Formazione Religiosa

Domenica, 03 Luglio 2005 21:08

Il cristocentrismo. Promotore di un'«etica particolare» o di una morale per tutti? (R. Tremblay)

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Parecchi moralisti provano ancor oggi delle difficoltà a vedere nel Cristo la condizione di possibilità di una morale per tutti. A fianco di autori reticenti o anche esitanti, ci sono quelli che dichiarano chiaramente che la messa in atto di una morale centrata sulla persona del Cristo sia di ostacolo alla concezione di una morale valevole per tutti.

"Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria (del Padre) e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola. dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato" (Eb 1,3-4).

Parecchi moralisti provano ancor oggi delle difficoltà a vedere nel Cristo la condizione di possibilità di una morale per tutti. A fianco di autori reticenti o anche esitanti, ci sono quelli che dichiarano chiaramente che la messa in atto di una morale centrata sulla persona del Cristo, così come è auspicato dal recente Magistero della Chiesa, sia di ostacolo alla concezione di una morale valevole per tutti (1). Non è mia intenzione andare alla ricerca degli argomenti che fondano la posizione di questi autori e di valutarne il tenore.Vorrei piuttosto esporre brevemente le ragioni che mi spingono ad adottare una posizione contraria.

Le recenti ricerche in cristologia neotestamentaria

Dopo aver messo in evidenza il processo tramite il quale la coscienza cristiana, a partire dal mistero pasquale, ha potuto risalire dal Cristo Omega al Cristo Alfa, le recenti ricerche in cristologia neotestamentaria ci hanno aiutato a concepire una specie di duplice profondità nella comprensione dell'identità di Gesù Cristo proprio in quanto Alfa: un Cristo Alfa Creatore dell'universo (2) e un Cristo Alfa, ambito o spazio nel quale il Padre decide per puro amore di creare l'uomo per finalizzarlo e introdurlo così nella sua intimità (3). Da questi dati scritturistici, ne deriva che una persona della Trinità, il Figlio eterno del Padre, é uomo. Affermazione densa di senso, poiché essa significa che, tramite questo legame a Dio, l’humanum è infinitamente più che un settore singolare, particolare del mondo creato. Esso gode dell'universalità propria di Dio. Facciamo un passo in più nella riflessione. Il Figlio al quale l'uomo è unito è certamente Dio nel senso stretto del termine, ma lo è in quanto Figlio. È dire che l'universale qualificante l'humanum passerà tramite la filiazione e che la filializzazione dell'uomo apparirà di conseguenza come una accentuazione di questo attributo. Più precisamente ancora. Quando il Figlio morto e risuscitato predispone la creatura umana a ricevere la filiazione adottiva o scava in essa il desiderio di essere filializzata e quando egli le dà effettivamente questo dono dopo averla preparata immediatamente a riceverlo tramite l’inclusione di tutta l'umanità in lui, non siamo in presenza di una particolarizzazione dell'humanum, ma di una intensificazione del suo carattere universale. L'uomo non è mai così globale come quando è filializzato nel senso forte del termine. È quando non lo è che egli cade nel particolare.

La comprensione dell'humanum apportato da Cristo

Tutti questi dati che vengono "dall'alto" trovano la loro applicazione nella comprensione dell'humanum apportata da Gesù Cristo. Come Figlio "fatto carne", aiuta l'uomo a prendere coscienza della sua dignità unica, insuperabile. La persona umana non può mai essere considerata come una quantità trascurabile, assimilata a un numero o a una cosa. Ella è, per così dire, della razza dell'Infinito; "siede tra i principi" e "riceve un trono di gloria" (cf. 1Sam 2,8; Sal 8,5-7; ecc.). Più ancora, l'humanum ha la stabilità, la solidità di Dio stesso. Ci si potrà accanire contro l'uomo, cercare di svilirlo, addirittura anche di distruggerlo sul piano materiale come su quello Spirituale. Non si riuscirà mai a farlo del tutto. Egli getta le sue radici in Dio, è piantato in lui. È interessante a questo proposito costatare che, nei momenti più oscuri della storia, ci sono stati sempre dei "focolari di luce" (cf. Fil 2,15) per ricordare all'uomo schiacciato, asservito, disprezzato che Dio mantiene viva la fiaccola dell'humanum. Basti pensare ai Santi e alle sante Sorti dai campi nazisti e dai gulag sovietici.

