture e delle religioni. In effetti questa relazione con l'insieme dell'umanità è inscritta nell'origine stessa dell'ebraismo. Ricordate la benedizione data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3) e anche l'annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l'unico Signore del cielo e della terra.
Per i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande fatica, a questo oracolo profetico scoprendo, quasi loro malgrado e con stupore, che il dono dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani. L'ordine di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim) per formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt 28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze degli uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il popolo ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo, continua a rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un popolo simile agli altri oppure diverso è stata posta fin dalle origini. Siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo; e una nazione simile alle altre allorché reclama un re e un potere come gli altri popoli. Rimane il fatto che nell'attuale processo di globalizzazione gli ebrei e le comunità ebraiche disperse nel mondo intero sono, a tutti gli effetti, parte integrante della diversità delle culture e delle nazioni, senza che per questo cessi l'appartenenza al 'popolo ebraico'.
Allo stesso modo - si può concludere - il fatto d'essere cristiani incorpora ciascuna persona e ciascuna comunità nell'esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte le nazioni e in tutte le culture.
Il problema che tento qui di circoscrivere è sollevato dalla globalizzazione. Può una solidarietà unificare l'intera umanità? E a prezzo della negazione o dell'oblio delle particolarità considerate fino a oggi come ricchezze, ma che possono apparire ormai come delle sopravvivenze o degli ostacoli? Certamente no. Eppure, la responsabilità affidata dalla parola di Dio agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e tradizione, è di condurre l'umanità alla consapevolezza della sua unità e della sua vocazione unica. Ciò riguarda la sua origine. L'umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono, in seno alla diversità umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce dell'origine, non per imporla ma per aiutare l'umanità a decifrare il proprio destino.
Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente irrevocabile. E nell'esperienza di un popolo forgiato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in questa particolarità e quindi di vuotarla della sua portata salvifica universale.
I cristiani sono diventati a propria volta beneficiari di questa primi genia benedizione poiché, fin dall'origine della Chiesa, nata dagli ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte con loro a questa benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli i cristiani saranno anch'essi tentati di ricreare dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere così il senso delle proprie radici, dell'origine che garantisce la loro speranza.
Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze reciproche, possono meglio comprendere quello che è stato loro dato come evidenza fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un'umanità frazionata il richiamo all'unità più forte e più grande delle sue immense diversità.
4. Evocare tali prospettive non significa minacciare né l'originalità ebraica né l'identità cristiana. Mi spiego. «La salvezza viene dai giudei», insegna Gesù alla samaritana nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22). Senza gli ebrei l'universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanesimo astratto.
L'esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture, attraverso ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere rispettata e ogni cultura esaltata attraverso il riconoscimento dell'unità dell'umanità, figlia dell'Uno. Senza i cristiani l'ebraismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può forse realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare di sostanza la storia che l'ha generato?
Dalla riflessione su queste aporie possiamo ricavare una lezione: l'incontro tra ebrei e cristiani è necessario a entrambi per comprendere quel che forse Dio esige da ciascuno di essi. La loro esperienza comune, al pari delle loro percezioni divergenti della benedizione divina, rivela il volto dell'unità e della comunione universale radicato nella promessa fatta ad Abramo, annunciato dai profeti e attestato dalla Chiesa cattolica così come essa lo crede con umile audacia.
Forse il passaggio vi apparirà forzato, ma esso rende conto della difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo tempo di globalizzazione, è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è la loro identità? È l'identità nazionale israeliana o è quella della diaspora? Su che cosa si fonda?
Quel che è possibile dire alla luce della fede cattolica è stato espresso in maniera sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua preghiera sulla Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola:
'Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto. Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore. Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri.
Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce l'eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché l'umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti gli uomini. Amen'.
Così, per la fede cattolica l'identità ebraica è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile, secondo l'espressione di san Paolo, dono che precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la vocazione del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina.
