Mondo Oggi

Martedì, 23 Marzo 2010 21:06

Bidoni nucleari - L'affaire di Rotondella

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di Paride Leporace
da Carta n. 4 anno 2010

Ogni giorno un annuncio sul programma nucleare: nessuno si chiede dove sono finiti i rifiuti radioattivi delle vecchie centrali. Un’inchiesta in Basilicata è arrivata vicino alla verità: traffici, inquinamento, ‘ndrangheta e servizi segreti.

Nel mondo circolano attualmente almeno 300 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi. Il dato è molto ballerino, se consideriamo che la sola Russia di Vladimir Putin ne dichiara una produzione di 150 milioni. La fonte è molto attendibile, considerato che si tratta di cifre estrapolate da «Du rare à l’infini. Panorama mondial des déchets 2009», rapporto curato non dagli ambientalisti di Greanpeace ma dalla multinazionale Veolia, società leader per la gestione, il riciclaggio e il recupero dei rifiuti nel mondo. Dove finiscono? È un bel problema. Da molti trascurato. In Italia nei mesi scorsi le dichiarazioni di un pentito di ‘ndrangheta e il ritrovamento di un relitto al largo di Cetraro [costa tirrenica della provincia di Cosenza] avevano riacceso i riflettori su quello che è accaduto in Italia, su questo fronte, negli ultimi trent’anni.

Oggi il silenzio dei grandi media ignora piccoli ma significativi sentieri che forniscono pezzi di verità su traffici internazionali e gravi responsabilità della politica italiana. Nel profondo Sud, in Basilicata, c’è un posto che si chiama Rotondella. A Rotondella c’è l’Itrec. Se passi sulla statale 106 Jonica neanche la noti. Eppure è a due minuti di automobile dalle cittadine di Policoro e Nova Siri, affacciate sul lungo arco di costa che diventa, poco più avanti, il Golfo di Taranto. Dalla strada si vedono degli alberi, il cartello «Enea», una tenso-struttura, una guardiola e qualche auto. Un clamoroso non luogo lucano. Vi si custodisce materiale nucleare. I reporter lo hanno raccontato animandolo di tecnici iracheni, dirigenti, tecnici, mafiosi che si aggirano in quelle campagne per trafugare veleni da nascondere nelle viscere della terra.

Poco più avanti doveva sorgere un altro grande non luogo a Terzo Cavone, vicino Scanzano Jonico. Avrebbe dovuto essere il deposito nazionale delle scorie radioattive, eredità dell’avventura atomica italiana chiusa con il referendum del 1987 e oggi, forse, sul punto di riaprirsi. Non più mare, salgemma e fragole, in Lucania, ma radio e plutonio da custodire nel sottosuolo. La Basilicata si ribellò e diventò un luogo altro. Oggi, al posto del deposito, dovrebbe nascere la Città della pace.

Peccato che un po’ di tempo fa abbia rifiutato di andare a dirigere l’Enea un ingegnere lucano allievo del Nobel Carlo Rubbia. Prese un anno sabbatico che lo portò in Chiapas e da monsignor Romero in El Salvador. La sua vita cambiò ed oggi è un monaco della comunità di Bose, in Piemonte. Forse l’ingegner Lapenta con queste profonde sensibilità avrebbe rivelato i segreti dell’Itrec di Rotondella.

Solo i media lucani qualche settimana fa hanno dato notizia dell’archiviazione di una monumentale inchiesta, condotta tra mille difficoltà, sui misteri di Rotondella. La procura distrettuale di Potenza aveva aperto il procedimento nei confronti di diverse persone a seguito di un fascicolo, ricevuto dalla Procura di Matera, nato da una sentenza del novembre 1998 firmata dal pretore di Matera, sezione di Rotondella. Il 28 dicembre del 1999 vennero ufficialmente indagati Giuseppe Orsenigo, Raffaele Simonetta, Bruno Dello Vicario, Giuseppe Lapolla, Giuseppe Spagna, Giuseppe Rolandi, Tommaso Candelieri, Giuseppe Lippolis. Sono tutti dirigenti dell’Enea di Rotondella. Il 27 marzo del 2004 la Procura distrettuale di Potenza aggiunse i nomi del livello criminale: Francesco Fonti, Giuseppe Arcadi, Domenico Musitano, «ed altre persone da identificare».

