E, per quanto riguarda la fede cristiana, lo stesso ritorno al “sacro” va letto con molta attenzione: il più delle volte si tratta di “cripte” e “immunizzazioni individuali” o di gruppo che poco hanno a che fare con una scelta matura, personale, autentica. E comunque abbiamo ormai molteplici e plurali modi di impostare il rapporto con la fede. Si ripropone pertanto da alcuni anni, nella pastorale, il tema della missione: non più (e non solo) come un andare in terre lontane per annunciare il Vangelo a chi non lo conosce, ma anzitutto come una aiutare quest’umanità frammentata e “liquida” (come la definisce Baumann) a incontrarsi “di nuovo” con il Vangelo, a maturare scelte e orientamenti di fede consapevoli, a “tradurre” quindi tali scelte e tali orientamenti nella vita. Imparando a respirare entro la grande tradizione della Chiesa, senza la quale si vive comunque un cristianesimo asfittico e quindi immaturo.
Per questo la comunità cristiana deve essere molto attenta alla qualità della sua proposta e capace di comunicare non solo con chi è più vicino (e rischia di ripetere la barriera che nel Vangelo i discepoli frappongono tra Gesù e chi grida a lui) ma veramente con tutti, nella pluralità di percorsi e di sensibilità presenti nei nostri territori. Nel recente documento su “Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia”, al n. 9, i vescovi lo ricordano con lucidità: «Una parrocchia dal volto missionario deve assumere la scelta coraggiosa di servire la fede delle persone in tutti i momenti e i luoghi in cui si esprime. Ciò significa tener conto di come la fede oggi viene percepita e va educata. La cultura post-moderna apprezza la fede, ma la restringe al bisogno religioso; in pratica la fede è stimata e valorizzata se aiuta a dare unità e senso alla vita d’oggi frammentata e dispersa. Più difficile risulta invece introdurre alla fede come apertura al trascendente e alle scelte stabili di vita nella sequela di Cristo, superando il vissuto immediato, coltivando anche un esito pubblico della propria esperienza cristiana. Ogni sacerdote sa bene quanta fatica costa far passare dalla domanda che invoca guarigione, serenità e fiducia alla forma di esistenza che arrischia l’avventura cristiana».
1.2. Molto bella mi sembra l’espressione avventura cristiana. Aiuta subito a cogliere come si tratti di condurre i cristiani ad una fede personale, convinta, ecclesiale, capace di “forza” e di “coraggio”. Forza e coraggio nella testimonianza, forza e coraggio nell’amore. Per questo “mistica” nei toni di fondo, appassionata nei rapporti. Una fede, quindi, capace di vincere ogni paralizzante paura ed ogni egoistica autoconservazione. «Credo - scriveva Etty Hillesum nel campo di concentramento - che sia soprattutto la paura di sprecarsi a sottrarre alle persone le loro forze migliori. Se, dopo un laborioso processo che è andato avanti giorno dopo giorno riusciamo ad aprirci un varco fino alle sorgenti originarie che abbiamo dentro di noi, e che io chiamerò “Dio”, e se poi facciamo in modo che questo varco rimanga sempre libero, “lavorando” a noi stessi, allora ci rinnoveremo in continuazione e non avremo più da preoccuparci di dar fondo alle nostre forze»”1.
Per questo occorre andare al cuore del rapporto con Dio, per questo è necessario coltivare relazioni sempre vive con il Signore, per questo serve “cibo nutriente”. Relazioni con Dio che non si esauriscono in una devozione, ma si nutrono di ascolto della sua Parola (senza il quale rischiamo di incontrare anche nella preghiera – avvertiva Bonhoeffer – solo un “sosia” di noi stessi). Relazioni che hanno al cuore l’Eucaristia, soprattutto domenicale, che è partecipazione al Corpo e Sangue del Signore e al tempo stesso disponibilità a lasciarsi radunare come suo popolo e conformare al Figlio. Relazioni nello Spirito santo: in una fraternità anche tra diversi, anche senza capirsi; in una condivisione affettuosa e fedele con i poveri, in cui è il Signore stesso che ci visita. Questa è la “fede che vince il mondo!” – di cui ci parla la lettera di San Giovanni e che rende i singoli fedeli e l’intera comunità veramente luce del mondo e sale della terra.
