«Kirche 2011: Ein notwendiger Aufbruch» (Chiesa 2011: ripartire è necessario) il titolo, ma, scorrendo lo scritto, verrebbe da aggiungere come occhiello quell'espressione di don Lorenzo Milani nella sua accezione originale I care. Perché è tangibile la preoccupazione per le sorti del cristianesimo e della chiesa in un mondo che ha ancora sete di annuncio evangelico, ma che spesso stenta a riconoscerlo in un apparato che mostra i connotati più di un regno terreno che celeste.
Se escludiamo le reazioni di tradizionalisti-integralisti, è unanime - dall'Europa agli Stati Uniti - l'apprezzamento per lo stile e l'atteggiamento di dialogo. Il portavoce della Conferenza episcopale tedesca, il gesuita Hans Langendörfer, in un comunicato riconosce che si tratta di «idee spesso dibattute, ma che necessitano di un ulteriore chiarimento cui si dedicherà una prossima assemblea plenaria dei vescovi».
Il settimanale cattolico inglese, The Tablet, in uscita il 10 febbraio, registrando il numero delle adesioni salito nel frattempo a 224, pubblicava il documento seguito da quello del 1970 - su questioni simili - a firma, tra gli altri, di Joseph Ratzinger, Karl Lehmann, poi presidente dei vescovi tedeschi dal 1987 al 2008, Karl Rahner e Walter Kasper, fino allo scorso anno presidente del Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani.
Riforme non rinviabili
«È passato più di un anno da quando sono stati resi pubblici casi di abusi sessuali su bambini e adolescenti da parte di preti e religiosi, e ciò ha gettato la chiesa cattolica in Germania in una crisi senza uguali», comincia così lo scritto che sottolinea l'accresciuta consapevolezza da parte di molti cristiani della necessità di riforme profonde: un dialogo aperto sulle strutture di potere e di comunicazione, sulla forma del ministero ecclesiale e sulla partecipazione responsabile dei credenti, sulla morale e sulla sessualità.
L'alternativa, considerando l'imminente visita del papa in autunno, sarebbe quella di un silenzio di tomba, come se le ultime speranze fossero andate distrutte, ma i teologi non vogliono crederci: «semplicemente non può essere così».
«La crisi profonda della nostra chiesa esige di discutere anche di quei problemi che, a prima vista, non hanno direttamente a che fare con lo scandalo degli abusi e con la sua pluriennale copertura». I teologi intendono contribuire ad una nuova stagione ecclesiale: «Il 2011 deve diventare un anno di ri-partenza per la chiesa».
Non era mai accaduto che un così alto numero di cristiani abbandonassero la chiesa, mentre altri hanno privatizzato la loro fede: sono segnali inquietanti che inducono a scrollarsi di dosso strutture fossilizzate per riconquistare nuova forza e credibilità.
Non si riuscirà ad attuare un rinnovamento delle strutture ecclesiali in un angosciato isolamento dalla società, ma solo con il coraggio dell'autocritica e con l'accoglienza di impulsi provenienti dall'esterno - come il ruolo dell'opinione pubblica nella crisi sugli abusi - perché «solo attraverso una comunicazione aperta la chiesa può riconquistare fiducia».
Facendo appello anche a diversi segnali provenienti dai vescovi, i teologi ricordano il ruolo della chiesa. Questa non è fine a se stessa, ma ha la missione di annunciare a tutti gli uomini il Dio di Gesù Cristo che libera e ama, a patto di essere luogo e testimone credibile dell'annuncio di libertà del vangelo.
E, se il suo parlare e il suo agire, le sue regole e le sue strutture - tutto il suo rapporto con gli uomini all'interno e all'esterno di essa - si associano all'assoluto rispetto di ogni persona umana, attenzione alla libertà di coscienza, impegno per il diritto e la giustizia, solidarietà con i poveri e gli oppressi; se l'annuncio evangelico di libertà - che costituisce il parametro per una chiesa credibile - si declina talvolta in un atteggiamento critico nei confronti della società moderna laddove la solidarietà reciproca o la dignità di ogni essere umano vengono calpestate, non si può negare, come già riconosciuto dal concilio, che, da un certo punto di vista, sia piuttosto la società a precedere la chiesa, che da essa può imparare, quando si tratta di riconoscimento di libertà, maturità e responsabilità.