Musitano è stato ucciso in un agguato mafioso a Reggio Calabria. E l’inchiesta «nucleare connection» oggi è chiusa. Non ci sarà processo per Tommaso Candelieri, responsabile dell’Enea di Rotondella, e per i suoi stretti collaboratori. Nessun ipotesi di concorso neanche per l’ex sindaco di Rotondella. Quindi nessun processo neanche per gli uomini delle ‘ndrine accusati di aver trafficato rifiuti in Basilicata. Non si dovranno difendere Giuseppe Arcadi e Bruno Musitano [fratello di Domenico], e soprattutto Francesco Fonti, il collaboratore di giustizia che ha rivelato la posizione della Cunski, il relitto davanti a Cetraro, per l’ennesima volta risultato teste inattendibile per quello che ha raccontato su una vicenda assurta a notorietà nazionale per il risalto delle inchieste giornalistiche dell’Espresso prima e poi, ancora di più, con la vicenda della nave dei veleni di Cetraro.

Con grande scrupolo, il giudice per le indagini preliminari Gerardina Romaniello alla vigilia di Natale ha disposto il decreto di archiviazione. non mancando di mettere in evidenza di aver considerato «la sua indiscutibile ed oggettiva gravità, sia sotto il profilo della sicurezza pubblica in generale». Il gip ha condiviso l’impossibilità di arrivare ad una verità giudiziaria vagliando attentamente le ipotesi investigative del pubblico ministero Basentini, che si era già espresso per l’archiviazione.

Eppure, leggendo quelle carte ricaviamo elementi utili per comprendere, per costruire quantomeno un’approssimazione alla verità giornalistica, in attesa di quella storica.

Scrive per esempio il pm Basentini nella richiesta di archiviazione che «le epoche ed i periodi storici di interesse risalirebbero almeno tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli anni ottanta: è evidente e certo che, a distanza di oltre trent’anni, qualsiasi verifica investigativa non poteva che essere complessa e impegnativa, sebbene andasse comunque fatta. A ciò può aggiungersi che l’estrema sensibilità e delicatezza della materia in esame oltre che gli strategici interessi che ne sono sottesi non potevano certo agevolare il lavoro degli organi di indagine: coloro che virtualmente potevano essere a conoscenza di fatti e circostanze a suffragio dell’ipotesi investigativa non hanno inteso fornire alcun contributo, o per timore di ritorsioni da parte di alcuno o perché le loro conoscenze erano e sono solo millantate».

Ovvero, l’impossibilità di arrivare a una verità giudiziaria è stata pesantemente condizionata dai silenzi «di coloro che virtualmente potevano essere a conoscenza di fatti e circostanze». Qualcuno diceva di sapere, ma non sapeva; qualcuno sapeva ma non ha detto nulla, per paura di «ritorsioni».

Una motivazione di archiviazione a volte contiene spunti interessanti per capire. Il pm Basentini con la sua inchiesta è entrato in un ambito quantomeno complesso. Si è occupato del generale Carlo Jean. L’uomo del nucleare italiano. Generale dell’esercito, docente di geopolitica alla Luiss, esperto militare al Quirinale all’epoca dell’emerito presidente Giuseppe Cossiga e stratega dell’operazione Scanzano Jonico. Già presidente della Sogin, la Società di gestione degli impianti nucleari creata dal precedente governo Berlusconi con l’incarico di gestire «l’uscita» dal nucleare italiano, mettere in sicurezza gli impianti e trovare un posto alle scorie sparse [da oltre vent’anni] tra almeno quattro diversi impianti «temporanei» di stoccaggio.

Stranamente, pur essendo decaduto dalle sue funzioni, Jean dalle indagini risulta essere l’entità grigia di una società che ancora dipende dal governo italiano. Uomini e dirigenti continuano a rivolgersi a lui per le attività di dismissione del nucleare italiano e per tutto quello

che riguarda oggi la Sogin, che da circa due anni ha un nuovo presidente. Le intercettazioni hanno anche rivelato che molti politici continuano a interpellare proprio Jean per le vicende nucleari italiane, manifestando un forte interesse a rimetterlo su quella poltrona, se e quando la Sogin – come sembra – diventerà il soggetto incaricato di riaccendere le centrali italiane, nel frattempo trasformate in «siti di interesse strategico nazionale » e perciò sottratti al controllo pubblico come fossero basi militari.

Altri indizi. Jean aveva buoni rapporti con l’ex sindaco di Scanzano, Mario Altieri, arrestato per brogli elettorali, proprietario di una piccola tv privata che intervista personalmente Silvio Berlusconi, nell’ultima campagna per le politiche, per un messaggio elettorale in esclusiva dove si annuncia la fornitura di benzina scontata ai cittadini lucani. Altri indizi. Niente prove.

