Alcuni spunti già allora offerti continuano a far pensare e invitano a considerare delle questioni ineludibili, dinanzi alle difficoltà che la costituzione delle suddette unità sperimenta, specialmente in alcune regioni pastorali.
Una discussione sull'istituzione delle unità pastorali sorge di solito nel contesto di problemi concreti, legati soprattutto alla progressiva carenza di clero o al notevole assottigliarsi di comunità che, pur vantando un glorioso passato, oggi fanno i conti con una diminuzione delle forze, ad esempio per il crescente svuotamento dei centri storici delle città. Nello stesso contesto, emerge pure un dialogo sui tentativi, più o meno riusciti, di realizzazione delle comunità fra parrocchie. Si potrebbe notare, perciò, che un confronto sul tema chieda di essere condotto su un terreno puramente pratico, nella ovvia direzione delle "strategie pastorali".
Tale prospettiva, tuttavia, è aperta al rischio di una riduzione in termini tecnico-organizzativi. Per il motivo accennato, senza trascurare i problemi concreti, è più conveniente orientare la riflessione verso un orizzonte misterico, nel quale la Chiesa cerca di interpretare sé stessa e le proprie strutture. Di proposito, pertanto, le righe seguenti articoleranno degli spunti, per pensare le comunità di parrocchie e le difficoltà che segnano il loro cammino, intorno a tre questioni, inerenti alcuni aspetti del mistero della Chiesa.
Unità pastorali ed ecclesiologia di comunione
Una prima questione deve emerge nell'aggancio del tema delle comunità fra parrocchie all'ecclesiologia del concilio Vaticano II. Ad esempio, Villata giustamente scrive che nel pensare una nuova modalità per l'annuncio del Vangelo alla gente del territorio – scopo precipuo delle unità pastorali - «è in causa il "compiersi nella prassi" dell'ecclesiologia del Vaticano II, ispirata alla comunione e alla missione sul territorio». Il servizio al Vangelo sarà trattato in seguito. Intanto, nei limiti inerenti il presente intervento, va precisato il significato di "comunione". Il termine, infatti, non di rado è considerato sullo sfondo di una comunità puramente umana e, quindi, utilizzato de facto nel contesto di considerazioni di indole tipicamente organizzativa, nella tacita convinzione che la comunione venga realizzata dal basso e, in genere, nella comune esecuzione delle direttive emanate dai "responsabili".
Numerosi teologi (ad esempio Severino Dianich, Walter Kasper) hanno affrontato il problema della comunione in prospettiva ecclesiologica. Il gesuita tedesco Medard Kehl, in particolare, ha osservato che l'aspetto nodale di un’ecclesiologia di comunione «consiste nella mediazione fra le dimensioni trinitarie di questo concetto con la forma strutturale comunicativa della Chiesa. Entrambi gli aspetti devono essere pienamente riconosciuti». In altri termini, l'espressione della comunione nelle strutture trova il proprio fondamento autentico nella communio del Dio uno e trino e, viceversa, la comprensione teologica della Chiesa implica delle effettive strutture comunicative.
È decisivo tenere uniti i due aspetti indicati, anche nelle discussioni inerenti le unità pastorali. Diversamente, si rischia l'impegno per la costruzione di un sistema che, per quanto efficace, rimane comunque privo di senso, poiché pensa la vita della Chiesa nella direzione dell'opera umana e non in quella dell'icona della Trinità. Non è raro che il fallimento di alcune esperienze anche iniziali di unità pastorali avvenga, paradossalmente, a motivo di una malintesa comunione. In altre parole, alcuni tentativi non riescono per una serie di inevitabili dinamiche conflittuali, che sorgono a causa di eccessive attenzioni alle strutture comunicative.
