I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Note sul sacerdozio femminile nell'antichità
in margine a una testimonianza di Gelasio I
di Giorgio Otranto


In un’epoca come la nostra che ha riconsiderato, profondamente rivalutandoli, il ruolo e la presenza della donna nella famiglia, nell’ambiente di lavoro e nella società, il problema dell’ammissione delle donne al sacerdozio non poteva non suscitare un rinnovato interesse; esso è diventato anzi una delle più dibattute questioni ecclesiologiche di questi ultimi quindici anni. Sono sorti agguerriti movimenti di opinione, si sono levate voci di studiosi di diverse estrazioni culturali e professionali, si è sviluppato un vivace dibattito e nel 1976 si è registrato un intervento della Sacra Congregazione per la dottrina della fede che, nella Dichiarazione Inter insigniores, ha ancora una volta ufficialmente ribadito la posizione della Chiesa cattolica, da sempre contraria all’ammissione delle donne al sacerdozio e all’episcopato (1). Dopo questa Dichiarazione si sono moltiplicate le indagini, il dibattito si è fatto ancora più serrato, ma sostanzialmente le posizioni non sono cambiate, direi anzi che si sono cristallizzate e radicalizzate.

Come sempre succede quando si tratta di dare soluzioni adeguate a questioni dottrinali e disciplinari, anche in questo caso ci si è rivolti, con diversi intendimenti e risultati, al mondo antico. E qui il Magistero ordinario ha ritrovato le motivazioni su cui si radica la sua tradizionale opposizione al conferimento del sacramento dell’Ordine alle donne: il Cristo non ha chiamato alcuna donna a far parte dei Dodici e tutta la tradizione della Chiesa si è mantenuta fedele a questo dato interpretandolo come volontà esplicita del Salvatore di conferire soltanto all’uomo il potere sacerdotale di governare, insegnare e santificare; e solo l’uomo, per la sua naturale rassomiglianza col Cristo, può esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo stesso nell’Eucaristia. D’altra parte, coloro che sono su posizioni antitetiche, nel richiamarsi pure alla cristianità antica, con diverse argomentazioni fanno rilevare che la posizione ufficiale della Chiesa è conseguenza di un’antropologia tutta calata nel mondo antico e difficilmente accettabile dalla sensibilità moderna un’antropologia che risente dello stato di inferiorità palese in cui la donna era tenuta nell’ambiente greco e romano e, ancor più in quello palestinese che vide nascere il cristianesimo.

Queste, sostanzialmente, sono le posizioni anche se al loro interno si possono cogliere diverse sfumature e articolazioni, che non è qui il caso di richiamare, anche perché questo contributo, ben lungi dal voler entrare nel merito della vexata quaestio, mira solamente a fornire ulteriori elementi per la ricostruzione storica di un quadro che sia il meno frammentario ed approssimativo possibile. D’altro canto, ogni volta che si è data, da una parte e dall’altra, una soluzione decisa alla questione, si è dovuto dare il massimo rilievo ad alcuni elementi e motivi trascurandone, spesso pregiudizialmente, altri.

Tra le non poche ricerche incentrate in modo specifico sull’argomento in questione vanno segnalate almeno quelle di Van der Meer (2), Gryson (3), Galot (4), i quali mettono in rilievo nella Chiesa antica la donna non ha mai esercitato il ministero sacerdotale e che la sola funzione consentitale a partire dal III secolo, nell’ambito della comunità, era il diaconato in Oriente, tranne che in Egitto; i compiti assegnati a tale ministero erano la cura delle donne inferme e l’assistenza al battesimo delle donne. L’istituzione del diaconato femminile non ha varcato i confini dell’Oriente e i tentativi fatti nel IV e V secolo per introdurlo in Occidente non ebbero praticamente successo (5). Questa conclusione è senza dubbio corretta, ma non dà conto (o lo fa solo sommariamente) di alcuni episodi e fenomeni in forza dei quali la questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio si presenta come problema abbastanza vivo sin dai primi secoli cristiani.

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Tra questi episodi ha un valore particolare uno di cui è tramandata notizia in un’epistola di Gelasio I (492-496), che fornisce elementi finora non adeguatamente valutati dagli studiosi (6). Van der Meer (7) le dedica non più che un accenno, mentre Gryson (8) e Galot (9), pur soffermandosi un po’ più distesamente sulla testimonianza gelasiana, non ne traggono alcuna conclusione e lamentano nell’epistola la mancanza di indicazioni precise: un’affermazione, quest’ultima, che non mi trova del tutto concorde. Ma vediamo di che si tratta.

Gelasio nel 494 (10) indirizza una lunga ed interessante epistola … ad universos episcopos per Lucaniam, Brutios et Siciliam constitutos. Essa è costituita da 27 decreti in cui il vescovo di Roma affronta numerose e rilevanti questioni (11) che, ad esclusione di alcune più propriamente sacramentali, riguardano in massima parte l’organizzazione interna delle comunità, le condizioni richieste per accedere alla dignità clericale, i rapporti tra vescovo, presbitero e diacono, le ordinationes e i negotia dei clerici, la dedicazione di nuove basiliche, la disciplina del clero. Quattro dei decreti sono dedicati alla presenza delle donne nell’ambito delle comunità cristiane: il XII tratta della consacrazione delle vergini; il XIII e il XXI riguardano il divieto della velatio per le vedove; il XXVI, infine, è quello che ci interessa più da vicino in quanto affronta esplicitamente il problema del sacerdozio delle donne:

“Nihilominus impatienter audivimus, tantum divinarum rerum subiisse despectum, ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur, cunctaque non nisi virorum famulatui deputata sexum cui non competunt, exhibere” (12).

Gelasio, dunque, dichiara di aver appreso con rammarico che il disprezzo per quello che riguardava la religione cristiana era arrivato a tal punto che le donne venivano ammesse a sacris altaribus ministrare: espressione che indica senza possibilità di dubbio lo svolgimento di un servizio liturgico presso gli altari. In tal senso il termine ministrare, corrispondente del greco diakonein, è adoperato in tutta la letteratura cristiana delle origini e trova sicura, antica attestazione negli Atti (13,2) e nell’epistola agli Ebrei (10,11) (13).

In Giuliano Pomerio, autore contemporaneo di Gelasio, ricorre la medesima espressione altari ministrare per designare lo svolgimento del servizio cultuale sacerdotale (14). Lo stesso termine (o il sostantivo minister-ministra) veniva adoperato anche in riferimento all’azione liturgica di diaconi e diaconesse. E’ qui appena il caso di ricordare la celebre lettera di Plinio il Giovane a Traiano in cui vengono menzionate due diaconesse (duae ancillae, quaeministraedicebantur) (15). Nel c. II del concilio di Tours del 461 si vieta a sacerdoti e diaconi di plebi ministrare in determinate circostanze (16).

Stabilire se l’espressione ut feminae sacris altaribus ministrare firmentur faccia riferimento al servizio liturgico di diaconesse o presbitere potrebbe essere, almeno in questo caso, di secondaria importanza, dal momento che subito dopo Gelasio aggiunge di aver anche saputo che le donne compivano tutte le funzioni che erano state assegnate solamente al ministero degli uomini e non competono al sesso femminile:cunctaque non nisivirorumfamulatui deputata sexum, cui non competunt, exhibere. Galot considera famulatui termine generale per designare il servizio del culto e su questa base, così come aveva fatto Gryson (17), rimane sostanzialmente in dubbio se si tratti di servizio diagonale o sacerdotale (18). A me pare, invece, che tutta l’espressione, abbia un suo significato preciso in margine al quale si impongono alcune considerazioni. Va rilevato innanzitutto che Gelasio in un altro locus della stessa epistola adopera ecclesiasticus famulatus come sinonimo di ministerium clericale (19). E che nel nostro caso virorum famulatus indichi non il ministerium clericale del diaconus, ma quello più comprensivo del presbyter si desume dal cuncta che qualifica la pienezza delle attribuzioni, liturgiche, giurisdizionali e magisteriali, del virorum famulatus: le funzioni esercitate dalle donne presso gli altari non possono quindi, che riferirsi all’amministrazione dei sacramenti, al servizio liturgico e all’annunzio pubblico e ufficiale del messaggio evangelico, che costituiscono praticamente i compiti del sacerdote ministeriale.

In definitiva ritengo che Gelasio, piuttosto che l’esercizio di un servizio liturgico diagonale femminile, abbia voluto stigmatizzare e condannare un abuso che gli doveva apparire di gran lunga più grave: quello di vere e proprie presbitere che svolgevano tutti i compiti tradizionalmente riservati solo agli uomini. Si comprende così non solo il tantus divinarum rerum despectus, ma anche la durezza e l’insistenza con cui Gelasio, nel prosieguo del decreto, condanna l’operato di quei vescovi che o commettono tali abusi o, non denunziandoli pubblicamente, danno a vedere di favorirli; sempre che, continua il papa con sarcasmo, si possono chiamare vescovi coloro che sminuiscono a tal punto il ministero loro affidato e non hanno alcun rispetto per le regole invalse nella Chiesa. Che cosa bisogna pensare di questi uomini che, completamente assorbiti dai loro affari, hanno procurato con diverse iniziative una grande rovina che non solo sembra travolgere loro stessi, ma anche provocare, se non rinsaviscono, un danno fatale a tutte le Chiese? Sia questi vescovi, sia gli altri che, pur sapendo, non hanno denunciato la situazione, per Gelasio, di perdere la propria dignità episcopale. Nessuna attenuante può esserci, conclude il papa, né per quanti, pur conoscendo i canoni, non li hanno fatti rispettare né per quanti, ignorandoli, non si sono preoccupati di informarsi sulla condotta da tenere (20).

Gelasio, dunque, fa riferimento alla questione del sacerdozio delle donne solo nella parte iniziale del decreto; nel prosieguo di esso si limita a denunciare con un linguaggio altisonante la gravità dell’errore, prospettando con insistenza, le conseguenze dannose che possono derivare alle Chiese da quell’abuso; e fa tutto questo senza mai entrare nel merito della questione, senza cioè enucleare eventuali motivazioni di ordine scritturistico o teologico per rifiutare l’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine. Fa solo riferimento a più riprese alla regula christiana, alle regulae ecclesiasticae e ai canones che alcuni vescovi avevano o violato o ignorato. Evidentemente il ripetuto richiamo alla tradizione doveva essere ritenuto dal papa sufficiente per far apparire in tutta la sua gravità la natura dell’abuso condannato.

Il riferimento insistente alle gravi responsabilità dei vescovi qui ista committunt e qui haec ausi sunt exercerepuò avere un significato preciso che è indicativo della consistenza e della ratio del fenomeno in questione. I verbi committere ed exercere postulano una partecipazione attiva e fattuale di alcuni presuli alla perpetrazione dell’abuso; e questa partecipazione non può esaurirsi in un atteggiamento di semplice assenso o di indifferenza e distacco verso il fenomeno in questione; essa deve necessariamente coinvolgere in modo diretto i vescovi nell’exercitium del loro potere. Sono convinto che con le espressioni ista committunt e haec ausi sunt exercere Gelasio intende richiamare un mandato preciso conferito da alcuni presuli alle donne per l’esercizio sacerdotale: il richiamo, trattandosi di vescovi, non può che essere alla ordinazione sacerdotale che consentiva, appunto, l’esercizio del sacramento dell’Ordine da parte di alcuni rappresentanti del sesso femminile. Non si tratterrebbe, in sostanza, di semplici abusi perpetrati da alcune donne, ma di iniziative più consistenti che vedevano coinvolti in prima persona anche i vescovi. Una conferma a tale ipotesi può vedersi nell’espressione secondo cui questi vescovi hanno procurato una grande rovina alla Chiesa con diverse iniziative (multimodis impulsionibus); una di queste, certamente la più grave, è a parer mio quella di aver conferito il sacramento dell’Ordine alle donne. D’altra parte, la differenza e l’insistenza con cui Gelasio condanna l’operato dei vescovi lasciano ragionevolmente supporre responsabilità dirette molto gravi da parte di alcuni di loro nella vicenda trattata; per altri l’accusa è più generica e si limita ad evidenziare un atteggiamento di tacito e colpevole assenso ad un comportamento che contravveniva ai canones. I canoni ai quali potrebbe voler far riferimento Gelasio sono il XIX del concilio di Nicea (21), l’XI e il XLIV del concilio di Laodicea (seconda metà del IV secolo) (22), il II del concilio di Nǐmes (394 o 396) (23) il XXV del I concilio di Orange (441) (24), che proibiscono alle donne di svolgere il servizio liturgico comunque configuratesi o di far parte del clero. E’ superfluo in questa sede analizzare tali canoni anche perché questi sono stati esaminati da Van der Meer (25), Gryson (26) e Galot (27).

Circa l’estensione del fenomeno lamentato da Gelasio va tenuto presente che il papa ne tratta, come ho già detto, in un’epistola che affronta numerose questioni di ordine disciplinare, organizzativo e dottrinale e che fu inviata a tutti i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia. Con la lettera in questione, comunque, Gelasio molto probabilmente intendeva risolvere situazioni che non erano esclusive delle regioni ricordate. L’epistola,infatti, come il suo autore chiarisce in apertura, prende le mosse da una relazione che Giovanni, vescovo di Ravenna (477-494), gli aveva mandato per sollecitare il riordinamento delle Chiese di diverse regioni d’Italia, sconvolte dalla carestia e dalla guerra tra Odoacre e Teodorico (28). Lanzoni ha supposto che l’iniziativa del vescovo Giovanni dovesse essere stata concordata con la corte di Ravenna (29): in effetti a Teodorico, che si accingeva ad una difficile opera di ricostruzione politica e che doveva risolvere anche il problema della convivenza tra cattolici ed ariani, necessitava operare in una società senza urti e contrasti.

Anche se è difficile pensare che il fenomeno del sacerdozio femminile fosse capillarmente diffuso in tutte e tre le regioni o in molto altre parti d’Italia, è probabile che episodi quali quelli condannati dal papa non siano rimasti fenomeni isolati e circoscritti in un ambito ristretto. L’intervento perentorio di Gelasio, che coinvolge parecchi vescovi nella questione, prova anzi che la situazione doveva essere giunta a un punto tale da preoccupare seriamente Roma. D’altra parte, se si fosse trattato di qualche caso isolato, probabilmente il papa, non fosse ’altro che per motivi di prudenza, non avrebbe trattato in un’epistola che, considerata la rilevanza degli argomenti affrontati, doveva avere diffusione non solo in Lucania, Bruzio e Sicilia, ma praticamente anche in altre regioni che fossero per un verso o per l’altro interessate alle numerose questioni trattate nel documento o solo a qualcuna di esse. Epistole come quella in oggetto erano destinate a circolare in tutte le comunità e costituivano per la gerarchia una sorta di prontuario per poter affrontare determinati problemi interni di ordine disciplinare, organizzativo, dottrinale. E non è da escludere che Gelasio abbia inviato la medesima epistola ad altre chiese che erano interessate agli stessi problemi in essa trattati (30).

In definitiva dall’analisi dell’epistola mi pare possa desumersi che sul finire del V secolo in una vasta area dell’Italia meridionale, se non anche in altre non identificabili regioni d’Italia, alcune donne, ordinate da vescovi, esercitavano un vero e proprio sacerdozio ministeriale.

E’ difficile, allo stato attuale della ricerca, precisare la genesi di tale fenomeno. Va tenuto, comunque, presente, come è stato opportunamente sottolineato (31), che l’area entro cui esso si verific0, l’Italia meridionale, era tradizionalmente collegata con gli ambienti greci e bizantini, dove a partire dal III secolo le donne esercitarono stabilmente il diaconato; alla fine del IV secolo le diaconesse venivano annoverate tra i clerici, giacché, come questi, ricevevano l’ordinazione con l’imposizione delle mani secondo un preciso rituale, precisi obblighi e condizioni giuridiche (32). Né va dimenticato che proprio in Oriente, in Asia Minore, soprattutto in ambiente gnostico e montanista si erano registrati sin dal II secolo casi di donne con le funzioni di presbitero o di vescovo che la Chiesa aveva condannato.

Ireneo tramanda che lo gnostico valentiniano Marco si circondava di donne cui ordinava di consacrare alla sua presenza calici contenenti vino (33).

Firmiliano di Cesarea, in un’epistola a Cipriano, condanna duramente l’attività di una donna che, attorno al 235, in Asia Minore attirava un gran numero di fedeli, battezzava e celebrava l’Eucaristia secondo il rituale della Chiesa (34).

Uguale condanna esprime Epifanio di Salamina per alcune sette montaniste della Frigia che consentivano alle donne l’accesso al sacerdozio e all’episcopato (35).

Su questa base mi pare possibile ipotizzare un’influenza dell’ambiente greco e bizantino che avrebbe determinato o favorito il sorgere del fenomeno della donna-presbitera in Italia meridionale.

Naturalmente non sorprende trovare in queste regioni, soprattutto nel Bruzio e nella Sicilia, a livello di faciespassim quocumque tempore (37). culturale cristiana, elementi e motivi che riconducono, per un verso o per l’altro, al mondo bizantino ancor prima della guerra greco-gotica (535-553), basti pensare che nel 447 Leone Magno esorta i vescovi di Sicilia a non amministrare il battesimo, secondo l’usanza greca, anche nel giorno dell’Epifania, oltre che a Pasqua e Pentecoste (36). E Gelasio intende molto probabilmente ribadire proprio questo divieto quando nel X decreto dell’epistola in questione invita i vescovi di Lucania, Bruzio e Sicilia ad amministrare il battesimo solo a Pasqua e Pentecoste e non

Il fenomeno del sacerdozio delle donne in Italia meridionale andrebbe, dunque, visto nel contesto della particolare sensibilità di questa area geografica al richiamo del mondo bizantino. Sensibilità che porterà, tra VII e VIII secolo, ad una sempre più evidente ellenizzazione della Chiesa nelle regioni interessate, soprattutto in Sicilia e Bruzio (38). E se nel fenomeno del sacerdozio delle donne si può genericamente cogliere una matrice greca e bizantina, va specificato che l’episcopato di Lucania, Bruzio e Sicilia (o parte di esso), conferendo l’Ordine sacro alle donne e consentendo loro di svolgere presso gli altari cuncta non nisi virorum famulatui deputata, era andato ben al di là del modello cui probabilmente guardava.

La presenza, sul finire del V secolo, di presbitere nel Bruzio non può non richiamare un’epigrafe che riveste notevole importanza come documento storico in relazione alla questione che sto trattando: B(onae) m(emoriae) s(acrum). Leta presbitera / vixit annos XL, menses VIII, dies VIIII / quei (scil.cui) bene fecit maritus. / Precessit in pace pridie / idus Maias (39). L’epitaffio fa riferimento ad una Leta presbytera, defunta poco più che quarantenne, alla quale il marito aveva posto la tomba; esso proviene dalla catacomba di Troppa, una cittadina che ha restituito la più consistente documentazione epigrafica e monumentale del Bruzio paleocristiano (40).

Nel termine presbytera finora tutti gli studiosi, da De Rossi (41) a Crispo (42) a Ferrua (43), sulla spinta che non ha mai fatto alcuna concessione al sacerdozio femminile hanno sempre visto la moglie del presbyter. Alla luce di quanto emerso dall’epistola gelasiana mi pare si possa ragionevolmente ipotizzare che la Leta dell’epigrafe di Troppa fosse una vera e propria presbytera, una donna, cioè che svolgeva il ministero sacerdotale nella comunità cristiana di Troppa. Anche la datazione dell’epitaffio, che Ferrua fa risalire alla metà del V secolo (44), avvalora questa ipotesi. Le due notizie, dunque, quella gelasiana e quella tradita dall’epigrafe, si illuminano e si confermano a vicenda, attestando l’esistenza del sacerdozio femminile nel Bruzio tra la metà e la fine del V secolo.