E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è forse solo una maschera dell'imperialismo prima romano e poi occidentale? Come può espandersi nelle culture del mondo senza per questo perdere la propria forza e il proprio contenuto? Il problema si pone in maniera acuta quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come l'Asia e quando queste, alla maniera di Gandhi, pur disposte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, dichiarano di non aver nulla a che fare con la Bibbia poiché hanno le proprie scritture e storie sacre. Pur esponendosi al rischio di perdersi perdendo la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori di Israele, vale a dire fuori dall'alleanza, dalla scelta primigenia di Dio. L'incontro - il legame - degli ebrei e dei cristiani, nella tensione perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre all'intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di un'unità pacifica.
5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e cristiani? Cosa c'è di comune agli uni e agli altri che giustifica un'alleanza reciproca?
La risposta è inscritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Esso comincia con una genealogia, di cui vi cito le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» (Mt 1,2). Queste parole introducono, come ha detto il primo evangelista, 'la genealogia di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1).
Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è: parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani - protestanti, cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù la Scrittura biblica, la storia, l'alleanza e l'elezione.
Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che sarebbe superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso. Molto spesso gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto bisogno dei cristiani dal punto di vista religioso.
In effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi stessi dei cristiani, s'inscrive nell'attesa che la storia umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un orizzonte familiare anche per il pensiero ebraico.
Gli ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati dall'esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto che ciascuno accetta o rifiuta dell'altro. Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti d'accordo e di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla stessa radice ogni tensione è vissuta come l'insorgere di una ferita, di un rifiuto; ma può essere anche vissuta nella speranza di una luce sempre più grande.
Oggi, alla luce della storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l'urgenza dell'appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, il fratello maggiore e il minore, a rispondere, ciascuno per la parte che gli spetta, alla missione assegnatagli. Nessuno dei due può adempierla senza l'altro, senza contemporaneamente fare violenza all'altro o penalizzarlo.
L'aspetto attuale dell'umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte contraddittorio, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e la nostra fede personale al fine di realizzare questa speranza comune. Ciò sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto, ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace assegnatogli dalla Provvidenza.
Il legame comune tra ebrei e cristiani fonda la loro riscoperta reciproca in questo secolo, garantendo l'opera che essi debbono compiere, pena una loro mancanza verso l'umanità. Sono in gioco l'equilibrio e la pace nel mondo.
L'avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica comprensione reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio dell'umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su quel che è comune, come su quel che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un'amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento sempre più attento e docile del mistero, di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.
Roma, 27 ottobre 2005.
* Cardinale, Arcivescovo emerito di Parigi.
Armenia. Arte senza confini
di Herman Vahramian
«Quando un’idea si conserva immutata attraverso lunghe sequenze di variazioni di stile, è evidente che tale idea è il motivo e la forza dominante che anima l’opera». Il pensiero di Ananda K. Coomaraswamy, grande studioso dell’universo indiano, trova perfetto esempio nelle vicende dell’arte e della cultura armene. L’elemento costante e fondamentale che garantisce in esse la permanenza del senso nella permutazione delle forme, è un’ansia, una tensione metafisica verso un centro generatore, un “nodo” primordiale, archetipico. E, come questo è simile a un ventre materno universale, così la terra natale è chiamata “Madre Armenia”, originata dall’incombente entità della “madre-monte Ararat.
Ecco allora la dea Anahid, signora della fertilità, il cui nome significa “la Pura”, scolpita nell’oro che sarà il colore di Maria in tutte le terre mediorientali e in Russia. Ecco Vahagn, il dio guerriero che diventerà San Giorgio, l’uccisore dei draghi. Ecco il dio Aramazd, l’Ahura Mazda zoroastriano, e il culto del Sole (gli armeni sono chiamati Arevordì, “Figli del Sole”) il cui disco si trasmuterà nell’aureola cristiana. Ma con il martirio dei santi Bartolomeo e Giuda Taddeo, gli apostoli che avevano portato il Vangelo in Armenia, anche Aramazd si convertirà al cristianesimo.
Questo processo arriva a compimento nel 301, quando quello armeno diviene il primo popolo cristiano della storia. Il primato della conversione significa per gli armeni l’irrevocabilità nei secoli futuri della scelta fatta. Da questa scaturisce un modus vivendi che costituisce un amalgama quasi perfetto fra le nazioni e la cultura armena, da un lato, e la religione cristiana dall’altro.
