I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 05 Giugno 2005 17:12

Verso la terza assemblea ecumenica

Chiese Europee
Verso la terza assemblea ecumenica


Si va precisando il profilo che contraddistinguerà la III Assemblea ecumenica europea, cioè il terzo incontro delle Chiese cristiane europee dopo quelli svoltisi a Basilea nel 1989 (Giustizia, pace, salvaguardia del creato) e a Graz nel 1997 (Riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita nuova). L’evento è promosso dalla CCEE (Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa - cattolico) dalla KEK (Conferenza delle Chiese europee - riunisce le Chiese anglicane, protestanti e ortodosse).

Dal 3 al 6 febbraio 2005 si è tenuto in Francia, a Chartres, l’incontro del Comitato congiunto KEK-CCEE, che ha individuato il tema dell’assemblea, (La luce di Cristo illumina tutti. Speranza di rinnovamento e unità in Europa), e le tappe preparatorie.

L’assemblea avrà luogo a Sibiu, in Romania, dal 4 all’8 settembre 2007. La scelta risponde a diverse esigenze. Innanzitutto si trattava di dare visibilità al contesto ortodosso, dopo che le due assemblee precedenti si erano svolte in luoghi in cui la predominante era protestante (Basilea) e cattolica (Graz). La Romania, inoltre, ha in corso un processo che mira all’ingresso nell’Unione Europea proprio nel 2007; la III Assemblea ecumenica europea sarà la prima a fare riferimento all’Europa a 25 stati, con due d’imminente ingresso (Romania e Bulgaria).

Si tratterà di un’assemblea a tappe. Sarà preceduta da un processo, a livello nazionale e regionale, «per sviluppare il comune impegno ecumenico delle Chiese in Europa» (Comunicato finale dell’incontro, 7.2.2005). Le tappe previste sono:
1) un incontro europeo dei delegati delle Chiese, delle conferenze episcopali e degli organismi e movimenti ecumenici (Roma, 24-26.1.2006, a conclusione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani);

2) una serie d’incontri a livello regionale e nazionale nel corso del 2006;

3) un secondo incontro europeo all’inizio del 2007 a Wittenberg, la città di Lutero;

4) la tappa finale a Sibiu, con la partecipazione di 3.000 delegati.

Nelle intenzioni del Comitato congiunto «il processo assembleare costituisce (…) una sorta di “pellegrinaggio” per incontrare le diverse tradizioni cristiane d’Europa, per ascoltare insieme la parola di Cristo, per rispondere alla domanda di spiritualità, alla ricerca di senso e alle attese dell’uomo e della donna di oggi, specialmente delle giovani generazioni».

Il contenuto dell’assemblea sarà costituito dalla ripresa della Charta oecumenica, il documento firmato insieme da KEK e CCEE nel 2001, che dava le «linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa».

Le Chiese dell'oriente cristiano
VI. Chiesa Ortodossa Siro-malankarese
di Mervyn Duffy




Nella metà del diciassettesimo secolo la maggior parte dei cristiani, detti di S.Tommaso, in India dovette molto soffrire per i tentativi dei portoghesi di latinizzare la loro Chiesa. Questo portò migliaia di fedeli a radunarsi il 16 gennaio 1653  presso la  Coonan Crossa  a  Mattancherry  per giurare di non sottomettersi più all'autorità di Roma. La guida dei dissidenti pensò di ristabilire un rapporto di comunione con la Chiesa Assira dell’Est,  ma questo per una serie di casi non fu realizzato. Allora  nel 1665 il Patriarca Siro acconsentì ad inviare un vescovo per guidare quella comunità a condizione che essa accettasse la cristologia siriaca ed a seguire il rito siro. Questo gruppo  fu così costituito  come chiesa autonoma all'interno del Patriarcato siriano.

Tuttavia, in 1912 si creò una spaccatura in questa Chiesa quando una parte significativa di essa si proclamò Chiesa autocefala e decise la costituzione del Catholicosato Antico dell’Est  in India. Ciò non fu accettato da coloro che erano rimasti fedeli al Patriarca siro.



Le due parti furono alla fine riconciliate nel 1958, anno in cui la Corte Suprema dell’India decretò che soltanto il Catholicos ed in vescovi  dell’autocefalia in comunione  con lui avrebbero  goduto dello stato legale e riconosciuto. Ma nel 1975 il patriarca siro scomunicò e depose il Catholicos e nominò un rivale, una decisione che provocò un’ulteriore spaccatura nella comunità. Nel giugno 1996 la Corte Suprema dell'India prese una decisione secondo la quale:
(a)  Si riconosce valida la costituzione della chiesa che era stata adottata nel 1934 e  si rende noto che essa obbliga ambedue  le fazioni;

(b) si dichiara che esiste una sola Chiesa  siro-ortodossa  in India, attualmente divisa in due fazioni;
(c) si riconosce il Patriarca siro-ortodosso di Antochia come Capo spirituale della  chiesa siriaca universale, quindi anche della parte non costituita in autocefalia, mentre si  afferma che il Catholicos autocefalo  gode di un statuto legale come capo di quella Chiesa  in India  ed  è  il custode delle relative parrocchie e proprietà.



Le dimensioni precise  di queste due Comunità  sono estremamente difficili  da determinare e  la disputa tra le due parti crea sempre un’atmosfera  piuttosto calda. Molti osservatori esterni credono che metà di questa chiesa ortodossa in India, che complessivamente conta circa 2.000.000,  faccia  parte di questa chiesa autocefala, mentre l'altra metà  faccia  parte della chiesa sotto il controllo del Patriarca siro ortodosso.

Dalla comunità siro-ortodossa del  Malankar sono nate nel Kerala altre due chiese. In primo luogo, in parte a causa dell’attività missionaria anglicana, un movimento di riforma si è sviluppato in questa chiesa nel diciannovesimo secolo e coloro che vi hanno aderito hanno formato la Chiesa Siriaca di Mar Thomas nel Malabar, che in gran parte conserva  le pratiche ed i riti liturgici originari. Questa chiesa, che può contare su una valida successione apostolica derivante dalla Chiesa siro-ortodossa tende ad accettare la teologia riformata ed è in comunione con le province anglicane dal 1974. Essa ora ha circa 700.000 membri.



Verso la fine del diciottesimo secolo, un prelato siriaco a Gerusalemme ordinò un monaco locale come vescovo, ma questi non fu accettato dal metropolita del Malankar. Questo vesco allora fuggì al nord e stabilì un gruppo di seguaci  nel villaggio  di Thozhiyoor. Più o meno 10.000 fedeli compongono oggi questa chiesa, che è denominata Chiesa Siriana Indipendente del Malabar di Thozhiyor. Mentre conserva la fondamentale eredità orientale, questo gruppo ha collegamenti con la chiesa di S. Tommaso  ed anche, molto profondi con la Comunione Anglicana.

La chiesa  siro-ortodossa del Malabar  ha  un seminario teologico  a Kottayam,  che fu fondato agli inizi  del diciannovesimo secolo e che attualmente  ha circa 140 allievi.  Ulteriori sviluppi formativi sono stati programmati e realizzati,  compreso il centro “Sophia" per la preparazione teologica di uomini e di donne ed anche una  una scuola di musica liturgica che è affiliata all'università “Mahatma Gandhi“. La chiesa inoltre cura  un certo numero di università,  scuole,  ospedali, orfanatrofi.

Questa chiesa  ha  anche una modesta  tradizione monastica. Ci sono quattro Comunità  di  uomini che seguono una regola monastica ed undici  di preti celibi e laici, ma senza una struttura monastica ben definita. Vi  sono inoltre dieci conventi in cui le suore  vivono una vita di servizio e di preghiera.

Esiste un metropolita per gli USA,Canada ed Europa che ha giurisdizione su 56 parrocchie e 56 preti. Risiede a Buffalo nello Stato di New York.
Vi sono inoltre una parrocchia siro-ortodossa  in Inghilterra ed una in Australia.




TERRITORIO: L'India e la  piccolo diaspora

GUIDA: Baselius Mar Thoma Matthews II (nato nel 1915,  eletto nel 1991)

TITOLO: Catholicos dell'est; Catholicos del  Trono Apostolico di S. Tommaso e metropolita  del  Malankar

RESIDENZA: Kottayam, Stato del Kerala, India

INSIEME DEI MEMBRI: 1.000.000

Le Chiese dell'oriente cristiano
V. Chiesa Siro-ortodossa  di Antiochia
di Mervyn Duffy




La chiesa  siriaca  ha le sue origini  nell’antica comunità cristiana di Antochia, che è ricordata negli Atti degli Apostoli.  La chiesa di Antiochia divenne presto uno dei maggiori centri  della Cristianità dei primi secoli. Ma il Concilio di Calcedonia nel 451  provocò una spaccatura  in questa comunità. Gli insegnamenti del concilio  furono fatti rispettare dalla autorità imperiali bizantine, ma questo avvenne nelle città mentre invece nelle campagne essi furono ampiamente rifiutati.