Sul ruolo del generale Jean, persona molto bene informata dei fatti, il magistrato può solo scrivere che esiste «la sussistenza di un contesto perlomeno singolare». Un contesto alla Sciascia. Gli uomini di Basentini hanno interrogato agenti segreti detenuti in Italia, plenipotenziari somali, un informatico vessato dai servizi italiani, una giornalista fuggita in India.

Gli ultimi approfondimenti investigativi sono stati fatti su Agostino Massi e Gaetano Trezza. Fonti confidenziali li hanno indicati «come persone in grado di poter utilmente riferire su movimenti effettivamente avvenuti presso la Trisaia, avendovi operato a vario titolo nel corso degli anni». Massi ha messo a verbale nel colloquio con il magistrato un incidente a seguito del quale i liquidi fuoriuscirono dalla piscina che contiene barre di uranio statunitense contaminando il terreno.

Trezza invece ha riferito che gli attuali responsabili del centro [i dirigenti della Sogin] sono «personaggi privi di scrupoli». Ha altresì detto che la prevista attività di smantellamento degli impianti per riportare l’area a verde non è mai iniziata. Il magistrato ha anche messo delle cimici nell’auto dei due che, tornando da Potenza a Roma, si sono messi a parlare di Fraschetti, che aveva riferito loro delle zone di Trisaia dove era meglio non transitare «perché fortemente contaminate».

Il fisico in pensione Giovanni Fraschetti, nonostante un ictus che lo rende invalido, è stato interrogato, ma si è limitato a riferire di parafulmini radioattivi e rifiuti ospedalieri depositati a Rotondella. Verbali buoni per gli storici che si vorranno adoperare per scrivere il racconto oscuro del nucleare italiano. Come quello che nel 1995 firmò l’ingegner Carlo Giglio al pm Francesco Neri, che con il maresciallo De Grazia iniziò le prime indagini sulle navi dei veleni in Calabria. Giglio svolgeva attività di vigilanza per la radioprotezione degli impianti dell’Enea. L’ingegnere riferì che la registrazione delle quantità di scarti nucleari a Rotondella era truccata per consentire la fuoriuscita di «materiale radioattivo idoneo per l’impiego militare».

Inutile andare troppo indietro nel tempo, considerato quello che ha riferito a fine gennaio, alla commissione bicamerale sui rifiuti, il magistrato Nicola Maria Pace. Oggi è in servizio a Brescia ma quando era alla pretura di Rotondella, nel 1997, fece condannare due persone per le barre statunitensi di uranio mai depotenziate [ovvero processate per ridurne la radioattività], come

prescrivono i protocolli di sicurezza. Ancora oggi le barre sono lì, nella stessa situazione.

E che dire del rapporto della Cia «desecretato» del 2004? Riferisce che da Rotondella è uscito parte del combustibile del nucleare iracheno grazie, pare, alla Techint, che oggi, guarda un po’, si occupa di mettere in sicurezza Rotondella. Nell’agosto del 1980, gli uffici della Techint a Roma subirono alcuni strani attentati. Chi li fece? L’ingegner Giglio, nel verbale raccolto dal pm Neri, riferisce che c’era la mano del Mossad, il servizio segreto israeliano, a quel tempo impegnato a «neutralizzare» il programma nucleare iracheno, che riceveva invece un discreto sostegno dall’amministrazione statunitense, più preoccupata della nascente Repubblica islamica iraniana.

Che Saddam abbia comprato uranio dall’Italia lo conferma anche il magistrato Nicola Gratteri nel suo ultimo libro «La malapianta». Nella primavera del ’98 invece mafiosi, ‘ndranghetisti e appartenenti alla banda della Magliana, ad un ufficiale della Guardia di finanza che si presenta come agente arabo, tentano di vendere otto barre di uranio arricchito di provenienza statunitense. Solo una di quelle barre è stata recuperata. Le altre sono sparite nel nulla. Chissà dove le avevano prese.

Le scorie delle vecchie centrali non sono l’unico lascito del passato. Prima di impugnare la legge della Basilicata che evita alla regione di ospitare depositi di scorie e centrali nucleari, il governo Berlusconi farebbe bene a chiarire chi, come, quando e dove dovrà gestirle. Per evitare che fra trent’anni ci si trovi ancora a dover inseguire barre di uranio e bidoni radioattivi coperti dal silenzio o da centinaia di metri di acque del Mediterraneo.

Letto 7612 volte Ultima modifica il Martedì, 23 Marzo 2010 15:57

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