La scelta religiosa e culturale operata dagli armeni rispondeva alle loro strategie di sopravvivenza come nazione. Dapprima impero, poi ridotta a entità territoriale omogenea e spartita in seguito fra Est e Ovest, l’Armenia fu oggetto nei secoli di devastazioni e stermini. Greci, romani, persiani, arabi, turchi selgiuchidi, mongoli, e ancora tartari, turchi ottomani e russi ne fecero oggetto di massacri e distruzione. Tra le cause (anche del genocidio) la posizione strategica del territorio e la ricchezza prodotta dai suoi abitanti. Ne derivano consistenti emigrazioni dall’Armenia storica (che comprendeva l’odierna Turchia, tutto il Caucaso meridionale e parte della Siria fino ai confini con la Mesopotamia) verso Bisanzio, la Cilicia, la Polonia, la Romania, la Russia. Flussi migratori che contribuirono alla costruzione di imperi, nazioni e città fino al lontano Bengala, alla Cina, all’Asia centrale. Gli armeni, oggi appena sei milioni sparsi in tutto il mondo, per definire la propria vicenda storica già nel Seicento coniarono l’espressione “genocidio bianco”, ovvero senza spargimento di sangue. Il popolo armeno si è reso presto conto di essere nell’arco della storia “fuori dalla civiltà” e si è aggrappato al cristianesimo come a un’ancora di salvezza. La ferrea adesione alla religione cristiana e la memoria di una costante persecuzione culminata nel genocidio sono le due chiavi, le due ideès fixes, con cui il popolo armeno osserva il mondo. Impossibile distinguerle, o peggio ignorarle, salvo a prezzo di un grave e pericoloso fraintendimento.
Capitale della Grande Armenia cristiana fu Anì. Già imponente fortezza e nodo strategico commerciale sulla Via della Seta, oggi è distrutta e abbandonata in Turchia. Col cristianesimo, e soprattutto nel Medioevo, Anì divenne la «città di mille e una chiesa». La sua cattedrale fu costruita nel 1001 da Trdat, l’architetto armeno che restaurò la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli, distrutta da un terremoto nel 986. e per la cattedrale fu importato il lampadario più grande dell’India (X secolo), mentre varie campane tibetane furono sistemate nelle chiese minori.
L’architettura si era sviluppata a partire dal IV secolo d.C. in perfetta contemporaneità con la conversione. La cupola, elemento cardine dell’architettura armena, simile a una tenda appuntita, è la rappresentazione simbolica di un braccio, una mano chiusa e un dito che tendono verso il cielo. Se in principio il modello più diffuso è quello a pianta basilicale, a partire da VII secolo compaiono le chiese cruciformi che si svilupperanno sia in ambito cittadino sia monastico dando vita a complessi di squisita fattura. Ad aghtmar, sul lago di Van (oggi in Turchia), le superfici murarie si popolano di figure, divenendo un vero e proprio libro di pietra. L’architettura armena sembra rifiutare la vicina e potente Bisanzio per guardare direttamente all’Europa, divenendo così un ponte tra Oriente e Occidente. E non meravigli che i celebri pensieri leonardeschi sulla pianta centrale siano posti in relazione con una conoscenza indiretta degli edifici armeni.
A partire dal X secolo gli armeni, costituiti in compagnie di “maestri muratori” composte di maestranze e architetti, percorsero le strade dall’India all’Europa costruendo sinagoghe, caravanserragli, moschee, monasteri. In particolare nella regione balcanica centrale e a Costantinopoli buona parte degli edifici fino all’Ottocento è di fattura armena e perfino nel Taj Mahal in India operarono maestranze armene. C’è persino chi vede nelle compagnie di maestri muratori l’origine della massoneria. Fino agli anni settanta del secolo scorso, vicino al solco inferiore del basamento del duomo di Milano esistevano i logo dei maestri petrografi armeni, che qualche sovrintendente disinformato ritenne fatti con temperini da coppie di passaggio: furono inesorabilmente “armenizzati”, ovvero cancellati.