Nel sesto secolo, il  vescovo di Edessa, Jacob Baradai, ordinò molti preti e vescovi per sostenere la fede di coloro che avevano rifiutato Calcedonia  trovandosi così costretti a fronteggiare l’imposizione imperiale.  Di conseguenza, questa chiesa fu chiamata Giacobita, con una propria  liturgia chiamata Antiochena o Siro-antiochena e con altre tradizioni proprie e con l’uso della lingua siriaca parlata dalla gente comune.  Alcune Comunità  si stabilirono in Persia, perciò fuori dell’Impero bizantino.

La conquista del territorio da parte dei persiani e  successivamente  degli  Arabi  pose fine alla persecuzione bizantina e creò le circostanze favorevoli  per un ulteriore sviluppo della chiesa siriaca. Ci fu una grande rinascita degli studi teologici siriaci nel Medio Evo, quando questa comunità cristiana ebbe delle fiorenti scuole di teologia, filosofia, storia e scienze.  In quell’epoca la Chiesa siriaca giunse ad avere 20 sedi metropolitane e 103 diocesi  in un territorio che si estendeva fino all’est dell’Afghanistan.  Vi sono inoltre prove dell’esistenza di comunità ortodosse siriache, senza vescovi, presenti in territori molto lontani come il Turkestan ed il Sinkiang. Ma le invasioni dei mongoli, guidati da Tamerlano verso la fine del quattordicesimo secolo, fecero sì  che la maggior parte delle chiese e dei monasteri siriaci fossero distrutti.  Questo contrassegnò l’inizio di un lungo declino, inoltre la chiesa siriaca ebbe a soffrire altre terribili perdite durante e dopo la prima guerra mondiale a causa delle persecuzioni e dei massacri nella Turchia orientale. Tutto ciò fu causa  di  una dispersione diffusa della Comunità.



Anche  oggi la popolazione ortodossa  siriaca si sta spostando. Negli anni 50 e negli anni 60 molti  sono emigrati  dall'Iraq e dalla Siria nel Libano. In Iraq ci sono spostamenti di siro-ortodossi dalla città nordica di Mossul verso Bagdad. L'erosione più seria della comunità ha  avuto luogo nella Turchia sud-orientale, in cui rimane soltanto qualche siro-ortodosso. All’inizio di questo secolo molti siro-ortodossi sono emigrati in Europa occidentale e nelle Americhe, sempre per motivi politici ed economici.

La Chiesa siro-ortodossa ha una forte tradizione monastica, esistono tuttora alcuni monasteri nella provincia di Mardin in Turchia  ed in altre parti del Medio Oriente. Ci sono inoltre tre monasteri nella  diaspora, situati nei Paesi Bassi, in Germania ed in Svizzera.

I  Patriarchi siriaci hanno avuto la loro sede  in Antiochia fino al 1034. Da allora questa è cambiata più volte volta: nel monastero di Mar Barsauma (1034-1293), di  Der ez-Za'faran (1293-1924), ad Homs, in Siria (1924-1959) ed infine a Damasco (dal 1959).



Una certa formazione teologica ancora è fornita dai monasteri. Ma  il seminario ortodosso di  S. Ephrem Siro è l'istituto teologico principale del Patriarcato. È stato fondato in Zahle, nel Libano, ma  poi è stato spostato a Mossul in Iraq,  nel 1939.  E’ stato nuovamente trasferito a Zahle negli anni '60  per essere poi spostato ad  Atchaneh, vicino a Beirut, in 1968. Lo scoppio di guerra civile nel Libano ha causato il trasferimento forzato forzato  degli allievi a Damasco in  Siria. Di qui il Seminario è stato collocato a Sayedniya, vicino  Damasco ed inaugurato dal Patriarca  Siro-ortodosso  il 14 settembre 1996.

Dalla metà del secolo diciassettesimo il Patriarcato Siro ha inglobato una chiesa autonoma dell’India, una parte della quale è ora chiamata Chiesa Siro-ortodossa Malankarese, a capo di questa chiesa vi è il Catholicos  Mar Baselious Thomas I (nato nel 1929, eletto nel 2002). Un Vicariato patriarcale siro-ortodosso è stato costituito per gli USA ed il Canada nel 1949, trasformato in arcidiocesi  nel 1957 con a capo l’arcivescovo  Mar Athanasius Yeshue Samuel. Dopo la morte dell’arcivescovo  nel mese di aprile del 1995, il Santo Sinodo Siriaco ha diviso l’Arcidiocesi  in tre giurisdizioni. Il Vicariato patriarcale per gli Stati Uniti orientali con a capo  Mor Cyril Aphrem Karim (nato nel 1965, eletto nel 1995), che ha  18 parrocchie. Il Vicariato patriarcale   per gli Stati Uniti occidentali che ha cinque parrocchie ed  è sotto la cura pastorale di Mor Clemis Eugene Kaplan (nato nel 1955, eletto nel 1995). Il  Vicariato patriarcale per il Canada che ha cinque parrocchie, ed è guidato da Mor Timotheos Efhrem Aboodi  (nato nel 1930 ed eletto nel 1995). 



Nel 1993 il Santo Sinodo Siriaco ha separato le parrocchie  dei  fedele indiani dell’ America del Nord dall’arcidiocesi  siriaca  ed ha  creato l’arcidiocesi  Siro-ortodossa Malankarese  dell’America del Nord che è sotto la guida pastorale del Metropolita Mar Nicolovos Zachariah,  ed ha 28 parrocchie servite da 32 preti.  Nel settembre 2003 il patriarca Siro-antiocheno ha  ordinato  Mar  Malatius Malke Lahdo Malke come il primo Vescovo del Vicariato patriarcale dell'Australia e della Nuova Zelanda, egli ha la residenza presso la cattedrale di  S. Ephraim a Sydney. Vi sono sette parrocchie in Australia ed una in Nuova Zelanda. La chiesa siro-ortodossa  è rappresentata in Gran-Bretagna da Fr. Touma Hazim Dakkama  e la chiesa  del  Malankar da Fr. Eldhose Koungampillil.





TERRITORIO:
La Siria, Libano, Turchia, Israele, India, diaspora

GUIDA: Patriarca Ignatius Zakka I° Iwas (nato nel 1933,  eletto nel 1980)

TITOLO
: Patriarca ortodosso Siro di Antiochia e di tutto l'est

RESIDENZA: Damasco, Siria

INSIEME DEI MEMBRI: 500.000, più 1.000.000 in India


E’ frequente, nei vangeli, l'annotazione che dei malati "vengono portati" a Gesù. Se essi hanno una certa autonomia di movimento, se riescono a camminare dovendo tutt'al più essere sostenuti, essi sono semplicemente «accompagnati», «condotti», «guidati» fino a Gesù.

Ascolto e comunicazione
tra le generazioni
di Giovanni Dalpiaz


 




Il monachesimo italiano sta attraversando un passaggio molto difficile: le nuove vocazioni, presenti anche se in numero piuttosto basso, sono insufficienti ad assicurare il ricambio generazionale e ciò, tra le altre conseguenze, indebolirà ancor più la già esigua presenza territoriale. La crisi è in parte occultata dal prolungamento dell’età di vita. Di conseguenza i nostri monasteri hanno sì ancora monaci, ma sempre più anziani.

La distanza generazionale concorre ad accrescere le differenze nei codici comunicativi, come è frequente osservare in quella fase molto particolare della vita comunitaria che è l'accoglienza e l'inserimento di una nuova persona. È in tale passaggio che tutti gli «attori» della relazione sono costretti ad esplicitare i rispettivi «codici», le motivazioni, le aspettative sottese alla comunicazione, sperimentando le possibilità di un dialogo o constatando un'afasia reIazionale, quando ci si parla senza però comprendersi, poiché i linguaggi sono ormai irrimediabilmente distanti. Ne è tipico esempio la domanda che penso ciascuno di noi si sia sentito rivolgere neI visitare i monasteri femminili: «Ci sarebbe qualche brava giovane da indirizzare qui? Verso quali ambienti, gruppi, movimenti, ecc... ci si potrebbe orientare per riuscire ad incontrare giovani interessate alla nostra proposta di vita?». Ma la brava giovane che ha in testa la nostra interlocutrice non corrisponde, se non molto vagamente, alla brava giovane che ci può essere in giro oggi, perché lei ha in mente la «brava giovane» di cinquant'anni fa, e le due immagini non sono sovrapponibili, anche se per designarle usiamo gli stessi termini.

