I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 15 Giugno 2005 00:11

4) Chiesa e iniziazione cristiana

5. LA COMUNITA' IN CAMMINO
VERSO IL REGNO
don Marino Qualizza


4. Chiesa ed iniziazione cristiana

Con il termine ‘iniziazione’ si indica il passaggio da una condizione di vita ad un’altra, in genere mediante una cerimonia, un rito che mette in evidenza il significato del passaggio stesso. L’ accento non è posto tanto sull’inizio cronologico, quanto invece sul cambiamento che lo caratterizza. In tal senso si esprime anche il Vangelo, soprattutto nella formula classica di Marco: «Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è giunto a voi, convertitevi e credete al Vangelo» (1,15). Per i cristiani questo cambiamento radicale, questa conversione viene compiuta in tre sacramenti fondamentali. A tal proposito così si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, il Battesimo, la Confermazione e l’Eucaristia, sono posti i fondamenti di ogni vita cristiana. "La partecipazione alla natura divina, che gli uomini ricevono in dono mediante la grazia di Cristo, rivela una certa analogia con l’origine, lo sviluppo e l’accrescimento della vita naturale. Difatti i fedeli, rinati nel santo Battesimo, sono corroborati dal sacramento della Confermazione e, quindi, sono nutriti con il cibo della vita eterna nell’Eucaristia, sicché, per effetto di questi sacramenti dell’iniziazione cristiana, sono in grado di gustare sempre più e sempre meglio i tesori della vita divina e progredire fino al raggiungimento della perfezione della carità"» (1212).

La seconda frase del testo citato è di Paolo VI e si trova nella Costituzione Apostolica del 1971 con la quale si riformava il rito della iniziazione cristiana degli adulti.

 

4.a. Necessario riferimento alla Chiesa

E’ singolare che nella presentazione dell’iniziazione non si faccia esplicito riferimento alla Chiesa, che è il soggetto celebrante di questo passaggio e nello stesso tempo anche la comunità ricevente. Se ne parla evidentemente in altri contesti, ma parlando della iniziazione, l’attenzione è così catturata dall’inserimento in Cristo, che si corre il rischio di dimenticare che comunque esso avviene, sempre, nella mediazione della Chiesa. Di questa vogliamo parlare in modo esplicito, perché non si abbia coscienza che i sacramenti stessi sono celebrati dalla Chiesa, come servizio a Cristo. Si è ricordato quando sono stati presentati i sacramenti, che la Chiesa si pone come sacramento generale della salvezza; in essa i sacramenti ricevono identità e significato, in quanto sono l’azione con la quale la Chiesa realizza se stessa ed il suo compito di salvezza, perché strettamente unita a Cristo, di cui è corpo in senso mistico.

Ne conseguono due cose. L’iniziazione cristiana è inserimento in Cristo e nella Chiesa, contemporaneamente. Ed è quindi partecipazione dell’opera salvifica di Cristo affidata alla Chiesa. Perciò è da registrare su questo punto un’altra annotazione. Fino a tempi recentissimi, come è già stato ricordato, l’attenzione prevalente della teologia e anche della prassi sacramentale era rivolta alla salvezza dell’individuo. Cosa che non bisogna ovviamente dimenticare. Ma, magari con una certa esagerazione, per una salvezza individuale e forse individualistica, non c’è bisogno della Chiesa. Ognuno fa per sé e si riconcilia con il Dio della sua coscienza. Basta un annuncio ed una buona disposizione. È questo il pericolo recondito della Riforma protestante. Si costruisce una fede ed una religione a misura di individuo. Per fortuna le cose sono andate in modo diverso.

 

 

4.b. Oltre ogni individualismo

Ed allora bisogna ricuperare la dimensione ecclesiale della iniziazione, che è quanto dire, ritrovare la sua dimensione cristologica. Nessuno è battezzato per inseguire una salvezza privata, per una grazia che deve tenere per sé solo. Tutti sono battezzati per continuare l’opera salvifica di Cristo nella Chiesa. È questo anche il significato profondo della prudenza pastorale da avere nell’ammettere al battesimo e infanti e adulti. Ne va della credibilità della Chiesa in ordine alla sua missione. In essa e mediante essa si ottiene sicuramente quella salvezza e quella grazia che è all’origine della conversione ed anche all’origine della missione. I due estremi si toccano, perché fanno parte della stessa realtà.

Ciò è tanto più evidente nel sacramento della Confermazione. Dice il CCC:«Rende più perfetto il nostro legame con la Chiesa. Ci accorda una speciale forza dello Spirito Santo per diffondere e difendere con la parola e con l’azione la fede, come veri testimoni di Cristo, per confessare coraggiosamente il nome di Cristo e per non vergognarsi mai della sua croce» (1303).

Forse si poteva precisare di più in che cosa consista questo legame più perfetto con la Chiesa, per non lasciare le cose in eccessiva vaghezza. In particolare si poteva evidenziare l’attiva partecipazione del credente alla vita della Chiesa, nella quale assume dei ruoli e dei compiti precisi. Così anche la testimonianza cristiana, nel ricupero della dimensione profetica, poteva essere espressa più esplicitamente come profezia che si vive all’interno ed all’esterno della Chiesa. Comunque gli accenni essenziali ci sono, basta svilupparli ulteriormente.

 

 

4.c. Nella pienezza dell’Eucaristia

Trattando del sacramento dell’Eucaristia, il CCC conclude anche il discorso sulla iniziazione cristiana. «La santa Eucaristia completa l’iniziazione cristiana. Coloro che sono stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del Battesimo e sono stati conformati più profondamente a Cristo mediante la Confermazione, attraverso l’Eucaristia partecipano con tutta la comunità allo stesso sacrificio del Signore» (1322). Il punto di arrivo della conversione cristiana, di questo passaggio ideale del Mar Rosso, dalla schiavitù alla libertà, trova il suo vertice nella celebrazione eucaristica, punto di convergenza di tutta la vita cristiana e della comunità che la celebra.

Il popolo di credenti che è nato dal Battesimo si ritrova e si conosce nella celebrazione dell’Eucaristia. Essa contiene in sé molte cose e riserva una ricchezza che viene riversata un po’ alla volta. Ma delle tante cose importanti che si devono e si possono dire sull’Eucaristia, almeno in questo contesto, non si può tacere il fatto che solo nella celebrazione eucaristica il popolo di Dio si riconosce per quel che è e per quel che è chiamato a fare. Nell’Eucaristia il popolo cristiano sente di essere convocato per vivere una vita, che diventa per se stessa annuncio di Cristo, ed anche progetto di vita. L’attenzione pressoché unilaterale che nel passato si è data alla dimensione cultuale, vera ed autentica, ha però offuscato notevolmente l’altro aspetto, forse più rilevante dell’Eucaristia: il segno sacramentale di una salvezza ‘compiuta’, perché affidata ad un popolo testimone della Nuova Alleanza.

L’Eucaristia, allora, ben oltre gli aspetti strettamente liturgici, per non dire cerimoniali, che vanno ovviamente rispettati, si presenta come l’essere e l’agire ‘politico’ della Chiesa. Con ciò intendiamo la presenza della Chiesa nel mondo come soggetto originale, la sua azione nella città – polis – degli uomini, in vista dei beni definitivi, anche se nella mediazione dei beni intermedi. Puntare in questa direzione, cioè trovare ispirazione ‘civile’ nell’Eucaristia, aiuta senz’altro ad evitare quei corti circuiti nei quali spesso la Chiesa si è scottata nel corso dei secoli.



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Martedì, 14 Giugno 2005 23:42

Maria nel pensiero di Lutero (Carlo Collo)

Maria nel pensiero di Lutero
di Carlo Collo


 

Lutero ha dato l’avvio a tutto il pensiero protestante e in lui si ritrovano già in germe tutti gli sviluppi successivi. A questa personalità vulcanica e multiforme si possono appellare tanto le drastiche riduzioni della figura di Maria quanto le recenti riscoperte in campo evangelico del posto di lei nel piano della salvezza.

Due scritti di Lutero trattano esplicitamente il tema mariologico. Il Commento al Magnificat del 1521* e il Commento all’Ave Maria, scritto l’anno successivo e inserito nel Bettbüchlein, libretto di preghiere, con lo scopo di insegnare ai semplici fedeli l’uso evangelico dell’Ave Maria. Il primo testo – al quale ci limitiamo in questa nota – manifesta nel modo più chiaro e completo la posizione di Lutero riguardo Maria.

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La maternità divina di Maria, un elemento dottrinale comune acquisito dalla coscienza cristiana, trova nel riformatore un fermo difensore non soltanto negli anni giovanili, ancora influenzati dalla formazione cattolica, ma anche in quelli della sua più decisa azione riformistica. Il titolo di amabile e tenera Madre di Dio è frequente. Nel solo commento al Magnificat ricorre più di venticinque volte, senza contare le perifrasi e l’equivalente madre di Cristo.

Con questo titolo Lutero intende operare un ricentramento cristologico e teologico: ricondurre la fede a Cristo e attraverso di lui all’esclusiva azione salvifica di Sio.

Gesù, pur essendo vero uomo, non è un uomo qualunque. Se fosse soltanto uomo non potrebbe salvarci. È la salvezza stessa, la salvezza in persona, è Dio.

D’altro lato Gesù Cristo non è solamente Dio ma Dio nella carne dell’uomo, il Verbo Incarnato.

Ora, se Cristo è concretamente Dio nella carne umana, e come tale, in tutta la sua interezza e non come semplice uomo, è figlio di Maria, Maria è Madre di Dio.

Il titolo di Madre di dio è quindi destinato a manifestare la divinità di Cristo e a testimoniare l’opera di Dio in Maria.

"Le grandi cose non sono altro che questo, ch’essa è diventata Madre di Dio; in tale opera le sono dati tanti e sì grandi beni che nessuno li può comprendere. Poiché da ciò le viene ogni onere, ogni beatitudine e, in ogni generazione umana, la sua singolare posizione sopra di tutti, perché nessuno come lei ha avuto dal Padre celeste un bambino e un simile bambino. Ed essa stessa non gli può dare un nome per l’immensa grandezza, e non può fare altro che traboccare d’amore, poiché sono cose grandi che non si possono esprimere né misurare. Perciò con una parola, chiamandola Madre di Dio, si è compreso tutto il uo onore; nessuno può dire di lei e a lei cosa più grande anche se avesse tutte le lingue quante sono le foglie e l’erba, le stelle in cielo e la sabbia del mare. Anche il cuore deve riflettere che cosa significhi essere Madre di Dio" (Commento al Magnificat).

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All’argomento della Verginità di Maria, dedicò una costante attenzione per tutto l’arco della sua vita. Il titolo è senza dubbio il più ricorrente. Le affermazioni sulla verginità di Maria sono innumerevoli (WA 10/I, 1,93). E sull’autenticità evangelica della miracolosa verginità egli non nutre alcun dubbio.

"Noi dobbiamo stare al vangelo, che dice che lo partorì, e all’articolo del Credo, col quale diciamo: "il quale è nato dalla Vergine Maria". Non vi è qui alcuna illusione, ma, come suonano le parole, una vera nascita... Perciò il suo corpo ha compiuto le funzioni naturali che appartengono alla nascita; salvo che ha partorito senza peccato, senza obbrobrio, senza dolore e senza danno, come aveva concepito senza peccato. La maledizione di Eva: "Nel dolore partorirai i tuoi figli", non si è estesa a lei; ma in tutto il resto è accaduto a lei come ad una donna che partorisce... Nessuna immagine di donna dà all’uomo pensieri così puri, come questa Vergine, e reciprocamente, nessuna figura d’uomo, ad una donna, come questo fanciullo. Soltanto verecondia e purità si sprigiona, purché consideriamo in essa l’opera divina".

Dalle precedenti citazioni si arguisce che la verginità di Maria trova la sua ragion d’essere nella maternità divina di Maria.

Lutero professa la verginità perenne di Maria come dimostra un testo in cui egli respinge le insinuazioni di certi suoi avversari:

"Una nuova menzogna è stata propalata su di me: io dovrei aver predicato e scritto che Maria, la madre di dio, non sarebbe stata vergine né prima né dopo il parto, ma avrebbe avuto il cristo da Giuseppe e dopo di lui numerosi figli... Ma si tratta di una menzogna così povera e miserabile che io non la degno di risposta" (WA 11,314).