Con l’architettura gli armeni diffusero dal Golfo Persico fino all’India e al Tibet il simbolo di Cristo (khatch, “croce” in armeno, è una parola ancora oggi utilizzata in diverse lingue orientali) e con esso altri segni quali l’Albero della vita, le Porte del Paradiso (il tappeto posto sotto il feretro di Giovanni Paolo II conteneva questo simbolo armeno), il Sole ariano (o zoroastriano: la parola “ariano” nelle lingue orientali significa semplicemente “iraniano”) o svastica, che il nazismo nella sua foga predatrice adottò scambiandolo col simbolo opposto, quello della “morte del Sole”.
Vanto degli armeni sono i due santi monaci Mesrob e Sahak, che nel V secolo inventarono un nuovo alfabeto nazionale. Tradussero quel che era disponibile sul mercato della cultura occidentale (diversi testi antichi sono sopravvissuti solo in lingua armena) e avviarono “i secoli d’oro dello scritto e della parola”. I monasteri divennero università e soprattutto biblioteche (matenadaram, letteralmente “magazzini di codici”). Buona parte dei volumi fu depositata nei patriarcati e nei monasteri posti al di fuori del territorio armeno: da Gerusalemme a Venezia, da Vienna a Bombay fino all’Istituto Lazarev di Lingue Orientali fondato da un armeno a Mosca.
Fino alla Seconda guerra mondiale il libro (nono solo i testi sacri, ma il libro tout court) fu considerato sacro dagli armeni. Si racconta che durante il genocidio in Anatolia, agli inizi del Novecento, la Bibbia più grande del mondo, oggi nel matenadaram (Biblioteca nazionale) di Everan, fu tagliata in due da un capofamiglia perchè troppo pesante e la prima metà fu trasportata fino al mare e dorso di un mulo. L’uomo tornò dopo quaranta giorni per caricare l’altra metà e solo da ultimo recuperò la famiglia per salvarla dai massacri compiuti dai turchi.
L’alta considerazione dei libri si sviluppò anche in relazione al gesto efferato di Alessandro Magno. Egli bruciò tutto ciò che di cartaceo e pergamenaceo trovò sulla sua strada. Tra le innumerevoli biblioteche grandi e piccole che furono arse dietro suo ordine, la più famosa resta la Biblioteca Reale di Persepolis. E così il condottiero si guadagnò il soprannome di Guzhastak, che in pahlavide antico e in armeno classico significa “barbaro e portatore di sciagura e sventura”.
Per sopravvivere come entità etnica e religiosa gli armeni inventarono il camouflage artistico e culturale. Camuffamento è infatti la parola utilizzata da Arshile Gorkij (1904-1948), alias in armeno Vostanik Adoyan. Gorkij fu un esponente dell’arte d’avanguardia americana nota col nome di Action Painting. La sua fu una pittura autenticamente armena, che egli “contrabbandò” come arte americana.
Fino al XVIII secolo gli armeni esportarono in tutto il mondo conosciuto calligrafi, amanuensi, miniaturisti, pittori, e poi medici, chirurghi e soprattutto alchimisti. Naturalmente sotto nomi non armeni.
Tra le arti la lavorazione dei metalli raggiunse livelli di eccellenza. In Anatolia officine e fonderie realizzavano sculture in bronzo per Atene e per Roma. Si narra che Nerone ricevette in regalo dal re Tiridate I i quattro cavalli che oggi ornano la basilica di San Marco a Venezia. Dovunque in Medio Oriente gli armeni misero in relazione Est ed Ovest, agevolati dal fatto di “possedere” la Via della Seta, la grande strada commerciale e di comunicazione che collegava Oriente e Occidente.
Dall’Ovest gli armeni introdussero la civiltà greca e romana e molto più tardi i primi brandelli della nascente civiltà industriale europea, come la tecnologia tipografica (in quasi tutti i Paesi mediorientali il primo libro stampato fu opera di un armeno) e ancora, a partire dalla fine dell’Ottocento, la fotografia. Il genocidio annichilì la cultura armena, le cui manifestazioni persero la propria radice originaria per finire assimilate o usurpate da altre culture. Furono distrutti o dispersi i manoscritti, i gioielli, i tappeti e tutto ciò che costituisce parte di un patrimonio culturale. Furono spezzate le relazioni artistiche, sociali, commerciali e interrotte le vie di comunicazione. Malgrado ciò la cultura e l’arte armene sopravvissero in periferia. E facendosi forza della propria situazione marginale furono capaci di ritagliarsi una fetta di universalità, pur rimanendo sconosciute ai più.