Si pensi, per esempio, alle complesse relazioni fra i consigli pastorali delle singole parrocchie dell'unità pastorale, alla presunta incidenza sui primi da parte del "super-consiglio" della comunità di parrocchie e alle interazioni di questo con il consiglio pastorale del vicariato. Il problema accennato si accompagna spesso a quello del "responsabile" ultimo delle direttive da dare: è il parroco moderatore oppure il vicario foraneo, esterno all'unità pastorale? Inoltre, un eventuale parroco, diverso dal moderatore, è di fatto il semplice esecutore degli orientamenti dettati da altri?
Più a monte, l'interrogativo fondamentale - come si vedrà più avanti concerne il motivo per il quale una unità pastorale vede la luce: si tratta di un'esigenza maturata nel dialogo comunitario o dell'imposizione di un "nuovo metodo" di fare pastorale? Davanti ai problemi indicati e ad altri simili, di solito, si assiste a una profusione di tempo e di energie nel chiarire in modo dettagliato le "competenze" e le motivazioni dirette a "garantire la comunione", dentro una comunità di parrocchie che sperimenta il normale e inevitabile travaglio del proprio costituirsi quotidiano.
Non sarebbe auspicabile che pastori e fedeli, privilegiando l'atteggiamento del discernimento comunitario spirituale, facessero il possibile per progettare insieme e trovare, nello sforzo della comunicazione fraterna, le soluzioni opportune? Non si realizzerebbe così, seppure a fatica, un vissuto comunitario nella luce della communio del Dio uno e trino?
Unità pastorali e passione per l'annuncio del Vangelo
Il servizio al Vangelo, accennato in precedenza, richiama una seconda questione. A proposito, pensando alla cooperazione missionaria fra parrocchie nel territorio, Villata chiede acutamente: «La "Chiesa che vuole avere futuro" non deve forse abbandonare azioni pastorali che hanno fatto [...] il loro tempo, superare individualismo e autoreferenzialità, per portare il Vangelo "dentro" la vita quotidiana della gente?».
Mons. Franco Giulio Brambilla - vescovo ausiliare di Milano - pensando alle unità pastorali, fa risaltare il profondo legame tra una forma di presenza della Chiesa, chiamata a servire il Vangelo, e il territorio, in cui il Vangelo, annunciato e accolto, fa sorgere una comunità ecclesiale visibile e vivente. A riguardo, in maniera incisiva, egli scrive: «Il traguardo più importante non è unire o accorpare parrocchie [...], ma un lavoro comune in ordine a una nuova proposta dell'Evangelo che penetri effettivamente nella vita della gente. [...] Ciò consentirà di approdare a una visione di comunità più "articolata" sul territorio, uscendo dalla riproduzione di figure di comunità pressoché eguali, che presentano una clonazione di attività ripetute per tutti».
La questione sollevata non manca di riscontri nella prassi pastorale. Essa mette a fuoco, da una parte, l'atteggiamento di autoreferenzialità e di competizione e, dall'altra, la mancata volontà di uscire dalla forma storica che la vita parrocchiale ha assunto negli anni passati. Fuori dubbio, ciascuna comunità, con il proprio parroco e con i propri collaboratori, s'impegna per il servizio al Vangelo nel territorio. Il problema consiste nella promozione di un impegno comunitario dei parroci e delle parrocchie.
Un esempio potrebbe far cogliere in modo più chiaro la questione. Le parrocchie si sentono giustamente in dovere di curare la catechesi in preparazione al matrimonio, assicurando alle coppie di fidanzati una serie di incontri, culminanti nel rilascio dell'attestato di partecipazione. Da una parte, si potrebbe domandare se ogni parrocchia riesce a garantire delle proposte serie, all'altezza di far risuonare il Vangelo per quei giovani che scelgono di sposarsi in chiesa. Dall'altra, contestualmente, se non è il caso che alcune parrocchie si mettano insieme per pensare una solida proposta comune. Eppure, spesso, ciò non accade.