Oltre che questa significativa convergenza con l’epistola gelasiana, un altro motivo mi induce a vedere in Leta una vera e propria presbitera. Se Leta fosse una uxor presbyteri dovremmo inferirne che il marito, che le ha posto la tomba, ha rinunziato a qualificarsi come presbyter per trasferire sulla moglie tale qualifica. Operazione di cui sinceramente non so vedere alcuna ragione valida di cui non si ha riscontro nella documentazione epigrafica. Stando alle testimonianze che ho potuto raccogliere, ogni volta che un presbyter dispone la tomba o provvede alla sepoltura della moglie, questa viene sempre indicata col termine coniux (45) e, in qualche caso,amatissima (46). D’altra parte, anche a livello letterario è ricorrente l’accostamento presbyter-presbytera per indicare in presbytera la moglie del presbyter (47), ma non è mai stato attestato, a quel che mi risulta, maritus (o coniux o vir) - presbytera.

Un’altra presbytera è ricordata in un’epigrafe su un sarcofago proveniente da Salona, in Dalmazia che porta la data consolare del 425 (48). D(ominis) n(ostris) Thaeodosio co(n)s(ule) XI et Valentiniano/viro nobelissimo Caes(are). Ego Thaeodo/sius emi a Fl(avia) Vitalia per(es)b(ytera) sanc(ta) matro/na auri sol(idis) III. Sub d(ie)… (49) L’epigrafe richiama il fenomeno dell’assegnazione e della vendita dei posti nei cimiteri comunitari cristiani. Tale attività a Roma, città per la quale siamo meglio informati, fu gestita inizialmente dai fossores e successivamente da praepositi e presbiteri (50). Stando all’epigrafe, Teodosio aveva acquistato per tre solidi d’oro un posto nel cimitero subdiale di Salona dalla presbytera Flavia Vitalia (51). Pure in questo caso,dunque, una presbytera è investita di un compito ufficiale che nella comunità, da una certa epoca in poi, fu proprio del presbyter (52). Anche se l’epigrafe non offre elementi sufficienti per poter dire che la presbbytera in questione svolgeva il ministero sacerdotale, sulla base della documentazione di cui attualmente disponiamo, a me pare che contratti di quel tipo si stipulassero direttamente con chi aveva un ruolo o una funzione ufficiale nell’ambito della comunità – il fossor, il praepositus, il presbyter (nel nostro caso la presbytera) – e non con la uxor presbyteri.

Proviene pure da Salona un frammento di coperchio di sarcofago, probabilmente del V-VI scolo, che reca la scritta (sace)rdotae (53). Potrebbe trattarsi, anche in questo caso, di una donna investita, come la conterranea Flavia Vitali, di funzioni sacerdotali.

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Oltre al fenomeno testimoniato dall’epistola gelasiana, la cristianità antica ha conosciuto altri casi di donne che svolgevano il servizio liturgico; questi interessano, come ho già rilevato, a partire dal II secolo, gli ambienti gnostici e montanisti, contro cui polemizzano a più riprese i Padri della Chiesa.

Agli inizi del VI secolo, in un’epoca quindi molto vicina a quella dell’epistola gelasiana, si ha notizia di un altro caso di donne che partecipavano attivamente alla liturgia. Il caso è segnalato per il 511 in Gallia dai vescovi Licinio di Tours, Melanio di Rennes ed Eustochio di Angers che indirizzarono un’epistola ai sacerdoti bretoni Lovocario e Catiherno, rimproverandoli di servirsi, durante la Messa, di donne che prendevano in mano il calice e distribuivano al popolo il sangue di Cristo. I vescovi condannano severamente l’operato dei due presbiteri e, appellandosi alla tradizione, li minacciano di escluderli dalla comunione ecclesiastica qualora non smettano di farsi assistere da quelle donne (conhospitae) (54), con le quali inoltre convivevano (55).

Dall’epistola si desume che queste conhospitae svolgevano il servizio liturgico proprio non del presbyter ma piuttosto del diaconus, cui era consentito amministrare la comunione: si tratta, in ogni caso, di attribuzioni che andavano al di là dei compiti tradizionalmente riservati in Oriente alle diaconesse.

E proviene dai dintorni di Poitiers, una zona molto vicina a quella nella quale operavano i tre vescovi, un graffito di dubbia datazione (56) che attesta lo svolgimento di un servizio della donna presso gli altari: Martia presbuteria/ferit oblata Oleari/o par(iter) et Nipote. Contrariamente a Mommsen (57) e a Diehl (58) che riferiscono presbyteria ad obblata (= oblationes presbyterales), ritengo che presbytera stia per presbytera proprio come nel canone XX del concilio di Tours (59) e nel canone XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo (60). Non è facile precisare la natura del servizio svolto da Marzia: questa è la uxor presbyteri che porta (ferit = fert) il pane e il vino per la celebrazione eucaristica come una semplice fedele o è una presbytera con compiti più specifici nella liturgia eucaristica? Olybrius e Nepos sono quasi sicuramente due presbyteri che officiavano nella comunità di cui faceva parte anche Marzia; ed è probabile che questa collaborasse abitualmente con loro durante la sinassi eucaristica. Il fatto che si sia voluto ricordare un’azione svolta da Marzia nell’ambito della celebrazione liturgica potrebbe significare che non ci si trova di fronte al gesto usuale dei fedeli al momento dell’offertorio, ma piuttosto di fronte ad un atto abitualmente compiuto dal diacono o da un altro membro del clero. Potrebbe trattarsi in definitiva di un servizio liturgico analogo a quello delle conhospitae che collaborano con i presbyteri Lovocato e Catiherno.

A me pare di notevole interesse questa convergenza tra documentazione letteraria e documentazione epigrafica che attestano, nella stessa zona o in zone confinanti della Gallia, una funzione particolare, e certo non abituale, della donna nell’ambito della celebrazione eucaristica. Può, beninteso, anche trattarsi di un semplice caso, ma va tenuto presente che la medesima convergenza si è rilevata anche per il Bruzio.

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Le notizie raccolte sul sacerdozio delle donne nell’antichità sono scarse e sparse. Alcune vanno ulteriormente verificate in un quadro ampio che includa anche la documentazione iconografica da cui possono venire nuovi stimoli per un ulteriore approfondimento del problema, come credo ne siano venuti da quella epigrafica.

Anche se sono attestati pochi casi di donne che svolgono le funzioni di presbyterae, la frequenza con cui deliberati conciliari e autori cristiani si soffermano, sempre polemicamente, sulla questione dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine fa pensare che i casi di donne che svolgevano le funzioni di presbytera o un altro tipo di servizio liturgico doveva essere molto di più di quelli attestati dalla documentazione letteraria ed epigrafica. Basta scorrere i saggi di Van der Meer, Gryson e Galot per rendersi conto della continuità con cui la gerarchia, i Padri e le assemblee conciliari hanno affrontato il problema dell’ammissione delle donne al sacramento dell’Ordine.

Tutto questo, a dispetto della lamentata esiguità della documentazione e contrariamente a quanto abitualmente si sostiene da parte di quelli che sono contrari al sacerdozio femminile, significa che la posizione assunta al riguardo dalla Chiesa antica – da tutta la Chiesa e non dalla sola gerarchia – non può configurarsi come una tradizione monolitica, ben definita cioè in tutti i suoi aspetti e risvolti o comunque accettata da tutti, ma piuttosto come una realtà in cammino, come una questione vivamente avvertita (61), dibattuta e qualche volta, anche se raramente, diversamente risolta. La tradizione diventa o è diventata monolitica nel momento in cui si condannano o si sono condannate tutte le soluzioni che nel passato si sono discostate da quella ufficialmente accettata e difesa dalla Chiesa cattolica. Su questo atteggiamento della Chiesa può avere influito anche il fatto che dal II secolo alcuni gruppi, condannati come eretici, ammettevano le donne al presbiterato e all’episcopato. Ma non necessariamente la presenza di una presbytera connotava la sua eterodossia o quella della Chiesa in cui viveva e svolgeva il suo ministero. Lo attesta in modo esplicito Attone, vescovo di Vercelli, vissuto tra IX e X sec., di cui sono noti l’attività riformatrice e l’impegno contro la corruzione del clero. Scrisse tra l’altro un tratto canonistico e raccolse, vita sacramentale ed espressione liturgica.

A lui si era rivolto un sacerdote di nome Ambrogio per chiedergli come si dovessero intendere i termini presbytera e diacona della canonistica antica. La sua risposta non lascia adito a dubbi. Egli comincia col rilevare che siccome nella Chiesa antica molta era la messe e pochi gli operai (Mt 9,37; Lc 10,2),anche le donne ricevevano gli Ordini sacri ad adjumentum virorum, come prova Rom 16,1 (Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris); fu il concilio di Laodicea, della seconda metà del IV secolo, a proibire, per Attone, l’ordinazione presbiterale delle donne: Quod Laodicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitus quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes in Ecclesiis ordinari (62). Molto siè scritto sul c. XI del concilio di Laodicea (peri tou mh dein tas legomenas presbutidas etoi prokaqemenas en th ekklesia kaqistasqai) (63) e sul significato del termine presbutidas, del quale si sono date diverse spiegazioni e si è sistematicamente escluso che possa indicare vere e proprie presbyterae. Ma questa esclusione è il risultato di un modo di procedere a tesi che ha fortemente condizionato non pochi studiosi. Basti leggere quello che scrive al riguardo Galot: “il canone 11 del concilio di Laodicea imbarazza i commentatori… Le incertezze riguardano il significato di ‘presbiteri’ e di ‘presidenti’, come del verbo ‘stabilire‘ o ‘ordinare‘. Se ci si dovesse fidare del titolo che ha il canone: ‘Non bisogna stabilire donne-preti nella chiesa‘ , si intenderebbe le ‘presbitidi‘ nel senso di ‘pretesse‘. Ma simile significato sembra impensabile nella chiesa cattolica, e si è cercato di identificare queste ‘presbitidi‘ sia con diaconesse superiori, sia con semplici diaconesse, sia con donne anziane, incaricate della sorveglianza delle donne nella chiesa (64). Alla luce di quanto finora osservato, perché non dare del c. XI di Laodicea l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere l’interpretazione che sembra più ovvia? Perché non riconoscere, come fa Attone che esso proibisce l’ordinazione presbiterale delle donne? Lo stesso Galot ammette che si tratta di proibizione del sacerdozio femminile, anche se ne circoscrive la portata riferendola alla polemica antimontanista (65).

Ma ritorniamo al vescovo di Vercelli. Egli, dopo essersi soffermato sulla figura della diaconessa, ribadisce che nelle comunità cristiane antiche non solo gli uomini ma anche le donne venivano ordinate (ordinabantur) ed erano a capo della comunità (praeerant ecclesiis), erano chiamate presbyterae ed avevano il compito di predicare, comandare, insegnare (Hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, iubendi vel edocendi… officium sumpserant) (66): in questi tre termini è condensato il ruolo del sacramento dell’Ordine.

Conoscitore profondo della canonistico e delle istituzioni ecclesiastiche, il vescovo di Vercelli precisa che il termine presbytera poteva indicare nella Chiesa antica anche la moglie del presbyter;delle due accezioni egli dichiara di preferire la prima (67); ma questa affermazione va vista nel contesto della polemica che Attone di Vercelli e numerosi altri autori medievali condussero contro la cosiddetta Nicolaitica haeresis e in favore del celibato sacerdotale (68).

Questa di Attone è una testimonianza di notevole rilievo per la questione del sacerdozio femminile nell’antichità; e stranamente nessuno degli autori che si è interessato del problema, da Van der Meer, che pure fa una ricca raccolta di fonti antiche e medievali, a Gryson, a Galot ne ha fatto cenno.

Il solo Martimort, nel suo recentissimo saggio, l’ha presa in considerazione mostrandosi sorpreso per la spiegazione del termine presbytera data da Attone (69). In altri casi la stessa testimonianza è stata volutamente ignorata (70) evidentemente perché non in linea con quella che sembrava la tradizione unanime; essa avrebbe dovuto ingenerare per lo meno il dubbio, dal quale soltanto può derivare una certezza motivata, quale che sia. Ho l’impressione, invece, che nel corso dei secoli si sia operata, in parte accidentalmente in parte per motivi di prudenza o per conformismo, una decisa selezione o una preconcetta interpretazione delle già scarse notizie riguardanti l’esercizio del ministero sacerdotale da parte delle donne. Alla luce della testimonianza di Attone bisogna tentare di recuperare anche quelle testimonianze che a prima vista ci appaiono solo come schegge o frammenti di storia per ricomporre un quadro il più ampio possibile. E forse, quanto la ricerca sarà più spassionata, questo quadro potrà fornire utili punti di riferimento affinché la questione dell’ammissione delle donne all’ordine sacro venga affrontata col supporto di una più ampia base documentaria.

Note

1) La dichiarazione, firmata Paolo VI il 15 ottobre 1976, fu resa pubblica il 27 gennaio 1977 sull’Osservatore Romano; AAS 69, 1977, n. 2, pp. 98-116.

2) H. VAN der MEER, Sacerdozio della donna? Saggio di storia della teologia, Brescia 1971 (trad. it.; ed. or. in tedesco pubblicata a Basel nel 1969)

3) R. GRYSON, Il ministero della donna nella Chiesa Antica, Roma 1974 (trad. it.; ed. or. in francese pubblicata a Gembloux nel 1972).

4) J. GALOT, La donna e i ministeri nella Chiesa, Assisi 1973. Sulla questione cfr. i contributi di P.H. LAFONTAINE, Le sexe masculin, condition de l’accession aux ordres aux IV° et V° siècles: Revue de l’Université d’Ottawa 31, 1961, 137-182; Les conditions positives de l’accession aux ordres dans la première législation ecclésiastique (300-492), Ottawa 1963.

5) Mentre Van der Meer tratta solo di sfuggita il problema delle diaconesse (Sacerdozio… cit. pp. 119-122), Gryson (Il ministero… cit. passim e pp. 201-202) e Galot (La donna… cit. passim e pp. 24-46) analizzano più diffusamente questo tema.

6) Ep. 14 (In A. THIEL, Epistulae Romanorum pontificum genuinae, Hildesheim-New York 1974, rist. Ed. 1867, pp. 360-379)

7) Sacerdozio… cit. p. 128.

8) Il ministero… cit. pp. 194-195.

9) La donna… cit. pp. 86-87.

10) L’epistola è datata all’11 marzo (Ep. 14,28; Thiel p. 379).

11) Il Lanzoni, per l’importanza e la ricchezza delle questioni trattate, la definisce epistola-enciclica. (La diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, vol. I, p. 329).

12) Ep. 14,26; Thiel 376-377.

13) Cfr. A.M.P. ELLEBRACHT, Remarks on the vocabulary of the ancient orations in the Missale Romanum, Nijmegen-Utrecht 1963,p. 104; A. BLAISE, Le vocabulaire latin des principaux thèmes liturgiques, Turnhout 1966, pp. 502-503.

14) Vita cont. 2,7,3: PL 59,452.

15) Ep. 10,96,8.

16) In Concilia Galliae A. 314-A. 506 (C. Munier): CCL 148, 144.

17) Il ministero… cit p. 195

18) La donna… cit p. 86, n. 56.

19) Ep. 14,14; Thiel 370.

20) Ep. 14,26; Thiel 377-378: Nisi quod omnium delictorum, quae singillatim perstrinximus, noxiorum reatus omnis et crimen eos respicit sacerdotes, qui vel ista committunt, vel committentes minime publicando pravis excessibus se favere significant: si tamen sacerdotum jam sint vocabulo nuncupandi, qui delegatum sibi religionis officium sic prosternere moliuntur, ut in perversa quaeque profanaque, sine ullo respectu regulae Christianae praecipitia funesta sectentur. Quumque scriptum sit: Minima qui spernit, paulatim decidit; quid est de talibus existimandum, qui immensis ac multiplicibus pravitatum molibus occupati, ingentem ruinam multimodis impulsionibus ediderunt, quae non solum ipsos videatur obruere, sed et ecclesiis universis mortiferam, si non sanentur, inferre perniciem? Nec ambigant non solum qui haec ausi sunt exercere, sed etiam qui hactenus cognita siluerunt, sub honoris proprii se jacere dispendio, si non quanta possunt celeritate festinent, ut lethalia vulnera competenti medicatione salventur. Quo enim more teneant jura pontificum, qui pontificalibus excubiis eatenus injuncta dissimulant, ut contraria domui Dei, cui praesident, potius operentur? Quantumque apud Deum possent, si non nisi convenientia procurarent, tantum quid mereantur adspiciant, quum exsecrabili studio sectantur adversa, et quasi magis haec regula sit, qua ecclesiae debeant gubernari, sic quidquid est ecclesiasticis inimicum regulis perpetratur: quum et si cognitos habuit canones unusquisque pontificum, intemerata debuerit tenere custodia, et si forsitan nesciebat, consulere fidenter oportuerit ignorantem. Quo magis excusatio nulla succurrit errantibus, quia nec sciens proposuit servare quod noverat, nec ignorans curavit nosse quod gereret.

21) Cfr. testo e discussione in R. GRYSON, Il mistero… cit. pp. 98-100.

22) Cfr. infra pp. 84-86

23) In CCL 148-50. Per la datazione di questo concilio che oscilla tra il 394 e il 396 cfr. CCL 148,49.

24) In CCL 148,49.

25) Sacerdozio… cit pp. 126-28.

26) Gryson dedica un capitolo all’analisi delle fonti canoniche greche dal IV al VI secolo (pp. 90-147) e un altro a quelle latine dello stesso periodo (pp 187-199)

27) La donna… cit. pp. 80-83 (per i canoni XI e XLIV di Laodicea).

28) Ep. 14,1; Thiel 362: … et reparandis militiae clericalis officiis, quae per diversas partes ita belli famisque consumpsit incursio, ut in multis ecclesiis, sicut fratris et coepiscopi nostri Johannis Ravennatis ecclesiae sacerdotis frequenti relatione comperimus…

29) Le diocesi… cit. vol. II, p. 754.

30) Cfr al riguardo le osservazioni di G. MINASI, Le Chiese di Calabria dal quinto al duodecimo secolo, Napoli 1896, pp.79-80.

Il decreto gelasiano sulla proibizione del sacerdozio femminile è richiamato in un documento dell’829 (cfr. inPL 97, 821-822; H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. p. 131).

31) R. GRYSON, Il ministero… cit. p. 195; J. GALOT, La donna… cit. p. 87.

32) La bibliografia sull’argomento è molto vasta. Oltre agli studi di Gryson (passim) e Galot (passim, spec. Pp. 22-46), cfr. quelli specifici di C. VAGAGGINI (L’ordinazione delle diaconesse nella tradizione greca e bizantina: Orientalia Christiana Periodica 4, 1974, 145-189) e G. FERRARI, Le diaconesse nella tradizione orientale: Oriente cristiano 14, 1974, pp. 28-50.

Solo in fase di ultima revisione del presente lavoro, ho potuto prendere visione del recente e documentato saggio di A. G. MARTIMORT (Les diaconesses. Essai historique, Roma 1982) che tende sostanzialmente a ridimensionare la presenza e il ruolo delle diaconesse nella Chiesa antica.

33) Adv. Haer. 1,13,2 (A. Rousseau-L. Doutreleau) SC 263,190-192 ; cfr. R. GRYSON, I misteri… cit. p. 44 ; J. GALOT, La donna… cit. pp. 67-69.

34) L’epistola è tramandata, tradotta in latino, nel corpus ciprianeo (Ep. 75,10: CSEL 3/II, 816-818); cfr. J. GALOT, La donna… cit. pp. 77-80.