Chi sono, cosa domandano i giovani e, più in generale, coloro che si avvicinano alla vita religiosa? È iniziando a cercare risposte a questi interrogativi che si dipana una maggior comprensione di quel nodo di reciproche aspettative, motivazioni, atteggiamenti, al fine di verificare se quello che loro cercano/domandano è quanto noi possiamo/sappiamo proporre. Perché se venti o trent'anni non sono un lungo periodo, quando li si misuri sulla scala del cambiamento generazionale segnano invece un distanziamento molto più ampio e marcato in termini di mutamento negli stili di vita, negli orientamenti di valore, nei modelli culturali.

Le ricerche condotte sui giovani religiosi ci documentano come rispetto a 20-30 anni fa l'atteggiamento di coloro che chiedono di entrare in una comunità religiosa sia molto più caratterizzato da elementi di «realizzazione», intendendo realizzazione di sé, ma anche realizzazione in termini di chiamata del Signore per me, realizzazione di un'intuizione spirituale e così via. Sono invece molto meno presenti le tematiche del distacco, spogliamento, abbandono. Potremo dire, schematizzando il nostro discorso, che si entra nella vita religiosa non per rinunciare a qualche cosa, ma per trovare qualche cosa; e già qui si rileva un primo profondo divario nei codici culturali.

L'orientamento all' autorealizzazione, così tipico dell' odierna cultura giovanile, viene per tal via ad affacciarsi all'interno delle comunità religiose. Esso si inserisce, o forse più precisamente s'insinua, come elemento di non facile integrazione, perché, nel codice valoriale sotteso alle Costituzioni, ai modi di pensare, alle esortazioni, ai modelli di santità tipici del lessico della vita monastica così come è intesa nei nostri ambienti, l'autorealizzazione non compare come valore da promuovere e tutelare. Anzi, già il richiamo al sé, alla valorizzazione delle doti personali viene percepito come rischio, elemento potenzialmente fuorviante da una corretta vita religiosa, la quale si caratterizza come estroversa, orientata all'altro, alla comunità, alla chiesa, e così via.

Un atteggiamento dell'animo più che un comportamento di facile individuazione. Vi è chi lo esprime attraverso forti istanze di spiritualità, in un quadro di grande idealità e profonda radicalità, o chi cerca nella comunità uno spazio per dare ordine e senso alle molteplici e talora dispersive esperienze vissute. In ogni caso, sia che si cerchi un luogo dove condurre una propria ricerca spirituale oppure un ambiente che dia risposta ad un proprio bisogno di senso e pace, quello che viene in evidenza è la centralità della ricerca di realizzazione personale. Ciò significa che il punto di vista del soggetto è quello determinante, per cui i vari passaggi ed impegni, incluse le rinunce e i cambiamenti implicati dal passaggio alla vita religiosa, tendono ad essere interpretati e vissuti da questa angolatura. Ovviamente questo non vale solo per la vita religiosa: troviamo la stessa cosa nella famiglia, nelle scelte professionali, e così via. Ne vengono alcune conseguenze, alle quali brevemente accenno.

In primo luogo, una scelta non è «per sempre», o meglio il per sempre è un auspicio implicito, ma non una certezza fondante il principio. Quindi noi corriamo il rischio di dire: «È per sempre che tu vieni?» e tutti rispondono: «Sì!»; solamente che per noi questo diventa un dato di fatto da cui si parte per realizzare la formazione spirituale e l'inserimento in comunità, mentre per interlocutore diventa un auspicio, come dire: «Spero che sia per sempre, ma, se poi lo sarà veramente, te lo dirò tra qualche anno». Sarà il permanere, o il venir meno, delle condizioni iniziali, come insieme di aspettative e motivazioni in base alle quali la persona si orienta alla vita monastica, che realizzerà la continuità dell'impegno, o l'interruzione dell'esperienza. Il fatto di porre all'inizio del processo di inserimento in comunità un insieme di attese legate ad una certa idea di realizzazione personale rende più difficile attuare in modo pieno (senza se e senza ma!) quell'affidamento, psicologico e spirituale, che è condizione indispensabile per giungere ad un'appartenenza stabile ed irreversibile.

Se si pongono condizioni, sulla cui realizzazione la persona si riserva una propria autonoma ed insindacabile valutazione, è facile che si attui un'appartenenza a due livelli: formalmente totale, ma di fatto circoscritta e vissuta con una sempre disponibile opzione di revoca degli impegni assunti. S'inserisce pertanto nella relazione comunitaria un elemento di instabilità, che può restare latente - o emergere improvvisamente anche dopo la professione solenne o l'ordinazione presbiterale - quando le esigenze della vita comunitaria non siano più eludibili. Ad una più immediata e netta percezione della distanza tra istanze soggettive ed impegni delle relazioni comunitarie, in molti casi fa da schermo il fatto che le richieste abbiano contenuti in sé positivi o evangelicamente ispirati, solo che possono muoversi verso progetti di impegno e testimonianza sui quali la comunità non sa o non intende impegnarsi. Non basta che una scelta o un orientamento sia buono in se stesso perché la sua realizzazione sia possibile o più semplicemente opportuna.

Secondo aspetto: l'appartenenza ad una istituzione religiosa non segna più una rottura radicale, una discontinuità rispetto alle esperienze precedenti. Più che una morte/rinascita, è uno sviluppo, una evoluzione di potenzialità. C'è quindi una «riserva» del soggetto che solo raramente emerge in tutta la sua limpidezza. Comprendiamo allora come rispetto al passato vi sia una minore disponibilità a lasciarsi plasmare e uniformare dall'istituzione, mettendo tra parentesi (o rimuovendo) quelle inclinazioni, spinte emotive, desideri che, pur importanti nell'identità della persona, risultino disarmonici rispetto ai valori, ai comportamenti, agli stili di vita presenti in comunità. Questo vuoI dire che, se è posto di fronte alla scelta tra la fedeltà a quella parte della propria identità percepita come positiva (essere autentico) e la necessità di uniformarsi alle esigenze di un'appartenenza istituzionale, l'opzione è per l'autenticità e quindi la rottura della comunicazione con l'istituzione: «Quando non intendo trasformarmi ti lascio parlare, tanto, comunque, io continuo a coltivare le mie idee». C'è in un simile atteggiamento il rischio molto concreto di una deriva narcisistica, anche se nello stesso tempo è doveroso riconoscervi l'istanza per un più sincero rispetto della persona.

Nella domanda di autenticità, che abbiamo rilevato come una richiesta di non andare contro l'identità profonda di sé, si esprime la consapevolezza che esiste in ciascuno di noi un nucleo originario ricevuto, che debbo scoprire, accogliere e portare a compimento, e non posso (ed oggi sempre più spesso non intendo) rimuovere, cancellare, per sostituire con un'identità «istituzionalmente» corretta. Allora qui, mi pare, c'è un punto molto importante nel dialogo tra nuove generazioni e istituzioni: perché le nostre strutture religiose, penso anche i monasteri, sono istituzioni tendenzialmente rigide a motivo dell'età, del peso attribuito alla tradizione nel definire i comportamenti e gli stili di vita, degli stessi ambienti architettonici così carichi di storia, ma anche ormai così sproporzionati alle esigenze relazionali di comunità piccole, con poche risorse umane. Per questo tipo di istituzioni la spinta all'autenticità è vissuta come una minaccia ed è quindi fonte di tensione e fraintendimenti, primo fra tutti il fatto che accettare l'autenticità sia un lasciare andare verso la spontaneità delle pulsioni e delle emozioni.

Ma autenticità è ricerca, spesso faticosa e sofferta, di un confronto con le proprie potenzialità e i propri limiti, impegno ad una riflessione seria su di sé, ad un serrato confronto con le vischiosità e le debolezze della realtà. E questo è un tratto estremamente importante nelle nuove generazioni. Una comunità che non teme il dialogo dovrebbe, oppure più semplicemente potrebbe, accogliere la sfida che si esprime nel desiderio di autenticità, integrando lo nel vissuto delle proprie relazioni interne, nella ricerca spirituale, portandolo cioè all'apertura verso l'alterità per non rischiare l'implosione o il ripiegamento narcisistico su se stessa.