Di conseguenza, sono normali le fughe verso il "corso più breve" della "parrocchia vicina" oppure verso quei rapidi corsi impersonali che, periodicamente, alcuni offrono, a modo di "corso compatto" di... "primo livello". Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma rimane il punto fermo: la sfida di pensare forme nuove di collaborazione per favorire, nel modo migliore, il cammino del Vangelo fra la gente.
Sorge spontaneo interrogarsi sui motivi delle difficoltà inerenti un cambiamento di prospettiva. Per una risposta che vada al cuore del problema, invece di disperdersi in inutili divagazioni, sarebbe opportuno meditare le parole scritte dall'apostolo Paolo, nel contesto dei problemi esistenti a Corinto: «Quando uno dice: "Io sono di Paolo", e un altro: "Io sono di Apollo", non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servi tori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso. lo ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere. Sicché, né chi pianta né chi irriga vale qualcosa, ma solo Dio, che fa crescere. Chi pianta e chi irriga sono una medesima cosa: ciascuno riceverà la propria ricompensa secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio» (1 Cor 3,4-9).
Unità pastorali e urgenza del discernimento spirituale comunitario
Il servizio al Vangelo, intorno al quale nel territorio si costituisce continuamente e faticosamente una comunità credente, fa pensare pure al futuro della fede nello stesso territorio. La domanda precisa, a proposito, concerne chi deve pensare a tale futuro.
Don Luca Bressan, in un considerevole studio sulla parrocchia (La parrocchia oggi. Identità, trasformazioni, sfide, EDB 2004, Bologna), ha indicato un pericolo che questa corre ai giorni nostri: essa sperimenta «in modo sempre maggiore una forma di controllo direttivo, di ingerenza sui processi che generano il suo corpo sociale, arrivando, alla fine, a inibire di fatto (senza averlo mai voluto né dichiarato) quel fenomeno complesso e articolato che è il processo di emersione locale del cristianesimo» (p. 420). A suo modo di vedere, pienamente condivisibile, la via d'uscita è molto semplice: «Occorre sensibilizzare le parrocchie attuali [...] perché si pensi insieme il futuro della Chiesa in quel luogo, più che pensarlo al posto loro, più che sostituirle nell'affrontare i problemi e le emergenze, ricordando loro (e al resto della Chiesa diocesana) che il futuro della fede di quel luogo è nelle mani dei cristiani che quel luogo lo abitano» (pp. 420-421).
Alcuni tentativi di realizzare le comunità fra parrocchie vanno incontro al fallimento, perché sono frutto di decisioni prese "altrove", in un centro che pensa di essere vivo per una periferia ritenuta soltanto un terminale esecutivo. Se si vuole trarre una lezione, perciò, bisogna cogliere l'urgenza di un recupero della sinodalità. Questa, nella prospettiva della tradizione, parte dall'assemblea liturgica/eucaristica e poi dice la vita stessa della Chiesa.
Si tratta, in altri termini, di vivere il dialogo all'interno del popolo di Dio, tra fedeli che partecipano all'eucaristia e ministri ordinati. Va ricuperato il dialogo, il discernimento comunitario, nella docilità all'azione dello Spirito Santo. La nota pastorale dell'episcopato italiano, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, dice che proprio l'impegno per il discernimento comunitario «manifesta la natura della Chiesa come comunione» (12).
Nelle Chiese locali ci sono questioni pastorali urgenti da affrontare, fra le quali la configurazione da pensare per il vissuto ecclesiale delle parrocchie, oggi e nel futuro. Tali questioni chiedono di essere affrontate all'interno di un discernimento pastorale, sinodale, di tutti i fedeli, uniti con i loro pastori. Rimane il detto medievale di origine romana, secondo cui «ciò che poi tocca tutti come singoli, da tutti deve essere approvato». Un detto che - secondo padre Yves Congar - non vuole avallare una logica di maggioranza, ma promuovere una regola di procedimento che permetta una partecipazione reale.
Nunzio Capizzi
Da: Vita Pastorale anno 2011, n. 9, pag. 40