(da I luoghi dell'infinito)
L'Immacolata Concezione
di Giordano Frosini
Il 150° anniversario della definizione del dogma è un'occasione propizia per riprendere il discorso su Maria. Sulla sua importanza nella vita del cristiano e della Chiesa si nota un certo silenzio. E tempo di parlarne nei termini che ci ha consegnato il concilio Vaticano Il.
Il cammino del dogma dell'immacolata concezione di Maria è lungo e anche alquanto accidentato. La definizione del 1854 non è certo giunta impreparata, ma ha dovuto percorrere un tragitto tutt'altro che agevole ed è ancora segno di contraddizione con le altre comunità cristiane, in particolare con il protestantesimo, che nella fede in Maria vede quasi il riassunto di tutte le storture bibliche e teologiche della Chiesa. Quanto è successo si presta a considerazioni di ordine speculativo che rimettiamo a più tardi, dopo aver dato uno sguardo sommario alla storia che ha preceduto l'intervento infallibile del papa Pio IX. Ricordiamo anzitutto che immacolata concezione non è da confondersi, come spesso ancora succede, con il parto verginale di Gesù da parte di Maria: si tratta di un avvenimento precedente, che riguarda esattamente la concezione di Maria nel grembo della sua madre Anna. Concezione immacolata significa propriamente. che Maria, a differenza di tutti gli altri uomini, è stata concepita, e quindi è nata, senza peccato originale.
Questo 150° anniversario della definizione del dogma è un'occasione quanto mai propizia per riprendere il discorso su Maria, sulla cui figura e la sua importanza nella vita del cristiano e della Chiesa si nota un certo silenzio, dopo gli eccessi ,e le esagerazioni del nostro passato. E il tempo di riparlare della Madre di Gesù nei termini che ci ha consegnato il concilio Vaticano Il.
UNA LUNGA STORIA DI SECOLI
La storia del dogma comincia addirittura con un libro apocrifo, il Protovangelo di Giacomo, databile nel secondo secolo, il quale racconta che Maria è stata concepita senza l'intervento del padre terreno Gioacchino. La concezione che Maria sia la "Tuttasanta" (Panaghìa per gli orientali) è già presente nei primi secoli e ha una particolare diffusione nel popolo cristiano. Sant'Agostino, che pure è contrario alla verità della immacolata concezione, riconosce il substrato popolare di questa devozione. Nel secolo settimo si registra la festa liturgica relativa in oriente e, dal secolo dodicesimo, in occidente.
Nel secolo successivo Eadmero, discepolo di sant' Anselmo scrive un Trattato sulla concezione della beata Maria vergine, dove contrappone la devozione dei semplici e degli umili alla sapienza dei dotti e degli addetti ai lavori. Lui si dichiara a favore dei primi. E su questa stessa linea che nel 1435, durante il concilio di Basilea, Giovanni di Romiroy chiede che si ponga limite alla discussione venendo incontro alla sensibilità del popolo cristiano, che si scandalizza quando sente dire che Maria è nata col peccato originale.
Melchior Cano ripete le stesse convinzioni nel secolo sedicesimo. Quando il popolo ode parlare del peccato originale presente anche in Maria, si sente "turbato, percosso, torturato". Pensieri espressi sempre più diffusamente da altri qualificati testimoni della fede della Chiesa, specialmente nell'ambito della Spagna. Nel secolo diciassettesimo sorge un movimento promozionale che parte dalle università, comprendente addirittura un giuramento, per difendere la verità dell'immacolata concezione fino all'effusione del sangue. Questo votum sanguinis si diffuse fra gli ordini religiosi, le confraternite e i fedeli. All'opposizione di Ludovico Antonio Muratori fa da contrappeso il pensiero di sant' Alfonso de Liguori, che si appella al consenso dei fedeli e alla celebrazione universale della festa liturgica .