Il Figlio crocifisso mostra all'uomo il suo stato di miseria. Dicendo miseria, non mi riferisco al suo stato di dipendenza ontologica, ma al suo stato di creatura ferita da una rottura, da un progetto illusorio di deificarsi da se stesso, senza l'aiuto del vero Dio (cf. Gn 3.5). Questi legami rotti con il divinum hanno lasciato nell'uomo una traccia profonda, una debolezza di fondo, focolaio di altre debolezze distruttrici di sè e degli altri. Se l'uomo vivesse come se questa realtà non esistesse o non determinasse il suo essere, farebbe della sua vita una tragicommedia, identificando il reale a delle Scenografie incantate, di cartone dorato. È per guarire questa piaga aperta nel fianco dell'humanum che il Figlio incarnato muore in croce. Il suo sacrificio cruciforme non è un avvenimento qualunque senza conseguenze, senza impatto sull'humanum in quanto tale. Esso ha un effetto universale. Fa comprendere che il peccato segna e assale il cuore di ogni uomo e fonda la speranza di poterne uscire.

Infine, il Figlio risuscitato ricorda all'uomo che "l'homme passe l'homme" (B. Pascal), che c'è in lui un'aspirazione ad un al di là di se stesso che non potrà essere placata che tramite il dono della Trascendenza. Mostra anche che questa Trascendenza desiderata non è un sogno, un cielo sigillato, ma che esiste veramente ed è accessibile. La piena filializzazione della sua umanità ottenuta tramite la sua risurrezione dai morti ne è la prova innegabile. La sua uscita vittoriosa dal sepolcro non vale soltanto per un club di iniziati. Essa riguarda l'humanum come tale in un tratto fondamentale della sua identità.

Prospettiva cristologica e i comportamenti umani

Questo impatto del Figlio di Dio incarnato, morto e risuscitato sull'humanum come tale, questa cristologia dalle dimensioni universali dunque, si ripercuote praticamente sui comportamenti dell'uomo alle prese con le differenti realtà costitutive del mondo. Ne segnaliamo due che, a prima vista, sembrerebbero sfuggire all'influenza cristica.

L'uomo di oggi è sempre più cosciente della sua capacità di trasformare o di manipolare le leggi che reggono la consistenza degli esseri nell'universo. Può farlo semplicemente così? La sua ragione potrà eventualmente stabilire la norma morale conveniente, ma non infallibilmente. Chi, per es., gli darà la forza di resistere alla tentazione di modificare la natura degli esseri per soddisfare la sua curiosità invece di rispettare l'armonia che la Sapienza eterna ha deposto nel mondo creato? Chi gli darà la forza di dire no alla voglia di modellare orgogliosamente un mondo a sua immagine piuttosto che di lasciarvi risplendere l'immagine di colui che l'ha fatto? La stessa tentazione di fondo può trovare anche un'altra motivazione, quando un intervento manipolatore della natura potrebbe contribuire a risolvere dei problemi di ordine terapeutico altrimenti senza soluzione. La ragione potrà aiutare a stabilire un bilancio equo tra gli aspetti positivi e negativi implicati in una tale operazione e così far emergere la norma dell'agire, ma non infallibilmente. Chi gli darà la luce necessaria per non cedere alla soluzione più facile o alla vana-gloria a scapito di beni (ancora) superiori alla guarigione prospettata? Solo la grazia del Figlio crocifisso può essere pienamente efficace in proposito, grazia che non si riferisce al particolare, ma all'universale del cuore doppio dell'uomo (cf. Sal 28,3; Pr 26,23-25.. Ger 9,7; ecc.) e dei comportamenti che riguardano la consistenza della creazione.

Esaminiamo un altro caso. Il mondo dei media è una realtà che modella sempre di più la nostra società tramite il ricorso a tecnologie sempre più sofisticate. Questo mondo è al servizio dell'informazione percepita, giustamente, come un diritto inalienabile di ciascuno e di tutti. Ma quale informazione trasmettere che sia da un lato rispettosa del diritto appena segnalato e dall'altro del diritto alla reputazione? La ragione o il senso dell'etica professionale darà una risposta sempre appropriata a questa domanda? Chi fornirà all'uomo la forza, per es., di rinunciare alla paternità di uno scoop di grande portata mediatica per riguardo della buona reputazione degli altri o per il bene comune? Anche qui, necessiterà l'assistenza di una forza dall'alto che disponga i cuori ai valori che superano gli interessi personali immediati e l'amor proprio e che li accordi al servizio dell'altro e della società. Operando così, il Figlio crocifisso non bonifica soltanto il particolare, ma l'universale della condizione umana all'opera nel campo dei media, il quale, a sua volta, è lontano dall'essere un settore marginale del mondo nel quale noi viviamo.