2. Sostenuti da comunità docili allo Spirito, che sanno offrire “cose essenziali”
2.1. Nel documento “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia” viene sottolineata questa esigenza di cristiani adulti che sanno e possono essere luce, sale, lievito della storia, con l’aggiunta di una precisa indicazione sulle caratteristiche di fondo che deve avere una comunità per sostenere questi cristiani e sulla “differenza evangelica” che cristiani veramente adulti devono saper offrire al mondo. Al n. 45 leggiamo: «Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta, costantemente impegnati nella conversione, infiammati dalla chiamata alla santità, capaci di testimoniare con assoluta dedizione, con piena adesione e con grande umiltà e mitezza il Vangelo. Ma ciò è possibile soltanto se nella Chiesa rimarrà assolutamente centrale la docile accoglienza dello Spirito, da cui deriva la forza di plasmare i cuori e di far sì che le comunità divengano segni eloquenti a motivo della loro vita “diversa”. Ciò non significa credersi migliori, né comporta l’esigenza di separarci, ma vuol dire prendere sul serio il Vangelo, lasciando che sia esso a portarci dove noi forse non sapremmo neppure immaginare e costituirci testimoni». E al n. 9 della nota pastorale sulla parrocchia si ricorda: «Al fondo dell’attenzione pastorale alla vita adulta del cristiano sta la riscoperta del Battesimo. A Nicodemo, che lo riconosce come Maestro e a lui si affida, Gesù dà una precisa indicazione: “Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5). Concentrare l’azione della parrocchia sul Battesimo è il modo concreto con cui si afferma il primato dell’essere sul fare, la radice rispetto ai frutti, il dato permanente dell’esistenza cristiana rispetto ai fatti storici mutevoli della vita umana. Il Battesimo comporta esigente adesione al Vangelo, è via alla santità, sorgente di ogni vocazione». Affermazioni chiare e impegnative, che rimandano ancora una volta alla qualità della nostra pastorale e della nostra testimonianza; che rimandano alle “cose essenziali della fede”, anzi in un chiaro e deciso concentrarsi in esse, contrastando ogni dispersione in sterili attivismi e in inutili concorrenze con il mondo.
2.2. Per questo, però, bisogna contrastare lo spirito del nostro tempo, che privilegia spettacolo e immediatezza. Bisogna avere il coraggio di lavorare nei tempi lunghi della formazione e privilegiare la crescita dell’uomo interiore. «Si tratta di lavorare – scrive il priore di Bose Enzo Bianchi - per ristabilire il primato dell’interiorità, per una cultura attenta a salvaguardare questa dimensione essenziale dell’uomo che costituisce la differenza più profonda fra l’uomo e l’animale. Coltivazione del giardino i cui attrezzi di lavoro per rendere fecondo il giardino, rigoglioso, bello sono la disciplina del tempo, l’educazione ad ascoltare, l’apertura all’alterità, alla differenza, alla diversità e alla complessità, l’esercizio della comunicazione in vista di una fecondità che nel giardino dell’umanità si chiama sapienza, cultura che arriva ad essere sapienza»2. Pensiamo allora alla “qualità” dei momenti essenziali: ad un ascolto della Parola attento al testo per non deformare il messaggio e correttamente interiorizzarlo; ad una celebrazione dell’Eucaristia sobria e intensa, equilibrata tra i diversi elementi; ad una decisa scelta della parrocchia che sola assicura la dimensione popolare, corale, della fede ma anche il radicamento nel territorio a partire dall’Eucaristia; a effettivi discernimenti comunitari (senza mai ridurre i laici a manovalanza utile per i preti); alla semplicità e bellezza della tradizione cristiana della visita, soprattutto a chi soffre, ma anche a chi gioisce; a un impegno per la pace che sia manifestazione della vera volontà di Dio sulla storia (leggendo i segni dei tempi, cercando linguaggi