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Lutero riconosce in Maria un perfetto modello di vita cristiana; in particolare concentra la sua attenzione su tre caratteristiche della sua personalità: la fede, l’umiltà e la purezza.

Egli è sorpreso e affascinato dal comportamento così semplice e fresco di Maria. La sua fede non è sostenuta dalle fallaci sicurezze della ragione. Se Maria avesse giudicato secondo ragione, avrebbe stimato parola del diavolo e non di Dio quella che l’angelo le aveva rivolto (WA 15,478).

La fede di Maria costituisce la massima espressione del credere (WA 9,517) ed è più grande e solida di quella di Pietro (WA 2,432). Attraverso la fede di Maria è diventata madre di Cristo.

" La B. Vergine non avrebbe mai concepito il Figlio di Dio, se non avesse creduto all’angelo annunziatore, così da dire fiat mihi secundum verbum tuum, come dichiara Elisabetta: Beata tu che hai creduto che si sarebbero avverate in te le cose che ti sono state dette dal Signore, perciò la sua fede ha suscitato l’ammirazione di Bernardo e di tutta la Chiesa" (WA 2,15).

In riferimento alle nozze di Cana, Lutero esclama: "guardate come essa agisce e ci ammaestra" (WA 17/II, 66). Non parlando di fede ma vivendola Maria la insegna con il suo esempio, una fede serena, forte e sincera che tocca la sostanza stessa: la potenza di Dio, la sua grazia, la sua volontà di salvezza. Lutero intende la virtù dell’umanità (Demut) alla luce del verbo humiliare, cioè abbassare e annientare e traduce humulitas con nullità, nientezza.

"Questo è il pensiero di Maria: Dio ha riguardato a me ancella povera, disprezzata, meschina, mentre avrebbe ben trovato regine ricche, nobili, potenti, figliole di principi e di grandi signori... invece ha posato su di me il suo sguardo di pura bontà e si è ervito di una povera, disprezzata fanciulla, affinché nessuno al suo cospetto si vantasse di essere stato o di essere degno di tale onore... Ella non si è vantata né della sua verginità né della sua umiltà, ma soltanto dello sguardo divino pieno di grazia. Perciò l’accento non viene posto sulla parola "humilitatem" ma sulla parola "respexit". Infatti non va lodata la sua nullità (nichtickeyt) ma lo sguardo di Dio" (Magnificat).

Nemmeno la certezza della divina maternità trattiene la Madre di Dio dal sottoporsi ai rigori della stagione per prestare un umile servizio all’anziana Elisabetta (WA 41,358). È uno specchio dell’umile sentire di sé che caratterizza il vero seguace di Cristo.

Un aspetto della purezza di Maria consiste nella lode di Dio per i beni che ha compiuto in lei e negli altri.

"Dopo che dunque la madre di Dio ha lodato con spirito semplice e puro il suo Dio e Salvatore senza diventare presuntuosa a causa dei suoi beni, ma cantando la bontà di colui come si conviene, ella passa secondo un giusto ordine, a lodare le sue opere e i suoi beni... Un altro insegnamento ci dà qui Maria. Ognuno deve essere il primo a voler lodare Iddio e a mettere in evidenza le opere che egli ha compiute in lui e poi deve lodare Dio anche per le opere che ha compiute in altri".

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Lutero riconosce la maternità spirituale di Maria, madre dei cristiani.

"Vedi, Cristo ci toglie e prende per sé la nostra nascita, e ci dona la sua, affinché in essa diventiamo nuovi e puri, come se fosse la nostra propria, e ogni cristiano possa rallegrarsi di questa nascita di Cristo, non meno che se anch’egli, come Cristo, fosse nato dalla Vergine Maria. Chi non crede questo, o ne dubita, non è cristiano. Oh, questa è la grande allegrezza, di cui parla l’angelo. Questa è la consolazione e la traboccante bontà di Dio: che l’uomo (in quanto crede) possa gloriarsi di un bene così prezioso, che Maria sia la sua vera madre, Cristo il suo fratello, Dio il suo padre... bada ad appropriarti (con la fede) la sua nascita, a fare il cambio con lui, in modo da liberarti della tua nascita e da ricevere la sua. Questo accade, se credi così; tu siedi allora veramente in grembo alla Vergine Maria, e sei il suo caro fanciullo" (WA 10/I, 72).

"Anche se egli solo (Cristo) fu nel suo seno, Maria è veramente madre di lui e di tutti noi... se egli è nostro, noi dobbiamo essere al posto suo; dov’è lui là siamo anche noi; ciò ch’egli ha, deve appartenere anche a noi; la sua madre, perciò è anche nostra" (WA 29,655).

In Maria trafitta dalla spada del dolore (morte di Giuseppe e crocifissione di Cristo) è rappresentato il destino di sofferenza e di gloria della chiesa (WA 10/I, 1,405-6). Essa rappresenta il popolo di Dio che si sostituisce alla Sinagoga (WA 11, 144. 616) in quanto accetta la Parola di Dio ed è fedele ad essa (W 37, 187-288). Maria è la Chiesa cristiana, Giuseppe è il servo della Chiesa, come dovrebbero esserlo i vescovi e i parroci se predicassero il Vangelo.

Sul vero modo di onorare la madre di Dio Lutero ritorna più volte soprattutto nel commento al Magnificat.

"... Così possiamo imparare quale sia il vero onore che le si deve tributare e mediante il quale la si deve servire... O beata Vergine e Madre di Dio, come sei stata misera e disprezzata, eppure Dio ha riguardato a te con tante ricchezza della sua grazia, e grandi cose ha operato in te; tu non sei stata degna di alcuna di esse, e al di sopra di ogni tuo merito è stata ricca, sovrabbondante la grazia di Dio in te. Oh salve! Da ora in terno beata sei tu che hai trovato un tale Dio!...

Pensi forse che la puoi incontrare meglio che quando vieni a Dio per mezzo di lei e impari da lei a confidare e a sperare in Dio, anche se vieni disprezzato e annientato in vita e in morte? Essa non vuole che tu venga a lei, ma per mezzo di lei a Dio. Ma ora vi sono certuni che cercano in lei come in un Dio aiuto e consolazione, tanto che io temo che oggi vi sia al mondo più idolatria che mai".

È evidente la preoccupazione di Lutero che chi onora Maria non si fermi alla sua persona ma giunga a Gesù Cristo. Nelle espressioni sembra ammettere che si "venga a Dio per mezzo di lei".

CARLO COLLO, Maria nel pensiero di Lutero, in Aa. Vv., Spiritualità mariana, Ed. S. Massimo, Torino 1989, pp. 97-137.

* MARTIN LUTERO, Il Magnificat tradotto in tedesco e commentato, in Id., Scritti religiosi, a cura di VALDO VINAY in collaborazione con GIOVANNI MIEGGE, Ed. Laterza, Bari 1958, pp. 189-280.

Martedì, 14 Giugno 2005 23:32

11 settembre 2001 (Faustino Ferrari)

I grandi imperi sono come le torri, come le antiche mura di una città o di un limen che fu eretto per sbarrare l'avanzare di nemici. Che durino millenni o anche solo il volgere di pochi grappoli di anni...

Quando la violenza
comincia dalla teologia
di Carlo Molari




C'è un modo di insegnare religione che rende difficile o impedisce l'educazione alla pace. Non mi riferisco tanto agli insegnamenti morali, relativi ad es. alla guerra giusta o all'uccisione del tiranno (dottrine che devono essere certamente riviste), ma alle concezioni più generali che riguardano la funzione del cristianesimo nella storia, la missione della chiesa e la stessa concezione di Dio.
Tutta la teologia cattolica e quindi anche l'insegnamento della religione può ancora essere percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. Spesso perciò con l'insegnamento della religione noi contribuiamo all'educazione di uomini violenti pur difendendo ideali di pace e proclamando il vangelo della fratellanza universale. È necessario rendersi conto di queste dinamiche per evitare ogni contraddizione che risulterebbe deleteria.
La pace è prima di tutto un processo culturale che richiede la revisione radicale dei modelli interpretativi e degli atteggiamenti spirituali che nel passato, spesso inconsapevolmente, hanno suscitato movimenti violenti. Vorrei portare alcuni esempi di insegnamenti correnti della teologia che contrastano con una educazione alla pace.


1. Concezione di Dio.

C'è molto infantilismo e antropomorfismo in formule relative a Dio usate abitualmente, ma soprattutto esse spesso rendono difficile una vera educazione alla pace.
Il Dio onnipotente, il Dio degli eserciti, il Dio che sconfigge i nemici, che ci può far prevalere su gli altri è un Dio violento e guerriero. Questa immagine di Dio riflette esperienze e culture di altri secoli, ma ha lasciato traccia in molte espressioni popolari.
Il Dio salvatore che il vangelo ci presenta non è colui che ci fa vincere, che è più forte dei nemici, ma colui che ci concede di vivere tutte le situazioni, anche la morte, in modo salvifico. È il Dio che anche quando siamo sconfitti ci offre di poter amare e perdonare.
Il Dio rivelato da Cristo è il Dio della pace e della fraternità, il Dio della resurrezione non della vittoria.

2. Teologia della forza fisica.

La forza fisica nella fase infantile e adolescenziale costituisce un ideale assoluto. È la reazione alla condizione di debolezza in cui l'uomo nasce. Per questo nella fase infantile dell'umanità la forza fisica venne sacralizzata: fu spesso considerata come espressione della benevolenza divina, comunicazione della energia della Natura, partecipazione della forza cosmica.
Una teologia della potenza o della forza fisica si esprimeva nella esaltazione degli eroi come incarnazione di Dio, nei miti della vittoria in guerra come decisione degli Dei ed espressione dei loro favori nel cosiddetto giudizio di Dio, secondo il quale chi superava una prova era dalla parte della giustizia.
La debolezza fisica, la malattia o la sconfitta in guerra venivano considerate come conseguenze dei peccati che avevano irritato Dio.
Questo modo di interpretare l'esistenza e la storia non è più corrente ma rimangono residui notevoli di questa fase culturale in espressioni, preghiere, formule di fede tradizionali.

3. Stato originale.

Anche nei racconto delle origini esistono elementi che possono favorire la violenza e la discriminazione. In primo luogo occorre superare la convinzione che la violenza del mondo sia esclusivamente la conseguenza del peccato. C'è una violenza legata alla stessa condizione imperfetta di creatura e alla necessità di crescita personale.
La concezione idilliaca della natura primitiva o dell'uomo uscito perfetto dalle mani di Dio è un mito da intendersi come simbolo della chiamata divina ad un futuro diverso, non come descrizione di una condizione del passato.
La pace non è mai esistita: è una vocazione per il futuro dell'uomo. Il progetto di pace che avvertiamo urgente non è un ritorno a forme primordiali di esistenza umana, ma è una novità assoluta che ci è affidata come sfida dalla storia.