35) Panarion 49,2,2-6 (K. Holl) GCS 31,242.

Per un quadro ampio delle testimonianze antiche sulle attribuzioni sacerdotali delle donne in ambiente montanista e colliridiano cfr. H. VAN der MEER, Sacerdozio… cit. pp. 66-70; R. GRYSON, I ministeri… cit. pp. 152-156; J. GALOT, La donna… cit. pp. 72-80.

36) Ep. 16,1-6: PL 54,695-702. l’uso orientale andava comunque diffondendosi anche in altre regioni dell’Occidente; cfr. M. RIGHETTI, Storia liturgica, IV, Milano 1959, pp. 91-93.

37) Ep. 14,10; Thiel 368. in caso di pericolo di vita per il battezzando, il battesimo naturalmente poteva essere amministrato in qualsiasi momento.

38) Cfr. G. GAY, l’Italia meridionale e l’impero bizantino dell’avvento di Basilio I ALLA RESA DI Bari ai Normanni (867-1071), Firenze 1917 (trad. it.) pp. 5-16; F. BURGARELLA, La Chiesa greca di Calabria in età bizantina (VI-VII secolo), in AA.VV, Testimonianze cristiane antiche ed altomedievali nella Sibaritide, Bari 1980, pp. 89-120; Q. CATAUDELLA, La cultura bizantina in Sicilia, in AA.VV, Storia della Sicilia, vol. IV, Palermo 1980, pp. 1-56.

39) CIL 10,8079; G. B. DE ROSSI in Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4; E. DIEHL, Inscriptiones Latinae Christianae Veteres 1192 (Dublin-Zürich 1970).

40) Cfr. A. Crispo,Antichità cristiane della Calabria prebizantina: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 14, 1945, 127-141; 209-210; A. FERRUA, Note su Troppa paleocristiana: Archivio Storico per la Calabria e la Lucania 23, 1955, 9-29. Sul Bruzio paleocristiano fondamentali sono i contributi di F. Russo (cfr. la bibliografia in F. RUSSO, Introduzione del cristianesimo nella Sibaritide, in AA.VV., Testimonianze cristiane… cit. pp. 5-21).

Recenti scavi effettuati dalla Soprintendenza alle Antichità di Reggio Calabria hanno portato alla luce nuovi reperti, attualmente allo studio.

41) In Bullettino di Archeologia cristiana 1877, p. 88, tav. VII, 4:

42) Antichità cristiane… cit. p. 134.

43) Note su Troppa… cit. p. 11. Per Ferrua (ibidem) Leta fu probabilmente moglie del presbyter Monsens, ricordato in un altro epitaffio proveniente pure da Troppa (Diehl 1150).

44) Note su Troppa… cit. p. 25.

45) DIEHL 393.1130.1139Aa.1154.

46) 1163ab.

47) Cfr. il c. XX del concilio di Tours del 567: Nam si inventus fuerit presbiter cum sua presbiteria aut diaconus cum sua diaconissa aut subdiaconus cum sua subdiaconissa … (Concilia Galliae A. 511-A. 695 – C. DE CLERCQ – CCL 148A,184); c. XXI del concilio di Auxerre della seconda metà del VI secolo: Non licet presbytero post accepta benedictione in uno lecto cum presbytera dormire … (CCL 148A,268); GREG. M., Dial. 4,12: Qui (presbyter) ex tempore ordinis accepti presbyteram suam ut sororrem diligens... (U. MORICCA, Roma 1924, p. 243); Cod. Dipl. Long. A.724-725 (C. TROYA, Napoli 1853, vol. III, pp. 398-399); A.768 (Napoli 1855, vol. V, pp. 460-461).

48) Per la datazione cfr. A. DEGRASSI, I fasti consolari dell’impero romano dal 30 avanti Cristo al 613 dopo Cristo, Roma 1952, p. 89.

49) F. BULIĆ, Iscrizione inedita: Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 37, 1914, 107-111.

50) Cfr. P. TESTINI, Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Bologna 1966, pp. 221-226; J. GUYON, La vente des tombes à travers l’epigraphie de la Rome chrétienne (III-VII siècles): les rôles des fossores, mansionarii praepositi et prétres: MEFRA 86, 1974, 549-596.

51) Probabilmente Teodosio aveva acquistato da Flavia Vitalia anche il sarcofago Bulié (Iscrizione inedita …cit. p. 110) fa riferimento solo all’acquisto del sarcofago; questo naturalmente non sposta i termini del problema che riguarda le funzioni della presbytera in questione.

52) Per l’evoluzione del fenomeno della vendita dei posti nei cimiteri cristiani comunitari cfr. J. GUYNON, La vente … cit.

53) In Bullettino di Archeologia e Storia Dalmata 21, 1898, 147, n. 2428 (F. Bulić); CIL 3,12900. Una presbiterissa è attestata in un’epigrafe proveniente da Ippona (Cfr4. “L’Année épigraphique” 1953, pp. 196-197, n.107).

54) Col termine conhospita si indicava una donna che conviveva con un uomo legato alla continenza: R. GRYSON, Il ministero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna … cit. p. 90.

55) In P. DE LABRIOLLE, Les sources de l’histoire du montanisme, Fribourg-Paris 1913, pp. 226-230 : Dominis beatissimis in Christo fratribus Lovocato et Catiherno presbyteris Licinius, Melanius et Eustochius episcopi. Viri venerabulas Sperati presbyteri relatione cognovimus, quod gestantes quasdam tabulas per diversorum civium capanas circumferre non desinatis, et missas ibidem adhibitis mulieribus in sacrificio divino, quas conhospitas nominastis, facere praesumatis; sic ut erogantibus vobis eucharistias illae vobis positis calices teneant et sanguinem Christi populo administrare praesumant.

Per l’individuazione delle diocesi dei tre vescovi cfr. R. GRYSON, Il mistero … cit. p. 195; J. GALOT, La donna cit. p. 88.

56) Quicherat lo data V o VI secolo (CIL 13,1183 in nota), a Mommsen (ibidem) sembra multo recentior.

57) CIL 13,1183.

58) Inscriptiones … cit. 1191.

59) In CCL 148A,184 (vedi in apparato ad locum).

60) In CCL 148°,268. (vedi in apparato ad locum).

61) Di avviso completamente diverso è Van Der Meer per il quale “… il problema del sacerdozio della donna fino a poco tempo fa non è mai stato acutamente sentito” (Sacerdozio … cit. p. 141).

62) Ep. 8; PL 134,114: Igitur quod vestra prudentia consulere judicavit, quid in canonibus presbyteram, quidve diaconam intelligere debeamus: videtur nobis quoniam in primitiva Ecclesia, quia secundum Dominicam vocem: Messis multa, operarii pauci videbantur, ad adjumentum virorum etiam religiosae mulieres in sancta Ecclesia cultrices ordinabantur. Quod ostendit beatus Paulus in epistola ad Romanos, cum ait: Commendo vobis Phaebem sororem meam, quae est in ministerio Ecclesiae, quae est Cenchris. Ubiintelligitur quia tunc non solum viri, sed etiam feminae praeerant Ecclesiis, magnae scilicet utilitatis causa. Nam mulieres diu paganorum ritibus assuetae, philosophicis etiam dogmatibus instructae, bene per has familiarius convertebantur, et de religionis cultu liberius edocebantur. Quod Loadicense postmodum prohibet concilium cap. 11, cum dicitur: quod non oportet eas quae dicuntur presbyterae vel praesidentes, in Ecclesiis ordinari.

63) In C. J. HEFELE-H. LECLERCQ, Historie des conciles d’après les documents originaux,Paris 1907, vol. 1/II, p. 1003.

64) J. GALOT, La donna … cit. p. 80; cfr. R. GRYSON, Il ministero … cit. pp. 105-108; A. G. MARTIMORT, Les diaconesses … cit. pp. 102-103.

65) J. GALOT, La donna cit., pp. 82-83.

66) Ep. 8; PL 134-114: Diaconas vero talium credimus fuisse ministras. Nam diaconum ministrum dicimus, a quo derivatam diaconam perspicimus. Denique legimus in concilio Chalcedonensi, cap. 15 diaconam non ordinandam ante annum quadragesimum, et hanc cum summo libramine. Talibus etiam credimus baptizandi mulieres injunctum esse officium, ut absque ulla penitus verecondia aliarum corpora ab his tractarentur … Sicut enim hae quae presbyterae dicebantur, praedicandi, jubendi vel edocendi, ita sane diaconae ministrandi vel baptizandi officium sumpserant: quod nunc jam minime expedit.

67) Ep. 8; PL 134-115: Possumus quoque presbyteras vel diaconas illas existimare, quae presbyteris vel diaconis ante ordinationem conjugio copulatae sunt … Libentius tamen, charissime doctor, secundum superiorem sensum quae esplicata sunt accipimus, donec a vobis mereamur certius informari.

Nella Chiesa antica il termine presbutera poteva indicare anche una vedova o una donna anziana.

68) Per questa polemica cfr. G. FORNASARI, Celibato sacerdotale e “autocoscienza” ecclesiale. Per la storia della “Nicolaitica haeresis” nell’Occidente medievale, Trieste 1981.

69) Les diaconesses … cit. pp. 209-210.

70) E’ il caso del Lexicon imperfectum che alla voce presbytera, rimandando all’epistola di Attone, stranamente registra solo la seconda accezione conosciuta dal vescovo di Vercelli (Latinitatis Italicae Medii Aevi inde ab a. CDLXXVI usque ad a. MXXII Lexicon imperfectum, F. ARNALDI-M, TURRIANI, Bruxelles 1951-53, p. 573). Degli altri lessici, a quel che mi risulta, solo il Glossarium di Du Cange registra l’accezione preferita da Attone.

All'interno della relazione d'aiuto, è spes­so difficile evitare totalmente l'investi­mento personale. Si dovrebbe ammettere, in determinate circostanze, che esistono forme di riconoscenza da parte dell'utente che realmente infrangono l'etica dell'o­peratore, come accettare denaro o altri ti­pi di favore.

Martedì, 21 Marzo 2006 00:20

Il dialogo nelle religioni del mondo

Il dialogo
nelle religioni del mondo

INDUISMO


La verità è una, i sapienti ne hanno definizioni diverse. (Rigveda)

Perseverando
nella devozione alla divinità, curvati e adora dove altri
s’inginocchiano, poichè dove così tanti pagano tributo di adorazione,
Dio longanime senz’altro si manifesta.

(Ramakrishna)



BUDDISMO

Si deve sempre rispetto alle religioni altrui. Agendo diversamente si fa ingiuria alla propria religione oltre che alle altrui. (...) vi sia dominio di sè, gli uni diano ascolto e rispettino la fede religiosa degli altri.

(XII editto di Asoka)

BAHA’I

O Tu, Dio di bontà, unisci tutti gli esseri, fa che le religioni si accordino, che le nazioni diventino una sola, affinchè tutti si riconoscano di una stessa famiglia e considerino la terra come un’unica patria. Fa’ che tutti vivano insieme in perfetta armonia.

(Baha’u’illàh)

CONFUCIANESIMO

Il Maestro dice: “L’uomo magnanimo non è settario (fazioso – partigiano) e mira all’universale. L’uomo meschino, ignorando l’universale, si chiude nel settarismo”.

(Confucio, Dialoghi, 2, 14)


ISLAM

 “Iddio è il Signore nostro e il Signore vostro. Noi abbiamo le nostre azioni e voi le vostre, nè vi sia disputa alcuna fra noi [islamici] e voi [ebrei e cristiani]: Iddio ci unirà tutti, chè a lui tutto ritorna”.

(Sura XLVIII)


TAOISMO

La via del cielo non conosce favoritismi; offre sempre l'occasione di essere in buoni rapporti con gli altri.

(Tao Te-Ching LXXIX).


EBRAISMO

 Dice il Signore: “Non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Chi vuol gloriarsi si vanti di questo: di conoscermi e di sapere che io, il Signore, sono buono, giusto e retto con tutti. E di queste cose mi compiaccio”.

(Geremia, 9, 22s)


SIKHISMO

Non sono straniero a nessuno e nessuno mi è straniero. In verità sono amico di tutti.

(Guru Granth Sahib, pg. 1299)


GIAINISMO

 Ama tutti e servi tutti. Dove c’è amore c’è vita. Violenza è suicidio. Silenzio-e-autocontrollo è non violenza. Rispetto per tutti gli esseri viventi è non violenza. Non violenza è la più alta religione.

(Lord Mahavier)


CRISTIANESIMO

Davvero mi rendo conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto.

(Discorso di Pietro, Atti 18,34s)


ZOROASTRIANISMO

Fa comunione con noi, o Ahura Mazda, con giustizia, e vieni a noi vicino, di modo che i nostri pensieri che prima s’erano sviluppati separatamente, possano ora maturare insieme, fondersi e diventare sapienza.

(Gathas, Vasna)


INDIANI DEL NORD AMERICA

In questa terra, dove un dì vivevano solo gli indiani, ci sono ora uomini di tutti i colori, bianchi, neri, gialli, rossi, ma sono tutti un popolo. Che questo dovesse accadere era rinchiuso nel cuore del Grande Mistero. Perciò è giusto così. E sia pace ovunque.

(Vecchio indiano sioux)


UNITARIARISMO

Noi affermiamo e promoviamo il rispetto per l'interdipendenza di cui facciamo parte.

(Principio Unitariano)


(da Cem/Mondialità novembre 2004)

Il rapporto tra economia ed etica è sempre stato difficile: la moralizzazione (e perciò l’umanizzazione) di un ambito in cui fondamentale è la molla dell’interesse individuale proiettato verso forme esorbitanti di guadagno, è impresa ardua.

Ed ecco una donna, che soffriva d'emorragia da dodici anni, gli si accostò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Pensava infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». Gesù voltatosi, la vide e disse: «Coraggio figliola, la tua fede ti ha guarita». E in quell'istante la donna guarì.

Domenica, 19 Marzo 2006 19:02

Il popolo dell’Ararat (Claudio Gugerotti)

Gli armeni
Il popolo dell’Ararat
di Claudio Gugerotti




Dove si innesta la croce di pietra che costella tutto il paesaggio armeno: una lastra, a volte verticale, a volte orizzontale, che reca inciso l'albero della vita, allargato all'estremità dei quattro bracci e recante un germoglio alla base, segno di una risurrezione più forte di ogni morte? Si direbbe che quella croce sia piantata nel cuore della terra, di una delle terre più antiche del mondo.

L'immagine dell’Armenia è nella fantasia di molti una grande pietraia. Ed è vero che buona parte del suo territorio è fatta di pietre, anche se non vanno dimenticate lande verdeggianti, oasi di acque e di uccelli, gravide di frescura. La pietra è origine e fondamento. E dunque richiama la culla di una delle più antiche civiltà del mondo. La pietra è altresì resistenza, coraggio a oltranza, voglia di sopravvivere caparbiamente alle avversità infinite della vita, volontà di esserci comunque, impegno per i posteri e per tutta l'umanità. Anche le chiese armene sono pietre dalla pietra. Solo la luce che vi filtra, le accarezza e le ingentilisce. Grotte di preghiera, ma anche nascondiglio nella roccia, e voglia di penetrare nel mistero della vita, un po’ per passione, un po’ per disperazione, un po’ per nascondersi agli occhi di una storia poco generosa, un po’ per cercare nelle profondità il senso di una sofferenza infinita, una sofferenza che appartiene al sangue del Caucaso.

Immagino la storia armena segnata da alcuni dei suoi santi più emblematici. È un modo come un altro per ispirarsi. Comincerei con san Gregorio, detto "l'Illuminatore degli Armeni". Un uomo venuto dalla gente dei Parti, come canta un inno liturgico. Agli albori del IV secolo, egli risveglia l'antica presenza dei santi apostoli Bartolomeo e Taddeo, che la tradizione vuole i primi evangelizzatori dell'Armenia. Dopo terribili sofferenze inflittegli dal re Tiridate, caparbio avversario della fede prima di lasciarsi avvincere dai miracoli del santo, alla fine converte il re, la sua famiglia e l'intera nazione. Ancora oggi dà brividi di bellezza e di sconcerto scendere nel pozzo profondo (khor wirap), dove egli sarebbe stato recluso per anni, nutrito solo dalla bontà di una povera vedova. Sul luogo ora sorge un monastero, in una collocazione naturale tra le più suggestive al mondo: ai piedi dell'Ararat, la montagna biblica ove l'arca riposò dopo il diluvio, sempre innevata, sempre irraggiungibile, in una pianura vasta e brulla, segnata solo dalle torrette di confine con la Turchia. Nel pozzo si scende in silenzio, con una scaletta appesa al muro, come nelle vie ferrate. E si finisce anche lì nelle viscere della terra, in quel mondo ipogeo dove gli armeni cercano il senso del vivere e del morire.

Una conversione in realtà molto complessa, quella degli armeni: sugli antichi templi del fuoco sorgono le nuove chiese, e gli antichi sacerdoti del culto pagano vengono convertiti alla nuova fede e ne diventano i leviti. Una discontinuità tra nova e vetera che si volle, in alcune fonti, marcata e implacabile: in realtà molto più progressiva e velata, e soprattutto rispettosa di un sostrato culturale e identitario che trova nella nuova religione non una frattura ma una, sia pur ripensata, continuità. Da allora il cristianesimo segna le sorti dell'Armenia, al punto che, come dice un suo antichissimo storico, è più facile togliere alla pelle il suo colore, che all’armeno la sua fede in Cristo.

Poi le vergini martiri, con a capo santa Hripsimé, con la nutrice Gaianè, fuggite dalle brame dell'imperatore romano e cadute in quelle del locale sovrano, uccise per non aver ceduto. Sepolte in due chiese a loro dedicate che fanno da corona alla santa cattedrale di Etchmiatzin, luogo, come dice il termine, in cui "l'Unigenito discese", per indicare a san Gregorio Illuminatore dove sarebbe sorta la sua Chiesa. Ancora oggi ci si inginocchia con venerazione davanti all'altare di alabastro che segna il luogo della discesa, il luogo dell'incarnazione armena. Hripsimé e Gaiané sono il simbolo di una cristianità ancora aperta, ancora in cammino: pellegrine d'Occidente che cercano in Oriente comprensione e rifugio. Sangue non armeno che, per il fatto stesso di essere versato in Armenia, diventa appartenenza alla cristianità che lo ha raccolto e custodito. Segno di una identità ecclesiale non ancora identificata pienamente con l'etnia, ma accogliente nuovi santi, da ricevere, da fare propri, come massicciamente avvenne anche nella vicina Georgia.

Poi san Vartan Mamikonian: un feudatario, un uomo politico e, se si vuole, un calcolatore del vantaggio che si può ricevere affittando la propria fedeltà al miglior offerente; un uomo che, però, alla fine, comprende che c'è un'unica fedeltà, quella a Cristo, e che essa non tollera infingimenti: o con me o contro di me. E quando gli Zoroastriani vogliono imporre a lui e alla sua gente l’abiura, egli passa la notte in preghiera e riceve l'Eucaristia, vero viatico, prima della battaglia decisiva in cui perderà la vita. Una santità guerriera cui si rifaranno altri combattenti, come a un prototipo. In realtà il simbolo di un martirio di popolo, dove si soccombe col corpo, ma lo spirito invitto trionfa nella profezia di tempi diversi, quando non vi saranno più oppressori e Cristo sarà la fonte di amore che non conosce adultèri. Un uomo che mostra come la politica non abbia mai l’ultima parola, ma resti soggetta al dovere della verità, severo giudice di ogni compromesso, di ogni coscienza posta in vendita. San Vartan, così come Hripsirnè e Gaiané, divengono i capifila di una moltitudine di martiri, conosciuti e sconosciuti, caduti per non rinunciare alla verità della coscienza. Non sempre i riferimenti collettivi ad essi saranno storicamente pertinenti, talora forse potranno apparire precritici o approssimativi per eccesso di zelo nazionale, ma sempre costituiscono un monito al mercantilismo cui ogni ideologia umana finisce col soggiacere.