che riflettano sempre la logica delle Beatitudini, vigilando su elementi spuri). Ma la “qualità” della carità e dell’impegno per la pace - sempre più percepito come essenziale – come pure un’attenta lettura dei testi biblici o una effettiva introduzione ai grandi misteri della salvezza e ai riti che la celebrano richiedono anche studio. Studio degli elementi essenziali della nostra fede (il Padrenostro, il Credo, la storia dei dogmi, soprattutto introduzione alla Bibbia, alla teologia) ma anche approfondimenti storici, filosofici, letterali, artistici, scientifici…. Preziosa risulta in questa direzione l’indicazione che ritroviamo nel già citato documento della Cei “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, sull’esigenza di una fede pensata e sui positivi effetti in ordine ad un “laicato maturo”: «Ci sembra importante - leggiamo al n. 50 - che la comunità sia coraggiosamente aiutata a maturare una fede adulta, “pensata”, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo. Solo così i cristiani saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale – fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita (cf. 1 Pt 3,15)».
3. Nell’interezza della vita e nella cura educativa
3.1. Abbiamo toccato un ulteriore punto: non solo la fede deve essere ben alimentata, ma deve anche entrare nella vita. Solo se tocca l’interezza della vita la fede cresce, i cristiani diventano adulti e da adulti sono missionari anzitutto con la loro “vita nuova”. In un circuito veramente virtuoso! E – in questa maturità esercitata nella vita – i fedeli diventano anche capaci di cercare e maturare linguaggi che permettano di comunicare la fede ad un uomo che comunque – nei lunghi secoli della modernità – non vuole più essere considerato un “minore” che un autorità estrinseca guida (tranne poi a non cascare per altre vie nelle trappole dei poteri più insidiosi, più nascosti). Linguaggi capaci di raggiungere l’esigenza, comunque al fondo presente nell’uomo di oggi, di trovare orizzonti di comprensione e di pace che permettano di vivere positivamente anzitutto gli intrecci della quotidianità. «L’adulto oggi si lascia coinvolgere in un processo di formazione e in un cambiamento di vita – leggiamo al n. 9 della nota pastorale sulla parrocchia - soltanto dove si sente accolto e ascoltato negli interrogativi che toccano le strutture portanti della sua esistenza: gli affetti, il lavoro, il riposo. Dagli affetti la persona viene generata nella sua identità e attraverso le relazioni costruisce l’ambiente sociale; con il lavoro esprime la propria capacità creativa e assume responsabilità verso il mondo; nel riposo trova spazio per la ricerca dell’equilibrio e dell’approfondimento del significato della vita. Gli adulti di oggi risponderanno alle proposte formative della parrocchia solo se si sentiranno interpellati su questi tre fronti con intelligenza e originalità». Così, sarà utile e importante dire ai coniugi cristiani (ma anche agli altri) come risplende nella loro unione il sigillo del Creatore e la forza della Redenzione: ringraziando, sostenendo (soprattutto nelle difficoltà). Dialogando con franchezza e magnanimità con i genitori sulle loro preoccupazioni relative alla crescita dei figli. Ponendo loro il problema di una trasmissione del Vangelo che non sia smentita dalla vita familiare, sapendo però anche che molti di loro hanno una fede incerta ma continuano ad affidare i loro figli alla comunità: non bisogna allora opprimere con rigide regole, con continue prediche, con la presentazione di obblighi. Piuttosto, occorre ascoltare, farsi sentire vicini. Ricordare come oggi la cosa più importante per i bambini, i ragazzi, i giovani è offrire loro continuità, chiarezza, affetto. E come il Vangelo aiuti e illumini questa cura educativa. E apra orizzonti di fiducia e di speranza, di vigilanza e responsabilità.