4. Azione di Dio nella storia.


Molte di queste formule inadeguate dipendono da un errato concetto dell'azione di Dio. Ci sono diversi modelli con cui viene abitualmente interpretata l'azione di Dio nella creazione e nella storia.
C'è chi pensa a Dio secondo categorie magiche, come se la sua energia sia concentrata in parole, cose o persone particolari. C'è chi pensa a Dio come una creatura potentissima che può intervenire nella creazione e modificare le cose sostituirsi ad esse, introdurre energie nuove. Egli agirebbe come un buon artigiano che modifica gli oggetti sbagliati o come una madre che sorregge il figlio quando sta per cadere. Questi modi di pensare all'azione di Dio sono molto imperfetti e peccano di antropomorfismo: proiettano cioè in Dio atteggiamenti umani.
La teologia in questi ultimi decenni ha purificato i modelli per esprimere l'azione di Dio. Lo stimolo le è venuto dal confronto con le scienze della natura e in particolare con le ipotesi evoluzioniste.
Già il domenicano A. D. Sertillanges (1863-1948) lungo tutta la sua vita aveva messo a punto un concetto di creazione purificato da tutte le sovrastrutture predicamentali (1). Egli giustificava coerentemente l'affermazione di S. Tommaso: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio» (2).
Anche Teilhard de Chardin (1881-1955) dagli anni successivi alla prima guerra mondiale fino alla sua morte ha riflettuto spesso sulle categorie scolastiche dell'azione di Dio nel mondo, per pervenire a formule che potessero esprimere in modo adeguato le conquiste della scienza o le diverse teorie scientifiche. A proposito della creazione scriveva: «La creazione così compresa non è una intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo a tutta la durata dell'universo» (3). «Là dove Dio opera, a noi è sempre possibile (restando a un certo livello) di non cogliere se non l'opera della natura... La causa prima non si mescola agli effetti: egli opera sulle nature individuali e sul movimento d'insieme. Dio propriamente parlando non fa: egli fa che le cose si facciano» (4).
La stessa affermazione viene fatta più tardi da K. Rahner (1904-1984) in un medesimo contesto culturale: «Sembra che dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare, appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde... (altrimenti) ... l'agire divino viene a collocarsi nel mondo accanto a quello delle creature, invece di essere il fondamento trascendente di tutto l'agire delle creature» (5). Dio, perciò «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire» (6).
Utilizzando questo concetto di azione Dio appaiono in una luce diversa la preghiera dell'uomo, il valore della sua azione per la pace e l'influsso negativo della sua aggressività.
Pregare per la pace non serve per far intervenire Dio al nostro posto, ma per farci assumere atteggiamenti che ci consentano di realizzare la sua volontà. La preghiera non serve per far cambiare l'opinione di Dio nei nostri confronti o per farlo agire diversamente ma per modificare il cuore degli uomini.
Il futuro dell'uomo non cade dal cielo, non è un'irruzione improvvisa per un intervento di Dio, ma è la costruzione donata all'uomo dalla sua misericordia lungo tutta la storia.
D'altra parte il futuro, per il credente, non è semplice sviluppo del già dato ma è l'avvento di un presente non ancora accolto, di un Bene non amato, di una Verità non ancora conosciuta, di un Vita non ancora tradotta in umanità. Per questo è assolutamente necessario un atteggiamento di accoglienza che la preghiera rende possibile e sviluppa.
Non si richiede che l'uomo pregando ottenga una azione di Dio, ma che diventi capace di una fedeltà alla vita che conduce alla pace. La pace di Dio non può entrare nella storia degli uomini se questi non compiono scelte di pace.

5. Natura e soprannatura.

Anche la dottrina relativa all'ordine soprannaturale si è spesso prestata a concezioni discriminatorie. Si pensava che solo i cristiani, anzi solo coloro che erano in grazia potevano operare il bene e costruire il regno di Dio. Le altre azioni, anche se buone, erano prive di quelle carica vitale che veniva solamente dall'inserimento nell'ordine della grazia. Ciò conduceva al disprezzo di tutte le altre forme di religione, che spesso venivano anzi considerate frutto dell'azione demoniaca nella storia.
Il problema che alla teologia medioevale e alla teologia scolastica veniva posto dall'uso della categoria aristotelica di «natura», ora è praticamente scomparso. Non vi è alcuna necessità di parlare di due chiamate e di due fini proposti all'uomo: uno naturale ed uno soprannaturale. Non vi è alcun bisogno di ricorrere ad un ordine «superiore» per spiegare le azioni che consentono all'uomo di pervenire alla pienezza di vita.
Utilizzando la prospettiva dinamica (l'uomo diventa), storica (attraverso gli eventi) e sociale (nell'intreccio dei rapporti) non è difficile liberarsi da queste contrapposizioni.
L'azione di Dio fin dall'inizio ha una intenzionalità eterna ed una carica vitale trascendente. La creatura, tuttavia, non è in grado di cogliere tale offerta se non progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi.
Per questo la storia di ogni persona come la storia umana registra una progressione di offerte divine fino ad una pienezza alla quale ogni uomo è chiamato.
Ciò non significa che la storia svolgendosi possa pervenire alla sua pienezza. Il passato infatti, non contiene i principi sufficienti per il futuro. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio diventa più ricca perché può essere accolta in modo sempre più perfetto. La stessa capacità di accoglienza è dono, frutto cioè dell'azione gratuita di Dio che sollecita la libertà e offre capacità di risposta.
Ma in questa avventura storica tutti gli uomini sì ritrovano fratelli e tutti i popoli contribuiscono con l'apporto della loro storia alla realizzazione di un'unica comunità umana.
Le differenze che esistono tra i vari popoli caratterizzano i diversi doni che essi devono offrire alla realizzazione dell'unità umana.

6. Rivelazione e segni dei tempi.

Anche la dottrina della rivelazione non deve essere presentata in modo esclusivo e discriminante. La rivelazione storica è unica e riguarda l'umanità intera. Certo, i profeti nelle diverse culture hanno avuto funzioni non identiche ed i loro apporti hanno segnato in modo differenziato la storia umana. Ma non si deve limitare l'ambito della rivelazione a un popolo solo, se essa è cominciata con la creazione ed ha avuto come spazio la storia umana (ricorda Gen 1-11).
Se la rivelazione, come chiarisce la Dei Verbum (n. 2), è una serie di eventi accompagnati da parole, non vi possono essere esclusioni di sorta nel possesso della rivelazione e nella sua interpretazione. La storia umana, infatti, è fatta da tutti, è aperta a tutti e la sua interpretazione dipende dagli sviluppi che la storia avrà nel futuro.
Per questo il concilio ha insistito sulla necessità di leggere i segni dei tempi (Gaudium et Spes 4), di ascoltare il linguaggio di tutti gli uomini e di ricorrere agli esperti del mondo «siano essi credenti che non credenti» per capire la verità rivelata ed approfondirla (cf GS 44). Non si tratta di attendere eventi speciali, che esprimano un'azione straordinaria di Dio o una sua nuova rivelazione. Tutti gli eventi storici, vissuti in fedeltà alle leggi della vita, contengono elementi che possono chiarire la rivelazione perché sono il tentativo che la vita fa per manifestarsi e quindi per tradurre in espressioni concrete le sue virtualità profonde.
Avvertire i segni dei tempi significa appunto cogliere «i segni della presenza è del disegno di Dio» (GS 11) negli eventi della storia. Ma siccome l'azione di Dio è trascendente e non «predicamentale», gli eventi debbono essere letti secondo le loro leggi intrinseche, secondo quindi i dati della scienza. Solo a questa condizione è possibile scorgere alla luce dell'esperienza di fede, le tensioni salvifiche che essi contengono. Se si scavalca la realtà per imporre un'interpretazione che si presume essere di fede, di fatto non si farà altro che imporre agli eventi la lettura che la comunità cristiana ha dato nel passato.
Leggere quindi i segni dei tempi significa cogliere il messaggio che tutti gli eventi della storia, interpretati secondo le loro dinamiche interne, contengono e manifestano a coloro che hanno gli occhi aperti dalla fede.

7. Storia e regno.


Allo stesso modo deve essere chiarito il rapporto tra impegno storico e realizzazione del regno di Dio. La costruzione del regno non è esclusiva di un popolo, ma richiede il contributo di tutti. Dio non può manifestare la sua misericordia e il suo amore nella storia se non quando essi diventano gesti di creatura. Costruire il regno perciò non significa sostituirsi a Dio o avere capacità autonome di vita eterna. Ma significa aprirsi completamente all'azione dello Spirito così da consentirgli di tradurre in forme umane l'amore misericordioso del Padre secondo le indicazioni che Cristo ci ha lasciato.
Le dimensioni eterne dell'esistenza umana non possono essere costruite dall'uomo. Ma neppure possono essere accolte improvvisamente alla fine della vita. L'uomo può solo accoglierle progressivamente attraverso i numerosi eventi storici che la misericordia di Dio gli consente di vivere e nell'intreccio dei rapporti che gli è possibile realizzare.
Nessun popolo perciò può presumere di potere costruire il regno, ma neppure può abbandonarsi a forme di passiva attesa, dato che la vita eterna gli è offerta ogni giorno attraverso la molteplicità dei rapporti che egli vive, e gli avvenimenti piccoli o grandi del suo percorso nella storia. Chi trascura queste offerte quotidiane, non potrà mai accogliere il dono definitivo del Padre, o il compimento della sua perfezione. Non si dà infatti compimento che di un'opera progressivamente maturata fino alla pienezza.
Se si è convinti che la pace si costruisce nella storia con esigenze sempre nuove, è urgente un ampio processo di conversione. Occorre cominciare dai bambini piccoli, e dagli adolescenti. Occorre presentare le guerre come gli errori umani più gravi. Occorre demitizzare gli eroi violenti (Cesare, Napoleone, Garibaldi), occorre allargare l'orizzonte delle conoscenze a tutti gli ambiti della storia umana, come l'unico tentativo dell'umanità di pervenire tra errori e barbarie ad una forma unitaria di esistenza.
La fraternità umana oggi passa attraverso l'abbattimento dei muri divisori che la presunzione dei popoli ha creato fra gli uni e gli altri. Anche la chiesa deve essere testimone di questa conversione che l'intera umanità sente l'urgenza di operare.

8. Qualità della pace.

La pace non deve essere perciò richiesta come urgenza per i disastri che potrebbe provocare una guerra atomica, ma come salto qualitativo dell'esistenza umana, come la dimensione spirituale delle attuali strutture di comunicazione, di industria, di commercio.
La sconfitta della violenza passa attraverso cambiamenti molto più radicali che la semplice distruzione delle armi. È un atteggiamento nuovo dello spirito: l'incontro fraterno con gli altri, l'uso maturo della sessualità, la considerazione sincera degli anziani, la vicinanza premurosa agli ammalati, la solidarietà con gli emarginati, la condivisione con i più poveri.

9. Conclusione.

Per il cammino futuro della pace è necessaria una presentazione della religione e dei contenuti della fede in Dio, purificata da tutti gli elementi di violenza e di assolutismo che spesso le sono collegati.
In particolare è necessario evitare ogni dualismo e contrapposizione: azione di Dio-azione dell'uomo, grazia-natura, storia-regno.
Così è necessario evitare l'assolutismo della religione e le rivendicazioni di superiorità nei confronti degli altri.
Dio è uno solo, e la forza della vita è consegnata a tutti. Ogni religione deve liberarsi dalla presunzione di essere la risposta unica e definitiva di Dio agli uomini.
Ciò richiede da parte degli insegnanti una particolare sensibilità nella presentazione della dottrina relativa:
- alla rivelazione
- alla salvezza
- alla grazia
- all'azione di Dio nella storia.
L'insegnamento religioso del passato non è sufficiente alla attuale richiesta di pace. Esso riflette una teologia percorsa da dinamiche violente e discriminatorie. L'educazione alla pace non può essere costruita senza il rinnovamento dell'intero insegnamento della religione.


1. A. D. Sertillange, L'idée de création et ses retentissements en philosophie, Aubier, Paris 1945.
2. Il Contra Gentiles, c. 18
3. P. Teilhard de Chardin, La transformation créatrice, in Comment je crois, Seuil, Paris 1969, p 31.
4. Id., Note sur les modes de l'action divine dans l'univers, in ib. p. 38. Cf un'affermazione analoga in Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, in «Etudes», 5-12 juin 1921, ora in La vision du passé, Seuil, Paris 1957, p. 39.
5. K. Rahner, Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p. 96.
6. Id., ib., p. 99.


(da Religione e scuola, XIII (1984), n. 6, pp. 271-275).

La comunicazione dello Spirito
di Giovanni Vannucci




Comunicando ai discepoli lo Spirito Santo, il nuovo respiro, Gesù li rendeva uomini della coscienza nuova che con lui era nata. Un nuovo sangue nasceva in loro, una nuova mente, un nuovo cuore.

Lo Spirito Santo chi è, dove lo troviamo, come identificarlo? L'evangelista Giovanni lo designa col nome di Consolatore, per il fatto che una sua prima illuminazione alla mente rivela l'inutilità di tutte le cose transitorie alle quali l'uomo si afferra per errore e, convincendolo a distaccarsene volontariamente, lo conduce su un'altissima balza dove gli mostra non le ricchezze della terra, ma le conquiste della mente e l'inizia al segreto della contemplazione in cui solamente e veramente l'anima si acquieta.