Un ulteriore aspetto che la cultura giovanile evidenzia, capace di interferire profondamente nella relazione con la comunità religiosa, è l'importanza attribuita alla dimensione comunicativa, cioè il parlarsi è valore fondante la relazione, indipendentemente dai contenuti che si trasmettono. Se voi guardate i giovani quando si ritrovano insieme, li vedete intenti a parlarsi; se poi vi avvicinate ad ascoltarli, vi accorgerete che i contenuti dei loro discorsi sono piuttosto banali, inconsistenti, perché non è importante quel che dici, ma che ci sia qualcuno con cui tu puoi parlare. Ciò significa che in una comunità religiosa si cercano persone con le quali stabilire un dialogo intrattenere rapporti positivi in un clima confortevole, accogliente, sgombro da conflitti e tensioni. Tutto ciò avviene in un contesto sociale nel quale aumenta tra le generazioni, anche tra quelle contigue, la diversità culturale e quindi la distanza.

L'incontro pertanto con le nuove vocazioni si muove tra due tensioni di segno opposto: da un lato, c'è la domanda di comunicazione assunta come valore in se stesso positivo, al di là dei con tenuti trasmessi, perché si esiste nella misura in cui si scambiano messaggi; dall' altro, cresce il distacco tra le generazioni e quindi diminuiscono gli spazi per il dialogo. Si aggiunga poi la diffusa esperienza del cambiamento sociale e culturale che porta a relativizzare codici comportamentali e contenuti normativi. Difficile (anche se non impossibile) che in un simile contesto la comunicazione diventi relazione e si vada oltre un generico rumore di fondo, un parlare stereotipato. Ne è riprova il fatto che, quando ci si avventura su temi che la persona non intende affrontare perché ritenuti troppo impegnativi o capaci di mettere in discussione sicurezze intellettuali o spirituali alle quali non s'intende rinunciare, allora la debolezza della comunicazione si palesa in tutta la sua realtà: il messaggio viene, per così dire, «rimosso», allontanato da sé con un leggero, quasi confidenziale, gesto di fastidio.

Nello specifico degli Istituti religiosi la comunicazione con il mondo giovanile si muove in un contesto reso difficile dalla scarsità delle vocazioni. Ciò non solo accresce la distanza tra le generazioni, come si è già ricordato, ma concorre a rendere «prezioso» il giovane che si affacci al monastero, specie se intenzionato a restarvi. Ad esso si applicano i criteri che in famiglia si accompagnano alla cura del figlio unico, al quale tutto è permesso purché non lasci soli i genitori e non li abbandoni, specie se anziani. Allora la comunicazione, da dialogo che coinvolge e può mettere in discussione ambedue le parti, diviene prassi contrattuale, con definizione degli ambiti del «privato» e del «comunitario». I mondi rimangono intimamente distanti e la comunicazione non diviene una relazione che modifica nel profondo, un impegno a tessere rapporti interpersonali, comunitari, ma definizione funzionale di regole del gioco in funzione del perseguimento di alcune attività condivise.

L'orizzonte che in tal modo si delinea è, quando riesce bene, quello di un gruppo efficiente, secondo le regole dell'agire sociale, ma con un debole senso di appartenenza comunitaria. La comunità monastica ambisce ad essere realtà che plasma l'identità psicologica e spirituale della persona. Le relazioni che vi si instaurano non sono solo osservanza di norme che delineano un «pubblico» ed un «privato», un permesso ed un vietato, ma vorrebbero essere testimonianza di uno stile di vita e di un linguaggio espressivo che riconosce affinità spirituali, si apre alla condivisione, crea koinonia. Sta qui il fascino con il quale si guarda alle nostre comunità: la nostalgia (o la profezia?) di relazioni interpersonali che non siano unicamente strumentali, ma attestino compassione, accoglienza, gratuità, in quanto scaturiscono da una quotidiana frequentazione dell'evangelo. Solo nel riconoscimento di una incondizionata fedeltà alla Parola di Dio, alla quale ognuno accetta di sottomettersi, la comunità monastica trova il codice comunicativo più adeguato per costruire rapporti interpersonali non effimeri. Diversi per età, carattere, sensibilità culturale, i monaci eviteranno una unità solo funzionale, costruita attorno ad un patteggiamento definitorio di quanto attiene al soggetto e di quanto invece spetta al comunitario, solo se sapranno riconoscere nella fede in Gesù l'elemento che radicalmente li unisce, permettendo loro di scambiarsi simboli e parole apportatrici di senso.


La pagina delle beatitudini evangeliche introduce la vita pubblica di Gesù con un messaggio che ne contiene l'annuncio fondamentale e può essere paragonata al nartece o al portale di una grande cattedrale.

La passione di Cristo,
storia, testimonianza e verità
di Marcelo Barros

Essere cristiani è seguire Gesù come discepoli nelle opzioni fondamentali della vita e ricevere dal Padre lo Spirito Santo, energia di amore divino che ci rende capaci di amare come Gesù e che ci "divinizza". Gli antichi pastori delle Chiese definivano questa fede come "cammino", itinerario spirituale, che può essere espresso in diverse forme. Ogni Chiesa o comunità privilegia di più l'uno o l'altro aspetto. Dire che il sole nasce alle 6 e tramonta alle 18 è tanto vero quanto parlare di movimento della terra intorno a se stessa mentre gira intorno al sole. Nessun linguaggio è assoluto. Non si deve assolutizzare un modo di parlare. Sarebbe confondere un'espressione della verità con la Verità che è al di là di tutte le nostre povere formulazioni. Nessuno possiede la verità totale. Ognuno può sempre apprendere qualcosa dall'altro, come altrettanto può insegnare all'altro.

Se è così, mi perdonino coloro che interpretano i testi biblici alla lettera, ma non credo che sia il sangue di Cristo che salva l'umanità. Non posso credere che Dio avesse bisogno che Gesù soffrisse a quel modo e morisse come un condannato per salvare il mondo. Quello che salva il mondo è l'amore. L'unica passione capace di salvare l'umanità è l'appassionarsi, che, secondo il Vangelo di Giovanni, è la chiave di lettura più appropriata per capire tutto quello che è successo a Gesù: "Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1). Questo amore radicale, che giunse fino a dove l'amore più estremo può giungere, prese la forma del dono di sé. Non perché non desse importanza alla vita, o godesse del soffrire. E meno ancora perché credeva che Dio è sadico o crudele e si dilettasse nel vedere il Figlio soffrire e morire, come prezzo per placare la sua ira nei confronti dell'umanità peccatrice.

È dagli inizi della Chiesa che la croce di Gesù provoca polemica. Ferisce l'immagine convenzionale di Dio e contesta qualsiasi religione che illuda le persone promettendo miracoli e buoni risultati economici. La croce di Gesù denuncia che Dio sembra non proteggere i suoi. Già al suo tempo Paolo scriveva: "Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1Cor 1,23).

In questi giorni, la passione di Gesù è motivo di dibattito a causa del modo in cui è narrata nel film di Mel Gibson. Rispetto quanti l'hanno apprezzato, ma io continuo a preferire il vecchio "Vangelo secondo Matteo" di Pasolini. Mel Gibson, interpretando i Vangeli alla lettera, privilegiando alcuni passaggi e dimenticandone altri, attribuisce la condanna di Gesù agli ebrei e immagina il diavolo come un essere androgino. Facendo questo, depone contro lo stesso Dio, accusato di usare la sofferenza del giusto per salvare il mondo. Così dà ragione agli intellettuali che accusano la religione di essere causa di intolleranza e violenza nella storia e nel mondo attuale.

Amo molto i Vangeli, ma so che furono scritti almeno 50 anni dopo i fatti narrati. Non hanno mai avuto la pretesa di essere biografici. Furono redatti da gruppi diversi e in contesti culturali distinti. Ogni evangelista racconta la passione a partire da prismi tanto differenti l'uno dall'altro che non possono essere armonizzati artificiosamente. Matteo narra la passione come sofferenza di un profeta. Marco mostra Gesù preso dalla solitudine e dal dolore per essere stato abbandonato da tutti. Al contrario, Luca mostra Gesù, nella sua passione, accompagnato da discepoli e donne. Racconta che le donne piangevano e egli le consolava. Un ladrone chiede perdono nell'ora della morte e, sulla croce, Gesù prega: "Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno". Secondo Marco, Gesù fu crocifisso alle nove della mattina. Per Matteo e Luca, successe a mezzogiorno. Matteo e Marco dicono che l'ultima parola di Gesù fu: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?". Luca dice che Gesù pregò: "Padre, alle tue mani affido il mio spirito". Senza dire che Giovanni segue una logica totalmente differente.

