È stato proprio il prezzo del greggio quello più reattivo alle notizie che arrivavano dal Cairo. Le quotazioni del Brent (il petrolio del Mare del Nord) sono immediatamente schizzate verso i 100 dollari al barile, per poi ripiegare leggermente a 97,24 dollari; il Wti statunitense (che da parecchi mesi quota prezzi decisamente inferiori a quelli del Brent) si è arrampicato fino a sfiorare i 90 dollari al barile, per poi chiudere a 89,34, con un aumento del 4,3%. L’Egitto non è un grande produttore di petrolio e negli ultimi anni la produzione è andata diminuendo. Gli ultimi dati di fonte Usa quantificano l’output intorno ai 750 mila barili al giorno, un po’ meno di 40 milioni di tonnellate l’anno. Per fare un confronto, la produzione dell’Arabia saudita è di circa 8,5 milioni di barili al giorno. La produzione egiziana, insomma, è marginale e potrebbe facilmente essere rimpiazzata da quella di altri paesi esportatori e non solo quelli dell’Opec. Però la speculazione punta sullo scatenarsi di altre cause che potrebbero frenare l’estrazione e il commercio del greggio, spingendo i prezzi alle stelle. La prima causa si chiama Suez, cioè il canale nel quale non possono transitare le superpetroliere, ma che ogni giorno vede il passaggio di 1,5 milioni di barili di greggio per la maggior parte estratto in paesi terzi rispetto all’Egitto. Questo significa che se il canale fosse bloccato e se la produzione egiziana dovesse subire riduzioni, sul mercato intrenazionale verrebbero a mancare nell’immediato oltre 2 milioni di barili al giorno. Poi, chiaramente il trasporto del greggio potrebbe riprendere con le superpetroliere circunavigando l’Africa, ma con costi di trasporto molto più alti.
La seconda causa che alimenta la speculazione è quella dell’effetto domino: se la rivolta popolare si estendesse dalla Tunisia e dall’Egitto in paesi che contano moltissimo per produzione e esportazione di petrolio, sarebbero guai. Il riferimento, ovviamente, è all’Arabia Saudita (dove tre giorni fa ci sono state manifestazioni contro la povertà e il carovita) e alla Libia dove a Tripoli all'inizio di gennaio, alcune migliaia di manifestanti, soprattutto giovani, hanno manifestato contro il caro vita e per chiedere alloggi.
L’effetto domino, però, va inteso anche come aumento generalizzato dei prezzi a tutto il comparto delle materie prime. I future sui prodotti agricoli già puntano al rialzo e una impennata del prezzo del petrolio li spingerebbe ancora più in alto. Anche perché la componente energetica di queste materie prime è molto alta. Tra le materie prime la più sensibile alle tensioni geopolitiche è l’oro, bene rifugio per eccellenza che, non a caso venerdì ha chiuso a 1.343 dollari l’oncia , con un rialzo del 2,3%. E con l’oro hanno ripreso a salire anche le quotazioni di tutti gli altri «preziosi».
Sul fronte delle monete, venerdì si è invertita la tendenza al rafforzamento dell’euro, sceso a 1,36 sul dollaro che, tradizionalmente nelle fasi di crisi politiche, riconquista l’egemonia. E, con il dollaro, è in salita anche il franco svizzero. Male, invece, tutte le borse a cominciare da New York: il Dow Jones che era ai livelli massimi degli ultimi 29 mesi ha chiuso con un ripiegamento dell’1,39%. Ancora peggio il Nasdaq in caduta del 2,48%. Domani mattina il tonfo maggiore dovrebbero farlo le borse asiatiche, ma anche quella israeliana. In questo caso c’è la paura che le tensioni in Medio Oriente faranno da freno alla crescita degli scambi e del Pil, mettendo in difficoltà le multinazionali che operano nei paesi coinvolti.