La morale cristiana è universale

Giustamente Giovanni Paolo II ha insistito nelle sue due grandi Encicliche di contenuto morale sulla portata evangelizzatrice dell'agire cristiano (4). Perché la morale possa giocare questo ruolo, non deve respingere il Cristo in nome di una morale per tutti. Senza parlare del fatto che una tale prospettiva si opporrebbe al nocciolo imprescindibile dell'Evangelo, per il quale il Cristo non è un guru di una conventicola o di una regione qualunque ma il "Salvatore del mondo" (Gv 4,42; ecc.) e il Signore dell'universo (cf. Mt 28.18; FiI 2,10s; ecc.); senza parlare del fatto che la condizione per un dialogo vero non è la dissimulazione, ma la proclamazione umile e franca della sua identità, le considerazioni fatte più sopra a livello cristologico e antropologico non lasciano alcun dubbio: la morale propriamente cristiana mette in gioco l'uomo nelle sue componenti essenziali. Rinunciare al Cristo totale per evitare il particolare e aver accesso all'universale è contraddittorio nei termini. Significa tagliare il ramo sul quale si è seduti. Nel processo dell'incontro con il mondo, si potrà, secondo le necessità e le circostanze, insistere sull'aspetto dell'assunzione dell'humanum piuttosto che su quello della purificazione della sua colpa o del suo superamento tramite la comunione di Gesù Cristo con il Padre, ma questo accento non potrà in nessun modo essere esclusivo. Se ci si limitasse, per esempio, a considerare la sola consistenza dell’humanum, non si parlerebbe nè del Cristo integrale, nè dell'uomo vero, con la conseguenza che si mancherebbe il bersaglio dell'universale. I credenti dovrebbero sapere che non esistono in proposito due pesi, due misure; l'uomo in più o a fianco del "Figlio dell'uomo". Non c'è che l'"Uomo" (Ef 3,)4, unica condizione di possibilità e di realizzazione dell'humanum.

R. Tremblay

Note

(1) Cf.. tra gli altri F. Böckle, Fundamentalmoral, Munchen. 1977,234. tr. it., Morale fondamentale, Queriniana, Brescia 1979: CH.E. CURRAN, The Catholic Moral Tradition Today. A Synthesis, Georgetown University Press, Washington D.C., 1999, 31 (citato da L. MELINA, "Cristo e il dinamismo dell'agire: Bilancio e prospettive del cristocentrismo in morale" in Anthropotes 16(2000). 365. nota 3); D. MIETH, "Valori universali o etica particolare? Dove va la teologia morale? Il caso Marciano Vidal", in Concilium (2001)1, 780-789. Segnalo Mieth a fianco di Böckle e di Curran, poiché, nella scia del suo maestro A. Auer, si pronuncia nettamente per "un'etica universale della ragione" fondata sulla creazione. Negando che la redenzione, la Croce, la grazia possano servire da base alla "esposizione dei contenuti morali" (p. 785), egli riduce il ruolo di Cristo in teologia morale a ciò che segue: "La continuità con l'etica della creazione, anzi con il suo esplicito rinnovamento ad opera di Gesù rispetto alle etiche particolari giudaiche, costituisce di nuovo un ponte verso la ragione universale" (p. 781; il corsivo è nostro). Non c'è bisogno di essere maliziosi per comprendere che, stando così le cose, il Cristo considerato nella totalità del suo mistero non possa essere che fautore di un'"etica particolare".

(2) Dato che implica naturalmente le affermazioni sulla preesistenza alle quali Kasper attribuisce tra il resto il "significato universale di Gesù Cristo". Cf. W. Kasper, Der Gott Jesu Christi, Mainz 1982, 218, tr. it. Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana Brescia 1984. Ma non è su questo aspetto che ci soffermeremo.

(3) Questa decisione prenderà carne o si realizzerà concretamente nella storia - e così torniamo alla prima profondità cristologica appena segnalata – tramite le solidarietà per "somiglianza", per "ricapitolazione" e per "eccellenza" implicate nell’incarnazione, nella morte e nella risurrezione del Figlio. Abbiamo già trattato questi temi altrove. Cf. R. TREMBLAY, Radicali e fondati nel Figlio. Contributi per una morale di tipo filiale, Dehoniane, Roma 1997,34-37; ID., L'"innalzamento" del Figlio, fulcro della vita morale, Roma 2001, 19-35.

(4) Veritatis splendor 84ss: EV 13/2742ss e Evangelium vitae78s: EV 14/2426ss.

(da Rivista di Teologia Morale, XXXIV, n. 133, pp. 99-104)

 

Letto 2408 volte Ultima modifica il Giovedì, 07 Novembre 2013 16:26
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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