E così Cristo sarà per gli armeni la grande Vittima, il Sacrificato, l'Immolato, Colui nel quale si identificano i diseredati, gli spogliati, i violati della terra, come accade nella tradizione slava con i santi Borys e Glebs, uccisi perché innocenti, e per questo assimilati all'Agnello scannato senza colpa. Di qui anche l'elegia dello splendido lamento liturgico armeno, in fin dei conti, quello di ogni cuore armeno, che esprime anche nel suo folklore la nostalgia per il diletto allontanato a forza dalla guerra, dalla miseria, dall'oppressione. Ecco chiedere alla gru che vola da lontano se porti notizie del caro fuggitivo, anch'egli sentito come vittima sacrificale di un amore straziato da una diaspora senza fine.

Infine, san Nerses Shnorhali (ovvero «portatore di Grazia»). Abbiamo già scavalcato l’anno Mille e molti armeni sono fuggiti in Cilicia a causa delle continue invasioni dei propri territori. Lì il katholikos Nerses si erge come maestro di fede e vero capo di una disciplina morale di popolo. Capo di profughi, egli ridà loro la dignità di popolo, canta il mistero di Dio con inni liturgici impareggiabili, guida la Chiesa con fermezza, è spesso capace di coraggiose ammonizioni. Ma soprattutto dialoga con tutti, con i popoli che convivono in quella terra, in particolare con greci e siri, aprendo la strada ad un rapporto con i latini, stabilitisi anch'essi in quell'area per guerre o commerci. Amante appassionato dell'unità cristiana, Nerses cerca il confronto, perché tale unità sia restituita alla sua visibilità, ma senza perdere lo specifico di ogni identità. Un'unità pluriforme, considerata, proprio nella sua diversità, come ricchezza, non come frutto di peccato. Unico frutto del peccato è per lui la divisione, l'opposizione astiosa, l'orgoglio che si autoassolve e condanna l'altro. La denuncia contro tali atteggiamenti è adamantina e incessante. Anche se quel profeta di unità non sortirà, per varie vicende storiche oltre che per la durezza dei cuori, risultati duraturi, pure i principi da lui stabiliti rimarranno nei secoli, ancor oggi modernissimi: un dialogo frutto della fede comune e di un rispetto, nella coscienza che la verità non può essere "posseduta" e che la ricchezza e la potenza di un popolo non sono il segno di una maggiore fedeltà a Cristo. Cercare insieme di mostrare l'amore cristiano, senza vinti nè vincitori, senza risentimenti umani nè disumane vendette, senza sottintesi politici, ma nella pura fedeltà allo Spirito, costantemente invocato, e in una carità che sa rinunciare a ciò che non è essenziale, perché quanto veramente conta, la testimonianza dell'amore, nome stesso di Dio, possa risplendere. Ecco il sogno di Nerses. E contro chi lo rimprovera per il fatto che il popolo armeno non entra nell'edificio della chiesa per pregare, ma resta nella parte esterna, egli scaglia il suo monito a non considerare scelta religiosa quella che è solo necessità pratica; «Perché li critichi - chiede al suo interlocutore - quando tu stesso non consenti loro di costruirsi una chiesa sufficientemente grande? Dovevi guardarli come pregavano nella loro terra natia. Vedrai che ciò che credi frutto di una scelta liturgica è solo drammatica necessità».

Ecco alcuni santi che interpretano un’anima. Può essere un modo di ricostruire la storia di un popolo e della sua sensibilità religiosa e culturale. Piccolo passo, forse utile a far crescere la curiosità, sano atteggiamento che attingerà tesori preziosi nel contatto col mondo degli armeni, affinché impariamo ad apprezzare l'altro per guardare con più profondità il mondo di tutti.

(da Luoghi dell'infinito)


“Voi chi dite che io sia?”.
Cristo nella confessione di Pietro
di Vladimir Zelinskij


Cominciamo con le parole che conosciamo tutti:

Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente che dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti” Disse loro. “Voi chi dite che Io sia?” Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del DioVivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre Mio che sta in cieli. E Io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevaranno su di essa” (Mt. 16,13-18).

Simone, figlio di Giona, in quel momento era ancora coetaneo di Gesù, un semplice pescatore, uomo di carne e di sangue. Lui che era stato già chiamato Pietro, nella stessa conversazione verrà trattato da Gesù in modo tutt’altro che gentile: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt.16, 23). Lo stesso Pietro fra poco per tre volte rinuncerà al Figlio del Dio Vivente e piangerà, come dice il Vangelo, “amaramente” (Mt. 26,75). Ma lo stesso Pietro tanti anni dopo, forse con i capelli bianchi, come vediamo nelle sue rappresentazioni, scriverà nella sua Prima lettera:

Piuttosto riconoscete nel vostro cuore che Cristo è il Signore. Siate sempre pronti a rispondere a quelli che vi chiedono spiegazioni della speranza che avete in voi, ma rispondete con gentilezza e rispetto, con una coscienza pulita” (1 Pt. 3, 15).

In ubbidienza a queste parole, rispondendo alle autorità romane, lo stesso Pietro sarà crocefisso, confessando così con tutto il suo cuore, ma anche con il suo corpo, che “Cristo è il Signore”. Sembra che si tratti di due uomini assai diversi: il primo è un uomo del popolo, forse illetterato, impulsivo, con il sangue caldo, portato dall’amore verso il suo maestro, ma anche, come tutti, vulnerabile per la paura, non libero dal dubbio; l’altro è un vecchio saggio, riscaldato dal calore celeste, con la mente chiara, con la volontà ferma, con l’anima trasparente e di più: un mistico, un teologo-visionario che ha potuto scrivere (nella sua seconda lettera) queste parole stupende che troviamo spesso nei testi ortodossi. Egli dice di Cristo:

“La sua potenza divina ci ha fato dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con questi ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina...” (2-4).

“Partecipi alla natura divina....” Nessun profeta dell’Antico Testamento ha osato usare parole simili. Come ci si può avvicinare a questa natura? Come, infatti, si possono dire cose del genere? Ricordiamo, Pietro era ancora un uomo della Legge mosaica per cui anche il nome di Dio non andava pronunciato invano. Chi gli ha dato il coraggio di parlare della partecipazione, della comunione all’inaccessibile natura divina? La risposta è breve: non la sua propria saggezza umana - che gli mancò tante volte nel primo periodo della sua vita - ma lo Spirito Santo, cioè Dio stesso. Il Padre celeste per primo gli ha rivelato la natura divina di Cristo e questo avvenimento fu come un’illuminazione, un dono incredibile, forse, all’inizio ancora troppo grande, per quel pescatore, Simone figlio di Giona. Ma questo dono fu soltanto un pegno della Rivelazione futura che si è completata con la discesa dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste. Lo Spirito ha rivelato agli apostoli, alla Chiesa di Cristo e a tutti i suoi discepoli il mistero della santissima Trinità nel seno del quale troviamo un uomo, Gesù di Nazaret.

Ormai la vera conoscenza di Cristo è possibile per noi solo nella luce, nella profondità della Rivelazione trinitaria, cioè nel mistero del Padre, assolutamente incomprensibile ed irragiungibile per il nostro pensiero, che agisce con le sue due mani: il Figlio e lo Spirito - come dice Sant’Ireneo di Lione. E questa azione del Padre ci rivela il Suo Figlio prediletto nel Volto di un predicatore itinerante che ha vissuto in tempi lontanissimi, in mezzo al popolo d’Israele, nel paese che oggi chiamiamo la Terra Santa poiché essa è stata santificata dalla Sua presenza, dalla Sua Parola, dalla Sua morte, dalla Sua Risurrezione. Quel predicatore, nato nella famiglia di un modesto falegname ebreo è nello stesso tempo la Seconda Persona della Santisima Trinità. Ormai non si può dividere il Gesù storico e il Cristo glorificato, il Figlio di Maria e il Figlio del Dio Vivente, perché la realtà di Gesù Cristo per noi proviene non soltanto dalla nostra stima, dalla nostra memoria, dalle nostre conoscenze storiche, ma dall’azione dello Spirito che ci tocca e vive in noi. “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto azione dello Spirito Santo”; dice San Paolo (1 Cor 12,3). Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio” – dice la stessa cosa l’apostolo Giovanni (1 Gv 4, 15).

La “dimora di Dio” è lo spazio della Parola e dello Spirito, è la realtà della fede a cui partecipiamo anche noi. Questa partecipazione è la comunione alla natura Divina, perché la Parola e lo Spirito fanno parte di questa natura. La fede riempita dalla Parola, portata dallo Spirito Santo ci fa partecipi dell’irraggiungibile natura divina e l’Ortodossia prende sul serio questa confessione apostolica. La partecipazione inizia con il riconoscimento di Cristo nel cuore umano, come dice San Pietro, ma anche attraverso i sacramenti della Chiesa e, prima di tutto, nel mistero eucaristico.

Cristo nel cuore umano

Ortodossia vuol dire glorificazione e l'uomo deve avere l'organo adatto per portare la sua gloria a Dio. La Santa Scrittura stessa a partire dai Profeti, afferma tante volte che questo organo è il cuore umano. Qui si svolge la rivelazione o “l'avvenimento” di Dio che porta la testimonianza della sua presenza. Tanti, tanti grandi credenti, da San Pietro, a San Paolo, a San Giovanni, al seguito di Cristo stesso, parlavano del mistero che l'uomo porta in sé. L'ortodossia è non soltanto il credo, la fede nei dogma e nei concili, "le convinzioni religiose", ma anzitutto è la manifestazione di questo mistero nel nostro essere. Il cuore è come un altare, un luogo della presenza reale di Dio che noi dobbiamo scoprire e trasformarlo nello spazio della celebrazione. All’inizio sembra essere una cosa facile. In realtà questa scoperta è l’avventura umana più difficile e più coinvolgente di tutte le altre.

Il cuore, nel suo concetto biblico, è il centro spirituale ed il centro vitale dell'uomo, ed è più profondo dell'uomo stesso. L'intelletto, la mente non è l’ultimo fondamento della vita umana, ma secondo le stupende parole di san Pietro "l'uomo nascosto nel cuore" (1 Pt. 3,4). E l'uomo che noi siamo, l'uomo empirico, peccatore si trova nella fatica della ricerca permanente di questo uomo nascosto, che anche Dio cerca da parte Sua. Il santo russo del secolo diciannovesimo, Serafino di Sarov, disse: "Il Signore cerca il cuore, pieno di amore verso Dio e verso il prossimo, il cuore è il trono della Sua gloria. Figlio mio, dammi il tuo cuore e tutto il resto ti darò in più, perché nel cuore umano è tutto il Regno di Dio".

Quando diciamo con San Giovanni che Dio è amore, intendiamo dire che Dio è presente anche nel nostro amore umano, che la presenza di Dio è "scritta nel nostro cuore" e grazie al miracolo di questa presenza possiamo partecipare alla "natura divina". A dire la verità, l'uomo è incapace, non è mai pronto per questa intimità insopportabile. Il suo amore è come rubato da qualcun'altro che si oppone alla sua vita con Dio. Questa presenza del male, del peccato, del nemico nel suo cuore - nello stesso luogo della abitazione di Dio - è come una sfida permanente alla libertà dell'uomo che deve sempre – in ogni momento della sua vita - scegliere fra l'appello dell'amore e le tentazione di questo ladro che vive in noi e che "viene soltanto per rubare, uccidere o distruggere" (Gv. 10,10). E l'uomo, se fa la scelta giusta, cerca di liberarsi di questo nemico che lo deruba dell'amore con la preghiera zelante ed insistente, cioè con il pentimento. Perché anche Dio cerca il nostro cuore, anche Lui deve trovarvi il Suo luogo, il Suo "spazio vitale".

Il cuore puro è un cammino verso la conoscenza di Dio e di noi stessi. L'ortodossia nella sua visione dell'uomo ha fatto quasi la stessa scoperta della psicoanalisi all'inizio del secolo scorso: essa ha trovato - con il suo lavoro spirituale - il continente del subconscio, il continente sconfinato dove l'uomo non è il padrone unico. La conoscenza freudiana - geniale nel suo senso - dal punto di vista della vera vita spirituale è niente altro che la parodia della conoscenza cristiana, senza parlare che la prima è stata scoperta circa 18 secoli dopo la seconda.

Cristo e la conoscenza

Il cuore è il luogo dell'abitazione invisibile di Dio, ma anche l'organo della sua conoscenza. "Portare intelletto nel cuore", vuol dire inserire la preghiera della nostra mente nel centro della nostra esistenza, unire la preghiera con i palpiti del cuore e con il respiro stesso; era questa una pratica dei santi ortodossi. E da questa pratica nasce la Sapienza, la visione che dà origine anche alla conoscenza dogmatica. L'ortodossia non accetta i dogmi inventati dalla "ragione pura", ma soltanto quelli che sono nati dall'amore verso Dio. Le parole di Cristo: "dove sono le vostre ricchezze là c'è anche il vostro cuore" (Lc. 12, 34) possono gettare luce anche sulle ricchezze della sapienza ecclesiale.

La conoscenza di Cristo inizia con la preghiera. Anzi, la preghiera vera è la conoscenza autentica. Non cominciamo con l'affermazione: "Dio è...", ma con l'invocazione: "Sei Tu...". Ma sei qui Tu? La liturgia ci offre prima di tutto l'insegnamento primordiale. Nell'anafora della liturgia di San Giovanni Crisostomo preghiamo con il sacerdote:

“È degno e giusto celebrare Te, benedirTi, lodarTi, ringraziarTi in ogni luogo del Tuo dominio...” Prima di essere il modo della conoscenza, la liturgia definisce le sue condizioni umane, esistenziali. Prima di conoscere il suo Dio l'uomo deve trovare se stesso d a v a n t i a Dio. La liturgia guida l'uomo proprio in questo posto; il suo compito iniziale è quello di indicare all'uomo il cammino a se stesso. Questo cammino si compie fra due estremi: la benedizione e il pentimento. Così egli nella sua preghiera trova la sua "dignità" e la sua "giustizia": è degno e giusto non solo per Dio ma innanzitutto per me, per la mia "condizione umana" degno e giusto celebrare Te... "In ogni luogo del Tuo dominio", cioè ovunque dove sono io. L’“Io” umano non è capace di toccare Dio, ma Dio può toccare l’uomo, Dio gli dà la dignità, Dio entra nel suo cuore aperto ed indifeso. Così comincia la vera conoscenza: l’uomo apre il suo intimo alla presenza di Dio, alla comunione con Dio nella rivelazione del Suo Figlio.

Per esprimere le verità rivelate, portate da Cristo, la Chiesa ha "battezzato" l'apparato intellettuale, elaborato dalla filosofia greca. Ma solo la conoscenza - che è passata attraverso "la densità della nube" (Es.19, 9) dell’inconoscenza pia e timorosa -, ci porta e ci apre alla verità. Sotto la dottrina è sempre nascosta "la sapienza delll'inconoscenza", vissuta non soltanto nell'anima di pochi "mistici", ma nell'unità della Chiesa.

Per lasciare lo spazio a questo mistero l'ortodossia non cerca di mettere tutto in formule precise e rigide. Per esempio, essa ha salvaguardato la fede della Chiesa antica nella presenza reale del Cristo sotto le specie del pane e del vino dopo la consacrazione liturgica. Ma essa non ha mai avuto bisogno di spiegare "come", "in quale modo", e neanche "quando", "in quale momento preciso". Essa rimane con evangelico realismo - indifeso, direi - davanti all'Incomprensibile, soltanto con le semplici, incredibili parole: "Questo è il Mio Corpo", "Questo è il Mio Sangue". E Cristo è già con noi. Il mistero della fede per l'ortodossia non ha bisogno di essere spiegato e neanche annunciato, ma vissuto con tutto il nostro essere.

La conoscenza di Dio proviene dalla conoscenza dell'uomo da parte di Dio. Quando conosco il mistero della presenza di Dio, conosco la Sua conoscenza di me. La nostra conoscenza di Dio e la conoscenza che Dio ha di noi si fondano sulla rivelazione che Dio ha fatto. Rivelazione, di cui ci appropriamo attraverso la fede ed il reciproco amore di Dio e dell’uomo.

Questo vuol dire portare Cristo nel cuore e col cuore partecipare alla natura divina.

"Chi ama Dio col senso del cuore è conosciuto da Lui. Infatti, uno è tanto nell'amore di Dio, quanto di esso accoglie nel senso dell'anima" (Diadoco di Fotica).

"Egli è l'albergo in cui rimaniamo per la notte ed anche il termine finale del nostro viaggio" (Nicola Cabasilas). Siamo già entrati e siamo lontanissimi dallo scopo del nostro pellegrinaggio.

E Cristo rimane sempre al centro della nostra fede, come l'Alfa e l'Omega, come Giudice e Salvatore, come nostro Amico intimo e nostro Signore; Colui che è che era e che viene" (Ap. 1,18).

“Cristo eucaristico”

Il Cristo nel mistero eucaristico è un tema centrale per la Chiesa Ortodossa, anche se questo centro non è sempre visibile. Si può parlare dell'Eucarestia in modi diversi: dal punto di vista dogmatico, liturgico, spirituale, ecclesiologico, escatologico, ma lo scopo finale, il telos del discorso, come dicevano i greci, sarebbe sempre lo stesso: la comunione con Dio nella persona di Gesù Cristo, morto e risorto, presente e vivo nei Sui doni e nel Suo Regno. L’Eucaristia, nel senso profondo e teologico, è la partecipazione alla natura divina (cf. 2 Pt 1,4); nel senso concreto, è la partecipazione liturgica all'Ultima Cena del Signore; nel senso ecclesiale, è l'attualizzazione della Chiesa come Corpo di Cristo. La parola chiave, in ambedue i casi, è la partecipazione, l'accoglienza del Dio santo ed immortale da parte dell'uomo peccatore e mortale, l'unione, impossibile ma realizzata, fra di loro.

Corpo di Cristo. Senza l'Eucarestia non c'è una vita ecclesiale, come l'Eucarestia è impossibile fuori della Chiesa".

La fede cristiana e l'ecclesiologia ortodossa hanno lo stesso fondamento: il dogma della divinoumanità di Cristo e il mistero della SS. Trinità. "Il canone eucaristico - continua Kern, - è una interpretazione liturgica del dogma della SS. Trinità, della creazione, della redenzione e della santificazione". In altre parole, l'Eucaristia porta in sé e manifesta il nucleo della fede che confessa che l'opera di Cristo è la nuova creazione dell'uomo e del cosmo nello Spirito Santo grazie all'unità dell'umanità con Dio.

L'Eucarestia è un atto con cui Dio ci unisce nel Corpo del Cristo. (P. N. Afanasiev). I fedeli sono rifondati nel Corpo del Cristo, perché sono nutriti con lo stesso Corpo. Se la Chiesa avesse il cuore, quel cuore dovrebbe essere il sacramento dell'Eucarestia.

L'identità con Cristo è condizionata dall'esistenza delle moltitudini. Lo Spirito che costituisce l'identità del Cristo è lo Spirito della comunione e la sua opera consiste nel trasformare in comunione la realtà umana. Lo Spirito Santo è incompatibile con l'individuo separato dagli altri. La Trinità stessa è la comunione e nello stesso tempo la personalità. Il mistero della Chiesa è il mistero dell'"uno" che è al stesso tempo moltitudine. Per questo motivo la cristologia ortodossa non è concepibile senza l'ecclesiologia. Per l'esistenza del corpo una condizione necessaria è che la testa sia la testa.