Come alcuni predicatori nei loro sermoni, il film di Gibson mescola i racconti evangelici senza nessuna preoccupazione storica o esegetica. Per questo, finisce coll'insistere su elementi che qualunque fondamentalista pensa di cogliere nei Vangeli: accusa agli ebrei, la giustificazione della violenza come necessaria a realizzare il progetto di Dio e a valorizzare la colpa come strumento della conversione dell'umanità.

Negli anni '80 del I secolo, i gruppi cristiani facevano parte della sinagoga e i capi degli ebrei li consideravano eretici e nemici. Sembra che, nelle comunità giudaiche dell'epoca, ci fossero preghiere che maledicevano i seguaci di Gesù. Molti cristiani di fede giudaica entravano in crisi, alcuni perfino lasciavano il gruppo cristiano. In questo contesto, i Vangeli entrano in polemica e dicono che quelli che perseguitano i cristiani sono gli stessi che perseguitarono Gesù. Raccontano la passione di Gesù in modo che sia diminuita la responsabilità dei romani nella condanna di Cristo e accentuano una presunta colpa dei cari religiosi di Gerusalemme. Il quarto Vangelo chiama "giudei" solo i dirigenti del tempio, alleati strategici dei governanti romani nello sfruttamento del popolo. A questo, al popolo, il Vangelo dà il nome di "israelita". Natanael è un vero israelita nel quale non c'è falsità. Chiama Gesù il "re di Israele", Maria e i discepoli sono israeliti (cfr. Gv 1,47-49). Mi sembra disonesto citare questo Vangelo e parlare dei giudei come di coloro che hanno insistito per condannare Gesù senza fare questa distinzione, soprattutto in un contesto politico internazionale nel quale, al contrario di come era anticamente, lo Stato che perseguita i palestinesi si chiama "Israele", mentre il popolo civile e i gruppi religiosi si chiamano ebrei.

In realtà, la passione di Gesù fu un assassinio, perpetrato dal potere politico romano con la complicità dei vertici del potere religioso ebraico dell'epoca. Non conosciamo i dettagli. Tutto quello che i Vangeli raccontano della passione certamente si basa sui fatti, ma ha più che altro valore simbolico e di parabola. Non è una cronaca o un réportage giornalistico.

Chi è cristiano crede che Dio ci salva attraverso Gesù. Questa salvezza non è il liberarci dall'inferno, parabola superata di un castigo contrario alla misericordia divina. Gesù ci salva con la pienezza della vita e della felicità. Gesù ci salva rivelandoci Dio, insegnandoci a metterci in relazione intima con Dio. Ci salva perché possiamo scoprire un modo di vivere più umano e felice, basato sull'amore-solidarietà, sulla giustizia, sulla pace e sulla comunione con l'universo.

(da Adista, n°34 8.5.2004)


Lo scandalo di una parola
di Vladimir Zelinskij


 



Fra tanti rumori che accompagnavano la fine del 2004 in Europa, una voce si è fatta particolarmente viva, quella che scandalizzava per il “peccato”. Sembra che qualcuno abbia tirato uno straccio rosso dallo scrigno della nonna per risvegliare un toro arrabbiato che dorme nel nostro continente, per ora assai pacifico. “Macché peccato! – mi ricordo il quasi un urlo di un noto conduttore televisivo, - si, sono laico (in lingua corrente: ateo), sono omossessuale, ma questo non è peccato, non è peccato!” Ma perché ti preoccupa così una parola? - viene spontanea la domanda, - da laico sei già vaccinato contro la malattia, di cui soffrono solo gli abitanti del pianeta dei credenti.

Davvero, si tratta di una certa logofobia: ciò che non esiste, ciò che è negato, ciò che fa ridere, appena prende “carne” (il suono, il senso) del concetto, provoca protesta pubblica. Ma perché non protestiamo noi nel nome del pluralismo del linguaggio? Il nostro discorso non è destinato, infatti, solo ad uso interno? Il nostro vocabolario non è accessibile esclusivamente agli adetti ai lavori religiosi? Nessuno vuol sostituire “il peccato” con “il reato”, ma davvero non possiamo chiamare le cose con i nomi che gli scegliamo? Sì, la nostra protesta sarebbe giusta, se a questa libertà di parola non avessimo rinunciato noi stessi.

Mi permetto di dire la mia verità, una confessione quasi. Vivo in un paese che poco fa poteva essere chiamato cattolico; amo la Chiesa Cattolica molto di più che una Chiesa-sorella. Sono legato a lei piuttosto come ad una madre che mi ha abbandonato. E con l’amore un po' ferito posso dire che questa Chiesa ha rinunciato con leggerezza alla sua coerenza ed onestà. L’onestà comincia con un buon uso del proprio lessico, non di quello preso altrove. Si può parlare anche in generale del fatto che il cristianesimo in Occidente ha voluto essere troppo inoffensivo, ben accolto da tutti. Leggo libri sulla spiritualità, ascolto ogni tanto le prediche nelle parrocchie, nei programmi religiosi in TV. Sono professionali, sono buoni. Direi, troppo buoni.

La realtà celeste o virtuale domina un po’ su quella quotidiana. Sì, la sessualità umana non può (o non dovrebbe) essere nient’altro che l’espressione dell’amore puro, unico, vero, eterno, perché il matrimonio è indissolubile. Quando le cose vanno molto diversamente, tutti dicono: qualcuno ha sbagliato. “Ha peccato” – non si pronuncia più, almeno in pubblico. Non solo politicamente, ma anche pastoralmente non è corretto. Tuttavia, chi può nutrirsi solo di dolcezze? Forse, per paura di far paura stiamo per buttare via il nostro sale. Ma se non abbiamo il corraggio di dire cose dure, a volte amare, davanti ai fedeli, come osare pronunciarle nel Parlamento Europeo?

Lasciamo stare il “peccato”, forse, questa parola è un po' compromessa. Ha qualche precedenza penale dell’abuso nel passato. Torniamo al linguaggio della Bibbia, a tutti chiarissimo: “Io ti ho posto davanti, - dice il Signore, - la vita e la morte, la benedizione  la maledizione; scegli dunque la vita...” (Deut 30, 19) Ma la morte, la maledizione, forse, sono parole ancora più fondamentaliste? Bene, parleremo dunque di quel nemico che impedisce a Cristo di venire ad abitare nei nostri cuori (cf. Ef 3,17). Oppure di quel muro che fa ostacolo all’amore di Dio, al Suo Spirito. Non so come un laico avrebbe reagito a questa definizione di peccato, anche nell’applicazione concreta a tante avventure e sventure sessuali (quelle omo, ma anche etero), ma sono quasi sicuro che, in fin dei conti, ci si capirebbe meglio.

Sono proprio l’ultimo a potersi vantare della sua Ortodossia. Il dialogo con il mondo contemporaneo è una vocazione che essa deve ancora scoprire. Per ora la Chiesa d’Oriente ha salvaguardato il suo vecchio linguaggio, spesso poco corretto, quello dei santi. Certo, non si può sentirla nei grandi areopaghi del mondo e chissà se è capace di parlare bene nella buona società. Ma nella sua camera, nel suo intimo, ogni ortodosso (almeno colui che prega), appena svegliato, dopo l’invocazione della SS. Trinità dice la supplica del pubblicano: “Signore, abbi pietà di me peccatore!”. Certo, sei parole non costano tanto. Ma alcuni le pronunciano mille volte, le vivono nell’abisso del loro cuore. Perché coloro che hanno provato la pienezza della grazia conoscono anche il tragico nudo dell’anima umana. Un altro santo antico che implorava il perdono di Dio tutta la sua vita disse sulla soglia della morte. “Credetemi, fratelli, non ho ancora cominciato la mia penitenza”. E' forse la confessione di un pazzo? Ma anche “peccato” è una parola che appartiene ad una lingua un po’ pazza, quella dell’animale umano che Dio ha scelto come Suo fratello e per il quale morì nello scandalo della croce.



Maestri da non imitare
Mc 7,1-23
di Karin Heller





«Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con le mani immonde, cioè non lavate - i fari sei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E aggiungeva: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.  Voi invece dicendo: Se uno  dichiara al padre o alla madre: È Korban, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre,  annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».

Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c'è nulla fuori dell'uomo che entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo».

