Il paragone è banale, ma rende l'idea: una falla si è aperta non nella piccola conduttura del pozzo di pompaggio del petrolio nel golfo del Messico, ma nel gigantesco… oleodotto delle comunicazioni elettroniche che collega Washington con le ambasciate degli Stati Uniti di tutto il mondo. Una gigantesca macchia grigia si è formata nell'oceano delle relazioni internazionali e nessuno può sapere se e quando sarà possibile arginarla. Anzi, per come vanno le cose, la previsione più attendibile è quella che suggerisce di abituarsi a convivere con il flusso delle "rivelazioni" che, di volta in volta, fanno ridere o piangere. E che, in ogni caso, alterano la routine delle abitudini diplomatiche seminando sospetto e diffidenza oltre il limite della sopportabilità.
Quanto dovrà durare lo stillicidio? Basterà catturare l'artefice del misfatto? Oppure la sequenza è stata già programmata e viene ormai governata dal cybercervello di un computer? Si potrà trovare un rimedio e quale? È la catastrofe della diplomazia "storica" o l'inizio di un nuovo imponderabile ciclo di rapporti tra i governi e i popoli?
Mentre così ci s'interroga, una riflessione è opportuna: e cioè che prima o poi un fatto di questo genere doveva accadere. C'era persino chi l'aveva previsto. L'ambasciatore Fulci ha narrato quel che usava dire ai suoi collaboratori: e cioè che «usare la rete per comunicazioni riservate è come urlare con un megafono sulla pubblica piazza». Il solo parlare di "segreto elettronico" è una contraddizione in termini: chi se ne intende sa che affidare un messaggio alla rete è come scrivere una cartolina al mondo e per conoscenza al destinatario ufficiale.
Perché allora rimanere sconvolti se sulla pubblica agorà elettronica qualcuno si è impadronito, sia pure con un atto di pirateria e con l'ausilio di una talpa, di ciò che nella sostanza era già a disposizione di tutti? I fenomeni d'intrusione non sono pane quotidiano nell'esperienza del network, tant'è che in più di una contrada di quelle meno democratiche ci si cautela, semplicemente, bloccando il flusso delle comunicazioni? Ma è realistico immaginare che si possa scalare a ritroso qualche secolo per sottrarre la diplomazia ai rischi delle indebite interferenze, con annesso corollario, come nel caso di WikiLeaks, di copiose brutte figure e di ancor più penosi rattoppi?
Le immagini sono quelle del segretario di stato americano Hillary Clinton che proclama davanti alle telecamere e al compiaciuto interessato, che Berlusconi - ad onta dei giudizi poco lusinghieri raccolti e non smentiti su di lui come statista e come uomo - è il miglior amico degli Stati Uniti avendone fornito prova non ad uno, ma a ben tre presidenti di diverso colore. Che avranno pensato i due protagonisti quando, l'indomani, la stampa di tutto il mondo ha riportato ciò che il penultimo ambasciatore a Roma scriveva al suo governo - quello di Bush - a proposito degli ambigui legami, anche d'affari, tra il leader italiano e quello russo? E che dovremmo pensare noi in presenza di una narrazione così"plurale"? A chi appigliarsi: al cinema giapponese (ricordate Rashomon?) o al più familiare Pirandello ed alle parole che mette in bocca alla verità: "Io sono colei che mi si crede"?
Triste immaginare che scenografie del genere abbiano a riprodursi per ognuno dei big del mondo chiamati in causa in modo "informale", nei cable delle ambasciate Usa. Vieneda pensare alla penitenza che san Filippo Neri inflisse ad un fedele che si era accusato di calunnia: spennare un pollo per le vie di Roma e poi andare a raccogliere ad una ad una penne portare via dal vento.
Il segreto annientato
Questo colossale scoperchiamento di pentole è importante perché, al di là delle singole "rivelazioni", è il primo fenomeno di generale svelamento che si registra nella storia della diplomazia mondiale, le cui procedure e le cui abitudini vengono messe a nudo con un'operazione, che proietta il "retroscena" direttamente sulla scena della politica: il lavoro dei "macchinisti" dietro quello degli "attori" che recitano. Diplomazia o spionaggio: dove passa il confine? Si può imprecare alla fine del mondo, si può perseguire via interpol il pirata - tanto più se è anche responsabile di reati comuni -, ma non si può impedire che, d'ora in avanti, le cose siano influenzate dal fatto nuovo che s'è verificato: i tempi e le forme dell'adattamento non sono ancora definibili, ma non c'è dubbio che, anche se un qualche tappo sarà messo sulla falla, nulla sarà più come prima. E ciò semplicemente perché l'auspicio della trasparenza tante volte formulato dal presidente Wilson, nei consessi internazionali - in Italia da Sturzo - si è inverato ora per via di questa forzata e improvvisa e imbarazzante glasnost universale con cui tutti sono chiamati a misurarsi.
Storicamente, la diplomazia si è sviluppata su due fondamentali funzioni: quella del "negoziare" e quella del "riferire". L'ambasciatore si insedia nel paese affidato alle sue cure, ne condivide la vita e le abitudini, è incluso nelle sfere dirigenti, promuove relazioni significative da cui trae elementi sulle condizioni sociali e politiche del paese, ne verifica l'attendibilità e poi trasmette il tutto - notizie, voci, impressioni - alla propria casa madre. Egli lo fa con i mezzi disponibili: i messaggeri, i piccioni viaggiatori, il "corriere diplomatico", il telegrafo, la telescrivente e, alla fine, la posta elettronica. Ognuno con i suoi rischi: il corriere catturato, il piccione abbattuto, la corrispondenza intercettata (e decifrata). Ma sempre caso per caso; mai con un impatto universale come con l'arrembaggio di WikiLeaks.