La Chiesa è come icona del Regno che deve venire e la sua identità coincide con l'identità del Cristo e del Regno escatologico. La sua esistenza è iconica. Essa è l'immagine di ciò che la trascende.

Un altro momento importante: non c’è separazione fra il Cristo come Parola ed il Cristo eucaristico.

Entriamo nella comunione alla verità tramite la Parola. La verità fa parte del nostro essere, perché siamo stati illuminati dalla luce della Parola, ma la verità va rivelata e risvegliata nella nostra intelligenza. Così la Parola di Dio diventa la comunione della ragione, perché anche il Vangelo è il luogo della "presenza reale" dello Spirito. Il Vangelo come l'icona del Cristo risorto.

"È detto che noi beviamo il sangue del Cristo non soltanto quando lo riceviamo secondo il rito dei misteri, ma anche quando riceviamo le sue parole ove risiede la vita”.

“L'Eucarestia esige il m e m o r i a l e (o a n a m n e s i s) di tutta la storia della salvezza, compendiata nel suo centro, la croce vivificante, la croce pasquale. Questi avvenimenti, iscritti nella "memoria" di Dio, la Chiesa li rende presenti, attuali, efficaci. In tale "memoriale" vivente, il prete è l'immagine di Cristo, un "altro Cristo", dice san Giovanni Crisostomo. Egli è il testimone dell'incrollabile fedeltà di Cristo alla Sua Chiesa. Per mezzo di lui - che compendia la preghiera del popolo e rappresenta per il popolo il segno di Cristo, questo unico gran sacerdote - compie l'Eucarestia. E tutto si fa nello Spirito Santo. Nello Spirito Santo la Chiesa è il "mistero" del Risorto, il mondo in via di trasfigurazione.” (Olivier Clément, Alle fonti con i padri).

Nell’Eucarestia Cristo diventa la radice della deificazione della natura umana. L'uomo deve diventare Chiesa. La comunione con Cristo ci fa il Corpo del Cristo. Il corpo umano in questo caso è lo strumento, ma anche il tempio dello Spirito. La vita comune si fa cammino verso la deificazione dell'uomo, che può essere solo per azione del Santo Spirito. Quando il sacerdote dice: “I santi doni ai santi”, proclama la santità del Corpo di Cristo presente nella comunità dei credenti – che è anche il popolo dei peccatori. Questo Corpo è unito nell'unità escatologica della Parusia. Già la Didaché ci dà un'immagine del pane disperso e raccolto. La Chiesa come un atto della ri-unione dell'umanità che vive in Cristo.

Il Cristo è l’unico vero pane che unisce in sé la moltitudine delle persone. Colui che mangia la carne del Figlio di Dio diventa Sua "parte", ha qualche cosa in comune con il Figlio di Dio.

Cristo della preghiera

Proviamo ad esprimere la stessa cosa con un’altra immagine: la preghiera autentica è come un'operazione a cuore aperto. E nel nostro cuore lasciamo entrare Cristo.

"Egli infatti sapeva ciò che vi era nell'uomo" (Gv.2, 25). Ed in ogni uomo, nella sua profondità - tranne le debolezze, l'egoismo e il peccato -, c'è anche una grande nostalgia di Dio e dell'amore spontaneo di Dio. Da questa fonte umana, dove il peccato è mescolato con l'amore, nasce la preghiera. La preghiera con il suo primo compito di liberare l’amore e di vincere il peccato - che è nient’altro un ladro dell’amore. "Il ladro non entra che per rubare, sgozzare e distruggere. Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in sovrabbondanza" (Gv. 10,10).

Un altro motivo della difficoltà nel discorso sulla preghiera è il suo carattere tradizionale, che per tanti cristiani occidentali sembra troppo ritualistico. Le stesse preghiere nate centinaia e centinaia anni fa sotto altre stelle, sotto altre circostanze storiche ed umane servono ancora per i cristiani all’inizio del XXI secolo! Perché? Proviamo a rileggere queste preghiere che la Chiesa Ortodossa propone per le sue celebrazioni o per le regole. Dopo aver letto qualche volta con il cuore e l'attenzione scopriremo che la preghiera ortodossa non è un'espressione religiosa dell'esperienza di ogni giorno: essa proviene dal livello più profondo, anzi nascosto, dell'anima. Con le preghiere antiche noi cerchiamo di risvegliare noi stessi, di portarci a quella profondità che di solito resta coperta sotto la superficialità dell'esistenza quotidiana. Ma è una scoperta stupenda! Andiamo verso il nostro intimo, in questa parte del nostro cuore dove l’entrata è chiusa anche per le persone più amate, più vicine a noi e vi troviamo che nella stessa intimità siamo in comunione con gli altri, che la nostra profondità ha una dimensione comunionale. E questa dimensione si esprime con le parole comuni, le parole nate mille anni fa nel cuore dei santi, nell'anima dell'uomo che portava Cristo in sè, che le "nostre mani hanno toccato" (1 Gv. 1,1) e nostre parole hanno chiamato.

Dunque, la vera preghiera ortodossa non esprime le nostre aspirazioni, i desideri, le domande del nostro "io" nel suo stato empirico ma, diciamo, del nostro "io" eterno o, più precisamente, del nostro "io" santo che oggi ancora non ci appartiene, della nostra santità virtuale. Un "io" in Cristo cerca di liberarsi dall'"io" peccatore che ha un potere enorme (e il potere cresce inaspettabilmente appena cominciamo il nostro "combattimento invisibile"). La preghiera autentica ci porta alla nostra identità da realizzare, da sviluppare, da lasciare andare in libertà. La libertà che comincia, però, con la disciplina, con il senso della povertà.

Per sentire la necessità della preghiera dobbiamo sentirci veramente poveri, terribilmente poveri, "poveri in spirito", come dice Gesù stesso. Questo senso di povertà ci dà la preghiera del pentimento. Siamo chiamati a liberare il nostro spirito da tutto ciò che impedisce la venuta e il soggiorno dello Spirito Santo. A purificare la nostra mente per avere "il pensiero di Cristo". Il pentimento non è soltanto il rifiuto del peccato che abbiamo commesso ma qualche cosa di più: il sentimento di aver perso il contatto con Dio e che noi non possiamo vivere senza questo contatto. Ogni preghiera porta in sè questo appello dell'Apocalisse: Vieni Signore Gesù!

E Gesù ci ascolta e risponde alla nostra nostalgia e al nostro amore. Gesù viene quando ci trova poveri e puliti. Ma quando Lui viene per riempire la nostra povertà cambia anche la nostra preghiera: ormai questa diventa la preghiera delle lodi, della gioia, della Sua presenza. Per questo motivo le due preghiere principali più diffuse nella Chiesa Ortodossa sono la preghiera della povertà e della purificazione e la preghiera della ricchezza e della benedizione. Ed esse sono legate in modo strettissimo l'una con l'altra. Kyrie eleisson! e benedetto il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! - la preghiera che comincia ogni liturgia nella Chiesa Ortodossa.

Cristo “iconico”

Non sappiamo Cristo secondo la carne, ma Lo sappiamo secondo l’immagine santa (o l’icona). L’icona non è, certamente, un ritratto e neanche un semplice ricordo. L'icona è un linguaggio, una notizia portata con mezzi accessibili ai nostri occhi. L'icona è un altro cibo per il cuore, già nutrito con la parola, già acceso con la fede. L'icona è una visione spirituale creata dalla preghiera della Chiesa, l'icona è come un'intercessione fra il mondo celeste e il nostro, il simbolo e nello stesso tempo la realtà stessa di tutto ciò che possiamo rappresentare con la nostra arte umana. Ogni icona è un modo della beata presenza del Salvatore, della Sua Madre, dei santi. Ma questa presenza – ed è proprio questo il segreto dell'icona - è condivisa o, almeno, dovrebbe essere condivisa con noi. Noi non siamo gli spettatori passivi; la presenza dell'immagine è sempre aperta e questa appertura ci invita, ci spinge anche al superamento della chiusura del nostro cuore (cioè della sua situzione "abituale" in questo mondo decaduto). L'icona è l'immagine che rimane sempre nascosta senza la nostra partecipazione, senza il dono del cuore. In questo senso il segreto dell'icona assomiglia al mistero della Chiesa: anch’essa senza la fede ed il dono del cuore rimane una montagna di riti morti seppure belli e di superstizioni anche interessanti per la storia della cultura. La bellezza nell'ortodossia è come un sigillo della verità, la verità della fede, della vita spirituale, ma anche della preghiera. Una raccolta di scritti dei Padri orientali sull'arte della preghiera si chiama Filocalia.

Cristo “etico”

Chi è Cristo nel comportamento cristiano? Cerciamo di spiegare con le parole di San Paolo:

"Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la Sua uguaglianza con Dio; ma spogliò di se stesso, assumendo la condizione di servo e divinendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil.2, 5-8).

"Spogliarsi di se stesso" vuol dire rinunciare alla propria superbia che si trova alla radice della nostra personalità, del nostro "io" che cerca sempre la migliore posizione nel mondo, in quelli che hanno "come dio il loro ventre" (Fil. 3,19): il denaro, il potere, la sessualità, il successo, ma anche la stima degli altri, la buona reputazione, ecc. L'uomo è chiamato a "spogliarsi" di tutto questo, "assumendo la condizione di servo" di Dio che porta al limite la nostra assimilazione al Cristo. La più alta dignità (che significa anche la sua santità) che l'uomo può avere è quella di umile servo di Dio, che segue le tracce del suo Signore. Per questo motivo la santità ortodossa è più spesso marcata dalla sfida interiore al mondo che per l'azione eroica dentro questo mondo, perché come si dice nella stessa Lettera di San Paolo ai Filippesi "la nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso... (3,21).

"Spogliarsi di se stesso" vuol dire sacrificare una parte di noi stessi, quella parte che forma, cimenta e salvaguarda la nostra identità in questo mondo decaduto e che ci "protegge" contro Dio e contro l’amore. "L'etica ortodossa", se possiamo parlarne, nella sua essenza, non è l'etica della legge ("tu devi comportarti così") ma piuttosto l'etica della vocazione (tu sei chiamato all'amore che comincia dalla tua vittoria sul peccato). O, meglio, secondo le parole di san Paolo: che "Cristi sia formato in voi!" (Gal. 4,19). Ma nell'intimo più profondo le tentazioni e le minaccie del diavolo, la disciplina ascetica, la serietà del combatimento invisibile sono legati con questa "formazione del Cristo" e con l'esperienza della Sua Croce attraverso la quale tutti dobbiamo passare per avere "la vita in abbondanza" (Gv.10,10), la vita eterna.

Il Cristo della santità umana

Come Cristo è vissuto nel cuore degli uomini? Il Suo vero volto si vede attraverso i volti dei santi. In ogni atto di canonizzazione e di glorificazione di un santo la Chiesa proclama ancora la sua fede, il suo credo, la sua visione dell'esistenza nel Cristo e riempita dalla luce di Cristo. E questa proclamazione corona molto spesso il processo della venerazione, detta "popolare", che si rivolge verso questi eletti. Il popolo dei fedeli trova non soltanto il suo ideale nella persona dei singoli santi, ma cerca e trova la presenza di Dio stesso, che si manifesta nella sua vita, nei suoi atti, nelle sue parole, nei suoi miracoli. Il santo è come il Cristo stesso, incarnato ancora una volta, un uomo diventato Dio secondo la grazia o "un beato". "Beati i poveri nello spirito, perché di loro è il Regno dei cieli, Beati quelli che piangono...", Beati i miti..." Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia...", "Beati i misericordiosi...", "Beati i perseguitati per la giustizia, perché di loro è il Regno dei cieli". "Beato" vuol dire essere nella beatitudine o nella bellezza mistica del Regno di Dio che è "vicino", secondo la parola di Gesù. È in questa "vicinanza" o intima prossimità che arde l'anima umana ed in questo consiste tutto il segreto della santità ortodossa. "È giunto per voi il regno di Dio" (Mt. 12,28), ma "non tutti quelli che dicono "Signore, Signore! entreraranno nel regno di Dio" (Mt.7,21). I santi sapevano - certamente, non con la ragione, ma con la sapienza del cuore - che essi, per il fatto di dire "Signore, Signore!" tutta la vita, perfino ogni ora della vita, "non entreranno" così, "in folla", semplicemente perché sono stati dei "buoni credenti". Uno dei santi più recenti, il monaco Silvano del Monte Athos ha ricevuto una rivelazione da Cristo stesso: "Tieni la tua mente nell'inferno e non perdere la speranza!" E lo stesso santo ha detto della sua propria esperienza (senza parlare di se stesso): "Il Signore ha dato il Santo Spirito alla terra, e colui nel quale Egli vive, sente il paradiso in sé".

La terra e il Cielo, l'inferno e il paradiso sono le realtà quotidiane della vita di coloro che sono vicini al Regno - che lo portano in sé, ma vi entrano solo con la forza, con la violenza su se stessi. Perché "il regno di Dio soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt. 11,12). Si tratta della violenza della separazione, del distacco dal mondo caduto, e questa esperienza può essere paragonata alla morte vissuta. "Perché voi siete già come morti. La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio", dice San Paolo, e da questa frase, da questa visione della vita cristiana si apre la strada verso la mortificazione della carne per i monaci e per gli eremiti futuri. In verità la santità ortodossa è una vittoria della forza interiore, una vittoria che noi non vediamo. Insomma, questa santità è più nascosta che manifesta; la maggior parte dei santi erano sconosciuti (come era quasi sempre sconosciuta la loro vita in Cristo) o cercavano di essere sconosciuti e solo la loro morte, spesso, sollevava il velo dalla loro "beatitudine" o addirittura "dal Cristo", vissuto e manifestato segretamente nella loro vita. "E quando il Cristo, che è la vostra vita, sarà visibile a tutti, allora si vedrà anche la vostra gloria, insieme con la sua" (Col.3,3).

Perseguitati per Cristo. Assomiglianti a Cristo

Accanto a coloro che soffrono con Cristo, santi tipicamente russi, nella storia della santità si trova anche un'altra categoria di santi più tradizionali, una categoria che il nostro secolo ha reso forse più numerosa. Sono i martiri per la fede. Il numero dei martiri di questo secolo (o più precisamente di un quarto di secolo 1918-1943) è incredibilmente grande e noi non sapremo mai la cifra esatta. Immaginiamo una Chiesa con circa 78 mila parrocchie e cappelle, circa ottanta diocesi, con più di mille monasteri che è stata letteralmente schiacciata, cancellata; in tutto il territorio dell'Unione Sovietica sono rimaste alcune centinaia di chiese e non un solo monastero. Possiamo dire che praticamente tutta la Chiesa Russa nel secolo scorso - nella persona di tanti vescovi, preti e milioni di laici - é entrata nella beatitudine dei perseguitati per Cristo, di coloro che soffrono con Cristo.

Come sempre, la santità della Chiesa Russa è stata silenziosa, umile, quasi muta, poco conosciuta. Il martirio in Russia non cercava mai la fama mondana, la sua gloria, nemmeno nella Chiesa stessa. La vera luce dell'Ortodossia è sempre nascosta, poco manifesta, è il suo destino storico. La biografia ufficiale della Chiesa non sempre riflette questa luce, che pare rimanere segreto, sfuggire la storia. Un'antica leggenda russa dice che esiste una città dei santi, una misteriosa Kitez, che un giorno, tante centinaia di anni fa, s'immerse nel fondo di un lago all'avvicinarsi delle orde dei Mongoli. Dio cela i suoi eletti, li mette al riparo dal mondo e le forze del male non possono trovare la strada che conduce là. "Così alla fine del secolo, - si dice nella "Leggenda della città di Kitez “- Dio ha ricoperto con il palmo della sua mano quella città ed essa è diventata invisibile per le suppliche di quanti vi giungono degnamente e secondo giustizia e non subiscono afflizioni e pene da parte della bestia dell'anticristo". La santità russa è sempre un pellegrinaggio verso questa città invisibile. Ma dobbiamo capirlo nel senso metafisico o, piuttosto, escatologico: la città di Kitez esiste nel fondo delle nostre anime.

Tutto ciò che viene elargito per grazia, trova il suo inizio nell'amore. Gli eremiti abbandonano il mondo per amore della preghiera: perfino i tranquilli monasteri fra i boschi sembravano loro, talvolta, covi di seduzione e di rumori. Così rinasce in Russia, dopo l'Oriente cristiano, il tipo più diffuso della santità, in russo "prepodobnye", cioè gli "assomiglianti agli Angeli" o a “Cristo stesso".

"L'uomo recondito del cuore"

Non esiste fede senza questo amore; restano solo le "convinzioni religiose" in cui esprimiamo noi stessi, ma non ci apriamo a Dio. L'amore conosciuto dai santi era men che meno un amore speculativo, immaginario, poiché cominciava dalla purificazione da ogni sorta di "fantasie", dalla morte della "istintività", cioè dall'abbattimento di questa barriera di "passioni", della prigionia che ci separa da Dio. L'amore per Dio, per sua natura, è un sacramento e non un concetto e neppure semplicemento un sentimento: il sacramento del morire con Cristo e risorgere con Cristo. E allora tutto il mondo, fino a ieri "immerso nel male", si rivela nella luce della resurrezione. Questo significa che agli occhi del santo il mondo e se stesso si rivelano attraverso l'amore. La preghiera del cuore o la preghiera di Gesù "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore", contiene in sé, secondo la tradizione orientale, tutto il Vangelo, tutto il messaggio cristiano, cioè la nostra fede nel Dio crocifisso per noi e per la nostra salvezza e il nostro pentimento davanti a Lui e in Lui. E questo messaggio, ripetuto mille volte, riunito con il ritmo del respiro e anche con i palpiti del cuore, compie un miracolo di transmutazione, crea il cuore nuovo, pieno della beata e incedibile presenza del Cristo. E questa presenza tramite il cuore riempie tutta la nostra esistenza, ci volge alla visione del mondo in Cristo, creato come paradiso. La santità della preghiera del cuore, che si acquista sempre con un lavoro enorme e ininterrotto, è la santità paradisiaca. Così nel monastero o nel "deserto" nasce invisibile a tutti "l'uomo recondito del cuore nella bellezza incorruttibile di uno spirito mansueto e silenzioso" (1Pt. 3, 4). Questo uomo è liberato dalla sua natura caduca a tal punto che Dio fa di lui la propria dimora (1Re. 8,30), il proprio tempio, il proprio vaso, gli fa gustare la beatitudine e la vicinanza della propria Presenza, gli permette di vedere se stesso e il mondo con i propri occhi. Nei "Racconti di un pellegrino russo", (il libro di un autore anonimo pubblicato nella seconda metà del secolo XIX, che è riuscito ad esprimere lo spirito e l'esperienza più profonda e, io direi, la "dolcezza" della santità russa), così vien descritto il risveglio di questo "uomo recondito": "Da quel momento cominciai a provare diverse sensazioni nuove nel cuore e nella mente. Talvolta mi ferveva nel cuore come un'ebbrezza, e tale era il senso di leggerezza, di libertà e di consolazione che mi sentivo completamente trasformato e cadevo in estasi. A volte sentivo un amore bruciante per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio. Talvolta mi sgorgavano lacrime di riconoscenza per il Signore che aveva avuto pietà di me, miserabile peccatore. A volte, nell'invocare il nome del Signore Gesù Cristo, ero preso soprattutto da una grande gioia, e compendevo che cosa significassero le sue parole: "il Regno di Dio è dentro di voi". Ma questo Regno, come l'amore stesso, è sempre un dono.