Essenzialmente lo Spirito Santo è l'Amore, è l'Eros del mondo. Nella creazione l'Amore costituisce una necessità, la ragione stessa della creazione e il tramite per cui la creazione si effettua. L'Amore è il modo d'essere dello Spirito per identificare se stesso fuori di sé. L'Amore è la realtà dell'immensa libertà dell'essere e, infine, è l'unico sostanziale modo di essere della mente dell'uomo. Così che possiamo affermare che dove non è amore non vi è mente, dove è mente ivi è sempre amore. La natura dello Spirito Santo è amore, lo spazio in cui possiamo collocarlo è la mente umana. Attraverso l'amore, l’uomo giunge alla conoscenza; attraverso la conoscenza egli identifica l'Amore, quindi lo Spirito Santo è intelletto. Attraverso l'intelletto, la mente dell'uomo giunge a individuare i massimi segreti dello Spirito, per cui lo Spirito Santo è Sapienza. La sapienza insegna all'uomo la necessità del distacco da tutto ciò che non è immutabile e eterno. Ecco, quindi lo Spirito Santo è semplicità e purezza.

La comunicazione dello Spirito Santo conduce i discepoli a scoprire in se stessi lo Spirito, la divina scintilla, il respiro divino dato al primo Adamo e rinnovato in loro da Cristo. Divina scintilla, latente in ogni uomo che viene all'esistenza, che si risveglia al contatto degli inviati rinnovati dal soffio creatore di Cristo. I primi discepoli al contatto del nuovo respiro divennero uomini nuovi. È questa la novità portata da Cristo sulla terra: la comunicazione di quella essenzialità spirituale cui tutti gli uomini possono e debbono accedere. L'uomo, nella novità di Cristo, si rinnova di continuo come sotto l'azione di un infuocato battesimo. La trasformazione interiore dei discepoli li rende atti a portare il grande annuncio della remissione dei peccati. Cristo comunica loro il mandato con due frasi: «Saranno rimessi i peccati a coloro cui li rimetterete; non saranno rimessi a coloro cui non li rimetterete». La nostra mentalità giuridica ci ha portato a intendere queste parole negli schemi del linguaggio della giurisprudenza romana.

Domandiamoci se lo Spirito Santo insufflato da Gesù Cristo sui suoi discepoli, è l'Amore limitato che discrimina i degni e gli indegni, i giusti e i peccatori oppure è l'Amore assoluto che feconda senza distinzione i campi dei figli dell'uomo? Nella prima accezione, le parole di Cristo conferiscono ai discepoli un potere di giudizio; nella seconda invece indicano insieme e una grandezza di anima sempre pronta a rimettere l'errore e il peccato, e un avvenimento che, qualora tale grandezza non venga raggiunta, il peccato rimarrà insoluto. Potremmo tentare questa traduzione: «Vivendo uniti dallo Spirito Santo con l'Amore illimitato del Padre, attraverserete l'esistenza diffondendo onde di amore e di riconciliazione; se non assurgerete alla grandezza dello Spirito Santo, e voi e chi avvicinerete, rimarrete legati al peccato».

Lo Spirito Santo è Amore; l'Amore che non si esprime nel perdono, nella pietà, nella misericordia, non è amore. L'Amore senza parzialità, separatività, inimicizia, è l'Amore perfetto, l'espressione più perfetta dello Spirito Santo, e-insieme la più elevata esplicazione della mente umana; essa è infatti lo spazio dello Spirito Santo. La mente umana può amare tutti i tre regni della natura e immergersi, sino all'oblio di sé, nel quarto regno che è l'umano.
I doni dello Spirito Santo raggiungono la loro perfetta manifestazione nella capacità che la mente umana possiede di scoprire sempre più oggetti di amore, di intuire sempre meglio le ragioni del cammino ascensionale della coscienza, fino a raggiungere quello stato di ebbrezza spirituale che scopre in modo misterioso la fratellanza di tutte le cose e di tutti gli esseri. In questo stato di ebbrezza, la mente fecondata dallo Spirito Santo perviene a comprendere l'eternità del proprio essere in Dio e in tutte le cose che Egli ha creato. A questo punto sarà sorgente di pacificazione e non di giudizio.


(da Adista, 30 aprile 2005)

La domenica,
giorno della riconciliazione dei cristiani
Card. Walter Kasper
Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani

crismon


"La domenica, giorno della riconciliazione dei cristiani" – mi sembra che non ci sia un altro luogo dove sia più appropriato parlare su questo tema talmente fondamentale ed urgente che qui a Bari, città ponte fra Occidente e Oriente, luogo della tomba di San Nicola, il santo della carità riconciliante venerato sia in Oriente che in Occidente; Bari, luogo dove nel 1098 durante il pontificato di Papa Urbano II ha avuto luogo un sinodo di vescovi greci e latini; Bari, luogo di pellegrinaggio di fedeli ortodossi e cattolici, luogo di impegno ecumenico e di fervida nostalgia per la riconciliazione e l’unione fra le due parti della cristianità divise da mille anni.

Perché non sperare che qui a Bari, 1.000 anni dopo il sinodo del 1098 nel 2098 [e perché non prima?], possiamo celebrare nuovamente un sinodo di vescovi greci e latini, un sinodo di riconciliazione? Il nuovo pontificato ci ha dato la speranza che tali attese non sono pure utopie. Speriamo di cuore, ed io ne sono profondamente convinto, che dopo i grandi sforzi e gli importanti passi di Papa Giovanni Paolo II, il nuovo Papa Benedetto XVI spiani ed apra la strada per una tale prospettiva. Ciò sarà possibile se combiniamo l’entusiasmo e lo slancio ecumenico con uno sguardo realistico sull’attuale situazione ecumenica e se nella scena ecumenica in rapido cambiamento percepiamo sia le difficoltà, che non sono da sottovalutare, che le nuove chance.

crismon


I. La domenica – segno ecumenico d’identità cristiana

Cominciamo con ciò che i cristiani hanno in comune, che è la solida base di ogni impegno ecumenico, e la speranza che abbiamo per il futuro cammino ecumenico. Questa base comune, che oggi già esiste fra ortodossi, cattolici e protestanti, viene espressa proprio nel tema di questo giorno: "La domenica, giorno per la riconciliazione dei cristiani". Questo tema ci ricorda che – malgrado tutte le differenze – ciò che abbiamo in comune è molto più di ciò che ci divide. Abbiamo in comune la celebrazione della domenica, che dagli inizi del cristianesimo è stata il segno che distingueva i cristiani dagli ebrei e dal loro shabbat e che ci distingueva ancor di più dai pagani, anche dai pagani odierni, per i quali la domenica è divenuta semplicemente un ‘fine settimana’. La domenica è un segno distintivo e un segno ecumenico d’identità cristiana.

Già per i primi cristiani la domenica era il primo giorno della settimana (cf. 1 Cor 16,2), che essi celebravano come il giorno del Signore (kyriake hemera) (cf. Atti 1,10), come una piccola Pasqua del Signore, come "sacramento pasquale" secondo le parole di Agostino (Commento a Giovanni 20,20,2). Nelle chiese orientali, la domenica è tuttora il giorno della Resurrezione (anastasimos hemera). Così la domenica per tutti cristiani è significativa per il centro e il fondamento della fede cristiana, cioè la fede in Gesù Cristo nostro Signore, la fede nella resurrezione e la speranza nella vita, che non finisce con la morte, che con la morte non è tolta ma soltanto trasformata. Ogni volta che celebriamo l’eucaristia diciamo: "Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua resurrezione nell’attesa della tua venuta."

I cristiani sono coloro che celebrano la domenica come giorno del Signore. Devo aggiungere: I cristiani sono coloro, che non solo celebrano la domenica, ma anche vivono secondo la domenica, cioè vivono come uomini della domenica. Questa affermazione ci viene fornita da un Padre comune della Chiesa indivisa, un grande vescovo dei primi tempi della Chiesa che ha dato testimonianza del suo essere cristiano con la propria vita, che dunque sapeva quale fosse la ragione ed il fine dell’esistenza cristiana e che non ha esitato ad affrontare a Roma le fiere, che non ha eluso la morte. Si tratta del vescovo martire Ignazio di Antiochia. In una lettera scritta durante la sua prigionia mentre lo stavano conducendo a Roma come condannato a morte, egli dice: Essere cristiani significa "vivere secondo la domenica" (Ad Magn 9,1) Una formulazione veramente geniale!

Nello stesso senso una delle martiri della Chiesa primitiva confessò: "Sì, sono andata all'assemblea e ho celebrato la cena del Signore con i miei fratelli, perché sono cristiana" (cit. Enciclica "Dies Domini", 46). Capiamo allora perché i martiri di Abitana proclamarono davanti al giudice pagano: "Non possiamo vivere senza la domenica". Se rinunciassimo all’assemblea domenicale, rinunceremmo a noi stessi, negheremmo la nostra stessa identità.

Papa Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica, Dies Domini (1995) ha scritto lo stesso per il nostro tempo: "Alle soglie del terzo millennio, la celebrazione della domenica cristiana, per i significati che evoca e le dimensioni che implica, in rapporto ai fondamenti stessi della fede, rimane un elemento qualificante dell'identità cristiana" (n. 30). "È importante perciò che [i cristiani] si radunino, per esprimere pienamente l'identità stessa della Chiesa, la ekklesía, l'assemblea convocata dal Signore risorto" (Dies Domini, 31). E giustamente il Papa ha aggiunto indicando il pericolo di perdere questa identità cristiana: "Quando la domenica perde il significato originario e si riduce a puro ‘fine settimana’, può capitare che l'uomo rimanga chiuso in un orizzonte tanto ristretto che non gli consente più di vedere il ‘cielo’"(Dies Domini, 4).

Si, senza la celebrazione della domenica non siamo più identificabili, riconoscibili, distinguibili dagli altri, non siamo più trasparenti come cristiani, e senza identità visibile corriamo il rischio di non essere più presi in considerazione, di diventare una realtà insignificante. Ma non dobbiamo forse domandarci, se questo non sia veramente successo nel nostro tempo in larga misura secolarizzato? A molti l’orizzonte sembra chiuso e il cielo offuscato; la speranza è diventata una ‘merce’ rara, e molti non sanno più cos’è il significato della vita e cos’è il significato della morte. Un enorme comune compito ecumenico, persino una vera sfida ecumenica si apre con tale constatazione!

crismon


II. Lo scandalo della divisione, che diamo ogni domenica

Lo scandalo che la cristianità dà al mondo ogni domenica consiste nel doloroso e deplorevole fatto che, sebbene abbiamo la domenica insieme, tuttavia non celebriamo la domenica insieme; invece di dare una testimonianza comune, diamo un segno di divisione perché andiamo ogni domenica in diverse chiese. Questo scandalo è ancora più sentito in situazioni – come per esempio nella mia patria – nelle quali esistono molti matrimoni e famiglie misti, che non possono celebrare la domenica in comune perché non possono partecipare alla comune mensa del Signore.

Negli ultimi decenni, sin dal Concilio Vaticano II, abbiamo preso coscienza che questa situazione è contro la volontà di Gesù Cristo, che ha voluto una sola Chiesa e che alla vigilia della sua morte ha pregato affinché tutti i suoi discepoli siano una sola cosa (Gv 17,21). In ogni celebrazione eucaristica domenicale confessiamo la nostra fede nell’ "una, santa Chiesa". Dunque non dobbiamo abituarci alla situazione della divisione; essa è peccato davanti a Dio e scandalo davanti al mondo. Le nostre divisioni hanno – come dice l’apostolo Paolo – diviso Cristo (cf. 1 Cor 1,13).

Perciò l’impegno e il dialogo ecumenico non sono un qualsiasi liberalismo, anzi, sono la fede ecclesiale presa sul serio e realizzata nella prassi. Essi non sono radicati in un relativismo o indifferentismo dogmatico, che non prende più sul serio i dogmi della Chiesa. Anzi, soltanto uno, che ha la sua propria identità, può essere un serio partner nel dialogo ecumenico. Due lembi di nebbia, che sfumano l’uno nell’altro, non possono veramente incontrarsi ed avere dialogo. L’impegno ecumenico prende sul serio ciò che ci dice la Sacra Scrittura e tutta la tradizione della Chiesa, cioè che c’è soltanto un Dio, un Signore Gesù Cristo, un battesimo, un corpo ed uno spirito (cf. Ef 4,4 s).

