Mi spiego. Almeno che non si creda veramente che “la più grande crisi dal ‘29” – come è stata definita quella che viviamo – sia il capriccio di entità metafisiche che per placarsi pretendono sacrifici umani e senza credere nemmeno che essa sia (solo) il portato di comportamenti criminali di un manipolo di speculatori, le sue cause strutturali, sistemiche sono da individuare in una crescita smisurata del ricorso a vati tipi di indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari mobilitati per un valore totale otto volte superiore al Pil reale), monetario (il denaro emesso è 12 volte il Pil mondiale), pubblico (sia quello contratto dai vari stati con altri stati, sia quello verso i propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di credito…), ecc.
Ma i debiti hanno un difetto: creano i creditori che, presto o tardi, chiedono di essere “onorati”, rimborsati. Se lo fanno si aprono le crisi di insolvenza ad effetto domino; si inizia con i default di istituti di credito immobiliari, banche, assicurazioni, fondi pensionistici e si finisce col minare la credibilità e la “fiducia” verso le istituzioni statali garanti dell’ordine sociale, oltre che dei titoli di credito.
Fin qui tutti d’accordo. Ma a cosa sono serviti queste montagne di debiti accumulati e perché la “governace globale” non si azzarda a interromperne il flusso?
Una interpretazione che va per la maggiore a sinistra è che il “capitalismo finanziario” sia una invenzione di George Soros e dei suoi pari approfittatori e parassiti che hanno affossato il buon vecchio capitalismo produttivo di un tempo (i “trenta gloriosi”), manageriale e operaio (del compromesso politico socialdemocratico tra capitale e lavoro). In realtà la speculazione è un sintomo di una malattia che oltre a costituire un problema morale è politico e strutturale.
I debiti nelle economie industriali mature, a partire dagli Stati Uniti (il più grande debitore al mondo) hanno cominciato a crescere già a cavallo tra i ’70 e gli ’80. L’immissione di crediti si è resa necessaria perché si erano inceppati i normali meccanismi di profitto-accumulazione-investimenti-riproduzione fino ad allora garantiti dai tradizionali cicli economici produttivi industriali. In altre parole, i debiti sono serviti a mantenere artificialmente elevata la redditività dei capitali investiti. O, se si preferisce, per compensare la scarsa profittabilità del capitale industriale. I debiti, infatti, vengono giustificano per “stimolare” gli investimenti, favorire gli acquisti e i consumi, dare un punto di appoggio (la famosa “leva”) alla crescita economica, far circolare denaro. Un po’ di dopping a fin di bene, poiché al fondo vi è la necessità costitutiva del capitalismo di promuovere in continuazione enormi investimenti tecnologici, organizzativi, di concentrazione e di scala… per mantenere alta la competitività sui mercati globalizzati: la produttività per unità di lavoro è infatti schizzata alle stelle, ma il Pil non ha seguito il trend e la occupazione (in Occidente) è arrancata. La megamacchina termo-industriale ha drenato tutto ciò che poteva: lavoro sempre più a basso costo (delocalizzazioni, precariato, femminilizzazione al ribasso del mercato del lavoro, ecc.), risorse naturali saccheggiate, beni comuni espropriati e privatizzati, dal genoma umano al Partenone. Tutto è stato “messo al lavoro e a valore”, fagocitato e incorporato nei rapporti sociali mercantili, ma nemmeno queste enormi immissioni di “opportunità produttive” sono bastate a soddisfare la domanda di denaro necessario per realizzare nuovi investimenti, creare nuovi mercati, vendere e comprare nuove merci. L’idrovora dell’espansione, dello sviluppo, della crescita è insaziabile. Pretende più denaro di quanto non riesca a realizzarne e a distribuirne. Si crea così uno scompenso che la finanza, con i suoi infiniti ritrovati, si è incaricata di coprire. L’imperativo di dover vendere sempre di più e a più buon mercato, in una competizione selvaggia e globale, costringe i manager ad uno sforzo espansivo costante, ad investire sempre di più non solo in macchinari, ma in marketing, quindi a ricorrere massicciamente al mercato finanziario per garantirsi i necessari flussi di denaro.
Ammettiamo ora che per uscire dalla spirale perversa del debito e delle ricorrenti crisi di riassestamento bastino le ricette auspicate dai più seri osservatori economici: diminuire i tassi di rendimento (Return on Equity) attesi dai possessori di titoli di credito sui capitali investiti dal 20% e oltre, oggi garantiti dalle speculazioni finanziarie, ad un 4% normalmente giudicato più che “equo” per dei profitti industriali (si pensi che la media dei profitti realizzati dalle imprese Usa negli ultimi 25 anni è stata appena del 2%); regolazione e tassazione delle transazioni finanziarie a breve per dilazionare nel tempo le rendite; riconoscimento dei costi monetari delle “esternalità negative” ambientali e sociali (standard di sostenibilità e clausole sul rispetto dei diritti umani). Già questi provvedimenti comporterebbero un rallentamento dei ritmi produttivi e le quantità delle merci e quindi del “lavoro necessario” alla riproduzione dei cicli economici.
In definitiva la auspicata de-finanziarizzazione dell’economia si può ottenere solo imboccando scientemente la via della decrescita – se si preferisce, si può dire anche: rendere la crescita non necessaria al benessere – che non è solo la inevitabile diminuzione dei flussi di materia e di energia impegnati nei cicli produttivi e di consumo (nelle varie forme di green e blue economy) a fronte della progressiva rarefazione delle materie prime, ma anche la riduzione e ridistribuzione del lavoro necessario alla produzione del reddito e minor ricorso al denaro rendendo usufruibili beni comuni e relazionali. Esattamente il contrario di quanto fanno le “manovre” messe in atto dai vari governi ispirate dalle istituzioni finanziarie. Insomma, diminuendo il peso e la sfera di influenza dell’economia di mercato sulla vita della gente. L’intensificarsi delle crisi (non solo finanziarie) rende sempre più stringente il dilemma: continuare ad inseguire il benessere attraverso la crescita dei beni e dei servizi immessi sul mercato, sapendo che i costi ambientali e sociali per la gran parte delle popolazioni della terra superano di gran lunga i benefici, oppure cambiare rotta usando strumenti di riferimento diversi dal Pil e piloti diversi dalla Bce.