Un movimento che si prosegue e si intensifica col passare del tempo, fino a che "Pio IX chiede ai vescovi di appurare nelle loro diocesi «i sentimenti del clero e del popolo». Le risposte positive suggerirono allo stesso papa di affermare nella bolla lneffabilis Deus, con la quale l'otto dicembre 1854 definiva il dogma, che egli con tale gesto intendeva «soddisfare ai piissimi desideri del mondo cattolico». .
L'opinione contraria dei dotti contiene il fior fiore del pensiero teologico medioevale composto da Anselmo d'Aosta, Bernardo di Chiara valle, Alessandro di Hales, Alberto Magno, Tommaso d'Aquino, Bonaventura. La ragione dell'opposizione nascevadalla volontà di difendere la generale trasmissione del peccato originale in tutti i nati di donna e la universale redenzione operata dal Figlio di Dio fattosi uomo. Fra i favorevoli rifulge la presenza di Duns Scoto con il suo argomento potuit, decuit, fecit e con l'affermazione che Maria era stata preservata dal peccato originale per merito della redenzione operata dal Figlio.
Di tutto questo tiene conto papa Pio IX nella sua definizione, dove afferma: «La beata Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in vista dei meriti di Gesù Cristo, salvatore del genere umano, è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale». Si noteranno due cose: Maria è stata concepita senza il peccato originale, però anch'essa è stata graziata e salvata dalla redenzione operata dal Figlio.
Siamo al di fuori della rivelazione vera e propria, ma non possiamo dimenticare che quattro anni dopo la definizione del dogma, il 25 marzo del 1858, la Madonna stessa sembrò confermare l'intervento pontificio presentandosi a Bernadette Subirous con le parole: Qué soy éra lmmaculada Counceptiou. Proprio cosÌ, sorprendentemente usando l'astratto: «lo sono l'Immacolata Concezione». Bernadette non si rese nemmeno conto dell'importanza di queste parole.
UNA STORIA SINGOLARE
Una storia singolare che va fedelmente ricordata che la Chiesa celebra in quest'anno e in questi giorni. Una storia singolare anche per le scarse e insufficienti affermazioni reperibili nella sacra Scrittura. Il richiamo al protovangelo (Gen 3, 15), alle diverse figure bibliche, agli scritti dei profeti, al saluto dell'angelo e a quello di Elisabetta, alla dottrina della nuova creazione e della presenza divina nel segno del tempio difficilmente possono essere presi come testi esplicitamente e chiaramente probanti il fatto che noi stiamo ricordando. Ci sono però in questi testi delle suggestioni e delle indicazioni che possono essere sviluppate ed esplicitate in questo senso. Si ricorda soprattutto il saluto dell'angelo, con la misteriosa parola kecharitomene, tradotta dalla Bibbia di Gerusalemme "tu che sei stata e rimani colmata del favore divino" e dalla Bibbia interconfessionale "egli ti ha colmato di grazia". Nella Fulgens corona del 1953 Pio XII parla di un "fondamento" del dogma nella stessa Sacra Scrittura.
E a questo punto che comincia la riflessione teologica attuale su questo singolare avvenimento, che fa ancora gridare allo scandalo il mondo protestante.
E in questione anzitutto la concezione della Bibbia in rapporto alla tradizione..Sola scriptura, dicono i protestanti. I cattolici si esprimono nella Dei verbum con qtìeste parole:
"La Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura" (DV 9), ma anche dalla sacra Tradizione. Non perché la Scrittura non sia completa, ma perché essa non esprime tutta la rivelazione chiaramente ed esplicitamente.
La Tradizione interviene per chiarificare ed esplicitare quanto da Dio è stato rivelato.
Una chiarificazione ed esplicitazione che cresce nel tempo perché «la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (DV 8). Un cammino aperto teoricamente fino alla fine dei tempi. In questo contesto non è solo la Tradizione antica che conta, ma anche quella che si manifesta nel corso del tempo. La Chiesa è un organismo vivente e, come tale, aperto al processo della crescita. Non cresce la rivelazione, ma la comprensione di essa. E il progresso può avvenire attraverso tre possibilità: la riflessione e lo studio dei credenti, l'esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro della verità (cf. DV ivi).