Come la situazione della divisione è in contraddizione con la nostra fede, così questa situazione è anche in contraddizione con la stessa celebrazione domenicale, la celebrazione dell’eucaristia. Ogni volta che leggiamo il Nuovo Testamento, che è il testo di riferimento fondamentale per tutti i cristiani, troviamo sempre la frase: "quando vi radunate in assemblea" (1 Cor 11,18.20, cf. 14,23.26). La domenica prevede dunque che i cristiani si radunino, si riuniscano, facciano l’esperienza della comunità. Il Nuovo Testamento è ancora più preciso. Parlando degli apostoli, dice: "si trovavano tutti insieme nello stesso luogo" (Atti 2,1) e della prima comunità racconta: "tutti insieme frequentavano il tempio" (Atti 2,46). Non si dice: che i cristiani vengano in gruppi e gruppetti distinti. No. Si dice: che essi si riuniscano tutti in un luogo, come un’unica comunità di Dio, come un unico popolo di Dio.

[Questa idea del "radunarsi insieme" è talmente fondamentale, che è potuta diventare la definizione stessa della Chiesa. La Bibbia ha descritto la "Chiesa" con un termine che in ebraico significa assemblea (qahal). I Padri della Chiesa intendono con la parola greca ekklesia coloro che sono stati convocati. Cirillo di Gerusalemme ha affermato: "la parola Chiesa si spiega con il fatto che, per il suo tramite, tutti gli uomini vengono chiamati e riuniti". Isidoro di Siviglia, che nel Medioevo ha tramandato il patrimonio dei Padri della Chiesa, ha ripreso tale definizione: "Ekklesia è definita la Chiesa, poiché essa chiama tutti a sé e riunisce tutti". Una delle più antiche e maggiormente diffuse definizioni di Chiesa è dunque quella di congregatio fidelium, assemblea dei fedeli.]

L’assemblea domenicale ha il suo fulcro ed il suo apice nella celebrazione comune dell’Eucaristia, che è sacramento dell’unità. Una delle più antiche definizioni dell’Eucaristia è synaxis, raduno, riunione. Tale concetto ha il suo fondamento nell’insegnamento dell’apostolo Paolo. Nella prima lettera ai Corinzi egli scrive: "Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1 Cor 10,17). Un pane, un corpo. In un documento della prima metà del secondo secolo, appartenente dunque al tempo immediatamente post-apostolico, leggiamo: "Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno dai confini della terra" (Did 9,4).

Sant’Agostino si rifà a quest’immagine delle molteplici spighe riunite in un solo pane e descrive l’Eucaristia come "sacramento dell’unità e vincolo dell’amore" (Commento a Giovanni 26,6,13) (cf. SC 47; LG 3; 11; 26 ecc.). Di fatti, attraverso la comune partecipazione all’unico Corpo eucaristico di Cristo, noi diventiamo l’unico Corpo di Cristo, diventiamo cioè Chiesa. Ci raduniamo la domenica per diventare una cosa sola in Cristo, tramite l’Eucaristia. Pertanto, possiamo dire riassumendo: l’Eucaristia "è per sua natura una epifania della Chiesa" (Dies Domini, 34). La Chiesa, come pure ogni comunità locale, vive dell’Eucaristia, va edificata e cresce tramite l’Eucaristia (UR 15; cf. Enciclica "Ecclesia de eucharistia", 2003).

Con tali parole l’ecclesiologia eucaristica, tanto cara ai nostri fratelli ortodossi, ha trovato una ricezione ufficiale nella Chiesa cattolica. Ma con le nostre divisioni abbiamo messo altare contro altare e profondamente ferito l’una ed unica Chiesa di Cristo. Come è potuto succedere questo?

crismon


III. Cause e conseguenze della divisione

La divisione tra Oriente e Occidente ha una lunga storia, che è iniziata ben prima delle scomuniche del 1054 e del vergognoso sacco di Costantinopoli del 1254. L’Oriente e l’Occidente hanno accolto fin dall’inizio lo stesso Vangelo in forme diverse, influenzate dalla rispettiva specifica cultura e mentalità. Questo ha condotto già nel primo millennio a tensioni e scismi, che – oltre alle cause estranee anche per mancanza di mutua comprensione e carità – si sono acuite e consolidate nel secondo millennio (cf. UR 14).

Tuttavia, malgrado talvolta delle dure polemiche, nel Medio Evo permaneva la consapevolezza di essere una sola Chiesa ed esistevano fino al tempo del Concilio di Trento singoli casi di una communicatio in sacris. Un – per così dire – totale scisma lo troviamo soltanto nei tempi moderni a causa di una ecclesiologia esclusivista dalle due parti, che dal Concilio Vaticano II fortunatamente abbiamo superato di nuovo. Nondimeno, finora non siamo stati capaci di superare la differenza più ovvia e la pietra d’inciampo: il ministero Petrino del vescovo di Roma come definito dai dogmi del Concilio Vaticano I sulla giurisdizione e sull’infallibilità del Papa. Le differenze risalgono già al primo millennio, dove Occidente e Oriente malgrado differenti concezioni vivevano in piena comunione.

Non si tratta dunque di uno scisma che può essere fatto risalire ad una data precisa; tutte le date di riferimento come il 1054 e il 1254 hanno più o meno un significato simbolico. Come il famoso ecumenista Yves Congar ha affermato si tratta piuttosto di un processo di reciproca estraniazione e alienamento, che oggi deve essere invertito tramite un processo di avvicinamento e di riconciliazione, che ci auguriamo non debba durare anch’esso 1.000 anni.

Come il processo dell’estraniazione e dell’alienamento era stato condizionato non soltanto da conflitti dottrinali ma anche da cause culturali e da una mentalità diversa, da eventi storici e politici deplorevoli, anche il processo inverso del ravvicinamento implica, accanto al dialogo teologico che è e rimane fondamentale, anche il dialogo della carità, la purificazione della memoria, il superamento dei pregiudizi, un’approfondita mutua conoscenza, la cooperazione pratica nel campo pastorale, culturale, sociale e politico, incontri e visite amichevoli, ospitalità e non ultimo amicizie personali. In tale modo speriamo di poter raggiungere un complemento, una osmosi e una pericoresi del principio Petrino della Chiesa latina e del principio sinodale e collegiale tanto caro alle chiese orientali.

La separazione fra Oriente e Occidente ha offuscato la testimonianza cristiana e ha indebolito le due parti dell’unica cristianità. Essa ha lasciato da sola la Chiesa orientale nella sua difesa contro l’Islam, mentre la cristianità latina si è sviluppata unilateralmente; essa ha, per così dire, respirato con un solo polmone e si è impoverita. Un tale impoverimento è stato una delle cause, tra le altre, della seria crisi della Chiesa nel tardo Medio Evo, che ha condotto alla tragica divisione del XVI secolo fra il mondo cattolico e quello protestante, una divisione che è stata molto più profonda di quella con le chiese orientali; della divisione occidentale dobbiamo deplorare importanti divergenze non solo d’indole storica, sociologica, psicologica e culturale, ma sopratutto d’interpretazione della verità rivelata (UR 19).

Paradossalmente proprio il sacramento dell’unità è divenuto una pietra d’inciampo e un punto di acerbe polemiche e profonde differenze con le comunità protestanti. La questione non è soltanto la reale presenza di Cristo nell’eucaristia ma anche il carattere sacrificale della celebrazione eucaristica. Il terzo punto della controversia, che finora non siamo stati capaci di risolvere è la questione del ministro dell’eucaristia, cioè la sacramentalità e validità del ministero ecclesiale e la comprensione della successione apostolica (cf. UR 22). In tutte le tre questioni, soprattutto con gli Anglicani e i Luterani, abbiamo raggiunto convergenze, ma tuttora non c’è un consenso sufficiente e stabile.

Mentre nello scisma fra Oriente e Occidente il tipo fondamentale e la struttura sacramentale e episcopale della Chiesa sono stati conservati, lo scisma occidentale (forse tranne l’alto-anglicanesimo e la Scandinavia) ha prodotto un altro tipo di chiesa che poi si è dissolto in una molteplicità di comunità ecclesiali. Purtroppo questo processo di frammentazione perdura tuttora. Nuove comunità cosiddette carismatiche e evangeliche emergono e aumentano rapidamente. Così la carta geografica ecclesiale rassomiglia ancora oggi alla pelle di un leopardo.

La triste conseguenza della divisione occidentale è stata la secolarizzazione della società occidentale, che dopo il crollo del muro di Berlino invade anche l’Europa orientale, e tramite la globalizazzione, influisce su tutto il mondo. Nei duri conflitti e nelle sanguinose guerre confessionali che seguirono la Riforma, nel Settecento è divenuto ovvio che la società europea aveva perso i suoi ormai comuni fondamenti per la convivenza e la pace; per raggiungere e mantener la pace non c’era un’altra soluzione se non quella di trovare tali fondamenti, non più nella fede ma in ciò che è comune a tutti gli uomini, la ragione umana. Essa è divenuta la base della vita pubblica, mentre le fede cristiana è stata ridotta e limitata alla sfera individuale. Così la fede cristiana è stata marginalizzata e ha perso il suo influsso sulla vita pubblica.

Ecco l’importanza e l’urgenza dell’impegno ecumenico. Esso non è soltanto un affare intra ecclesiale. Una nuova evangelizzazione dell’Europa e una nuova inculturazione della fede cristiana in Europa non sarà possibile senza un nuovo avvicinamento delle chiese e comunità ecclesiali in Europa. Solo ecumenicamente saremo in grado di raggiungere una nuova cultura domenicale.

crismon



IV. Luci e ombre della situazione ecumenica

Il movimento ecumenico del XX secolo è uno dei rari sviluppi positivi e pieni di speranza in un secolo buio e sanguinoso. Sotto l’impulso dello Spirito di Dio (come ha costatato il Concilio Vaticano II), l’ecumenismo ha intrapreso d’invertire la rotta delle divisioni e d’iniziare un processo inverso di avvicinamento fino al ristabilimento della piena comunione (UR 1; 4). Papa Giovanni Paolo II ha ribadito spesso che la scelta ecumenica del Concilio Vaticano II è irreversibile; e siamo lieti e grati che il nuovo Papa Benedetto XVI già nel primo giorno del suo pontificato abbia dichiarato che, sulla scia del suo predecessore, l’unità della Chiesa è una sua priorità.

Nelle ultimi decenni Dio ci ha regalato enormi progressi. Nella comprensione dell’eucaristia abbiamo riscoperto la nostra comune tradizione con le chiese ortodosse (UR 15); con le comunità dalla tradizione della Riforma finora non abbiamo raggiunto un consenso, ma abbiamo superato molti malintesi e scoperto consensi parziali e convergenze importanti. Tali consensi abbiamo raggiunto soprattutto nella dottrina della giustificazione, che nel XVI. secolo era il centro e il fulcro della controversia.

Ma parlando delle luci del movimento ecumenico non penso soltanto ai documenti del dialogo teologico, per quanto importanti essi siano, penso anche a ciò che è avvenuto nella stessa vita della Chiesa. Durante l’ultimo giorno del Concilio abbiamo tolto dalla memoria della Chiesa gli anatemi del 1054, nel frattempo abbiamo superato molti pregiudizi, purificato la memoria, raggiunto una migliore mutua conoscenza; penso anche alle molte visite reciproche, alla mutua cooperazione a tutti i livelli della vita ecclesiale e in generale ad una fraternità riscoperta ed accresciuta.

La presenza di importanti delegazioni di quasi tutte le chiese e comunità ecclesiali ai funerali di Papa Giovanni Paolo II e alla solenne inaugurazione del nuovo Pontefice, ne era un segno, che alcuni decenni fa sarebbe stato del tutto inimmaginabile. Questi due eventi hanno mostrato la nuova realtà ecumenica a tutto il mondo visibile, e sono stati una chiara smentita alla stupida parola di un inverno ecumenico e persino di un’epoca glaciale ecumenica. I due eventi hanno mostrato che l’espressione ‘chiese sorelle’ non è soltanto un concetto astratto ed una parola a buon mercato; è una realtà. La Santa Sede, ed in particolare il Pontificio Consiglio per la promozione dell’ unità dei cristiani sono grati di questi segni di fraternità e insieme con il nuovo Papa si sentono impegnati ad andare avanti sulla scia del Concilio Vaticano II e della ricca eredità che Papa Giovanni Paolo II ci ha lasciato.