“Poveri in spirito". Pazzi per amore di Cristo

 "Beati i poveri in spirito" proclama Cristo e questa strana e misteriosa povertà alla quale noi siamo chiamati, resta come provocazione per la nostra ragione, per il nostro buonsenso, perché fa parte del buonsenso cercare le ricchezze, se non nell'accumulo dei beni materiali, nelle conoscenze, nel buon nome ed infine nello spirito. I folli per Cristo si distaccano da tutto questo, in forma visibile si staccano anzitutto dalla ragione, dalla vanità e dalla dignità umana, dalla considerazione dei contemporanei, talvolta anche dai buoni costumi.

Chi erano i "folli in Cristo"? Anzitutto i "folli" che facevano cose provocanti e incredibili, che correvano quasi nudi in città nell'inverno russo più duro, come san Basilio (la voce del popolo ha battezzato con il suo nome la chiesa più famosa della Russia).

I "folli in Cristo" suscitano sempre una curiosità particolare, soprattutto in Occidente. Ma in fondo facevano la stessa cosa dei solitari dei boschi o di altri luoghi. Se quelli rinunciavano al mondo e ai suoi piaceri, ma soppratutto alla tentazione monastica per la pietà famosa, questi rinunciavano alla ragione del mondo, alla sua struttura razionale, e la loro rinuncia della fama li conduceva fino all'amore per l'infamia. Se quelli si ritiravano nei loro deserti, questi vivevano nella città, in mezzo alla folla, sulla piazza della fiera, ma ciascuno - gli uni con il loro andarsene solitari e la preghiera ascetica, gli altri con la loro follia errabonda - rammentavano al mondo le parole di Cristo: "Il mio Regno non è di questo mondo" (Gv. 18, 36). Le rammentavano con le loro vesti strappate, con le verghe che schioccavano sulle loro spalle denudate, con i loro piedi scalzi che non temevano il ghiaccio e la neve, così come con le loro predizioni e le loro accuse.

Il Regno di Dio viene "con potenza" e si svela attraverso i santi, ma non viene "in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: eccolo qui, o eccolo là. Perché il Regno di Dio è dentro di voi" (Lc. 17, 20-21). La santità russa è una figura di questo Regno senza apparenza, esso vive dentro il paese peccatore, dentro la Russia storica e di essa non si può dire: eccola qui, eccola là. Incontro dei santi.

C'è una santità che vuole cambiare questo mondo, evangelizzarlo, aiutarlo, educarlo, umanizzarlo, illuminarlo con la luce di Cristo. Ma ce n'è un'altra e questo tipo di santità è più vicina al cristianesimo in Russia, la santità volta verso un Regno che viene, la santità che dai suoi boschi, dalla sua sofferenza, dal suo martirio, dalla sua follia, condanna l'autosufficienza e l'orgoglio di questo mondo. E tutte e due hanno i propri doni, i propri carismi, e tutte e due sono piacevoli agli occhi del Signore. Perché - e questo deve essere sempre ricordato - il dono della santità non è un dono individuale. La santità è sempre la realizzazione, l'attuazione dei doni della Chiesa, della sua spiritualità o, diciamo, dell"ecclesialità". Tutto ciò che noi sappiamo dei santi, conosciamo anche dalle preghiere di ogni giorno, dalla celebrazione ecclesiale. Ma tutto ciò che noi sentiamo, loro l'hanno effetuatto, tutto lì e nient’altro. E da questa santita vediamo, indoviniamo la "personalità" della Chiesa. Da una parte, i taumaturghi, i simili al Cristo, i santi eremiti, i santi monaci, i santi della "preghiera di Gesù", i santi pazzi, i santi iconografi, dall'altra, i maestri della Chiesa, i santi papi, fondatori degli ordini religiosi, i santi missionari, i combattenti per la dignità della Chiesa, i santi scrittori. Dall'altra parte la Chiesa che mette tutta la sua energia spirituale nella ricerca della solitudine interiore, del luogo del cuore, della rinuncia di tutte le richezze di questo mondo, la Chiesa che può fare i miracoli, leggere i cuori umani, che rifiuta anche la ragione umana per la "follia" del Cristo; questa è la santita della t r a s p a r e n z a umana, fino alla totale apertura umana per la presenza, la gloria e la volontà di Dio.

Un'altra Chiesa ha maggiormente sentito l'appello del Vangelo: andate e predicate il mio Regno, la Chiesa che durante tutta la sua esistenza storica ha lottato per trovare il posto per questo Regno sulla terra, nella Chiesa stessa, che ha mandato e continua a mandare gli innumerevoli missionari che perdono la propria vita, che evangelizza, predica, discute, insegna e prega; questa è la santità dell'a z i o n e umana e che esprime l'azione e la volontà di Dio. Non posso non credere che questi due tipi di santità non si incontrino un giorno, non soltanto alla tavola delle commisione teologiche, ma nella profondità della vita spirituale che esiste in ciascuna di esse. Tutte e due porteranno i loro doni diversi ma ugualmente necessari al Signore, per fare la Chiesa dei santi comuni e delle ricchezze condivise, la Chiesa della inesauribile pienezza di Gesù Cristo, nostro Signore.

Il Cristo della salvezza

Per finire, una breve meditazione pasquale.

Il simbolo della fede dei primi cristiani era brevissimo, di una densità incomparabile. San Paolo lo rende così: “…se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rm. 10, 9). ΚΥΡΙΟΣ ΙΗΣΟΥΣ, Signore Gesù: un Vangelo che con due parole annunzia l’umanità storica del Verbo che venne ad abitare in mezzo a noi, presta la lingua ad esprimere il mistero di Dio che nessuno ha visto e che è venuto sulla terra, e afferma anche che il tempo della loro unione può essere la nostra esistenza stessa che santifica il Verbo nel nome umano. Il Verbo che si è fatto carne si è sottomesso al ritmo della vita umana con la nascita, la sofferenza, la morte. Il Signore abita fuori delle nostre stagioni, ma Egli è sempre il Dio con noi. La Sua età include l’abisso del passato, ma anche l’immensità dell’avvenire che si perde nell’orizzonte. Ma Egli anche è il “bambino avvolto nelle fasce” (Lc. 2,12) che la Madre Sua ha portato sulle bracce, un condannato che muore sulla croce. L’inizio e la fine, Betlemme e Golgota sono iscritti in quel presente eterno che è immesso nella nostra fede.

Ma dove si trova quel ponte che unisce le due realtà che la ragione umana fa tanto fatica ad unire, ma che il cuore è capace di credere e la bocca di confessare? Come si può entrare in quell’avventura del credere? La risposta è già nell’invito di Gesù: “prendi parte nella gioia del tuo Signore” (cf. Mt. 25,21). Il ponte è proprio la gioia, anche se può portare le lacrime del vivere con la croce, quella gioia che unisce il nome di un ebreo vissuto 2000 anni fa al Signore incomprensibile, il suo breve soggiorno fra gli uomini alla speranza di tutti popoli, il nostro presente che ci fugge alla luce dell’eternità, l’intimità di un’anima alla comunità planetaria dei cristiani. Quel ponte di gioia si chiama Risurrezione.

E se entri davvero nel dolore e nella gioia che è nel nome del Morto e del Risorto, se scopri che il nome della gioia è amore,

«… sarai salvo».

Teologia islamo-cristiana della liberazione
di Juan José Tamayo


L'idea che l'islam sia "la civiltà meno tollerante delle religioni monoteiste" (Huntington) è molto diffusa in Occidente, dove si va avanti con stereotipi sul cristianesimo e sull'islam che diventano uno degli ostacoli più seri al dialogo interreligioso, insieme alla non conoscenza che una religione ha dell'altra, anche all'interno di settori considerati colti. Le svalutazioni sono tanto più grossolane e viscerali quanto maggiore è l'ignoranza reciproca. Le certezze si rafforzano quanto l'ignoranza è più crassa. Quando si giudica e si valuta un'altra religione, non si è soliti partire da una informazione oggettiva a riguardo, ma da stereotipi o interpretazioni interessate che finiscono col deformare il senso profondo della religione. La mancanza di fiducia e la diffidenza hanno caratterizzato storicamente le relazioni fra il cristianesimo e l'islam. Il risultato è stato lo scontro, quando non la guerra aperta fra le due. Però ci sono stati anche momenti di pacifica convivenza, di dialogo interreligioso, di feconda interculturalità, di convergenze ideologiche, di lavoro scientifico comune e di dibattito filosofico creativo.

È questo, credo, il cammino da seguire in futuro ed è questo lo spirito che deve presiedere alle relazioni tra cristianesimo e islam. Cosa che implica rifuggire dagli stereotipi e delle generalizzazioni ed evitare una religione usi termini minacciosi nei confronti di un'altra, senza per questo rinunciare alla critica e all'autocritica. In quanto religioni nate da un tronco comune, l'abramitico; in quanto caratterizzate dal monoteismo e impegnate nel vivere alcuni valori religiosi emanati da una rivelazione che intende liberare l'essere umano dalle schiavitù e dalle oppressioni, il cristianesimo e l'islam non possono costituire l'uno per l'altro una minaccia. Soprattutto quando i loro testi sacri e i loro fondatori richiamano costantemente a rispettare le altre credenze e ad affermare espressamente che non c'è coazione nella religione.

Bisogna impegnarsi a costruire una teologia cristiana e musulmana di liberazione. Forse la teologia cristiana della liberazione è più conosciuta ed è più sviluppata della teologia islamica della liberazione, ma ciò non significa che questa non esista. Ci sono importanti studi in questa direzione. Concentrerò il mio intervento in tre campi in cui è possibile una siffatta teologia della liberazione: l'immagine di Dio, l'etica e la prospettiva di genere.

1 - Dal Dio della guerra al Dio della pace

L'immagine di Dio che ha predominato nel cristianesimo e nell'islam è quella di un Dio violento, vendicativo, al quale tutte e due le religioni hanno fatto frequentemente ricorso per giustificare gli scontri, le aggressioni e le guerre tra di loro e contro gli altri popoli e religioni considerati nemici. Anche per giustificare le azioni terroristiche, le invasioni e le aggressioni belliche ci si appella a Dio, come è successo negli attentati terroristici dell'11 settembre contro le Torri Gemelle e negli attentati dell'11 marzo a Madrid, ed anche negli attacchi degli Stati Uniti e della coalizione internazionale contro l'Afghanistan e l'Iraq. È rivelatore, a questo riguardo, il seguente testo di Martin Buber:

"Dio è la parola più vilipesa di tutte le parole umane. Nessuna è stata tanto sporcata, tanto mutilata. Le generazioni umane hanno buttato su di essa il peso di tutte loro. Le generazioni umane, con i loro patriottismi religiosi, hanno stracciato questa parola. Hanno ucciso e si sono fatte uccidere per essa. Questa parola porta le loro impronte digitali ed il lor sangue. Gli esseri umani disegnano un fantoccio e ci scrivono sotto la parola 'Dio'. Si assassinano gli uni gli altri e dicono 'lo facciamo in nome di Dio'. Dobbiamo rispettare quelli che proibiscono questa parola, perché si ribellano contro l'ingiustizia e gli eccessi che con tanta facilità si commettono con una presunta autorizzazione da parte di 'Dio'".

Così è, di fatto. In non pochi testi fondanti del giudaismo, del cristianesimo e dell'islam, l'immagine di Dio è violenta e associata al sangue, fino a combaciare con quella che René Girard chiama sacralizzazione della violenza o violenza del sacro (cfr. R. Girard, La violencia y lo sagrado, Anagrama, Barcellona 1983; L. Maldonado, La violencia de lo sagrado. Crueldad "versus" oblatividad o el ritual del sacrificio, Sígueme, Salamanca, 1974).

Ebbene, malgrado l'uso e l'abuso del nome di Dio, invano e con intenzioni distruttive, concordo con Martin Buber quando dice che "sì, possiamo: sporcata e mutilata com'è la parola 'Dio', sollevarla da terra ed erigerla in un momento storico trascendentale". Perché, se nelle tre religioni monoteiste esistono numerose ed importanti tradizioni che fanno appello al "Dio degli eserciti" per dichiarare la guerra a miscredenti e idolatri, altre ce ne sono che presentato Dio con un linguaggio pacifista e gli attribuiscono atteggiamenti pacificatori e tolleranti.

La Bibbia descrive Dio come "lento all'ira e ricco di grazia", il Messia futuro come "principe di pace" e arbitro di "innumerevoli popoli". Fra le più belle immagini bibliche del Dio della pace bisogna citarne tre: l'arcobaleno come simbolo dell'alleanza duratura che Dio stabilisce con l'umanità e con la natura, dopo il diluvio universale (Gn 8,8-9); la convivenza ecologico-fraterna dell'essere umano - violento lui - con gli animali più violenti (Is 11,6-8); l'idea della pace perpetua (Is 2,4). Nelle Beatitudini, Gesù dichiara felici coloro che lavorano per la pace, perché essi saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).

Allah è invocato nel Corano come il Molto Misericordioso, il più Generoso, Compassionevole, Clemente, Prudente, Indulgente, Comprensivo, Saggio, Protettore dei poveri, ecc. Allah viene definito "Pace, Colui che dà Sicurezza, Custode" (Corano, 69,22). Tutte le sure del Corano, eccetto una, cominciano con l'invocazione "Nel nome di Dio, il Clemente, il Compassionevole…". Il rispetto del prossimo, della sua reputazione e delle sue proprietà è quello che in modo più completo definisce il credente, secondo uno dei hadizes (detti) del Profeta Muhammad.

C'è un imperativo coranico che ordina di fare il bene e di non seminare il male: "Fa' il bene degli altri come Dio ha fatto il tuo bene; e non seminare il male nella terra, perché certamente Dio non ama chi semina il male" (28,77). Il Corano chiarisce che non è la stessa cosa operare bene e operare male, chiede di avere pazienza e di rispondere al male con il bene, anzi con qualcosa che sia meglio (13,22; 23,96; 28,54), fino al punto che la persona nemica si converta in "vero amico" (41,34). C'è sintonia con le raccomandazioni di Gesù e di Paolo. Il primo invita a non resistere al male, ad amare i nemici e a pregare per i persecutori (Mt 5,38ss). Paolo chiede ai cristiani di Roma che non restituiscano il male a nessuno, che non si lascino vincere dal male, ma che vincano il male con il bene (Rom 12,21).

Anche nel Corano è presente il perdono dei nemici e la rinuncia alla vendetta: "Ricorda che un male ha per pagamento un male eguale. Ma chiunque perdona e si riconcilia verrà ricompensato da Dio. In Verità Egli non ama gli ingiusti" (42,40).

Come credenti delle diverse religioni abbiamo condannato gli attentati terroristici dell'11 settembre contro le Torri Gemelle e dell'11 marzo contro i cittadini madrileni, abbiamo celebrato atti interreligiosi per la pace e contro la violenza e ci siamo opposti alle ultime aggressioni contro i popoli dell'Afghanistan e dell'Iraq richiamando il precetto divino "non uccidere", che costituisce l'imperativo categorico per eccellenza e afferma la vita come il principio di tutti i valori. Il richiamo al Dio della pace e il rifiuto delle guerre in suo nome possono essere un importante punto di partenza per passare definitivamente dall'anatema religioso e dallo scontro di civiltà al dialogo fra le religioni, le culture e le civiltà. Le differenze religiose non dovrebbero essere motivo di divisione, ma la migliore garanzia per il rispetto di tutte le fedi e gli agnosticismi e il lavoro comune nella costruzione di alternative comunitarie di vita.

2 - Etica liberatrice nel cristianesimo e nell'islam

Il cristianesimo e l'islam sono due religioni monoteiste, di un monoteismo non dogmatico, ma etico, con un orizzonte morale. Così è stato vissuto dagli stessi fondatori e dai profeti di Dio di entrambe le religioni.

2.1. Nel cristianesimo

Gesù è stato un uomo di grande statura morale, che è stato paragonato a Socrate, Budda, Confucio, ecc. Nella sua persona si armonizzano mistica e liberazione, esperienza religiosa ed orizzonte etico in una unità differenziata. Lo ha percepito molto bene il Mahatma Gandhi, che ha mostrato grande ammirazione per Gesù, persona morale che gli è servita d'esempio nella sua vita personale e nella sua azione politica nella prospettiva della nonviolenza attiva. L'insegnamento morale del vangelo è stato per lui fonte di ispirazione permanente nella sua attività politica e nel suo programma economico. Gandhi invitava a studiare la vita di Gesù e a mettere in pratica il suo messaggio ugualitario e pacificatore (cfr. M. Gandhi, The message of Jesus Christ, Bharatiya Vidya Brhavan, Bolbeay 1963). Racconta il leader religioso indù che durante il secondo anno del suo soggiorno in Inghilterra conobbe, in una pensione vegetariana, un buon cristiano di Manchester che gli parlò del cristianesimo e lo invitò a leggere la Bibbia. Cominciò a leggerla e non gli riuscì di arrivare alla fine dell'Antico Testamento. Diversa fu l'impressione che produsse in lui il Nuovo Testamento, specialmente il Sermone della Montagna, che lo colpì profondamente. "Lo paragonai - riferisce - al Bhagavad Gita. I versetti dove dice: 'ma io vi dico: non opponetevi (con la violenza) al male; a chi ti colpisce la guancia destra tu porgi l'altra. E se qualcuno si impossessa del tuo mantello, dagli anche la tua tunica' mi piacquero oltremodo…'. La mia giovane mente cercava di armonizzare l'insegnamento del Gita con quello del Sermone della Montagna" (M. Gandhi, La mia vita è il mio messaggio. Scritti su Dio, la verità e la nonviolenza).

Messaggio etico e prassi di liberazione guidano la vita di Gesù di Nazareth e devono guidare anche la vita della comunità cristiana in ogni contesto storico, se si vuole essere fedeli all'etica dell'iniziatore del cristianesimo. Fra le caratteristiche dell'etica di Gesù è importante citare le seguenti: liberazione, giustizia, gratitudine, alterità, solidarietà, fraternità-sororità, pace inseparabile dalla giustizia, difesa della vita, di tutta la vita, tanto della natura come dell'essere umano, della vita in pienezza qui, sulla terra, e non solo della vita spirituale e della vita eterna, conflitto, debolezza, compassione per le vittime, riconciliazione e perdono. La grande rivoluzione del Nazareno consistette nell'avere eliminato l'idea così escludente del popolo eletto e nella proposta di una comunità fraterna, senza frontiere né discriminazioni.

Una delle migliori espressioni di questa etica è data dal cristianesimo liberatore vissuto nel Terzo mondo e nelle enclave di emarginazione del Primo mondo, e dalla teologia della liberazione, nata in America Latina alla fine degli anni '60 del secolo XX e diffusa oggi in tutto il Sud del pianeta. È una teologia che, con diversi accenti a seconda dei contesti nei quali si sviluppa, cerca di rispondere alle sfide poste dalle alterità negate - culture, donne, razze, etnie, ecc. - e dal mondo della povertà strutturale, cioè dall'"altro povero", così come dalla pluralità delle religioni, cioè dall'"altro religioso".

2.2. Nell'islam

L'islam condivide con il cristianesimo lo stesso orizzonte morale, che deriva dal monoteismo etico nel quale tutti e due si situano e al quale non possono rinunciare. La sua etica mostra profonde affinità con quella del cristianesimo, fino al punto che non è difficile stabilire un consenso su alcuni punti basilari morali fra le due religioni e il giudaismo.