Dalla breve storia del dogma prima tracciata risulta che il progresso è avvenuto soprattutto attraverso il primo mezzo, cioè la riflessione e lo studio dei credenti, anzi attraverso la sensibilità e la coscienza del popolo cristiano, in qualche modo quasi contrapposto alle convinzioni di non pochi grandi teologi.
IL SENSO DELLA FEDE DEL POPOLO CRISTIANO
E qui si innesta una seconda riflessione teologica su cui ha insistito un testo alquanto dimenticato del concilio Vaticano II. Nel n. 12 della Lumen gentium si afferma: «L'universalità dei fedeli che tengono l'unzione dello Spirito Santo, non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando "dai vescovi agli ultimi fedeli laici" mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale».
La verità della immacolata concezione è un caso particolare, forse il più singolare, dell'applicazione di questo "sensus fidei" di cui il popolo cristiano è in possesso perché tutto quanto pervaso dallo Spirito Santo. I teologi parlano di un influsso prioritario della fede popolare. Una fede che si è espressa non tanto con scritti quanto con fatti e iniziative di ordine cultuale e artistico (Stefano De Fiores). Quasi una conquista della tenacia e della perseveranza del popolo cristiano. Questo potrebbe anche spiegare perché la festa dell'Immacolata sia la solennità mariana più cara al popolo cristiano. Un caso certamente interessante da un punto di vista teologico. Un'occasione di riflessione su uno dei convincimenti tutt'altro che secondari del concilio Vaticano II, che potrebbe anche avere altre applicazioni.
Il ritorno del dogma dell'immacolata concezione è anche un'occasione quanto mai opportuna per riflettere su quella verità del peccato originale di cui si parla molto poco e anche male ai nostri giorni. Un punto di dottrina sul quale, più che su tanti altri, è necessario un processo di aggiornamento, richiesto diversi anni fa da Paolo VI, preoccupato del silenzio che circondava questo importante capitolo di fede cristiana. Il discorso non è affatto semplice, ma si possono ricordare gli elementi più necessari pèr questa revisione.
IL PECCATO ORIGINALE
Mettiamo in disparte i doni preternaturali che non hanno nessun fondamento biblico. L'unico dono che Dio aveva fatto all'uomo ai primordi della sua esistenza era il dono soprannaturale della grazia o dello Spirito Santo, attraverso il quale l'uomo era elevato alla dignità di figlio di Dio, fratello di Cristo, membro divinizzato della famiglia trinitaria. Il peccato era tale soltanto per coloro che l'hanno commesso (Adamo-Eva, il primo uomo e la prima donna, la prima comunità arrivata all'uso della ragione e della libertà); per tutti i discendenti il peccato è soltanto analogico, cioè non un vero peccato, ma lo stato che consegue il peccato. E non sarebbe affatto male smettere di chiamarlo peccato per non fare confusione. Sui discendenti grava soltanto la conseguenza di quell'atto di ribellione compiuto all'inizio dell'umanità: cioè la privazione della grazia, della vita divina, dello Spirito Santo. I progenitori dovevano trasmettere uno stato e non ce l'hanno potuto trasmettere perché lo persero per se stessi. Come un fiume che è stato bloccato alle sue origini: l'acqua per forza di cose non scorre più. Sulle conseguenze del peccato in noi dobbiamo fare un'operazione di pulizia. Il peccato non ha cambiato le leggi naturali della biologia e della fisica, ma soltanto il nostro stato interiore, che reagisce in modo diverso alle sollecitazioni dell'esterno. Il paradiso terrestre non era il paradiso finale: un luogo e uno stato in cui erano presenti la morte, il dolore, la sofferenza, l'ignoranza e tutti i limiti dell'esistenza umana, aggravati certamente dallo stato primordiale in cuj si trovava l'umanità. Era diverso il modo di reagire a essi. L'aggravarsi del-la concupiscenza può essere anche spiegato con il peccato del mondo, cioè con la massa di peccati che l'uomo ha compiuto dopo e anche in conseguenza del peccato originale. La giustizia di Dio è fuori questione perchéla consapevolezza del peccato e dello stato da esso determinato è contemporanea alla promessa di salvezza attraverso la morte e la risurrezione di Gesù Cristo. Le due cose avvengono in perfetta sincronia.