Infatti, i dialoghi ecumenici con i nostri fratelli protestanti continuano e persino portano talvolta buoni e sorprendenti frutti, come il nuovo documento cattolico-anglicano, molto costruttivo, su Maria e il suo ruolo nell’opera di redenzione, che malgrado tutte le ben note difficoltà nella Comunione Anglicana e con la Comunione Anglicana è stato pubblicato proprio in questi giorni.

Con i nostri fratelli ortodossi negli anni scorsi, malgrado tutte le difficoltà per il dialogo internazionale, siamo stati in grado di migliorare considerevolmente i nostri rapporti con singole chiese, per esempio con la chiesa di Grecia, di Serbia, di Bulgaria. Le difficoltà con la più grande chiesa ortodossa, la chiesa russo-ortodossa, sono conosciute e molti hanno letto con tristezza le aspre polemiche che si sono fatte sentire dopo la morte di Papa Giovanni Paolo II ancora prima che fosse sotterrato. Nondimeno, tramite contatti pazienti, sono stati possibili dei miglioramenti, resi evidenti dalla presenza ripetuta due volte di un’alta delegazione russo-ortodossa a Roma durante gli eventi summenzionati. Inoltre abbiamo la fondata speranza che quest’autunno ci sarà la ripresa del dialogo internazionale, come già due anni fa con successo abbiamo ripreso il dialogo con la famiglia delle chiese orientali ortodosse.

Tuttavia, non sarebbe né onesto né realistico non vedere anche i segni di una crisi; il dialogo ufficiale è diventato faticoso e spesso segna il passo. Talvolta ci sono ancora sospetti e paura, mancanza di fiducia a causa di ricordi negativi di ingiustizia sofferta nel passato, delusioni recenti e così via. C’è ancora molto da fare con la riconciliazione dei cuori. Ogni chiesa ha la sua lista di lamentele, ma d’altra parte nessuna chiesa è una comunità di angeli, senza errori e peccati; ognuna ha ragione per penitenza e un "mea culpa", come Papa Giovanni Paolo II lo ha espresso da parte della Chiesa cattolica. Non c’è ecumenismo senza conversione, ha detto il Concilio Vaticano II (UR 7), ed aggiungo: Non c’è ecumenismo senza perdono e riconciliazione. Non aiuta chiamare solo gli altri a cambiare la rotta, a convertirsi e pentirsi e ripetere tale richiesta in interviste come in un ritornello. La conversione e il rinnovamento deve cominciare da noi stessi, da ognuno di noi; sono sicuro che se ogni comunità comincia da se stessa, faremo tutti insieme progressi più rapidi e significativi.

crismon



V. Il prossimo passo nel rapporto con le chiese orientali

Però, non c’è soltanto la questione di buona o cattiva volontà degli uni o degli altri.. Il problema di fondo è il problema teologico della Chiesa e la diversa concezione dell’unità e dello stesso scopo del cammino ecumenico. Il conflitto ecumenico è un conflitto sullo scopo ecumenico.

La concezione cattolica è nota. La Chiesa cattolica si comprende come Chiesa universale, inviata dal nostro Signore a tutte le nazioni (Mt 28,19). Non siamo una Chiesa nazionale, etnica o tribale; la Chiesa di Cristo è universale. Ma il Concilio Vaticano II ha anche riscoperto la dignità teologica della chiesa locale, che secondo l’antichissima tradizione del primo millennio non è solo una provincia e una parte, ma una porzione della Chiesa di Cristo, nella quale la Chiesa di Cristo è veramente presente (LG 26; CD 11), cosicché la Chiesa universale esiste solamente in e a partire dalle chiese locali (LG 23). Intanto l’unità della Chiesa cattolica esiste in una ricca molteplicità e la molteplicità nell’unità.

L’unità visibile è necessaria nella fede, negli sacramenti e nel ministero apostolico istituito da Cristo, e ciò vuole dire anche nel ministero Petrino che per noi è un vero dono del Signore per la sua Chiesa. Ma tale unità non significa affatto uniformità. Nell’ "una, santa Chiesa" una grande molteplicità di riti, di spiritualità, di teologie, di discipline canoniche non soltanto è possibile, ma persino auspicabile; tale pluralità non è una debolezza ma una ricchezza. Lo Spirito di Dio non è noioso, ma regala alla Chiesa una sovrabbondante ricca molteplicità di doni (1 Cor 12, 4—11).

Il riconoscimento della molteplicità ha conseguenze importanti per l’avvicinamento con le chiese orientali. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto che le chiese orientali sono vere chiese che "hanno facoltà di regolarsi secondo le proprie discipline" (UR 16). Il Concilio ha ricordato la regola del Concilio degli apostoli: "non imporre altro peso fuorché le cose necessarie" (Atti 15,28; cf. UR 18). Lo stesso Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita qui a Bari ha proposto un’unità "che non è assorbimento e neppure fusione" (cit. Slavorum apostoli, 27). Poi ha invitato a un dialogo fraterno su come esercitare il ministero Petrino oggi e nel futuro cosicché possa essere accettabile per le altre chiese (Ut unum sint, 95). Cosa impedisce di incominciare già oggi qui a Bari a discutere questa proposta? Perché non riflettere insieme su una osmosi fra il principio di sinodalità e collegialità e il principio Petrino, che proprio nelle settimane passate ha mostrato la sua forza spirituale?

Noi riconosciamo che le chiese orientali nei loro paesi tradizionali hanno improntato una ricca cultura cristiana millenaria. Noi apprezziamo e amiamo questa cultura. Non abbiamo per niente l’intenzione di rendere cattolici i paesi, dove voi fratelli ortodossi, siete a casa da molti secoli, dove voi avete disseminato il seme del vangelo, che intanto ha portato frutti ricchissimi di spiritualità e di cultura. Come l’apostolo Paolo non vogliamo mietere, dove altri hanno seminato (cf. Rom 15,20). Il cosiddetto proselitismo non è la nostra intenzione, non è la nostra strategia e non è la nostra politica. Se ci sono singoli casi che danno l’impressione o che sono veramente proselitismo, ne possiamo parlare concretamente e, se necessario, li cambieremo. Ma preghiamo anche voi, cari fratelli, di mettere fine a ciò che noi potremmo chiamare proselitismo da parte vostra e che è persino un pessimo proselitismo, cioè la scandalosa prassi del ri-battesimo.

Lasciamo da parte dunque queste querele del tutto inutili e guardiamo ai veri problemi e alle sfide, che incontriamo insieme. Un passo concreto è già possibile oggi, e se non sbaglio ne siamo d’accordo, che questo passo non è soltanto possibile ma anche auspicabile e inoltre urgente. Noi ortodossi e cattolici, siamo molto vicini nella fede, siamo gli eredi della comune cultura europea e abbiamo gli stessi valori etici, che sono fondamentali per il bene delle nostre società e per i loro uomini. Ma quei valori sono seriamente minacciati sia dal secolarismo in Europa occidentale che dalle profonde lacerazioni che in Europa orientale quaranta o meglio settant’anni di propaganda ed educazione ateista hanno compiuto.

Che cosa dunque può essere più ovvio e urgente che come prossimo passo sul lungo cammino verso la piena comunione formiamo un’alleanza in favore della riscoperta delle radici cristiane d’Europa, un’alleanza per aiutarci a vicenda in favore dei valori comuni e di una cultura della vita, della dignità della persona, della solidarietà e della giustizia sociale, per la pace e per la salvaguardia del creato. Sono convinto che su questa strada già nel prossimo futuro potremmo fare passi concreti.

crismon



VI. Nuove dimensioni nel dialogo con le comunità protestanti

L’idea di un’alleanza come prossimo passo vale anche per il dialogo con i fratelli protestanti. Nell’ambito protestante vediamo un profondo cambiamento della scena ecumenica. Purtroppo la frammentazione interna del protestantesimo continua. Le chiese tradizionali (‘storiche’) protestanti (Protestant mainline churches) a livello mondiale diminuiscono, mentre nuovi movimenti carismatici e pentecostali insieme con vecchie e nuove sette crescono rapidamente e ciò non solo nell’emisfero meridionale, in America Latina, in Africa e in Asia, ma anche in America del Nord e da noi in Europa. Ci sono osservatori e studiosi autorevoli che in tali movimenti vedono la futura forma del cristianesimo del terzo millennio (cf. Ph. Jenkins, The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, Oxford 2002).

Con alcuni di questi nuovi movimenti e comunità abbiamo sviluppato buoni contatti e dialoghi. A differenza di alcune chiese tradizionali protestanti sono saldi nella loro fede nella divinità di Gesù Cristo e soprattutto nei valori etici. Altri invece fanno un vasto proselitismo aggressivo e sono una seria sfida soprattutto nell’emisfero meridionale. Ci danno l’occasione di una presa di coscienza pastorale, di un rinnovamento spirituale ed evangelico e di una vissuta spiritualità di comunione. Il Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani ha focalizzato quest’anno la sua attenzione e il suo lavoro su questi problemi. In collaborazione con le rispettive Conferenze episcopali abbiamo programmato dei simposi in Brasile, nell’Africa anglofona e nell’Africa francofona per trovare una strategia pastorale comune e rivedere anche i metodi e i progetti ecumenici.

Si costata un altro sviluppo di frammentazione in Europa, che più che altri continenti è l’epicentro di una crisi ed il punto più debole della cristianità. Purtroppo alcune comunità di tradizione protestante sono in pericolo di abbandonare parti dell’eredità comune soprattutto nell’ambito etico. Ben note sono per esempio le difficoltà che sono emerse nella Comunione Anglicana, che spiacevolmente hanno tanto danneggiato il dialogo ed i nostri rapporti, che finora si erano ben sviluppati. La nuova situazione indebolisce fortemente o persino impedisce totalmente la testimonianza comune, che dobbiamo alla nostra civilizzazione secolarizzata.

Grazie a Dio, ci sono comunioni, gruppi, movimenti, fraternità in tutte le chiese e comunità ecclesiali che sono consapevoli di questa situazione drammatica particolarmente in Europa; sono gruppi e movimenti, che stanno fermi sulla base della Bibbia e della tradizione antica della Chiesa, sostengono i valori cristiani, si sforzano a vivere il vangelo e le beatitudini del Sermone della montagna e che – senza abbandonare nulla della propria e della comune tradizione – stringono reti di comunione e di amicizia attraverso le diversi confessioni senza un sincretismo ecumenico erroneo. L’incontro di Stoccarda nel maggio dell’anno scorso con 10.000 partecipanti e con una diffusione tramite satellite in più di 100 punti nel mondo è stato un segno di questa nuova realtà ecumenica, segno di una realtà che sta emergendo in molti luoghi. Su questa strada molti gruppi continuano e lo fanno con entusiasmo.

Così una nuova dimensione dell’ecumenismo sta emergendo, non in concorrenza ma come completamento dell’ecumenismo ufficiale delle chiese. Ovviamente, sebbene quest’ultimo sia divenuto faticoso e talvolta travagliato, nondimeno deve continuare; ma deve anche prendere nuovi impulsi ed un nuovo slancio da questi sviluppi.

crismon



VII. Ecumenismo spirituale e culturale

L’ecumenismo che sta emergendo attraverso tanti singoli cristiani, in molte fraternità, congregazioni e monasteri, in gruppi e movimenti di laici è un ecumenismo spirituale. Esso soprattutto mi dà speranza. Già il Concilio Vaticano II ha dichiarato che l’ecumenismo spirituale è il cuore e l’anima di ogni ecumenismo (UR 8) e il nostro Pontificio Consiglio in prima linea vuole promuovere proprio questo tipo d’ecumenismo. Intanto stiamo preparando un Vademecum per l’ecumenismo spirituale. Si tratta dell’ecumenismo della conversione e santificazione della vita, dell’ecumenismo dell’ascolto e della lettura della Sacra Scrittura, dell’ecumenismo di una spiritualità che scaturisce dal battesimo comune, dell’ecumenismo della preghiera e della spiritualità di comunione. Seguendo l’esempio di San Nicola, dobbiamo promuovere la verità nell’amore (cf. Ef 4,15).