Quindi c’è il lavoro. Anche in questo caso bisogna in primo luogo ritrovare un senso bello. E lottare contro ogni meccanismo di sfruttamento. E far sì che il tempo libero diventi tempo liberato. Discutendo insieme come, offrendosi come luogo di incontro anche più ampio di quello liturgico…
3.2. Abbiamo parlato prevalentemente del sostegno che dà la comunità. Sostegno circolare, per cui sempre bisogna sottolineare contemporaneamente l’impegno di tutti come comunità e di ognuno laddove si trova a vivere, studiare, lavorare o cercare lavoro, intessere relazioni. Sul versante comunitario si pone subito un primo problema, si chiarisce un primo ambito nel quale i laici possono e devono diventare lievito: la trasmissione del Vangelo alle nuove generazioni. Ambito prioritario, che sempre più va rivisitato come “introduzione alla vita cristiana”, cercando di superare la concezione del catechismo come nozioni da imparare o come tassa da pagare. L’introduzione alla vita cristiana deve anzitutto essere un’introduzione alla positività, bellezza, letizia della vita cristiana. E deve esprimersi come una polifonia ben concretizzata, oltre che nel tono, attraverso proposte chiare nella loro articolazione. “Iniziazione cristiana” significa Messa, festa, Bibbia, poveri… La trasmissione del Vangelo, la cura di gruppi di ragazzi e giovani da parte di catechisti-accompagnatori, a sua volta, illumina ogni trasmissione educativa, oltre che nella famiglia (ne abbiamo accennato al 3.1) anche nella scuola. Qui i cristiani non possono non partecipare ad una forte resistenza di fronte alla deformazione e devastazione della scuola. Per la “forma” fondamentale da cui “provengono” (Bibbia, Eucaristia…) i cristiani non possono accettare che la scuola sia finalizzata al mercato, che i ragazzi e i giovani non abbiano un tempo disteso e un luogo gratuito dove poter ricevere le grandi tradizioni e imparare il senso della responsabilità e della cittadinanza. Non possono accettare (i cristiani) la frantumazione del sapere e l’illusione che esso possa ridursi a competenze e capacità, senza vivere di grandi contenuti che danno senso alla vita. C’è un bel libro che compendia questa lotta contro una scuola modellata sul mercato e privata delle sue risorse culturali (anzitutto l’intelligenza degli studenti) di Paola Mastrocola: La scuola raccontata al mio cane (ed. Guanda), che può essere assunto come manifesto di questa urgente resistenza, che dovrebbe vedere insieme tutti coloro che hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni. E ci sono anche belle testimonianze. Molte nascoste. Altre di persone più note, come quella di La Pira, che all’amico Salvatore Pugliatti scriveva «Provo tanta gioia nel mio insegnamento: gli studenti mi seguono: ad essi mi sforzo di mostrare le bellezze geometriche del diritto romano … Come sarebbe bello se potessimo dare agli studi giuridici questo afflato di bellezza che solleva dalla tecnica pura alla visione di un panorama unitario! Dobbiamo far circolare nei nostri studi queste luci di sapere che resero così attraenti gli studi dei nostri antichi»3.