I precetti orali del Corano si focalizzano su: essere buoni con i genitori, non uccidere i figli per paura della povertà, evitare le disonestà, pubbliche o private, non toccare quanto spetta agli orfani, se non in modo conveniente, fino alla loro maggiore età, dare con equità a ciascuno il suo, non chiedere a nessuno qualcosa che vada oltre le sue possibilità, essere giusti quando si deve dichiarare qualcosa, anche se si tratti di parente, essere fedeli all'alleanza con Allah (6,151-153). La pietà per il Corano non sta nel volgere il volto a Oriente o a Occidente, ma nel credere in Dio, nella Scrittura e nei profeti, "nel dare ricovero… a parenti, orfani, bisognosi, pellegrini (seguaci della causa di Dio), mendicanti e schiavi, nel fare la azalá (orazione istituzionale obbligatoria) e dare l'azaque (imposta-elemosina per legge), nel mantenere gli impegni… (2,177).

L'opzione per i poveri costituisce il principio vertebrale del discorso dell'ayatollah Khomeini (1902-1989) in sintonia con il discorso della teologia cristiana della liberazione elaborata in America Latina: "L'islam ha risolto il problema della povertà e ha fatto di essa il principio del suo programma: sadaqt (la carità) è per i poveri. L'islam è cosciente che la prima cosa che si deve fare è porre rimedio alla situazione dei poveri" (Khomeini, Islam and Revolution: Writing and Declarations of Imam Khomeini, Mizan Press, Berkeley, 1981).

Come il cristianesimo e come altre religioni, l'islam ha ispirato molti dirigenti politici e sociali nella loro lotta per la liberazione in parole e opere. Al suo interno si è dato origine a una teologia della liberazione.

Il punto di partenza dei movimenti di liberazione nati nell'islam è l'esperienza di oppressione vissuta dai popoli musulmani e la perdita della loro identità culturale e del loro potere sociale durante le tappe coloniale e postcoloniale. Credenti musulmani di rilievo vedono nel Corano e nella Sunna progetti originali per realizzare una forma di vita integrale e liberatrice. Possiamo citarne quattro: Sayyid Abu'l-A'la Mawdudi (1903-1979), dirigente morale e politico musulmano nato ad Aurangabad (India), che si mostrò critico tanto della società moderna secondo il modello occidentale quanto dell'islam tradizionale, che considerava cristallizzato, e difese il ritorno ad un islam autentico; il dottore iraniano Ali Shari'ati (1933-1977), che John L. Esposito considera teologo della liberazione per il suo tentativo di combinare il credo islamico liberatore con il pensiero sociopolitico moderno emancipatore; l'indiano Asghar Ali Engineer, impegnato nella difesa dei diritti umani e a favore dell'armonia tra le religioni, che fa risalire gli elementi liberatori dell'islam al Profeta il quale, con la sua vita e il suo messaggio, vuole rispondere alle situazioni di oppressione e di ingiustizia, di ignoranza e di superstizione, di schiavitù e di discriminazione della donna, imperanti nella Mecca.

3 - Ermeneutica femminista della liberazione

3.1. Il Corano, strumento a favore della liberazione delle donne

Da vari decenni si stanno sviluppando nell'islam importanti correnti riformiste e femministe che denunciano il monopolio tradizionale dei maschi, e più in concreto dei "chierici", nell'esegesi del Corano e nella sua interpretazione patriarcale, contraria allo spirito originario e alla difesa dell'uguaglianza fra uomini e donne in esso contenuta. Queste correnti vogliono liberarsi dalla casta degli intermediari e dalla burocrazia degli ulema, perché credono che l'islam si basi sulla relazione diretta dei credenti con Dio e non ha bisogno di chierici. Reclamano il diritto delle donne ad accedere direttamente ai testi e ad interpretarli nella prospettiva di genere. Prospettiva che le porta a considerare il Corano come un importante strumento in favore della liberazione della donna. Le cose stanno così o tale affermazione è frutto di una lettura troppo interessata?

Certamente l'islam costituisce un significativo passo avanti nel riconoscimento della dignità delle donne. In più, come osserva Jadicha Candela, sostituisce il sistema socioculturale sessista vigente nell'Arabia preislamica con un sistema umanitario capace di integrare le diverse minoranze discriminate: le donne, le bambine orfane, gli schiavi, ecc. Sono numerosi i testi del Corano, soprattutto quelli dell'epoca de La Mecca, che riconoscono uguaglianza di diritti e doveri fra uomini e donne.

Intanto, bisogna constatare che non esiste alcun racconto della creazione della donna come costola dell'uomo, come nella Bibbia ebraica (Genesi 2,21-22). Racconto che è stato assunto dal cristianesimo ed è molto presente nell'immaginario dei cristiani e delle istituzioni ecclesiastiche per giustificare la superiorità dell'uomo sulla donna e le relazioni di dipendenza e sottomissione di questa rispetto all'uomo. Secondo il testo coranico, uomo e donna sono creati uguali senza subordinazione né dipendenza di uno dall'altro. La relazione fra i credenti e le credenti è di amicizia e mutua protezione. Nel Corano compare 25 volte il nome di Adamo, che non è arabo ma ebreo, e 21 volte ha il significato di umanità, non di uomo-maschio. Tantomeno si trova, nel libro sacro dell'islam, un racconto che renda responsabile la donna del peccato e dell'espulsione dal paradiso, come invece all'inizio della Bibbia ebraica (Genesi 3,6).

Nella situazione di discriminazione, anche di disprezzo della vita, nella quale si trovavano le donne nella società araba preislamica, il Corano costituisce un avanzamento importante. Era tale l'offesa suscitata dalla nascita di una bambina in quella società, che alcuni genitori arrivavano a ucciderla alla nascita, come constata il Corano che condanna fermamente questa pratica: "Quando si annuncia a uno di essi una bambina, rimane cupo e angosciato. Schiva la gente per vergogna, chiedendosi se la conserverà, a suo disonore, o se la nasconderà sotto terra… Che pessimo modo di giudicare" (16,58-59).

Il Corano riconosce uguaglianza di diritti e di doveri di uomini e donne rispetto alla religione, come dimostra il seguente testo che utilizza un linguaggio chiaramente inclusivo di uomini e donne: "Dio ha preparato perdono e magnifica ricompensa per i musulmani e le musulmane, i credenti e le credenti, i devoti e le devote, i sinceri e le sincere, i pazienti e le pazienti, gli umili e le umili, quelli e quelle che fanno l'elemosina, quelli e quelle che digiunano, i casti e le caste, quelli e quelle che ricordano molto Dio" (33,35). La ricompensa e la buona vita per le buone opere spettano agli uomini e alle donne credenti allo stesso modo (16,97).

3.2. Tradizioni patriarcali nel Corano ed ermeneutica di genere

Con tutto ciò vi sono testi chiaramente patriarcali che difendono la superiorità del maschio, la sua funzione protettrice della donna e la dipendenza di questa. In essi la virtù delle donne è essenzialmente legata alla devozione, all'obbedienza e all'atteggiamento di sottomissione nei confronti dei mariti. La ribellione è considerata una mancanza di rispetto nei loro confronti, che deve essere castigata. Leggiamo nel Corano: "Gli uomini hanno autorità sulle mogli in virtù della preferenza che Dio ha dato agli uni piuttosto che agli altri e dei beni che ottengono. Le donne virtuose sono devote. E badano, in assenza dei loro mariti, a ciò a cui Dio ha ordinato loro di badare. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele! Se vi obbediscono, non scontratevi con loro" (4,34).

Come interpretano le teologhe femministe e i teologi riformisti all'interno dell'islam questo testo ed altri analoghi? Tutti sono d'accordo sul fatto che riflettono la mentalità dell'epoca, nella quale l'inferiorità della donna era molto radicata. Vi è chi ritiene che i testi che giustificano la soggezione della donna all'uomo devono essere intesi in senso metaforico. In generale si tende ad affermare che la traduzione non è corretta. Dáraba è una parola che ha molti significati. Alla base del giudizio contro l'imam di Fuengirola, i filologi arabi credono che l'imperativo di dáraba di 4,34 non può essere tradotto con "battetele" o "date loro una bastonata". La traduzione corretta sarebbe "date loro un tocco di attenzione". Vi sono anche coloro che credono che possa essere tradotto con "fate l'amore".

Alcune tendenze femministe islamiche tendono a spiegare la misoginia e la struttura patriarcale di molte società musulmane facendo riferimento alla influenza che nell'islam aveva esercitato la misoginia del mondo mediterraneo, quando questa religione entrò in contatto con la cultura mediterranea. L'evoluzione stessa della tradizione del Hadiz pare confermare questa tendenza, poiché le prime compilazioni, basate sulle informazioni di A'isha, la vedova del profeta, difendono, generalmente, l'uguaglianza tra uomini e donne, mentre le compilazioni posteriori non riconoscono tanta importanza ad A'isha e introducono una serie di regole che restringono la libertà delle donne.

Le tendenze islamiche riformiste e femministe sono solite convenire sul fatto che il Corano deve essere interpretato alla luce dei diritti umani e non viceversa. Questo è applicabile ai testi sacri di tutte le religioni. In questa direzione va la Dichiarazione Islamica Universale dei diritti umani proclamata il 19 settembre 1981 alla sede dell'Unesco dal Segretario generale del Consiglio Islamico per l'Europa, che difende "un ordine islamico in cui tutti gli esseri umani siano uguali e nessuno goda di alcun privilegio né subisca uno svantaggio o una discriminazione, a motivo della sua razza, colore, sesso, origine o lingua".

Questa interpretazione, tuttavia, non si ferma al terreno dei principi. Vi sono musulmani che la mettono in pratica, come Shirin Ebadì, avvocata iraniana e docente di Diritto all'Università di Teheran, che ha ricevuto il Premio Nobel per la pace l'anno scorso per la sua lotta a favore dei diritti umani. È una musulmana praticante che ha levato la voce nelle aule e nella sua attività contro la discriminazione delle donne in un Paese musulmano come l'Iran dove continua ad essere applicata la Shari'a. Il suo atteggiamento mostra e dimostra non solo la compatibilità tra fede in Allah e difesa dei diritti umani, ma anche la relazione intrinseca tra entrambi. Shirim Ebadì difende l'uguaglianza fra uomini e donne e la conseguente emancipazione di queste, mentre considera il maschilismo una malattia come l'emofilia, trasmessa dalle madri ai propri figli.

"Alcune madri hanno nel loro corpo gli elementi latenti della malattia, e anche se non la mostrano visibilmente, la trasmettono ai loro figli e li contagiano. Considero questo male simile alla cultura patriarcale nel mondo. Nel sistema patriarcale, le donne sono le vittime, ma al tempo stesso, sono coloro che trasmettono questa cultura ai loro figli maschi. Non si può dimenticare che ogni uomo repressore è stato creato da una madre. Le stesse madri fanno parte del ciclo di espansione del maschilismo".

3.3 Dalla prospettiva dei diritti umani e dell'ermeneutica del sospetto

Senza interpretazione le religioni sboccano direttamente nel fondamentalismo. Senza l'orizzonte dei diritti umani le religioni finiscono per giustificare pratiche contrarie a dignità, libertà, uguaglianza e inviolabilità della persona, come torture, maltrattamenti, violenza di genere, esecuzioni, ecc. E lo fanno facendo riferimento a Dio per dare legittimazione religiosa e validità normativa a queste pratiche, cosa che implica una contraddizione, poiché si invoca il Dio della Vita e della Pace, il Dio del Perdono e della Riconciliazione per praticare la vendetta e la violenza, nel caso di cui ci stiamo occupando, contro le donne.

Il cristianesimo e alcune tradizioni islamiche tendono a difendere la superiorità del maschio sulla donna, basandosi su tre presupposti: a) la creazione del maschio prima della donna, uscita da una costola dell'uomo, cosa che la rende ontologicamente inferiore; b) la responsabilità della donna nel peccato originale, che provoca la cacciata dal paradiso; c) il compito ausiliare di servire il maschio che viene assegnato alla donna e, di conseguenza, il carattere strumentale della sua esistenza (cfr. R. Hassan, "Las mujeres en el islam y en el cristianismo". Concilium 253, giugno 1994), pp. 39-44).

Il ricorso all'ermeneutica critica, del sospetto, dalla prospettiva di genere, svuota di contenuto questi tre miti o principi fondamentali, che sono registrati nell'immaginario religioso dei credenti, nei loro predicatori e nei loro teologi, nelle loro istituzioni, e nega loro ogni legittimità.

Nel suo libro pioniere La Bibbia delle donne, la teologa cattolica nordamericana Elisabeth Cady Stanton stabiliva già nel 1895-1898 (Ediciones Cátedra, Universitat Valencia, Instituto de la Mujer, Madrid, 2000) i principi di una nuova ermeneutica dei testi fondanti del cristianesimo e dell'ebrai-smo, validi anche per l'islam: è l'ermeneutica del sospetto, che mette in discussione il contesto patriarcale, il linguaggio patriarcale, il contenuto patriarcale, le traduzioni patriarcali e le interpretazioni patriarcali della Bibbia. La Bibbia, affermava Cady Stanton, è un libro scritto da maschi che non hanno visto Dio né hanno parlato con lui. L'ermeneutica del sospetto di Cady Stanton è stata ripresa dalle teologhe femministe del XX secolo con la lettura dei testi biblici a partire dalla prospettiva di genere, che prevede due momenti metodologici: quello della decostruzione e quello della ricostruzione.

La lettura dei testi fondanti del cristianesimo e dell'islam a partire dalla prospettiva di genere porta direttamente a superare il patriarcalismo nell'organizzazione di entrambe le religioni e l'androcentrismo nel loro pensiero teologico. Credo che sia giunto il momento di stabilire un'alleanza, tanto nel campo della ricerca quanto in quello della strategia, per porre le basi di una teologia islamo-cristiana femminista che recuperi le tradizioni bibliche e coraniche di emancipazione delle donne e dei settori esclusi, restituisca loro la dignità umana e li riconosca come soggetti politici nella società e soggetti religiosi nelle rispettive comunità di fede, con pienezza di diritti, senza discriminazioni di genere, etnia, classe o cultura (un esempio di tale ermeneutica sono i libri di Fátima Mernisi, scrittrice marocchina e docente all'Istituto Universitario di Ricerca Scientifica dell'Universi-tà Mohamed V del Marocco, specializzata nello studio della condizione femminile nelle società musulmane; tra le sue opere, cfr. Marruecos a travéò de sus mujeres, Ediciones del Oriente y del Mediterraneo, Madrid 1998; id., El Harén politico. El profeta y las mujeres, Ediciones del Oriente y del Mediterraneo, Madrid 2002, 2ª ed., opera in cui investiga le origini dell'islam a ricerca delle cause dell'attuale misoginia nelle società musulmane).

(da Adista, 6 novembre 2004)

Elementi di attualità
della riflessione patristica sulla gnosi
Lorenzo Dattrino

Il complesso mondo dei nuovi movimenti religiosi (es. la New Age, Scientologia , ecc.) ripresenta oggi elementi che hanno non poche analogie con un fenomeno culturale apparso nei primi secoli dell’era cristiana. Detto fenomeno viene conosciuto con il termine gnosticismo. È necessaria una premessa terminologica.

Il termine gnosticismoè di origine moderna, e viene generalmente inteso in senso tecnico, ad indicare, cioè quel particolare fenomeno religioso che si è sviluppato nell’area mediterranea nei primi tre secoli della nostra era, dando origine a diversi sistemi e scuole che, sulla base delle testimonianze contemporanee, sono comunemente denominati gnostici. Il termine gnosi (dal greco gnồsis= conoscenza), invece, presenta una certa ambiguità. Alcuni attribuiscono anche a questo termine un significato tecnico ( più generico, però, di gnosticismo ) e lo riferiscono a quel particolare tipo di conoscenza religiosa (di Dio e dei suoi misteri; della vera natura dell’uomo e del mondo ecc.), riservata ad una élite , che da sola opera la salvezza e la liberazione di chi la possiede; in questo senso, non ogni conoscenza religiosa è propriamente una . Per estensione il termine può indicare inoltre anche i movimenti religiosi che tale dottrina della conoscenza hanno espresso. Gnosi, però, può essere utilizzato anche come semplice traduzione del termine greco dal quale deriva, vale a dire nel senso di “ conoscenza “ (di chi o di che cosa, dovrà essere specificato a seconda dei contesti). Si tratterà comunque sempre di un particolare tipo di conoscenza legato all’ambito religioso, che si distingue, p.es., dalla conoscenza di tipo scientifico, espressa in greco dal termine epistème.

La gnosi non è all’origine una nozione estranea né al giudaismo né al cristianesimo. Essa diventa un tema scottante per il cristianesimo soprattutto durante i secoli II e III d. C., che videro svilupparsi, da un lato, vari movimenti gnostici (di origine cristiana e non) che, nell’ottica dei Padri della Chiesa, furono assimilati all’eresia; e dall’altro, nuove scuole filosofiche ( soprattutto il platonismo medio nel sec. II e il neoplatonismo nel sec. III ) che dimostrarono un rinnovato interesse per il tema della conoscenza soprattutto in riferimento al problema della conoscenza di Dio.


Il contesto socio-culturale

Vediamo qual è lo sfondo culturale in cui sorge lo gnosticismo antico.

Il "crollo della polis“, che aveva caratterizzato l’esordio dell’età ellenistica, aveva portato in ambito filosofico e culturale ad una serie di mutamenti di ampia portata ; gli uomini (bruscamente strappati da quel “piccolo cosmo a misura d’uomo“ che erano – per i cittadini liberi – le poleis) abbandonarono le speculazioni di tipo metafisico per rifugiarsi in sistemi moralistici dallo scarso spessore teoretico, ma dalle formidabili valenze etico-pratiche.

Tale “ripiegamento involutivo“ seguiva una delle più profonde stagioni speculative della filosofia greca, quella caratterizzata dalle figure di Platone e di Aristotele, i cui insegnamenti furono dimenticati o apertamente osteggiati.

Il cammino della riscoperta di quella dimensione soprasensibile individuata da Platone con la sua “ seconda navigazione “ e poi dimenticata dai moralisti scettici o dogmatici della prima stagione dell’età ellenistica sarà lungo e difficile, non privo di esitazioni e travisamenti. I grandi sistemi filosofici di età ellenistica (Stoicismo, Epicureismo e Scetticismo) rispondevano al bisogno di certe etiche immediate, proprio degli uomini del loro tempo, ma lo facevano al prezzo di pressochè totale oblio dei frutti della “ seconda navigazione “ platonica: il cosmo viene ridotto alla sua sola dimensione fisica e la filosofia si riduce ad un sistema, costituito di tre parti o “ branche “, ben determinate (logica, fisica ed etica).

Col tempo entra in crisi il fisicismo dogmatico di tali filosofie ed emerge l’istanza di riscoprire una dimensione soprasensibile della realtà, andandola a cercare nel cuore del pensiero di quell’autore che l’aveva posta al centro della sua speculazione: Platone, che in quest’epoca viene sovente associato a Pitagora. Il cosiddetto “medioplatonismo” e il “neopitagorismo“ sono movimenti di pensiero che si collocano in tale solco.

Il problema etico resta preminente anche nell’orizzonte speculativo dei medioplatonici, però il motto fondamentale non è più quello delle filosofie ellenistiche (“segui la natura“), ma diventa, significativamente : “assimilati a Dio“.

E' evidente che questo clima caratteristico dei sec. II-III ha esercitato un influsso sul cristianesimo e che i padri della chiesa, nello sviluppo delle loro riflessioni sul tema della gnosi, si sono dovuti confrontare con esso.


L’atteggiamento dei cristiani colti

Le dottrine filosofiche che più influirono sul pensiero cristiano dei primi secoli sono lo stoicismo e il platonismo. Fra i cristiani, l’accettazione della filosofia greca non fu subito cosa ovvia. Contrasti ed opposizioni si manifestarono molto presto e tra gli stessi apologisti del sec. II, i primi autori cristiani che abbiano cercato di gettare un ponte tra il cristianesimo e la filosofia greca, non mancarono atteggiamenti di ripulsa. I più noti oppositori furono Taziano (per il cristianesimo di lingua greca) e Tertulliano (per quello di lingua latina). Secondo questi autori, il cristianesimo è del tutto estraneo alla filosofia greca; quest’ultima non contiene altro che deformazioni della verità ed è inoltre, con le dottrine delle sue diverse scuole, all’origine di tutte le eresie.