Tutta l'umanità ne è partecipe nel momento primo della vita, che è il momento della concezione, con una ecceZIOne: questo propriamente significa che Maria è nata senza il peccato originale. Si può dire, come si è sempre detto, che il dono è stato fatto a colei che era destinata a diventare madre del Signore. Ma si può allargare la nostra considerazione, dicendo che Dio voleva ricominciare da capo. La parentesi del peccato è come saltata, si ritorna alla purezza delle origini, l'umanità si trova all'aurora di un nuovo giorno. Il lavoro di Dio continuerà nella nascita verginale di Gesù, per rendere noto a tutti che il mondo nuovo non è opera dell'uomo (in particolare non è opera dell'orgoglioso maschio, umiliato perché reso inutile), ma soltanto opera di Dio. Di Dio e di questa umile ragazza appartenente a un popolo senza gloria e senza storia che, nonostante tutto, ha portato avanti nei secoli il segreto del lieto annunzio della salvezza.
LA VERA DEVOZIONE A MARIA
Vorrei discutere in ultimo il fatto che l'esenzione dal peccato originale è presentata nei documenti ufficiali come un privilegio singolare (altrettanto non sarà fatto per il dogma dell' Assunzione, almeno se si sta al testo della definizione di Pio XII). Qualcosa che appartiene, dunque, solamente a Maria. Si tocca qui uno dei passaggi più fecondi che si registrano oggi nella sensibilità della Chiesa, anzi delle Chiese: il passaggio dalla mariologia dell'esaltazione alla mariologia dell'imitazione. La prima ha certamente prodotto i suoi frutti, ma anche distaccato Maria dal popolo cristiano che qualche volta, è innegabile, è perfino arrivato a esagerazioni e perfino fanatismi. Certamente ha relegato Maria in un mondo lontano che la rendono grande sì, ma quasi inimitabile, perché appunto arricchita di doni che appartengono soltanto a lei.
Fra vecchio massimalismo e minimalismo, il concilio Vaticano II ha aperto un'altra strada: Maria riportata all'interno della Chiesa, che diventa il modello e l'esempio di ogni esistenza cristiana e anche della Chiesa nel suo complesso. Una via battuta anche dai papi post -conciliari, per i quali si può dire che la vera devozione a Maria comincia dalla sua imitazione. In questa linea si leggono la Marialis cultus di Paolo VI e la Redemptoris mater di Giovanni Paolo IL Non si dimenticano le glorie, ma si sottolinea la necessità dell'imitazione. Maria modello del popolo cristiano è diventato il titolo più ecumenico della Madre di Dio.
Anche la liturgia della solennità dell'Immacolata ci porta alla stessa conclusione, ed è esattamente quello che fa Giovanni Paolo II nella sua enciclica. La terza lettura è incentrata sulla "piena di grazia", annunciata sullo sfondo della prima lettura dedicata al peccato originale; la seconda, tolta dalla lettere agli Efesini, ci ricorda che anche noi, pure in forme diverse dalle sue, siamo "scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati (immaculati è il termine usato dalla Volgata conservato dalla versione della CEI: la Bibbia interconfessionale traduce più precisamente "senza difetti") al suo cospetto nella carità". Quello che è successo a lei prima avviene per noi dopo, ma il risultato è lo stesso. Maria è perfettamente imitabile in tutte le sue ricchezze, cominciando dalla fede per la quale, secondo sant' Agostino, ella concepì prima nell'anima che nel corpo. E la cosa è ancora più coinvolgente se pensiamo che Maria è più grande per la sua fede che per la stessa maternità divina.
La nostra meditazione termina così con un atto di umiltà e con la ferma convinzione che il cammino di Maria può essere anche il nostro cammino. Oltre il suo esempio, essa non ha altra cosa da dirci se non le parole pronunciate alle nozze di Cana: "Fate quello che egli vi dirà". Ella rimane la Vergine del silenzio. Un augurio e un programma di vita.