4. Nella compagnia dei poveri e nella politica
4.1. Abbiamo accennato come ambiti in cui essere lievito agli “ambiti della vita” (affetto, lavoro, riposo, famiglia, scuola) e al prioritario impegno di tutti nella formazione. Ogni formazione va verso la maturità e richiede una verifica. Ebbene anche questo ci offre il Vangelo. Non si tratta di uno dei tanti monitoraggi di sapore aziendale o di un sondaggio di opinione. Si tratta di quel sondaggio del cuore che ci viene offerto dai poveri. Sondaggio della nostra capacità di accogliere e offrire i doni di Dio e di averli veramente tradotti nella nostra vita. Fino a poter essere sacramento del Regno. Lievito, potremmo dire, che veramente porta l’impronta del proprio artefice. Come fedeli, come fraternità dei discepoli del Signore. «A partire dalla compagnia dei poveri – scrive don Pino Ruggieri - la fraternità cristiana può scoprire il proprio carattere di “segno”. Il povero è infatti un soggetto “universale” (come il “peccatore”, il “piccolo”, il “vinto” e il “trapassato”), giacché solo colui che è capace di raggiungerli e di ‘restare con loro’ è introdotto nella larghezza, profondità, altezza di Dio che tutto abbraccia e non vuole che niente e nessuno perisca, ma che tutto sia salvo … Solo qui, negli ultimi e in quelli che stanno “fuori”, il Vangelo viene annuncia in tutta la sua capacità di liberazione»”4. Ogni povero ci interpella. Misura la nostra capacità di riconoscere di tratti del Signore e vivere le qualità evangeliche dell’amore stesso. Riporto quanto abbiamo capito nel nostro Sinodo diocesano, riflettendo sul rapporto con i poveri e l’identificazione evangelica tra i poveri e Gesù. «La proclamazione delle beatitudini dei poveri degli afflitti, di quanti hanno fame e sono perseguitati rivela il modo in cui Dio si rende presente. L’attenzione a essi costituisce il criterio col quale gli uomini saranno giudicati (Mt 25, 31-46). I poveri appaiono così al centro del mistero del Regno di Dio. Essi non sono solo persone da aiutare, ma, con la loro esistenza, segnano il luogo nel quale anche noi dobbiamo collocarci se vogliamo stare con il Dio di Gesù Cristo. In questo luogo il Signore visita ogni giorno la sua Chiesa, fino al suo ritorno glorioso, quando chiamerà benedetti coloro che hanno fatto qualcosa per lui, anche se non se ne sono accorti. Per stare in questo luogo dobbiamo scrollarci di dosso il fariseismo da persone per bene, uscire dalle nostre sicurezze, abbandonare la corsa comune al benessere egoistico, essere liberi dai compromessi con i poteri di questo mondo, ritrovare l’essenza vera della vita assieme a quanti cercano la giustizia e la pace. Come Gesù, noi cristiani siamo stati “unti per evangelizzare i poveri” (Lc 4,18); come Lui siamo chiamati a farci poveri nella logica dell’amore del Padre, per essere quindi Chiesa povera e dei poveri. Somigliando sempre più al suo Sposo povero, la Chiesa manifesterà nella sua stessa vita il mistero del Regno, evitando il rischio di apparire come una istituzione di beneficenza, dove i poveri siano ospiti più o meno graditi».
4.2. In questo rapporto con i poveri si autenticano allora la fede e la missione, ma anche tutti gli altri aspetti della vita cristiana. E in modo tutto particolare l’impegno politico dei cristiani. Anzi, potremmo dire che caratteristica specifica del cristiano più direttamente impegnato in politica dovrebbe essere la frequenza dei poveri. Solo così si potrà pensare veramente al bene comune. Non bastano etichette e astratte proclamazioni di valori. Ancora una volta diventa esemplare Giorgio La Pira, che – come ricordava padre Balducci nella sua bella biografia su questo profeta del nostro tempo - «entrava nella politica attiva venendo da un “altrove” e questo “altrove” non era la silenziosa atmosfera di un convento o di una biblioteca e nemmeno la classe sociale degli sfruttati consapevoli dei propri diritti: era il sottosuolo della città dove si raccoglie, come in un impluvio, il rimasuglio degli incapaci a vivere … [ed era] quella porzione di mondo che non appare integrata nella storia, si tratti dei reietti o anche delle monache di clausura o dei bambini». Politica, allora, come ambito in cui essere lievito avendo sempre nel cuore i poveri. Sulla via della croce. Pagando i necessari prezzi. E come ulteriori specificazioni, il primo luogo della politica ridiventa oggi la Città, perché – come ebbe a dire il Card. Martini nel suo saluto alla Città di Milano – può essere “a misura di sguardo” e, quindi, permettere partecipazione e “controllo etico ravvicinato”. Altro luogo è l’Europa, scommessa di questi anni: luogo e tempo dell’incontro rielaborato tra tante tradizioni e diversità, come pure di tante violenze esportate anche nel resto del mondo (pensiamo alle guerre mondiali, ai fascismi del Novecento o alla conquista dell’America). Che ci impegnano a vigilare e ad evitare errori del passato, a offrire una testimonianza umile e convinta della forza del Vangelo nell’ispirare atteggiamenti “nuovi” anche in politica, atteggiamenti “penitenziali”. E che ci ricordano il dovere delle necessarie distanze dai poteri di dominio prepotente, anche e soprattutto quando sono ambigui e chiedono facili consensi ecclesiali (personali e comunitari).