L’ecumenismo spirituale, sebbene personale, non è soltanto una realtà puramente interiore, soggettiva e privata o persino un affare soltanto per alcuni esoterici. La spiritualità cristiana è una spiritualità "incarnata". Come in passato la spiritualità cristiana ha improntato la cultura d’Europa, così oggi la spiritualità ecumenica è un contributo essenziale per la nuova evangelizzazione e inculturazione del cristianesimo. Nella crisi attuale della cultura d’Europa, questo continente Europa ha bisogno della nostra comune testimonianza. L’impegno ecumenico non è una appendice o un lusso, ma fa parte essenziale della nostra missione; il pane eucaristico è il pane per la sopravvivenza della cultura cristiana in Europa.

Oggi la riconciliazione ecumenica tra Oriente e Occidente ha, nel continuo processo di unificazione europea, anche un significato politico. Il nuovo ordine europeo di pace che è sorto dopo la tragedia della seconda guerra mondiale non potrà resistere a lungo se non vengono coinvolte anche le Chiese, che hanno influito così profondamente sulla cultura dell’Europa. Anche per questo non possiamo più permetterci una divisione; essa non è solo uno scandalo dal punto di vista religioso, ma è insostenibile anche dal punto di vista culturale e politico. Le Chiese devono essere le prime a preparare la strada al processo di riunificazione. In tal modo, esse potranno mostrare nel modo più efficace che l’Europa si basa su fondamenti cristiani, sui valori della cultura della domenica, cultura che dobbiamo sforzarci di rinnovare se vogliamo contribuire al rinnovamento dell’Europa.

"Vivere secondo la domenica": questo definisce la nostra identità. Ed è appunto questa cultura della domenica che è alla base della cultura europea. Se vogliamo mantenere e risvegliare i valori cristiani dell’Europa, allora, come cristiani, dobbiamo per primi imparare di nuovo a vivere la domenica. La domenica, come giorno del Signore, è il giorno della riconciliazione, che implica il riconoscimento della dignità di ogni persona, della santità della vita, dei valori della famiglia, della giustizia e della solidarietà tra i popoli e tra gli individui, il rispetto per l’alterità dell’altro e lo spazio per la molteplicità. La cultura domenicale realizza che l’uomo non è soltanto un ‘animale del lavoro’ ma un essere libero, che ha il desiderio che gli ha impiantato il suo Creatore, di avere spazio per il culto e la cultura, per la famiglia e gli amici. Soltanto una cultura domenicale così è una cultura veramente umana.

Vorrei concludere con un ulteriore breve pensiero. Ricordo alcune conversazioni con il compianto Papa Giovanni Paolo II sulla situazione ecumenica. Soprattutto ricordo un incontro, dove volevo riferirgli di alcuni segni di crisi. Lui non ha voluto neanche sentire questa parola. Insisteva per parlare dei segni positivi. Allora ero rimasto un po’ deluso, perché quei problemi mi premevano molto e mi aspettavo un consiglio da parte del Papa. Oggi penso che il Papa aveva ragione. Noi cristiani non possiamo essere uomini lamentosi. Anche l’ecumenismo passa il mistero della morte e della risurrezione. Siamo rigenerati per una speranza viva (1 Pietro 1,3). Sono convinto che se avanziamo sulla strada dell’ecumenismo spirituale e se tessiamo reti e alleanze attraverso le confessioni e le chiese e se lo facciamo con coraggio unito a pazienza, la crisi non sarà una crisi di crollo ma diventerà piuttosto una crisi di crescita.

San Nicola, 1600 anni fa ed ancora oggi venerato sia in Oriente che in Occidente, ha vissuto la speranza e realizzato i valori senza i quali l’Europa non può avere un futuro. Anche San Nicola potrebbe essere patrono dell’Europa e forse il Papa un giorno lo dichiarerà tale. Possa egli aiutare l’Europa a superare i segni di stanchezza e trasformarli in una nuova cultura della domenica, che non può essere altro che una nuova epoca ecumenica, un’epoca di gioia, di slancio, di speranza e di entusiasmo con lo scopo di una comune celebrazione della domenica attorno all’unica mensa del Signore. San Nicola, prega per noi!

(Relazione tenuta a Bari mercoledì 25 maggio 2005 nel corso del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale)

Il sacerdozio "laico" di Cristo
e dei cristiani
di Severino Dianich


 



Per gli uomini del suo tempo Gesù era quello che noi diremmo un laico. In realtà con lui è mutata la concezione del sacerdozio, non più legato ai riti, ma all’esistenza, alla vita intesa come oblazione. Questo vale per tutti i credenti in Cristo. Lungo la storia, però, i cristiani laici sono stati privati del loro carattere sacerdotale. Ecco com’è possibile recuperarlo.

A chi non avesse molta confidenza con la lettera agli Ebrei o fosse stato indotto da una tradizione esegetica edulcorata a vedervi preannunciato il carattere sacerdotale dei ministri della Chiesa, vorrei consigliare di mettersi con animo spregiudicato di fronte a questo testo, solo a prima vista un po’ enigmatico: "Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge. Questo si dice di chi è appartenuto a un’altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all’altare. È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio" (Eb 7,12-14).

Una concezione mutata

Basterà un commento elementare per renderci conto di quale rivoluzione abbia operato il Nuovo Testamento sostenendo che Gesù è il grande unico sacerdote del mondo: nel dir questo, tutta la concezione del sacerdozio appare mutata ("Infatti, mutato il sacerdozio...") e di conseguenza c’è anche "un mutamento della legge" che governa il popolo di Dio. Era necessario, diceva il versetto precedente, "che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchìsedek, e non invece alla maniera di Aronne". Gesù infatti è un sacerdote di tipo completamente nuovo, tanto che non viene dalla tribù sacerdotale di Aronne, ma discende dalla tribù di Giuda: egli infatti non si è mai rivestito dei paludamenti sacri, non è mai entrato nel santuario, mai ha compiuto i riti sacerdotali della legge.

Dal punto di vista socio-religioso e giuridico, in termini contemporanei potremmo dire: Gesù era un laico. Per l’autore della nostra lettera quest’idea era tanto importante che, lungo tutta la sua scrittura, egli neppure nomina l’unico gesto rituale di Gesù che si sarebbe potuto interpretare come un gesto sacerdotale: cioè il rito del pane e del vino della sua ultima cena. Egli ci vuol trasmettere l’impressione forte che l’antico ruolo sacerdotale della mediazione è tutto concentrato in Cristo e che il sacerdozio di Cristo è tutt’altra cosa rispetto al sacerdozio levitico.

Se nella tradizione cattolica il radicalismo della lettera agli Ebrei è stato attutito e la sua dottrina è stata filtrata dal quadro del sacerdozio gerarchico, ciò è accaduto perché i Riformatori avevano assunto il tema del sacerdozio dei fedeli come loro cavallo di battaglia e ne avevano impugnato l’imponenza per ridimensionare, quando non per demolire, il sacerdozio dei preti e dei vescovi.

Oggi però sentiamo il bisogno di valorizzare il carattere e le funzioni sacerdotali del popolo di Dio e di quella parte dei cristiani che ne costituisce la stragrande maggioranza, cioè i cristiani laici.

Il Nuovo Testamento

A questo proposito il Nuovo Testamento spazza via il falso problema che invece tante volte domina le nostre discussioni: non si tratta di attribuire ai laici un ruolo maggiore nella liturgia e nella vita interna della comunità. Si tratta, invece, di prendere sul serio il fatto che la concezione fondamentale del sacerdozio è mutata e che il primo campo del suo esercizio non è la liturgia: l’opera salvifica di Cristo non è consistita nell’invenzione di nuovi riti, bensì nella sua vita vissuta come oblazione totale al Padre al servizio degli uomini, dal suo concepimento nel grembo della Vergine alla sua sepoltura nel seno della terra. Con la sua risurrezione e con il suo ingresso nel "santuario celeste", egli ha portato la sua esperienza di dedizione, vissuta nella sua carne umana, in seno alla divinità. Il suo sacerdozio esistenziale, vissuto nei fatti della vita comune, è ora consegnato ai credenti per il solo fatto di essere credenti e quindi viventi in Cristo: questo è il sacerdozio cristiano fondamentale sia dei preti che dei laici.

Per comprenderne più a fondo la novità, oltre alla meditazione della lettera agli Ebrei, è necessario mettersi di fronte al celebre testo del vangelo di Giovanni (cap. 2), in cui Gesù, dopo aver contestato violentemente il mercato nel tempio, porta il suo discorso ben oltre il problema, un po’ scontato, della commistione fra denaro e preghiera. Interrogato sulla ragione che egli avrebbe potuto accampare per prendersi il diritto di protestare nel tempio, Gesù risponde lanciando una sfida: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv 2,19). Era come dire che il tempio poteva anche essere distrutto per sempre; la sfida riguardava due realtà: il tempio di pietre che di fatto, dopo due decenni, sarebbe stato distrutto davvero, e quello della sua vita, di lui stesso, che poteva essere tolto di mezzo e ucciso. Dalle rovine di questi due "templi" egli avrebbe fatto sorgere, nuovo, il vero tempio eterno, il suo corpo risuscitato. L’evangelista chiarisce esplicitamente il suo pensiero: "Gli dissero allora i Giudei: "Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?". Ma egli parlava del tempio del suo corpo" (Gv 2,20-21).

All’immagine del tempio farà eco san Pietro: i cristiani sono come pietre poggiate su Gesù a formare il tempio "spirituale", cioè abitato dallo Spirito, nel quale si offrono a Dio vittime "spirituali", cioè azioni animate dallo Spirito (1Pt 2,4-10). All’immagine del corpo si riferirà san Paolo, esortando i cristiani a offrire i loro corpi a Dio, poiché questo solo è il culto ragionevole (logikè latreia, Rm 12,1). Se ne deduce che, come il corpo di Cristo, così i corpi dei cristiani sono il luogo della mediazione sacerdotale fra l’uomo e Dio. Dire "il corpo" significa indicare tutto ciò che l’uomo fa con il suo corpo (camminare, lavorare, parlare, relazionarsi con gli altri, amare, generare, costruire, ecc.) e anche, alla fine, morire. Ebbene, tutto questo nell’esistenza credente, vivente in Cristo, è opera sacerdotale, vera mediazione fra il mondo e Dio: è il sacerdozio laico di Cristo e dei cristiani.

Una concezione riduttiva

Paradossalmente lungo la storia i cristiani laici, almeno di fatto se non nella dottrina, sono stati spossessati del loro carattere sacerdotale e i ministri ordinati se ne sono fatti carico in maniera esclusiva, sacralizzandolo e ritualizzandolo. Si è parlato allora di sacerdozio dei fedeli in un senso spiritualistico, quasi che preti e vescovi fossero sacerdoti davvero, mentre il sacerdozio dei fedeli laici ne rappresenterebbe un riverbero presente nelle loro intenzioni più che nelle loro azioni. Di questa concezione riduttiva il concilio Vaticano II ha fatto giustizia, anche se LG, per una certa sua timidezza al proposito, accentua l’esercizio del sacerdozio da parte dei fedeli nelle celebrazioni sacramentali rispetto alle azioni della vita comune (LG 10s; 34). Pur preferendo la categoria di "apostolato", AA invece sottolinea con forza il carattere sacerdotale dell’impegno dei laici nel mondo: essi "sono deputati dal Signore stesso all’apostolato. Vengono consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e testimoniare dappertutto il Cristo" (AA 3).

Il sacerdozio dei laici sarà, quindi, un sacerdozio a tutto campo. In maggioranza sposati, vengono consacrati alla vita coniugale e familiare con il sacramento del matrimonio. A differenza dei chierici e dei religiosi esercitano un mestiere o una professione che li inserisce nella vita sociale. Come cittadini assumono le loro responsabilità sociali e politiche dentro la società civile. Come membri del popolo di Dio hanno il carisma (derivato dal battesimo) e hanno il diritto e il dovere (sancito anche dal Codice di Diritto Canonico) di evangelizzare, comunicando la fede alle persone con le quali entrano in contatto: sono quindi il soggetto ecclesiale di base, attraverso il quale la Chiesa compie la sua missione nel mondo. La loro vita, vissuta nella fede alla sequela di Cristo, nella dedizione ai fratelli per amore di Dio e degli uomini, è il primo ed elementare servizio che la chiesa rende agli uomini per la gloria di Dio in vista del suo Regno (vedi AA 4).

