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Giovedì, 17 Febbraio 2011 20:17

Se il guerriero perde lo scudo

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di Domenico Rosati
Settimana n. 3 anno 2011

Al là degli aspetti giudiziari, un uomo pubblico costretto a inseguire le proprie frequentazioni private diventa ricattabile e perde credibilità. Il giudizio politico ne tiene conto?

Con tre voti di scarto il governo aveva schivato la sfiducia nello scorso dicembre, con tre voti di scarto (12 a 3) la Corte Costituzionale ha tolto lo scudo giudiziario al premier (e ai ministri). La sentenza della Consulta ha bocciato quella parte della legge sul "legittimo impedimento" che offriva al presidente del Consiglio la garanzia del congelamento automatico dei suoi tre processi aperti a Milano. Ha, infatti, stabilito che è illegittima la norma che obbliga il giudice a rinviare il processo ad un membro del governo fino a sei mesi sulla base di un semplice attestato della presidenza del Consiglio. Spetta quindi al giudice valutare in concreto se sia o meno accettabile l'impedimento a comparire in udienza. Il tutto per una semplice ragione: le norme inficiate contrastavano con il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3) e con l'art. 138 (nel senso che per adottare lo scudo sarebbe stata necessaria una legge di revisione costituzionale).

 

Si agitano gli scudieri

Che dire? Per gli eroi greci lo scudo era importante: conquistare quello del nemico era motivo di gloria (Ettore che si pavoneggia con le armi di Patroclo credendo fossero di Achille), perderlo in battaglia era considerato infamante. Solo un singolare poeta soldato, Archiloco, si mette controcorrente. Ha abbandonato lo scudo ma ha salvato la pelle: «Quello scudo che importa? Vada in malora. Un altro ne acquisterò, non meno bello». Ma quanti scudi si possono perdere e riacquistare? In realtà quello abrogato dalla Corte non è il primo degli strumenti messi in campo dal legislatore per risparmiare agli uomini di governo il disturbo di rispondere alle chiamate dei tribunali. Nel corso degli anni si sono succeduti il Lodo Schifani e il Lodo Alfano, entrambi rigettati dalla Corte con le stesse motivazioni; e il tentativo di "costituzionalizzare" l'esenzione processuale per la durata dell'incarico di governo non ha trovato in parlamento i consensi necessari per assicurane in tempo utile la doppia lettura prevista dall'art. 138. L'ultimo dispositivo del "legittimo impedimento" era stato concepito proprio come un ponte verso la riforma costituzionale, presumendosi (non senza una certa forzatura) che se ne potessero anticipare gli effetti con una legge ordinaria: un tentativo di "pronto soccorso" che ha funzionato finchè i giudici della Corte non hanno rimesso le cose a posto. Ora non basta più che un'autocertificazione di Palazzo Chigi attesti che il premier o un ministro è impegnato a governare per obbligare il giudice a rinviare il processo; servirà ogni volta un'istanza di rinvio ed ogni volta il giudice valuterà se accoglierla o meno, come avviene per ogni cittadino. L'esercizio della funzione di governo, ancorché riconosciuta come impedimento, non è più tutelato automaticamente.

Calato il sipario, commenti in sala. Quelli della maggioranza sono stati particolarmente intrecciati e confusi. Da una iniziale propensione a presentare il bicchiere come mezzo pieno si è rapidamente passati alla reazione frontale con il ricorso ai consueti riferimenti alla presunta vena complottistica dei "magistrati politicizzati" ed alla stessa inadeguatezza della Corte in quanto organismo non legittimato dal voto popolare. Perduto lo scudo, si agitano gli scudieri i quali, non avendo in genere autonomia di pensiero, si affannano non tanto ad offrire argomenti al dibattito quanto ad escogitare le espressioni più estreme purché attestino il massimo di fedeltà al "dante causa". E qui viene alla mente quel che Erasmo da Rotterdam (un autore che Berlusconi afferma di tenere in gran conto) dice a proposito delle «arti degne di un vero nobile e cortigiano». Alla cui felicità, scrive, «basta e avanza poter chiamare il re "signore", aver imparato a salutate con tre parole, saper ripetere in continuazione i titoli ufficiali "Serenità", "Signoria", "Magnificenza", essersi stropicciati splendidamente la faccia, lisciare in modo brillante».

L'animosità agitatoria della corte è peraltro temperata dalle dichiarazioni di contrarietà al ricorso all'anticipo del lavacro purificatore delle elezioni generali, un capitolo che evidentemente solleva problemi non trascurabili di convenienza e di calcolo. Anche l'ovvia soddisfazione delle opposizioni viene ad essere attenuata da almeno due considerazioni: la prima è che, scudo o non scudo, l'imputato Berlusconi sarebbe ormai fuori tiro nei processi che lo investono grazie al combinato disposto degli avvicendamenti nei collegi giudicanti e del decorrere delle prescrizioni; e inoltre - seconda considerazione - se dovesse effettuarsi il referendum abrogativo sul legittimo impedimento (che la Corte ha ammesso ma dovrà essere ricalibrato in Cassazione) c'è il rischio di dover contrastare ancora una volta un Berlusconi che recita il suo ruolo preferito e vincente, quello della vittima. Bisogna comunque ammettere che non trova spazio il ricorso al buon senso -"vado dai giudici e mi discolpo"- in un primo momento adombrato dal premier e saggiamente (e/o crudelmente?) preso in parola dall'on. Casini.