Sei le sfide più urgenti
Consapevoli che le sfide di oggi non sono affatto nuove, i teologi constatano come non si riesca ancora ad intravvedere riforme che guardino al futuro.
Tra le riforme non rinviabili essi indicano le strutture di partecipazione, le comunità, la cultura del diritto, la libertà di coscienza, la riconciliazione, la celebrazione.
Sono la sinodalità, la corresponsabilità e il decentramento il primo richiamo, nella convinzione che «in tutti i campi della vita ecclesiale la partecipazione dei credenti è la pietra di paragone per la credibilità dell'annuncio di libertà del vangelo». Più strutture sinodali a tutti i livelli e partecipazione dei fedeli alle decisioni di chi li guida. In più, ciò che può essere deciso in loco - e si sottolinea il criterio della trasparenza - non venga calato da lontano, da una sede centrale che non conosce appieno la realtà.
Altro nodo, il senso di comunità oggi in declino. «Le comunità cristiane devono essere luoghi nei quali le persone condividono beni spirituali e materiali». Per rispondere all'assottigliamento del clero, assistiamo invece a «parrocchie extralarge» dove vengono meno le dimensioni di vicinanza e appartenenza quando non vien posta fine a identità storiche anche particolarmente significative.
Da non sottovalutare il burnout (esaurimento) di tanti preti stressati dai troppi impegni, mentre ai laici viene impedita l'assunzione di responsabilità nella comunità di appartenenza. La proposta che viene rilanciata: «La chiesa ha bisogno anche di preti sposati e di donne in servizio ecclesiale».
Da migliorare anche la difesa e la cultura del diritto che consentono di affrontare i conflitti in maniera equa e con rispetto reciproco. Viene proposta la «creazione di una giurisdizione amministrativa ecclesiale» in quanto «il diritto ecclesiale merita questo nome solo se i credenti possono effettivamente far valere i loro diritti».
Viene spezzata poi una lancia in favore del rispetto della libertà di coscienza individuale inteso come il «porre fiducia nella capacità di decisione e di responsabilità degli uomini». Un compito «anche» della chiesa, al di là di ogni paternalismo.
La considerazione nei confronti del matrimonio cristiano o della vita consacrata non può condurre all'esclusione di quanti «vivono responsabilmente l'amore, la fedeltà e la cura reciproca in una unione omosessuale o come divorziati risposati» in nome di quella libertà di coscienza che riguarda «l'ambito delle decisioni personali sulla vita e delle forme di vita individuale».
In riferimento agli abusi, scrivono i teologi che «un assoluto rigorismo morale non si confà alla chiesa. La chiesa non può predicare la riconciliazione con Dio, senza procurare essa stessa nel suo agire i presupposti per la riconciliazione con coloro verso i quali è diventata colpevole: per violenza, per violazione del diritto, per il rovesciamento del biblico annuncio di libertà in una morale rigorosa priva di misericordia».
Ultimo ambito segnalato è quello della celebrazione: se la liturgia vive della partecipazione dei credenti, in essa debbono trovare spazio tutte le esperienze e le forme di espressione, senza irrigidirsi su un tradizionalismo incomprensibile ai più. Il pluralismo di oggi fatica a conciliarsi con un'improbabile unificazione centralistica. Al contrario, «solo quando la celebrazione della fede accoglie tutte le concrete situazioni di vita l'annuncio della chiesa raggiungerà le persone».
Il documento si conclude con l'auspicio che il dialogo orienti la ricerca di «soluzioni che portino la chiesa fuori dalla sua paralizzante autoreferenzialità».
«Alla tempesta dello scorso anno - scrivono i teologi - non può seguire alcuna pace, perché si tratterebbe di pace tombale». La paura non è buona consigliera, ma abbiamo tutti motivo di speranza: i cristiani sono esortati dal vangelo a guardare con coraggio al futuro e a camminare come Pietro sulle acque: «Perché avete così paura? È così piccola la vostra fede?».
Maria Teresa Pontara Pederiva
Settimana n.7 febbraio 2011