Quando entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola. E disse loro: «Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?». Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo». (Marco 7,1-23)


Per colui che non vive in un ambiente ebraico o che gli è estraneo, l'incontro di Gesù con i farisei conservato da Marco (cf anche Mt 15,1-9 e Lc 11,38) sembra emergere da un'altra epoca. Tutte queste controversie non sono superate? Perché riportare simili discussioni, quando la maggioranza dei cristiani è uscita dalle nazioni pagane alle quali non è stato imposto il giogo che ne i padri, ne coloro che sono nati ebrei sono stati in grado di portare (At 15,10)?

Ma per colui che crede, la Scrittura non è un cimelio del passato, un monumento ai morti davanti al quale ci si inchina periodicamente con rispetto: è una parola viva, la parola nella quale Dio vuole comunicarsi a noi lungo i secoli. Ciò significa che certi eventi, e più particolarmente i diversi incontri che si trovano a dovizia nella Bibbia, sono inseparabili dalla rivelazione cristiana. Questa rivelazione svanirebbe, se questi incontri non esistessero. Quindi, nell'evento dell'incontro di Gesù con i farisei accaduto duemila anni fa, c'è una rivelazione, una verità di Dio per l'uomo, per gli uomini di ogni epoca. Anche per noi, uomini alle soglie del duemila. Qual è questa verità?

La rivelazione di un male profondo

All'epoca di Gesù, i farisei erano maestri di tutti quelli che avevano scoperto nella Legge del Signore una lampada per i loro passi, una dolcezza più grande di quella del miele, un tesoro più desiderabile di quello dell'oro fino (Sal 118,105 e 19,11). San Paolo stesso era stato formato alla loro scuola, quella di Gamaliele, nelle più rigide norme della legge (At 22,3). Allora, dove sarebbe il «male» a voler vivere in tutto conformemente alla Legge del Signore in cui l'uomo si compiace meditandola giorno e notte (Sal 1,2)?

Nel passato di Marco che studiamo, la discussione tra Gesù e i fari sei scoppia a causa dei discepoli che prendono il cibo con «mani immonde», cioè non lavate fino al gomito secondo la tradizione degli antichi (Mc 7,1-3). A prima vista, il dibattito potrebbe sembrare una discussione tra genitori preoccupati di inculcare ai loro figli un «saper vivere» secondo lo stile degli antenati e i figli che non se ne curano o non ne vedono la necessità.

Invece l'incidente rivela un disagio più profondo di quello di un conflitto tra generazioni. Rivela, in effetti, che I 'unità del doppio comandamento dell' amore di Dio e del prossimo è
frantumata. E, cosa forse ancora più grave, i trasgressori coltivano l'illusione di essere a posto in coscienza.

Gesù denuncia l'incongruenza di tale comportamento con due citazioni bibliche. Comincia
citando Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7 ,6- 7). Questa citazione mette in rilievo un divario tra il culto a Dio, cioè il comandamento dell'amore di Dio, e l'insegnamento che si allontana dalla Parola di Dio, fino a sostituirla con la tradizione degli uomini. Così il popolo pratica un culto che ha tutte le apparenze di un «vero» servizio di Dio, mentre invece la sua vita quotidiana non è più regolata secondo i precetti del Signore, bensì secondo le convenienze di ciascuno. Il culto serve a tacitare la coscienza e il comandamento dell'amore di Dio è usato per dissimulare il disprezzo verso il prossimo. Poi Gesù cita Mosè, che insegna con l'autorità di Dio: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte» (Mc 7,10). A questo punto, Gesù mette in rilievo l'ambiguità circa il comandamento dell'amore del prossimo che, nel caso presente, interessa il padre e la madre. I genitori sono esposti ad un'esistenza miserabile, se non alla morte, perché i figli hanno preso il pretesto di dichiarare «offerta sacra» (korbàn in aramaico) i beni destinati al sostentamento di padre e madre (Mc 7,11-13). Era una subdola scappatoia per evitare l'aiuto agli altri, con il pretesto di una causa religiosa. Quando l'uomo mette davanti «l'amore di Dio» senza curarsi del prossimo, produce una mostruosità. L'assurdità di questo gesto diventa ancora più evidente sapendo che i templi dell'epoca, e quindi anche il Tempio di Gerusalemme, avevano, oltre alla loro specifica funzione religiosa, anche quella di essere un centro finanziario; erano l'equivalente delle nostre banche. Quindi, in questo senso «l'offerta sacra» non era un obolo per realizzare una buona opera, ma costituiva ciò che chiameremmo oggi un investimento finanziario.

Una rivelazione dell'identità di Gesù

Dopo questa dimostrazione, Gesù ritorna al problema iniziale, quello che aveva causato la sua viva reazione: perché i suoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi e prendono il cibo con «mani immonde»? L'insegnamento di Gesù è comprensibile soltanto in considerazione di ciò che Dio ha creato e voluto all'origine, quando ha messo l'uomo e la donna all'interno di una creazione integralmente buona (Gn 1). Infatti, all'origine non ci sono elementi puri o impuri. Non c' è nulla che potrebbe insozzare l'uomo dal di fuori. L'esterno, cioè la creazione; e l'interno dell'uomo sono omogenei. Non c'è possibilità di conflitto tra loro quando l'uomo rimane unito a Dio mediante il comandamento divino, che insegna come comportarsi nel sistema complesso della creazione. Quando l'unità è spezzata dal peccato, il cuore dell'uomo è diviso, il suo interno non corrisponde più all'esterno: ciò si manifesta attraverso i perversi disegni prodotti dal cuore dell'uomo.

Quanto a Gesù, Lui è venuto nel mondo per riprendere il progetto originario che Dio creato
Ire aveva preparato per il primo Adamo. Ristabilisce in se stesso il rapporto frantumato tra interno ed esterno, tra il cuore dell'uomo e la creazione, affrontando il caos del deserto, vivendo con le fiere, sostenendo la tentazione di Satana (Mc 1,12-13). In se stesso, figlio dell'Uomo e Verbo eterno, realizza l'unione perfetta con il Padre. È da questa unità che vede il mondo; è ancora da questa prospettiva che giudica il comportamento dei fari sei e lo ritiene inaccettabile.

La verità dell'incontro

Come già notato, l'incontro tra Gesù e i farisei si colloca nella logica di una rivelazione. Questa rivelazione non «cade dal cielo» come un aerolito estraneo al nostro universo, ma si realizza attraverso parole ed azioni molto precise, quelle di Gesù e dei farisei. Parole ed azioni di entrambi sono l'espressione esteriore non dissociabile dal loro stato interiore.

Nel caso dei farisei c'è omogeneità tra il cuore e le azioni, entrambi ugualmente corrotti. E tale corruzione rende la guarigione difficile, se non impossibile. Sarà infatti molto improbabile trovare un punto di accordo con loro che si considerano giusti. Gesù ha dichiarato di essere venuto per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,17). Potrà verificarsi un incontro fruttuoso tra Gesù e i farisei ? Come potranno cambiare, educandosi alla logica del donare senza la pretesa del contraccambio? Nel presente caso, siamo di fronte a una parte che non vuole comunicare con Gesù.

In effetti, incontrare Gesù significa incontrare il Verbo eterno di Dio venuto nella carne; solo Lui può favorire il cambiamento e solo in Lui è data agli uomini la vita che esiste dall'eternità tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Quindi, incontrare Gesù significa per l'uomo la possibilità inaudita di accedere alla guarigione del cuore grazie al dono dello Spirito, di ritrovare l'unità originale tra interno ed esterno voluta dal Padre, di entrare nella vita beata della risurrezione. Viceversa, fallire quest'incontro significa fallire la VITA come Dio la promette, la dà e la realizza dall' eternità nel Figlio suo Gesù.

I discepoli uniti per grazia di Gesù

Quanto ai discepoli di Gesù, devono ricevere una doppia rivelazione dall'incontro del loro Maestro con i farisei. Dapprima: possono prendere il cibo senza essersi lavate le mani, perché il loro Maestro lo autorizza. Infatti, in ragione della presenza di Gesù, anche loro sono già mondi per la Parola che egli ha annunciato, secondo l'espressione di san Giovanni (Gv 15,3). Dovranno però essere attenti e ricordare che anch'essi corrono sempre il rischio di diventare farisei, annullando il comandamento dell'amore di Dio e del prossimo e sostituendolo con precetti e tradizioni umane.