Alcune conseguenze

Se il grande tema del sacerdozio comune è diventato lungo la storia un aggrovigliato problema, lo si deve al fatto che, quando si è ritenuto che ormai tutto il mondo (che poi era solo la parte di mondo che in questo o quel tempo era conosciuta) fosse diventato cristiano, è sembrato che la Chiesa non avesse più di fronte a sé un destinatario della sua azione. Si è quindi trasferita la dinamica della mediazione all’interno del corpo cristiano, sostituendo all’idea del popolo cristiano come mediatore fra Dio e il mondo la figura del clero come mediatore fra Dio e il popolo cristiano.

A questo si è aggiunto un processo di ritualizzazione del ministero cristiano, per il quale i sacramenti delle celebrazioni rituali hanno preso la prevalenza sul sacramento dell’esistenza, declassando le opere del cristiano (che pur sono segno e strumento della grazia di Dio) ad attività profana, da svolgere in obbedienza ai comandamenti, ma priva di valore salvifico per il mondo.

La soluzione, perciò, del problema del laicato non va cercata nell’attribuire ai laici nuove e ulteriori funzioni all’interno della comunità, bensì in una maturazione dell’autocoscienza ecclesiale, per cui la Chiesa senta e viva come suo tutto ciò che i laici operano nel mondo, tanto quanto sente e vive come suo ciò che fanno i ministri ordinati: questo è, infatti, il primo e fondamentale esercizio del suo sacerdozio.

A livello teorico bisogna superare l’idea che l’azione dei laici nel mondo non è azione della Chiesa: essa non ne resterebbe determinata né in alcun modo ne sarebbe responsabile. A livello pratico si tratta di far rifluire all’interno della comunità quanto i laici operano nel mondo: la vita di una comunità parrocchiale ha bisogno di lasciarsi determinare a fondo dalle esigenze della missione vissuta dai laici nel mondo.

Se i consigli pastorali fossero rappresentativi non solo delle attività interne alla comunità, ma anche delle professioni e delle posizioni tenute dai laici nel mondo, la Chiesa sarebbe molto più capace di integrarsi nella società e di servirla in ordine alla comunicazione della fede e cooperando al bene comune.

Lo stesso esercizio del magistero potrebbe e dovrebbe lasciarsi determinare, per esempio in materia di morale coniugale e in ordine alle responsabilità politiche della Chiesa, dall’esperienza di fede di coloro che, in forza dei sacramenti del matrimonio e del battesimo, sono dotati in questi ambiti di loro specifici carismi.

(in Vita Pastorale, dicembre 2003)

Martedì, 07 Giugno 2005 22:16

Giustino (Lorenzo Dattrino)

Giustino
di Lorenzo Dattrino






Nacque a Flavia Neapolis (oggi Nablus, in Giordania). Lasciata ancor giovane la Palestina, si trasferì ad Efeso. Era assetato della verità e tale aspirazione lo condusse a prendere contatto con le più celebri scuole dell’epoca: quella stoica, peripatetica, pitagorica, neoplatonica.

Nel platonismo credette di trovare la via giusta. Fu allora che si convertì al cristianesimo, all’epoca di Adriano, forse a Efeso. A Roma, dove si recò ben due volte, riuscì a radunare attorno a sé un certo numero di discepoli. Denunciato come cristiano (tra il 163 e il 167), fu messo a morte assieme ad alcuni suoi discepoli. Gli Atti del suo martirio sono considerati autentici.

Risulta di fondamentale importanza l’attività culturale di Giustino: in lui si deve vedere il primo dei Padri che tenta una conciliazione tra filosofia antica (greca e pagana) e cristianesimo. Egli vide nei grandi pensatori dei tempi precedenti degli iniziatori di quella filosofia che solo nel cristianesimo avrebbe raggiunto la sua piena perfezione. Nella Sacra Scrittura c’è la pienezza della Verità, nei filosofi i semina Verbi (frammenti di verità). Dunque, anche la filosofia è dono di Dio e può essere collaborazione con la Parola di Dio per una fede pensata. 

Giustino ci ha lasciato tre opere :
1. Dialogo con Trifone.  Il cristianesimo entra in dialogo con l’ebraismo anche questo è refrattario e ostile.

2. Due Apologie per difendere la presenza cristiana in un contesto pagano e per gettare un ponte verso la cultura pagana e le istituzioni dell’impero.  
Giustino indirizza le due apologie all’imperatore Antonino Pio perché gli intellettuali e i responsabili dell’amministrazione statale possano conoscere la vera realtà del cristianesimo.  Siamo debitori di Giustino se possiamo conoscere la prassi ecclesiale relativa al battesimo, alla celebrazione e partecipazione all’Eucarestia nella liturgia domenicale.

Ecco un passo: "Tutti quanti insieme ci riuniamo nel giorno del sole [la domenica], poiché è il primo giorno, nel quale Dio creò il mondo, avendo trasformato la tenebra e la materia, e Gesù Cristo, nostro Salvatore, risuscitò nello stesso giorno dai morti: infatti  lo crocifissero prima del giorno di Saturno [il venerdì] e il giorno dopo quello di Saturno, cioè il giorno del sole, apparso ai suoi discepoli e ai suoi apostoli insegnò queste cose che ora mandiamo a voi [imperatore e intellettuali pagani] per un esame" (Apologia I , 67).

Martedì, 07 Giugno 2005 22:00

Taziano (Lorenzo Dattrino)

Taziano
di Lorenzo Dattrino





Nato verso il 120 da famiglia pagana, ebbe un’educazione greca e fu sofista. Poi venne a Roma e qui si convertì al cristianesimo, ma assunse atteggiamenti intransigenti e di chiusura nei confronti della cultura ellenistica. Così dice di se stesso. “Io, Taziano, filosofo secondo la filosofia dei barbari, nato in terra assira, istruito prima nelle vostre dottrine, poi in quella che ora faccio professione di predicare” (Discorso ai Greci, XLII ). Si noti la contrapposizione: barbaro (cioè cristiano) e greco (cioè pagano) .

Il Discorso è un’opera in difesa del cristianesimo e un violento attacco alla cultura greca. Taziano esordisce tacciando i greci (pagani) di aver rubato ai barbari (giudei e cristiani): nessun’arte, nessuna disciplina sarebbe stata inventata dai "greci"! La sola filosofia è loro vanto, ma è ben minima cosa, come dimostrano le assurdità dei filosofi (cc. 1-3). Ben diverso è l’atteggiamento pratico e teorico dei cristiani: essi credono in un solo Dio e non ammettono l’idolatria (c. 4). Unità e solitudine di Dio non contrastano con l’esistenza di un altro principio, il Logos, il Verbo che era ab aeterno presso il Padre. Il Logos diede origine alla creazione (c. 5). Resurrezione dei corpi (c. 6), angelologia, demonologia (c. 7), caduta dell’uomo e azione dei demoni (cc. 8-11), psicologia e pneumatologia (cc. 12-13), rigenerazione dell’uomo, ma senza alcuna allusione concreta all’Incarnazione del Verbo (cc. 13-19).

Tutta questa dottrina è continuamente e ampiamente frammista a una polemica minuta contro la mitologia. In seguito, dopo un cenno (c. 21) alla credenza in un "Dio apparso in forma d’uomo", in cui i cristiani, il cui nome peraltro non è mai pronunciato, credono, inizia la polemica contro gli aspetti morali e pratici del paganesimo: le assemblee, le feste, gli spettacoli (c. 22) , i ludi gladiatori (c. 23), le rappresentazioni tragiche (c. 24), la vita dei filosofi (c. 25), la varietà di linguaggi e le preziosità dei grammati (cc. 26-27), le diverse legislazioni (c. 28).

 L’argomento cronologico abbraccia tutta l’ultima parte del Discorso (cc. 29-42), e pretende di dimostrare la priorità della legislazione giudeo-cristiana rispetto alla legislazione, alla storia, alla letteratura, alla sapienza greca.

Taziano conclude (c. 42) con un’affermazione di certezza nella bontà della causa da lui sostenuta, e si dice pronto, con l’aiuto di Dio, a sostenere  l’esame degli avversari.
Martedì, 07 Giugno 2005 02:15

Jinn (Maria Domenica Ferrari)

JINN
di Maria Domenica Ferrari

I musulmani credono di dividere il mondo con i jinn, esseri fatti di fuoco o vapore, non percepiti dai sensi e che possono assumere l'aspetto degli umani o degli animali.

I lessicografi arabi fanno derivare il nome dalla radice j n n che indica qualcosa di oscuro, nascosto, dissimulato, gli arabisti occidentali invece considerano etimologicamente molto difficile questa spiegazione, e non escludono una derivazione dal latino genius.

I jinn sono stati creati del fuoco, come gli angeli (1), ma vi sono anche quelli fatti di creta e di luce. Il legame con Iblîs il Šaytân è oscuro, poiché Iblîs viene definito un jinn, ma secondo il Corano Iblîs è un angelo (2)
.

Nell'Arabia preislamica i jinn erano l'espressione delle forze oscure della natura ostili all'uomo.

All'epoca di Muhammad si erano evoluti in dei impersonali e per gli Arabi di Mecca esisteva una parentela tra essi e Allah.

Per l'Islam ufficiale l’esistenza dei jinn è un fatto certo e indiscutibile che permane ai nostri giorni, i giuristi hanno stabilito il loro status legale nelle relazioni con l'umanità, in particolare in caso di matrimonio e proprietà. I filosofi invece hanno affrontato l'argomento in modo più ambiguo come al-Fârâbî o ne hanno negano l'esistenza come Ibn Sînâ ( Avicenna).

Nella lingua parlata non vengono chiamati con il loro nome, ma vi si allude come agli “altri”, ai “venti”. Il mondo degli esseri umani e dei jinn non è sentito separato, ma condiviso a livelli diversi. Questo mondo dell'invisibile è popolato anche da angeli (malâ’ika), orchi (ghwal), ‘ifrît (3), mârid (4) e šaytân.

Ai nostri giorni gran parte dei testi di letteratura popolare sono quelli che trattano i modi per proteggersi dai jinn. In Egitto una credenza diffusa è quella che se un uomo muore di morte violenta si trasforma in ‘ifrît, oppure l'uomo che muore in condizione di grave peccato viene trasformato in un jinn.

In Marocco i jinn sono divisi in quattro categorie:

quelli della terra, ritenuti i più numerosi e pericolosi, sono considerati i veri padroni delle terre;
quelli acquatici, sono i padroni dei pozzi, delle fonti;
quelli del fuoco;
quelli dell'aria.

Un personaggio popolarissimo in Marocco è ‘Â’iša Qandîša, talvolta ritenuta una afrîta altre una ghûla, viene descritta come una donna bellissima e nello stesso tempo terrificante, che nasconde sotto i vestiti i piedi da cammello, o capra, o mulo. Almeno una persona in una famiglia marocchina l'ha incontrata. A lei vengono imputate tutte le problematiche che possono manifestarsi all'interno di una coppia: disaccordi, impotenza, sterilità, malattie. A causa di ciò Westermarck l'ha collegata al culto di Astarte, dea fenicia della guerra e dell'amore.

Al jinn vengono ricondotte le malattie che agiscono sul corpo, sullo spirito e sul comportamento, mentre nel caso di invidia, gelosia si pensa alla magia.

I jinn che hanno un nome sono dotati anche di una particolare caratterizzazione per esempio:

domenica è il giorno di Mûdhib che causa ingiallimento,

lunedì è il giorno di Lâlla Mira che provoca tremori, malattie mentali,

martedì è il giorno di Al-Ahmar legato al colore rosso del sangue e delle piante come il melograno.

Sulla base di queste indicazioni il faqîh, può determinare quale tipo di jinn è la causa del malessere e approntare le contromisure.



Note


(1) LV, 14 “ Creò l’uomo da fango seccato come argilla per vasi- e i jinn creò di fiamma purissima di fuoco.”
(2) II, 32 - E quando dicemmo agli Angeli: “Prostratevi davanti ad Adamo!”, tutti si prostrarono salvo Iblîs , che rifiutò superbo e fu dei Negatori.-
(3) Epiteto che designa esseri caratterizzati da furbizia e insubordinazione, non sono jinn,non sono demoni, anche se presentano caratteristiche che li accomunano. Sono fatti di fumo, e come i jinn possono essere sia maschili che femminili.
(4) Parola che significa ribelle, rivoluzionario, per l'inconscio musulmano ha sempre un carattere negativo e rimanda alla ribellione per eccellenza quella dei jinn e dei demoni contro Dio.


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