5. Vegliando con Gesù al Getsemani
In quali ambiti e come essere lievito? – era la domanda iniziale che ha avviato questa riflessione. Gli ambiti li abbiamo individuati grazie al fatto che il cristianesimo è uno scendere nella vita, è una “fede che ama la terra”. Sono gli ambiti che ci accomunano a tutti (affetto, lavoro, riposo, politica, economia, cultura). Come già ricordava l’autore della lettera a Diogneto, i cristiani vivono la vita di tutti ma hanno un'altra patria. Ora questa tensione ci fa testimoni di un dono e di un destino. Che si capisce solo alla luce di un mistero drammatico e luminoso al tempo stesso: il mistero della croce e resurrezione. Che permette di rispondere alla domanda “come essere lievito”. Potremmo dire, evocando atteggiamenti e orientamenti di fondo: saremo lievito nella fede che rischia e si traduce in amore che si dona. Senza alcun calcolo. Nella gratuità. Davanti a Dio, senza usarlo come stampella per i nostri insuccessi e senza immaginarlo come noi nell’euforia dei successi. Vigilando sempre sul rischio che la fede diventi mondana e le svolte più drammatiche ci trovino impreparati. «Chi resta saldo?» – si chiedeva il teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer nel 1943, di fronte al crescente istupidimento del popolo tedesco sotto la dittatura nazista e di fronte all’incapacità della Chiesa di confessare con coraggio la fede. E rispondeva: «Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto quando sia chiamato all’azione ubbidiente e responsabile, la cui vita non vuole essere altro che una risposta alla domanda alla domanda e alla chiamata di Dio. Dove sono questi uomini responsabili?»5. La domanda è drammatica, ma lo stesso Bonhoeffer a un certo punto, proseguendo nella sua avventura cristiana, dal carcere scriverà una lettera che individua il “luogo” di questa fede responsabile nel Getsemani, in cui ancora oggi siamo chiamati a vegliare con Gesù: «Negli ultimi anni ho imparato a conoscere e a comprendere sempre più la profondità dell’essere-aldiquà del cristianesimo; il cristiano non è un homo religiosus, ma un uomo semplicemente, così come Gesù – a differenza certo di Giovanni Battista – era uomo … Mi ricordo di un colloquio che ho avuto tredici anni fa in America con un giovane pastore francese. C’eravamo posti molto semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra esistenza. Egli disse: vorrei diventare santo (e credo possibile che lo sia diventato); la cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contrastai, e risposi press’a poco: io vorrei imparare a credere … Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere-aldiqua della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi: un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano – e questo io chiamo essere-aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze e delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo al Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metanoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cf. Ger 45)»6
- E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1996, p. 220.
- E. Bianchi, L’icona della maturazione umana, in “Rocca”, Assisi 1° novembre 2002.
- G. La Pira, Il fondamento e il progetto di ogni speranza, Ave, Roma 1992, 339-340
- G. Ruggieri, Cristianesimo, chiese, vangelo, Il Mulino, Bologna 2002 p. 92.
- D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, San Paolo, Cinisello Balsamo 1988, p. 62.
- D. Bonhoeffer, Resistenza… , pp. 445-6.