Se l' incontro tra Gesù e i fari sei prende molto spazio nei Vangeli, è giustamente perché anche noi siamo permanentemente esposti a diventare «vecchi» fari sei forti delle nostre tradizioni di 2000, 200, 50 o 3 anni. Come era già il caso al tempo di Gesù, siamo anche noi esposti ogni giorno al pericolo di annullare la Parola di Dio (Mc 7,9.13), il comandamento divino, per mettere al suo posto i nostri gusti, le nostre convenienze, i nostri desideri personali.

Grazie al Vangelo, che è Buona Notizia, sappiamo come dobbiamo comportarci per vivere correttamente il duplice comandamento dell' amore di Dio e dell'amore del prossimo. A loro modo, anche i farisei ci rendono un grande servizio, se non altro perché ci insegnano come non dobbiamo comportarci.

(da Parole di vita)

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

 

DIO (EN SOPH)

 

 
(III, 225a, Ra'yà Mehemnà, "Il fedele pastore")

Egli afferra tutto e non c'è chi afferri lui. Egli non si chiama col nome JHWH e con gli altri nomi, se non quando la sua luce si diffonde su di loro; mentre quando si allontana da loro, egli, a sé stante, non ha alcun nome.

"E profondo, profondissimo; chi lo può trovare?" (Eccl. VII, 24). Non c'è luce che possa guardarlo, senza oscurarsi. Persino la "corona eccelsa", la cui luce è più forte di tutti i gradi e di tutte le schiere celesti, le superiori e le inferiori, di lei è detto: "Egli pose l'oscurità, come suo nascondiglio"(Sal. XVIII, 12). Così pure la "sapienza" e "l'intelligenza", di loro è detto: "La nube e la caligine è intorno a lui" (Sal. XCVII, 2). Tanto più le altre sephiroth, le chayoth, e gli yesodoth che sono corpi morti. Egli gira su tutti i mondi, e non c'è chi giri su di essi da ogni lato, sopra e sotto ed ai quattro angoli, all'infuori di lui. E non c'è chi esca fuori dal suo dominio. Egli riempie tutti i mondi, e non c e altri che li riempia. Egli dà loro la vita, e non c e su di lui un'altra divinità che dia a lui la vita. Così è scritto: "Tu dai la vita a tutti" (Num. IX, 6). E in relazione a ciò Daniele ha detto: "Tutti gli abitanti della Terra sono considerati come nulla dinanzi a lui ed opera a suo piacimento con la schiera celeste"(Dan. IV, 32). Egli collega e unisce ogni specie alla sua specie, in alto ed in basso, e non c e vicinanza nei quattro yesodoth, se non per mezzo del Santo, che benedetto egli sia, quando si trova in essi.

 

 

(Seconda prefazione - Tiqqunè Zohar)

Elia prese a dire: Signore dei mondi. Tu sei uno e non rispetto ad un numero. Tu sei eccelso su tutti gli eccelsi, nascosto su tutti i nascosti ed il pensiero non ti afferra affatto. Tu sei che hai fatto scaturire i dieci ordini che noi chiamiamo dieci sephiroth, per guidare per mezzo loro i mondi segreti che non sono stati svelati ed i mondi che sono stati svelati. Per mezzo loro Tu ti nascondi agli uomini, e sei Tu che le colleghi e le unisci. Per il fatto che Tu ti trovi in esse, chiunque separi una di queste dieci dall'altra, è come se ponesse una separazione in Te. Queste dieci sephiroth procedono secondo il loro ordine: l'una lunga, l'altra breve, l'altra ancora media. Sei Tu che le guidi e non c e chi guidi Te, non in alto, né in basso, né da ogni lato. Hai stabilito per loro delle membra corporee, che sono definite "corpo" rispetto alle vesti che le ricoprono, e vengono così chiamate secondo quest'ordine: "l'amore", chesed, il braccio destro; la "giustizia", gheburà, il braccio sinistro; la "misericordia", tiphereth, il corpo; "l'eternità", nezach, e la "maestà", hod, le due gambe; "il fondamento", yesod, la fine del corpo, il segno del santo patto; il "regno", malkhut, la bocca, che noi chiamiamo Torà orale. La "sapienza", chokhmà, è il cervello, il pensiero interno. L'"intelligenza", binà, è il cuore, di cui è detto: "il cuore comprende" (Talmud: Berakhoth 61a). Di queste due ultime sephiroth è scritto: "le cose segrete appartengono a Dio" (Deut. XXIX, 28). La "corona eccelsa", Keter’ Eliyon cioè la "corona regale", Keter malkhut, di cui è scritto: "Annunzia dall’inizio la fine" (Is. XLVI, 10) è il cranio, intorno al quale si pongono i filatteri. All'interno (la corona) è Jod He Waw He, che è l'ispirazione divina. E ciò che abbevera l'albero, con i suoi rami e le sue fronde, come l'acqua che abbevera l'albero e lo fa crescere grazie a tale irrigazione.

Signore dei mondi, Tu sei l'altezza delle altezze, la causa delle cause, che abbeveri l'albero con la fonte. E quella fonte è come l'anima per il corpo, che costituisce la vita per il corpo. In Te non c e immagine né somiglianza in tutto ciò che esiste all'interno (della corona). Hai creato il cielo e la terra, hai fatto spuntare nel cielo il sole, la luna, le stelle e le costellazioni e nella terra gli alberi, le erbe, il giardino dell'Eden, gli animali, gli uccelli, i pesci e gli uomini. Ciò affinché si rivelassero per mezzo loro i mondi superiori, e fosse conosciuto come si comportano i mondi superiori e quelli inferiori e come si conoscono i mondi superiori e quelli inferiori. Non v'è chi sappia nulla di te, ed all'infuori di Te non esiste unico né unicità nei mondi superiori e in quelli inferiori; Tu sei riconosciuto come Signore di tutto. Quanto alle Sephiroth, ognuna di esse ha un nome conosciuto e con tali nomi sono chiamati gli angeli. Tu invece non hai un nome conosciuto, perché riempi di Te tutti i nomi e ne costituisci la perfezione: quando Ti allontani da loro, tutti i nomi rimangono come corpo senza anima.

Tu sei sapiente e non di sapienza conosciuta, Tu sei intelligente e non di intelligenza conosciuta. Tu non hai un luogo conosciuto, se non per far conoscere la Tua forza ed il Tuo potere agli uomini e per mostrare loro come si guida il mondo con il giudizio (din) e la pietà (rachamim), che sono la giustizia (zedeq) ed il diritto (mishpat), secondo le azioni degli uomini.

Il giudizio (din) è la potenza (gheburà); il diritto (mishpat) è la colonna mediana. La giustizia (zedeq) è il santo regno (malkhut); la bilancia della giustizia sono le due basi della verità; la misura della giustizia è il segno del patto. E tutto ciò per mostrare come si guida il mondo. Ma non si deve intendere che Tu abbia una giustizia (zedeq) conosciuta, che è il giudizio (din), o un diritto (mishpat) conosciuto che è la misericordia (rachamim). E parimenti per tutti gli altri attributi.

 

 

(III, 257b - 258a,

Ra’yà Mehemnà "Il fedele pastore")

Bisogna sapere che egli è chiamato saggio in ogni tipo di saggezza, intelligente in ogni tipo di intelligenza, benefico in ogni tipo di beneficio, consigliere in ogni tipo di consiglio, giusto in ogni tipo di giustizia e re in ogni tipo di regno, fino all'infinito (En Soph) ed all'imperscrutabile (En Cheqer). Ed in tutti questi attributi, in uno è chiamato "pietoso" in un altro "giudice", e così per tanti attributi fino a En Soph.

E se Tu dicessi: Allora c'è differenza tra "pietoso" e "giudice"?

C'è da dire che ancor prima di creare il mondo egli è stato chiamato con tutti quegli attributi a causa delle creature che erano destinate ad essere create. Perché, se non per quelle creature che sono nel mondo, sarebbe chiamato "pietoso" e "giudice"? Sì, soltanto a causa delle creature destinate ad essere create. Perciò tutti i suoi nomi sono appellativi fissati sulla base delle sue azioni. Per esempio egli ha creato a sua somiglianza l'anima, così definita sulla base della sua attività sulle singole membra del corpo, che è chiamato piccolo mondo ('olam qatan). Come il Signore del mondo si comporta con tutte le sue creature e con ogni generazione secondo le loro azioni, così l'anima si comporta secondo le azioni delle singole membra. In quella parte del corpo, con cui l'uomo realizza un precetto divino (mizwà), l'anima prende il nome di misericordia, beneficio, grazia e pietà. Invece in quella parte del corpo, con cui l'uomo commette una trasgressione, l'anima prende il nome di giudizio, ira e furore.

Ma al di fuori del corpo, a chi sarebbe applicata la pietà o la crudeltà?

