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Venerdì, 16 Aprile 2010 11:05

Costituzione di Banca Armata

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Com’è nato e come si è diffuso – facendo perno sulla legge 185 del 1990 – un movimento di pressione al sistema bancario sul tema del supporto al commercio delle armi. Un percorso non facile e ancora tutto in salita.

Anche se non sono mancati dei risultati.“Costituzione di banca armata”.È da questo titolo dell’articolo,pubblicato da Nigrizia nel settembre 1999, a commento della relazione governativa sull’export italiano legale di armi e sul ruolo delle banche, che prende forma quello che, di lì a qualche mese, sarà il nome della Campagna.

Tre riviste del mondo missionario – Missione Oggi (missionari saveriani), Mosaico di Pace (Pax Christi), Nigrizia (missionari comboniani) – decidono di aggiungere qualcosa in più al loro lavoro di critica al sistema armiero italiano e di dare una maggiore sottolineatura alle informazioni sul commercio di armi e su chi lo supporta.

Decidono, cioè, di chiamare in causa direttamente le parrocchie, le diocesi e gli istituti religiosi, e naturalmente i propri lettori, invitandoli a inviare una lettera alle proprie banche di riferimento. Viene richiesta una doppia azione: chiedere all’istituto di credito di confermare o smentire, per iscritto, il coinvolgimento in operazioni di appoggio bancario (con relativo compenso di intermediazione) all’esportazione di armi; in caso di non risposta o di risposta vaga, tagliare i ponti con la banca e rendere pubblica la scelta.

Si può dire che l’avvio, nel dicembre del 1999, vigilia dell’anno del Giubileo, della Campagna di pressione alle “Banche armate” è un ulteriore sviluppo di quelle mobilitazioni – ricordiamo i Beati i costruttori di pace all’Arena di Verona – che negli anni ’80 sollecitarono il parlamento a dotare l’Italia di una legge che introducesse un minimo di controllo e di trasparenza nel business delle armi. Così è nata la legge 185 del 1990, che vieta di vendere armi a dittatori, a nazioni in guerra e a paesi che violano i diritti umani. E che vincola la presidenza del consiglio a informare ogni anno il parlamento con un’apposita relazione.

La prima reazione arriva dalla associazione “Chiama l’Africa” che, nell’aderire alla Campagna (come faranno negli anni tante realtà associative), propone un facsimile di lettera da inviare alle banche. Un passaggio: «Ritengo che l’attività economica e finanziaria non possa sottovalutare il suo impatto sui diritti umani. Banche e imprese dovrebbero considerare le conseguenze sociali ed etiche delle loro azioni economiche. Da questo punto di vista, il commercio delle armi continua ad alimentare guerre e violazioni dei diritti umani in tutto il mondo».

Le lettere cominciano a fioccare fin dai primi mesi. Non siamo in grado di quantificarle, perché non tutti i cittadini consumatori di prodotti bancari o le parrocchie, che nei fatti hanno aderito alla Campagna, ci hanno inviato copia della lettera. Si tratta, comunque, di un flusso tale da far reagire le banche. Che in genere rispondono che non stanno violando nessuna legge.

In realtà, la Campagna non ha mai detto questo; ha invece posto il problema sul piano dell’etica e delle ricadute sociali, specie nel sud del mondo. E la Campagna continua a fornire informazioni, utilizzando le riviste, ma anche dotandosi di un proprio sito: www.banchearmate.it.

 

 

BRECCE APERTE

La prima delle banche ad annunciare la marcia indietro è Unicredito. Il gruppo bancario, che nel 1999 è in testa alla lista delle “banche armate” con un impegno di oltre 1.200 miliardi di lire, annuncia di abbandonare il business dei finanziamenti alla produzione militare. In nome della responsabilità sociale: «A dicembre 2000 abbiamo deciso di centralizzare la gestione delle operazioni in questo campo, revocando l’operatività delle sedi periferiche. L’idea è di sganciarci sin dalla fine del 2001 da questo tipo di attività. Certo ci vorrà qualche anno perché vadano a esaurirsi le operazioni precedenti. Quella dell’operatività sulle armi è un’eredità del Credito Italiano, banca di provenienza Iri. La nostra, però, è una strategia più ampia: non rispondere solo agli azionisti ma anche alla società».

La pista imboccata da Unicredito (che è ancora lontana dal concludersi, come si può vedere nella relazione 2009, anche perché, nel frattempo, è diventato UniCredit Group e ha inglobato altre “banche armate”) viene percorsa anche dal Monte dei Paschi di Siena che, nel 2003, quasi azzera le operazioni relative all’import-export di armi. Nello stesso anno c’è da registrare anche la decisione di Banca Intesa di disimpegnarsi da questo campo. Da se-gnalare, poi, il disimpegno della Cassa di Risparmio di Firenze, che però nel 2003 acquisisce la Cassa di Risparmio di La Spezia, che porta in dote clienti come la Oto Melara (gruppo Finmeccanica, colosso a controllo pubblico dell’industria della difesa). Nel marzo del 2004 è Banca Intesa a dichiarare di voler diventare al più presto una banca non-armata. Seguita, subito dopo, da una dichiarazione simile del Gruppo Capitalia.

Il fatto che la Campagna abbia acceso i riflettori sulla lista delle banche che ogni anno viene pubblicata nella Relazione della presidenza del consiglio crea qualche sussulto anche a Banca Etica. Nella relazione uscita nel 2005 risulta tra le “banche armate” anche la Banca Popolare di Milano, di cui è socia Banca Etica. Il vicepresidente di Banca Etica, Mario Cavani, lo spiega così: «Ci hanno detto che è stato un incidente e che non si ripeterà. Se si ripete, noi usciamo».