 

La Consulta: ottimo made in Italy

Queste vicende vanno incluse nel più generale contesto politico, percorso esso stesso da tensioni e impulsi su cui appare arduo fondare un pronostico. Tre i punti principali: il ruolo della Corte, le complicazioni soggettive del protagonista, i rapporti tra spetti legali ed aspetti etici.

La Corte Costituzionale esce dalla prova con una conferma di serietà e di dignità, mostrando una propria linea di rigore che tiene conto di tutte le posizioni ma decide sulla base dell'unico parametro al quale deve attenersi, la Costituzione. Sempre, dalla sua nascita in qua, la Corte è stata attaccata da più parti o per una sua sottomissione alla politica o per una sua lontananza da essa. In un libro dal titolo eloquente ("L'assedio, la Costituzione e i suoi nemici") il costituzionalista Michele Ainis ha evocato le situazioni di conflitto in cui la Consulta si è trovata, dimostrando, in particolare, che proprio la sua composizione ne rappresenta il punto di forza. «La miscela brevettata dai costituenti (5 giudici costituzionali eletti in Parlamento, 5 dalle magistrature superiori, 5 nominati dal capo dello Stato) ci ha garantito per oltre mezzo secolo l'opera di un organismo imparziale, al di là del dissenso che ciascuno può nutrire su questa o quella decisione»: una sorta di made in Italy che «funziona a meraviglia». E ricorda come la proposta di far eleggere tutta la Corte dal parlamento, avanzata nel 1947 dai comunisti, venne rigettata con l'argomento per cui «se il custode della politica nasce dal ventre della politica allora è un figlio inutile». Come dimostrano, si potrebbe aggiungere, le molte "autorità indipendenti" partorite nel frattempo dalla fantasia repubblicana.

 

L'intemperanza del protagonista

Quanto alle peculiarità del soggetto giudiziariamente più esposto, cioè Silvio Berlusconi, bisogna rilevare che mentre era al riparo dello scudo per gli antichi processi, ha fatto davvero poco per allontanare da sé l'attenzione dei giudici, tanto che ora si trova sotto la minaccia di nuove incriminazioni intriganti come la concussione o infamanti come lo sfruttamento della prostituzione minorile. Vale, ovviamente, il principio di non colpevolezza, lo scudo più solido che tutela ogni imputato, ma si deve ammettere almeno che, nei casi messi a fuoco dalla procura di Milano, non pare che dall'interessato sia stato applicato quel principio di precauzione che avrebbe suggerito un di più di sobrietà, ad esempio evitando di chiedere personalmente in Questura una procedura di favore per un'amica minorenne accreditata come nipote di Mubarak. «Se non siete casti, siate almeno cauti»: non è propriamente un tributo alla virtù ma il minimo sindacale per non essere esposti alla per altri versi prevista «persecuzione giudiziaria».

Il punto è delicato e lo si affronta sempre con cautela come è necessario in particolare quando la condotta privata di un protagonista lambisce la sfera pubblica. Ma al di là degli aspetti propriamente giudiziari meritano considerazione da un lato la condizione oggettiva di ricattabilità che investe un uomo pubblico quando è costretto a inseguire le proprie frequentazioni private e dall'altro la ricaduta sul bene comune (credibilità, rappresentanza, autonomia, immagine) di una gestione delle proprie intime pulsioni. Non potendo ignorare che, per un personaggio pubblico, è assai esile il diaframma che ne mette la sfera intima al riparo dal controllo dell'opinione pubblica e della stessa magistratura. Ed è francamente stupefacente che si riproponga l'idea di una riforma restrittiva della giustizia nel momento in cui i giudici sentenziano in modo contrario e il Parlamento (quello in carica) non mostra propensioni favorevoli al riguardo. Problemi seri sciupati in propaganda.

 

Nel campo delle incoerenze

Quelle evocate, comunque, non sono solo questioni di legalità in senso stretto. Si può uscire indenni dai processi, anche se è bene che questi si facciano. Ma, come ha detto il card. Bertone all'inaugurazione dell'Anno giudiziario del Tribunale ecclesiastico, «le radici dell'illegalità risiedono soprattutto nella mancanza di una morale secondo verità«. Non è, ovviamente, un'affermazione riferita ai casi del premier, ma offre spunto ad una riflessione necessaria anche in area cattolica, dove l'intento di semplificazione dei giudizi (vero-falso; bene-male) ottiene una complicazione delle scelte. L'esempio più pertinente viene dal recente libro di mons. Giampaolo Crepaldi (Il Cattolico in politica. Manuale per la ripresa, Cantagalli 2010) dove si legge che «tra un partito che contemplasse nel suo programma la difesa della famiglia e il cui segretario fosse separato dalla moglie e un partito che contemplasse nel suo programma il riconoscimento delle coppie di fatto, la preferenza andrebbe al primo partito», in base al criterio per cui «il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali». Dove la chiarezza propositiva entra in conflitto con i dati di fatto che sono sempre complessi. Quanto larga, per dire un solo aspetto, può essere la manica per le "incoerenze personali" dei portatori di programmi "buoni"? Ed in che conto vanno tenute le posizioni sui molti altri fattori che sollecitano un giudizio politico? Un difensore della famiglia che affossasse la democrazia sarebbe comunque preferibile? Personalmente reputo preziose tutte le provocazioni che costringono ad esercitarsi sulla complessità del giudizio politico e sulla capacità di tradurlo in sintesi che non sottraggano alla coscienza del cittadino cristiano la responsabilità ultima delle scelte. I casi del premier, al di là degli aspetti giudiziari, possono offrire al riguardo un'abbondante materia prima.

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