Così pure il Signore del mondo, prima che creasse il mondo e creasse le sue creature, rispetto a chi avrebbe potuto essere chiamato misericordioso, pietoso o giudice? Ma tutti i suoi nomi sono degli appellativi, con cui viene chiamato, soltanto a causa delle creature che sono nel mondo.

E per tale motivo che quando la generazione degli uomini è buona egli è chiamato nei loro confronti JHWH, con l'attributo della misericordia; mentre quando la generazione degli uomini è malvagia, egli è chiamato ADNY, con l'attributo della giustizia, per ogni generazione e per ogni uomo secondo il suo attributo. Ma non si deve intendete che egli abbia un attributo né un nome conosciuto, sull'esempio delle sephiroth, ognuna delle quali ha un nome conosciuto, un attributo, uno spazio ed una collocazione determinata.

In quei nomi il Signore del mondo si diffonde; in essi scorre; in essi viene appellato; in essi si cela; in essi si insedia, come l'anima nelle membra del corpo. E come il Signore dei mondi non ha un nome conosciuto, né una collocazione conosciuta, ma il suo potere è in ogni lato, così pure l'anima non ha un nome conosciuto né una collocazione conosciuta, ma il suo potere è in ogni lato e non c'è parte del corpo che ne sia priva. Perciò non bisogna attribuirla ad un solo luogo, perché se così fosse mancherebbe il suo dominio sulle altre membra. Così non si deve chiamarla con un solo nome, né con due, e neppure con tre, dicendo che essa è sapiente ed intelligente e possiede conoscenza e nulla più; perché, così facendo, la si priva degli altri attributi. Tanto più il Signore del mondo, che non può essere attribuito ad un luogo conosciuto, né essere chiamato con nomi. Quando egli era unico, prima che creasse il mondo, perché avrebbe dovuto essere chiamato con quei nomi o con altri appellativi, come per esempio: "pietoso, misericordioso e longanime, etc." (Esodo XXXIV, 6), giudice, forte, potente e molti altri attributi del genere? Con tutti quei nomi e quegli appellativi egli è chiamato a causa dei mondi e delle creature che sono in essi, per mostrare il suo dominio su di essi.

Così pure per l'anima, a motivo del suo dominio su tutte le membra del corpo, egli l'ha resa simile a lui. Non che essa sia simile a lui nella sostanza, perché mentre egli l'ha creata, non c e una divinità sopra di lui che l'ha creato.

Ed ancora: l'anima è soggetta a taluni mutamenti, accidenti e cause relative ad essa, ciò che non è per il Signore di tutto. Perciò essa è simile a lui, per quanto concerne il suo dominio su tutte le membra del corpo, ma non sotto gli altri aspetti.

 

 

(Zohar Chadash - 55b-d - Tiqquné Zohar)

Egli ha fatto scaturire ogni cosa dallo stato di potenza in atto: egli muta le sue azioni ed in lui non è mutamento. Egli è colui che ordina le sephiroth: nelle sephiroth c'è la grande, la media e la piccola, ognuna di esse sulla base dell'ordinamento da lui operato, mentre in lui non è ordine. Egli ha creato tutto con l'intelligenza (binà) e non c'è chi abbia creato lui. Ha modellato e formato tutto con la gloria (tipheret), mentre egli non ha modello né modellatore.

Egli ha fatto tutto con il regno (malkhut) e non c e chi abbia fatto lui. E poiché egli è all'interno di queste dieci sephiroth, con le quali ha creato, ha modellato ed ha fatto ogni cosa, vi ha posto il nome della sua unità affinché ve lo riconoscessero. Chiunque separa qualsiasi sephirà da un'altra di queste dieci sephiroth, che sono chiamate Jod He Waw He, è come se ponesse una separazione in lui. E lui che unisce la lettera Jod con la He e la Waw con la He, che non vengono chiamate JHWH se non in lui. E così pure per ADNY, per EHYH e per ELHYM. Non appena si allontana da esse, egli non ha un nome conosciuto. E lui che lega tutti i nomi degli angeli, li lega insieme e sorregge i mondi superiori e quelli inferiori. Se egli si allontana da loro, non hanno più mantenimento, né conoscenza, né vita.

Non v'è luogo dove egli non sia: di sopra fino all'infinito (En Soph) e di sotto allo sconfinato. Da ogni parte non esiste divinità all'infuori di lui. Ma, nonostante egli si trovi in ogni luogo, ecco che non ha posto la creazione (beriyà), la formazione (yézirà) e l'azione (’asiyà) né nel trono, né negli angeli, né nel cielo, né nella terra e nel mare, né in qualche creatura del mondo, affinché tutte le creature lo conoscano attraverso le sephiroth.

E non soltanto questo, ma di più, tutte le creature sono state create attraverso le sephiroth, alcune per mezzo della creazione, altre per mezzo della formazione, altre ancora per mezzo dell'azione. Ma nelle sephiroth, nonostante che egli abbia tutto creato, formato e fatto attraverso di loro, non si può parlare di creazione, di formazione e di azione come negli esseri inferiori, se non come mondo dell'ispirazione. Perciò le sephiroth della corona (keter), della sapienza (chokhmà), dell'intelligenza (binà), della conoscenza, che sono nelle altre creature, non assomigliano ad esse, secondo quanto è scritto: "A chi dunque mi assomiglierete, in modo che io sia veramente simile? - dice il Santo" (Is. XL, 25), e secondo l'esempio della Torà, della quale è detto: "E più preziosa delle gemme) e tutto ciò che hai di più caro non la eguaglia" (Prov. III, 15). Egli crea, forma e fa ogni cosa.

Nonostante che egli sia conosciuto dagli uomini attraverso le dieci sephiroth, che sono la corona eccelsa (keter ’eliyon), la sapienza (chokhmà), l'intelligenza (binà), etc. è detto di lui: egli è sapiente, ma non di sapienza conosciuta; è intelligente, ma non di intelligenza conosciuta; è benefico, ma non di beneficio conosciuto; è potente, ma non di potenza conosciuta; è glorioso in ogni luogo, ma non in un luogo conosciuto; è maestoso e magnifico in ogni luogo, ma non in un luogo conosciuto; è giusto, ma non in un luogo conosciuto; è re, ma non di una regalità conosciuta; è uno, ma non rispetto ad un numero, come è invece l'uno che assomma i tredici attributi. Nonostante che egli sia al di fuori di tutto, sorregge i mondi superiori e gli inferiori, e sorregge tutti i mondi fino all'infinito (En Soph) ed allo sconfinato. Ma non esiste chi sorregga lui. Ogni pensiero si sforza di pensarlo, ma nessuno di essi sa raggiungerlo. Perfino Salomone, di cui è detto: "Fra il più saggio tra tutti gli uomini" (1Re, V, 11), cercò di raggiungerlo con il suo pensiero ma non vi riuscì. Perciò disse: "Voglio diventar sapiente; ma la sapienza è lontana da me" (Eccl. VII, 23).

Se egli dà la vita a qualcuno, con l'attributo di JHWH, non esiste chi lo possa uccidere. Se poi egli dà la morte a qualcuno con l'attributo di ADNY, non esiste chi gli possa dar la vita. E queste lettere, nonostante che vi sia in esse la morte e la vita, non derivano in sé la vita e la morte se non da lui. Né derivano la loro vicinanza ed unione se non da lui. Il nome non è chiamato perfetto, se lui non è in esso, né realizza alcuna azione, se lui non è in esso. Anche le forze del male, che costituiscono un altro dominio, sono tutte in suo potere, e di loro è detto: "Tutti gli abitanti della terra sono considerati come nulla dinanzi a lui ed opera a suo piacimento con la schiera celeste" (Deut. IV, 32). Non c'è chi possa opporsi a lui, dicendogli: cosa hai fatto? Egli afferra ogni pensiero, ma non c'è pensiero che possa conoscerlo. Non gli era necessario fissare un'entità limitata, attraverso la quale pensare e conoscere, ma l'ha fissata per le creature, perché il loro pensiero non lo può raggiungere in ogni luogo. Infatti egli possiede dei mondi anche al di sopra delle sephiroth, come i capelli che sono innumerevoli. E proprio perché gli uomini sapessero invocarlo in un luogo determinato, egli ha fissato per loro le sephiroth. Ciò affinché essi lo potessero conoscere tramite loro, che sono collegate con i mondi superiori e quelli inferiori. Egli ha creato per mezzo delle sephiroth tutte le creature, affinché potessero conoscerlo attraverso di esse.



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