Qui si verifica il salto. Trasponendo Darwin in ambito improprio si può dire che la "quantità" del fenomeno ne determina un cambio di "qualità". E ciò avviene perché il saccheggio della rete annienta lo strumento essenziale su cui l'intero sistema si è costituito e si è retto: cioè dissolve il segreto e ne impone quantomeno una nuova inedita modulazione. E la considerazione vale anche se, come per le vicende italiane, si constata che, alla fine, molti degli elementi rivelati o erano già noti o facilmente ricavabili da un'osservazione appena non distratta. Tanto più che- come ha notato l'inglese Guardian -«questa fuga consiste in gran parte di analisi e di gossip ad altissimo livello. In questo senso, è certamente un evento sensazionale, perché rivela il livello di corruzione e di menzogna che abita nel potere, e lo scarto fra quello che si dice e quello che si fa».
Le voci di dentro
Se le cose stanno così, c'è da correggere una valutazione sbrigativa che è stata espressa sulla superficialità con cui si compilerebbero le raccolte dei dati su cui si costruiscono le informazioni poi incluse nei cable. Nella minuscola esperienza di "diplomazia popolare" che ho potuto compiere ai tempi degli euromissili (anni 80) non mi è mai accaduto di trovare comportamenti sbadati o sciatti nelle figure- dall'ambasciatore in giù - che mi accadeva di incontrare, sia in campo sovietico sia in campo americano. In quest'ultimo, grande credito veniva attribuito alle "voci di dentro" delle forze al potere, essendo fin troppo noto e scontato il pensiero delle opposizioni. Era ricorrendo a tali sorgenti che essi componevano gli"scenari" ed i conseguenti orientamenti da far valere nelle contingenze dell'iniziativa politico-diplomatica.
Uno di questi scenari mi venne descritto, in un incontro al dipartimento di stato, da due "analisti" applicati al "caso Italia". Alla mia domanda su quali forze fossero concentrati in quel momento (metà anni 80) gli interlocutori preferiti degli americani a Roma, mi fu data la seguente risposta: «Moro voleva portare i comunisti al governo, Craxi lo ha impedito; dunque il nostro interlocutore oggi è lui». Come si era formata questa opinione di base su cui, liquidando la vecchia Dc, veniva a riassestarsi la strategia politica americana? Quali i fatti e le fonti italiane da cui si era attinto per formularla e per accreditarla alla Casa Bianca? In un successivo incontro romano per il congedo di un diplomatico Usa ebbi la sorpresa di trovare che alcuni esponenti socialisti, che presumevo essere ancora dislocati su posizioni tutt'altro che…atlantiche, ostentavano rapporti cordiali con molti degli astanti.
È un episodio dell'altro secolo che mi è tornato in mente quando ho letto che, da parte italiana, si scaricava la colpa delle "note" non gratificanti sul conto del nostro presidente del consiglio sulla superficialità (o incompetenza?) di una "incaricata d'affari" abituata ad abbeverarsi ai giornali d'opposizione. No: gli americani preferivano - e presumo preferiscano - attingere soprattutto da quanti, negli ambienti governativi, erano o parevano essere dentro le "segrete cose"; ed era da loro che, semmai, mutuavano giudizi e pronostici.
Per questo, tornando all'oggi mi chiedo da chi, se non da qualcuno molto addentro alle segrete cose, può essere filtrata la goffa figura di un ministero degli esteri italiano che in pratica si riconosce dispensato dall'occuparsi degli affari russi, questi essendo riservato dominio del premier nel suo speciale contatto con il dirimpettaio del Cremlino? Non è il caso che curiosità di questo genere vengano soddisfatte nelle sedi appropriate, a partire dal Parlamento? Per altre vicende - penso all'affare Mitrokin - si manifestò, nel bene e nel male, un doveroso dubbio civico. Perché stavolta si dovrebbe credere tutto sulla parola?
La questione generale
Un chiarimento sul lato italiano di WikiLeaks potrebbe sgombrare, tra l'altro, l'accesso alla questione generale: se e come si potrà produrre un cambiamento nelle abitudini correnti delle relazioni internazionali. Ha scritto il già citato Guardian: «Se (il pirata) può avere accesso a materiale riservato, lo stesso può fare, presumibilmente, una potenza straniera. Parole su carta possono essere messe al sicuro, gli archivi informatici no. Si è aperta una falla all'interno della prassi con cui gli stati custodiscono i loro segreti».
Bisognerà prestare attenzione. In casi di questo genere il potere, in senso lato, sceglie le misure più restrittive, fino alla censura o al blocco del web, come in Cina. La tentazione c'è: vedi il caso intercettazioni in Italia. Salvo poi a dover ammettere che si tratta di vie impraticabili e dannose. Viceversa sono i governi a dover ricavare utili insegnamenti dalla vicenda. La trasparenza diplomatica probabilmente è un'utopia. Ma chi esercita il potere dovrebbe sentirsi al riparo da qualsiasi "rivelazione" se e quando fa la cosa giusta. Non la riforma della diplomazia, ma la riforma della politica: a guardar bene, la sfida di WikiLeaks è questa.