Insomma, la Campagna di pressione alle “banche armate” apre qualche breccia, aiutata anche da un aspetto che non va sottovalutato. In quel periodo le banche erano impegnate a lanciare sul mercato fondi etici, che in genere escludono titoli di imprese che producono armi: è probabile che qualche consiglio di amministrazione abbia riflettuto sull’opportunità di occuparsi di armi e, contemporaneamente, di sbandierare eticità.

SERVE UN OSSERVATORIO

Che la legge 185/90 sia da sempre sul gozzo alla lobby delle armi, Finmeccanica in testa, lo si sa. E infatti, tra il 2002 e il 2003 c’è da parte della maggioranza di governo (Berlusconi) un pesante tentativo – riuscito solo in parte – di disinnescarla. Nel contesto della ratifica dell’accordo di Farnborough (siglato nel luglio 2000 da Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito) e «per facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria europea di difesa», il 3 giugno del 2003 la camera vota alcune modifiche della 185. Ora, per non vendere armi a.un paese che viola i diritti umani deve essere accertato che queste violazioni sono «gravi». Inoltre, l’introduzione della “licenza globale di progetto” per l’import-export o per transiti di materiale di armamento fatto da imprese italiane in collaborazione con imprese Ue e Nato, allarga le maglie dei controlli e può consentire pericolose triangolazioni di armi a paesi terzi. Tuttavia, grazie alla pressione esercitata dalla Campagna “Contro i mercanti di morte: difendiamo la 185”, alcuni deputati riescono a emendare la legge, ripristinando, tra l’altro, l’obbligo di autorizzazione alle transazioni bancarie anche per operazioni che ricadono sotto la licenza globale di progetto.

Oltre che con i mercanti d’armi, la Campagna deve fare i conti anche con una disattenzione di un comitato un po’ speciale: quello che raccoglie i soldi per la Giornata mondiale della gioventù (Gmg) che si celebra a Colonia (15-21 agosto 2005). Il comitato ha pensato bene di annoverare tra gli sponsor dell’evento la Banca di Roma (gruppo Capitalia) che nel 2004 è risultata essere al primo posto, con 396 milioni di euro, tra le banche che appoggiano l’export italiano di armi.

La Campagna lo mette in evidenza. E Marcello Bedeschi, dell’organizzazione della Gmg, risponde che Capitalia ha imboccato la via del disimpegno dal mercato armiero e che, quindi, la denuncia «è un’azione denigratoria, che genera confusione e crea disagio nella comunità ecclesiale». Controrisposta: se la direzione imboccata da Capitalia è quella dichiarata, lo si potrà sapere solo a fine marzo 2006 con la pubblicazione della Relazione del governo. Dunque, rimane inopportuno legare il nome della Gmg a quello della Banca di Roma.

Il cambio di direzione di Capitalia viene confermato dal direttore generale del gruppo, Carmine Lamanda, nel corso del convegno che la Campagna organizza a Roma il 14 gennaio del 2006, con l’Associazione “Finanza etica” e la collaborazione della Provincia di Roma, dal titolo: “Cambiare è possibile – Dalle banche armate alla responsabilità sociale”. Il convegno è l’occasione di un primo confronto pubblico con un banchiere e lancia la proposta d’istituire un osservatorio permanente sul rapporto tra istituti di credito ed export di armi, coinvolgendo rappresentanti delle banche, dei sindacati bancari e degli enti locali. Emerge con chiarezza anche la necessità di estendere la Campagna in ambito europeo, perché molti giochi si fanno ormai a livello di Unione europea.

A proposito di enti locali, comuni, province e regioni sono i protagonisti di “Tesorerie disarmate”, vera campagna nella campagna, che promuove, il 3 febbraio 2007 a Roma, un altro convegno che pone un preciso obiettivo: “Dalle banche armate alle tesorerie etiche”.

Un altro incontro ravvicinato con le banche avviene il 29 marzo del 2008, in occasione di un terzo convegno. “Oltre l’insicurezza delle armi”, organizzato dalla Campagna e dalla Rete italiana disarmo. Nell’occasione, Unicredit, Ubi Banca (raggruppa nove istituti di credito) e Intesa-Sanpaolo confermano di voler muoversi nel solco della responsabilità sociale e di essere impegnate ad adottare politiche trasparenti. E aggiungono: «Però la Campagna sia più flessibile. Non ci metta in croce ogni volta che viene pubblicata la lista delle banche che appoggiano il commercio delle armi». Messaggio ricevuto. Il fatto è che, ogni volta, la lista presenta sorprese e ci dice che c’è molto ancora da lavorare. Ma il messaggio della Campagna è stato recepito. Tanto che alcuni gruppi bancari italiani hanno varato direttive restrittive in materia.

Un passo verso una nuova stagione della Campagna – oltre a insistere sulle “parrocchie disarmate” – potrebbe essere quello di riprendere, rielaborare e rilanciare quell’idea dell’osservatorio permanente sul rapporto tra istituti di credito ed export di armi. Avendo l’attenzione di coinvolgere anche rappresentanti della Conferenza episcopale italiana.

 

Dossier Nigrizia

Letto 2036 volte Ultima modifica il Venerdì, 16 Aprile 2010 14:16

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