Tuttavia, la necessità di rispondere alle accuse che muovevano al cristianesimo i pagani delle classi colte e di diffondere anche tra queste classi la nuova fede fu un importante argomento a favore della diffusione della filosofia greca fra i cristiani. Lo stoicismo influì soprattutto sulle dottrine etiche, il platonismo sulla riflessione teorica dei primi pensatori cristiani. In particolare, la filosofia platonica, così come era stata riformulata dai pensatori del platonismo medio, arricchita anche da influssi neopitagorici, gravitava sempre di più verso la conoscenza del divino, fino a culminare in quella disciplina che dai filosofi aristotelici ha preso il nome di teologia e il cui fine ultimo è la homoiộsis theộ,il farsi simili a Dio. Proprio per queste sue caratteristiche, la filosofia platonica si presentava come uno strumento particolarmente adatto a tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio comprensibile all’uomo di cultura greca, e in quanto tale fu utilizzato dai primi grandi pensatori cristiani, da Giustino a Clemente e ad Origene.

Ma l’interesse del nascente pensiero cristiano nei confronti del platonismo, la disponibilità ad utilizzare temi di origine platonica nella riflessione sui dati della fede cristiana non devono far pensare che la distanza fra le due dottrine fosse minima. Come tra gli apologisti non mancarono oppositori nei confronti della cultura greca, così già nel sec. II si alzarono tra i filosofi medioplatonici alcune voci polemiche contro il cristianesimo : verso il 180 d.c. Celso scrive contro i cristiani quel Discorso verace, volto a dimostrare l’assoluta inconciliabilità tra filosofia greca e cristianesimo, che Origene confuterà circa 70 anni più tardi, conservandocene larghi estratti, nella sua opera Contro Celso. A lui farà eco il medico Galeno, riprendendo sostanzialmente gli stessi argomenti di Celso, che sono quelli tipici del medioplatonismo, di una filosofia, cioè, orientata sì in senso teologico, ma in nessun modo disposta ad abbandonare la ragione per aderire ad una fede.

Il filosofo Giustino è il primo esempio tipico di questo genere di avventura intellettuale e religiosa.

La sua nascita si colloca a Flavia Neapolis, l’antica Sichem, verso l’inizio del secondo secolo. Ci ha narrato lui stesso il suo itinerario in Dialogo con Trifone. Dopo aver interpellato tutte le filosofie, solo dalla platonica ha un aiuto, ma sono la lettura della Bibbia e la preghiera che conducono Giustino alla fede cristiana. Quando vi ha pienamente aderito, lungi dall’abbandonare la sua esistenza filosofica, egli considera che ha trovato, come gli aveva detto il vegliardo, la vera filosofia. Indossando sempre il pallio egli si fisserà, sotto Antonino Pio, a Roma e vi aprirà una scuola filosofica in cui il cristianesimo è proposto come la vera filosofia. Taziano, l’altro grande apologista siriano, diventerà suo discepolo. Ma con esiti opposti!

L’accoglienza fatta al pensiero greco riguardo al Logos grava con un certo peso sul lessico e sul pensiero di Giustino. La stessa cosa è vera per gli altri apologisti, e le conseguenze si faranno sentire fino a due secoli più tardi durante la crisi ariana.


Fonti per la conoscenza del fenomeno gnostico

Vediamo di far tesoro delle fontes in nostro possesso per conoscere meglio il fenomeno culturale dello gnosticismo. Esso ci è noto attraverso due tipi di fonti: le testimonianze patristiche (fonti indirette) e gli scritti di autori gnostici (fonti dirette). I padri della chiesa consideravano lo gnosticismo come un’eresia sorta in seno al cristianesimo e che ne minacciava l’integrità. Si sono quindi adoperati in ogni modo per confutarlo. Le informazioni più importanti ci vengono dagli eresiologi (Ireneo di Lione; Ippolito di Roma ; Tertulliano ; Epifanio di Salamina), quei padri della chiesa, cioè, che avevano fatto della lotta contro le eresie l’impegno principale della loro attività di scrittori. Fino ad alcune decine di anni or sono, le testimonianze patristiche costituivano la fonte di informazione principale, se non esclusiva, sullo gnosticismo.

Oggi, in seguito alla scoperta, avvenuta nel 1946 nei pressi della cittadina di Nag Hammadi, in alto Egitto, di una biblioteca gnostica, composta di 13 codici papiracei abbastanza ben conservati, che contengono una cinquantina di opere di autori gnostici, siamo potuti venire a contatto con scritti di prima mano, che documentano in modo diretto (non solo attraverso la prospettiva dei suoi avversari) il fenomeno gnostico. Questi scritti rappresentano la traduzione in copto, databile alla metà circa del sec. IV, di opere originariamente scritte in greco e che possono risalire fino al sec. I d.C. Tra i testi di Nag Hammadi, alcuni presentano caratteri pienamente cristiani, mentre altri, pur essendo gnostici, non rivelano alcun punto di contatto con il cristianesimo. Lo gnosticismo si presenta come un movimento religioso estremamente complesso e variegato, a carattere sincretistico (in cui si compongono , cioè, elementi di origine diversa). Le testimonianze letterarie del sec. II documentano in effetti una varietà di comportamenti e di dottrine che vanno, per quanto riguarda l’etica, dall’ascetismo più rigido ad atteggiamenti antinomisti e a pratiche libertine; per quanto riguarda la prassi liturgica, dai rituali misterici a pratiche giudaiche e cristiane; per quanto riguarda la teologia, dalla riflessione filosofica più sottile e rigorosa al fantasticare sfrenato del racconto mitico e agli incantesimi della magia.

Qual è l’elemento che permette di accomunare comportamenti e credenze così disparati ? Più che in un preciso contenuto dottrinale esso va forse cercato in un atteggiamento mentale o interiore, in un particolare modo di porsi nei confronti del mondo, di Dio, della salvezza. Per lo gnostico esiste una contraddizione inconciliabile tra il mondo in cui vive e il Dio assolutamente trascendente. Il mondo è il prodotto di un conflitto all’interno del Pleroma (= pienezza) divino : l’uomo, la cui natura più profonda è divina, si trova intrappolato , irretito in questo mondo, al quale si sente completamente estraneo. La salvezza per lui consiste nel liberarsi dai vincoli che lo legano alla materia, al corpo, al mondo umano. Questa liberazione egli ottiene quando prende coscienza della propria identità divina. È questa la “gnosi”, conoscenza di sé e conoscenza di Dio, che sono poi la stessa cosa. Siccome l’uomo è prigioniero del corpo e della materia, reso cieco, come stordito, ubriaco dal mondo, ha bisogno di una chiamata che venga dal di fuori e lo risvegli, facendogli prendere coscienza della sua vera natura. Il compito di portare questa chiamata nella prigione del mondo è affidata ad un Rivelatore. Il contenuto della chiamata è semplicemente che l’uomo appartiene a Dio ed è estraneo al mondo. Colui che porta in sé la scintilla divina è in grado di ascoltare questa chiamata e di conoscere la propria natura; attraverso questa conoscenza (la gnosi) , egli ottiene la liberazione dai vincoli della materia che lo rendevano schiavo. È precisamente questa conoscenza che distingue lo gnostico dalla massa degli altri uomini che rimangono nell’ignoranza, e ne fa un privilegiato.

Oltre a questo che è il messaggio essenziale dello gnosticismo (risposta alla domanda: chi sono io?), tutti gli sviluppi dottrinali particolari dei vari sistemi sono fondamentalmente ordinati ad aiutare l’adepto a rispondere a queste domande: da dove vengo? Come mai mi trovo qui? Come posso ritornare al mio luogo di origine? Per questo le dottrine gnostiche sviluppano con ricchezza di particolari il racconto delle vicende del mondo divino, del conflitto in esso prodottosi che ha dato origine al mondo materiale (teogonia e cosmogonia) e della via da percorrere per ritornare nel Pleroma originario.

In età ellenistica la concezione impersonale del potere divino sotto l’influsso di dottrine provenienti dall’oriente, tende a configurarsi come una sorta di energia cosmico-divina, che trova le proprie rappresentazioni tanto nelle forme classiche delle divinità tradizionali quanto nelle sfere esoteriche della magia e dell’astrologia. L’individuo dà nuova forma all’antica consapevolezza già propria dei culti misterici; c’è nell’uomo qualcosa di divino che bisogna “liberare“ da ciò che offusca la sua immagine più pura.

L’interrogativo più drammatico che l’uomo si pone è il seguente: “Se Dio è buono da dove viene il male?“ Si tratta di una domanda esistenziale propria dell’uomo in quanto tale, a cui ogni forma di sapienza filosofica o religiosa ha cercato di dare, in modo più o meno diretto, una risposta.

Per la mentalità gnostica il problema diventa centrale, vero propulsore del suo immaginario, a patto di assumere tale problema nella sua forma più “drammatica“. Di fronte al male lo gnosticismo opera una ribellione radicale e si mostra incapace sia di inquadrarlo come una forma di “non- essere“ all’interno di un cosmo sostanzialmente buono ( come farà invece Plotino ), sia di attribuirsene la responsabilità attraverso il peccato per poi accettarlo come mezzo di redenzione (secondo ciò che è proprio della dottrina cristiana).

Ecco le risposte. Possono essere schematicamente distinte in due grandi gruppi:

  • quelle che prendono le mosse da un dualismo originario e radicale (come nel caso del manicheismo, o di movimenti di area culturale iranica);
  • quelle che prendono le mosse da una caduta di un dio minore (come nel caso della gnosi di area culturale siro-egiziana).
  • Nel primo caso, semplificando i parametri concettuali del discorso, potremmo dire che Dio, la Luce suprema, è assolutamente buono, ma non è onnipotente (o quanto meno non lo è immediatamente) visto che deve ingaggiare una lotta titanica con un principio malvagio primordiale (la Tenebra). Nel secondo caso si tende a moltiplicare indefinitamente le personificazioni intermedie fra il Dio Supremo (che sarà, per esempio, Abisso, ineffabile e in conoscibile) e quell’entità generale inferiore che, colpevolmente attratta dai regni inferiori per i motivi più svariati, si troverà a decadere dalla sua dignità originaria. Tale “ caduta “ è stabilita prima del cosmo e una delle sue conseguenze è la nascita del cosmo stesso con la correlativa “ prigionia “delle anime divine del mondo.

    Come si vede, sullo sfondo c’è un pessimismo radicale nei confronti del mondo, pensato come assolutamente cattivo e corrotto. Tutto ciò potrebbe apparire strano se si pensa che è proprio dall’evidenza dell’ordine e dell’armonia del cosmo che ha preso le mosse tutto il cammino dello sforzo filosofico fin dai “ presocratici “. In un certo senso, tra tutti gli elementi di varia origine e natura che confluiscono in tale concezione, il problema a cui si vuole dare risposta è il problema del male: si vuole scaricare Dio dalla responsabilità del male e, conseguentemente, si immaginano degli intermediari tra il Bene supremo (il Dio sommamente buono) e la materia o il Mondo.

    Nella sua forma cristiana, lo gnosticismo assunse alcuni tratti caratteristici, desunti in particolare dalla tradizione biblica, vetero e neo-testamentaria. Il mondo materiale, connotato negativamente, non può essere stato creato dal Dio trascendente; è invece l’opera di un demiurgo, generalmente identificato con il Dio dell’AT; questo comporta una svalutazione dell’economia veterotestamentaria. Inoltre, la figura del Rivelatore, che viene dal mondo a portare la gnosi, è in genere impersonata da Cristo; ma poichè la salvezza gnostica non è mai salvezza di tutto l’uomo, ma soltanto della parte divina che è in lui ( per il corpo e la materia non c’è salvezza possibile ), così anche il Cristo, venendo nel mondo, non ha assunto tutto l’uomo : la sua incarnazione e la sua passione sono soltanto apparenti (docetismo). In questa forma, lo gnosticismo costituì il primo grande pericolo con il quale la chiesa dei primi secoli si sia dovuta confrontare. I padri della chiesa posero tutto il loro impegno per cercare di confutarne le dottrine, contrapponendo alla loro interpretazione delle Scritture l’autorità dell’interpretazione tradizionale di cui era depositaria la chiesa e che era stata tramandata pubblicamente attraverso una catena ininterrotta di tradenti che risaliva fino agli apostoli, e insistendo sull’identità del Creatore con il Dio supremo, sulla bontà della creazione e del mondo materiale, sulla realtà dell’incarnazione e della passione di Gesù.


    Le risposte dei "filosofi" cristiani

    Tra i primi, ed il meglio informato è Ireneo. Ireneo, come Giustino, è un orientale, originario dell’Asia minore (dove si presume sia nato verso il 130). Ma di lui si ignorano le circostanze che l’hanno condotto in occidente. A Lione, dove sarà vescovo, Ireneo smaschera, controbatte, opponendo alla falsa gnosi la sua fedeltà, non soltanto rispettosa ma entusiasta, alla tradizione della Chiesa.

    Per lui la Chiesa è la salvaguardia della vera fede. All’esoterismo gnostico, che pretende di fondare le sue conoscenze fantasiose su tradizioni segrete, Ireneo è il primo ad opporre formalmente la tradizione pubblica, verificabile da tutti, che ad essi ricollega la Chiesa di vescovo in vescovo.

    Quel che ad Ireneo sembra l’essenziale di questa fede della Chiesa in opposizione alle false “gnosi“, è quello che egli chiama, sulla base della lettera di san Paolo agli Efesini, “la ricapitolazione“.

    Così come egli la intende, la parola designa insieme la ripresa di tutta la storia umana deviata nell’ “economia“ salutare del Cristo, e la salvezza e la riconciliazione di ogni cosa in Lui. La “ricapitolazione“ si oppone dunque ad entrambi gli errori secondo i quali il Dio, Padre del Cristo, non sarebbe il creatore di tutte le cose , visibili ed invisibili, corporali e spirituali, e inoltre il Verbo non si sarebbe incarnato se non in apparenza. I due termini del discorso sono:

    I Il dono continuo di Dio, dalla creazione alla gloria (Deus facit, Deus bene facit).

    “Come dunque sarai Dio, quando non sei ancora stato fatto uomo? Come sarai perfetto, quando sei stato appena creato? Come sarai immortale, quando in una natura mortale, non hai obbedito al tuo Creatore? Bisogna che tu prima ti mantenga nella tua condizione di uomo, e solo dopo abbia parte alla gloria di Dio. Giacchè non sei tu a far Dio, ma è Dio che ti fa. Se dunque sei opera di Dio, attendi la mano del tuo artefice, che a tempo opportuno tutto fa: a tempo opportuno rispetto a te, che vieni fatto. Presentagli un cuore tenero e docile, e conserva la forma che ti ha dato l’artefice…” (Contro le eresie, IV, 39, 2)

    L’opera di Dio nella storia della salvezza consiste in un “ moltiplicare “ la grazia che da lui viene in una progressiva formazione del genere umano attraverso l’ordine creato, la legge, i profeti .

    II La continua crescita dell’uomo verso Dio (homo fit – bene fit homini). È proprio la natura creaturale che motiva il divenire dell’uomo, e che impone lo spiegarsi dall’economia divina secondo i suoi diversi momenti, con l’intervento delle tre persone divine.

    Contro il dualismo degli gnostici, Ireneo affronta il tema della bontà della carne. Inoltre, egli insiste sul concetto che l’uomo deve crescere nella sottomissione a Dio attraverso la libera scelta del bene, lottando contro il male. Dopo tutto, l’uomo è artefice del suo destino.

    Ireneo trova il fondamento dell’essere cristiano nella regola di verità, ricevuta con il battesimo (cfr. Dem. 6). L’uomo è stato fatto dalle mani di Dio, che ha preso la terra più pura, la terra vergine, non lavorata da alcuno (cfr. ibid. 11).

    Ma, contrariamente al tricotomismo platonico, egli afferma l’uguaglianza di tutti gli uomini. L’uomo può divenire immortale, divino, spirituale, ricevendo lo Spirito di Dio (cfr. Adv. Haer. III, 22, 1; 20, 2; V, 6,1; 8,1-3; 16,2), perché è la grazia di Dio che deifica l’uomo. Ma l’uomo, da parte sua, deve fare la volontà di Dio, se vuole partecipare alla vita trinitaria. Se l’uomo Adamo fu elevato allo stato soprannaturale, Cristo ha fatto di più: ci ha reso figli. Ha fatto ciò che l’uomo non poteva fare:

    “Come potrebbe l’uomo andare verso Dio, se Dio non fosse venuto all’uomo?... E questa è la ragione per cui il Verbo di Dio si è fatto carne e il Figlio dell’Uomo, affinché l’uomo entri in comunione con il Verbo di Dio e, ricevendo l’adozione, diventi Figlio di Dio “ (Adv. Haer, IV, 33, 4; III, 19, 1).

    Ma la fortezza per l’uomo è anche l’Eucaristia:

    “…siamo nutriti per mezzo del creato…il calice, tratto dal creato, egli lo ha dichiarato suo proprio sangue, mediante il quale il nostro sangue si fortifica e il pane, tratto dal creato, lo ha proclamato suo proprio corpo, mediante il quale si fortificano i nostri corpi “ (Ibid. V, 2,2).

    Per Ireneo è importante il dono della carità (agápe), che è più preziosa delle scienze e della profezia: importante è relazionarsi a Dio.

    “La visione di Dio è la vita dell’uomo e la vita dell’uomo è la gloria di Dio“ (Ibid. V, 2, 2)

    Vivere è partecipare alla vita di Dio, cercare di conoscerlo, essere rischiarato dalla sua luce:

    “Dio è lui stesso la vita di quelli che partecipano di lui“ (Ibid. V, 7,1).

    Se la ragione è incapace di afferrare Dio, l’amore può intenderlo ed avere esperienza della sua presenza. Secondo la Scrittura, è impossibile vedere Dio e restare in vita, ma Dio si mostra a coloro che l’amano, quando vuole. Allo stesso modo, quelli che vedono la luce sono nella luce e partecipano al suo splendore: così quelli che vedono Dio, partecipano alla Vita.

    È il modello della creazione, che l’uomo deve imitare per ritornare al Padre da cui si è allontanato: questi progressi si compiono per la grazia dello Spirito Santo, poiché lo Spirito assorbe la debolezza della carne (cfr. Ibid. V,12,4).

    L’uomo che si apre allo Spirito, non è più carnale, ma diviene spirituale e perfetto. Il punto culminante è divenire Dio, con un processo che continua oltre la morte, che si perfeziona dopo, perché la morte non è che una tappa nel divenire perfetti. Niente sfugge a questa legge dell’ascensione ( per gli gnostici è discesa )verso Dio. Nella nuova economia, Cristo ricapitola, riassume tutta la creazione, comunicandole ciò che aveva perduto per colpa di Adamo, riprende tutto sul suo conto, anche la nascita del primo uomo. Sulle orme di S. Paolo (Ef 1,9; Rm 8), Ireneo concepisce la dottrina della “ricapitolazione“. In essa elabora la storia della salvezza, ravvisandola nel mutuo adattamento da parte di Dio e dell’uomo, del progresso e dell’educazione. Egli presenta l’Incarnazione, in quanto essa riassume e compie tutta la storia precedente dell’uomo, l’istituzione di Cristo come capo di tutto l’universo nel fatto che Cristo e Maria, con la loro ubbidienza hanno riparato la disubbidienza di Adamo ed Eva.

    Tutta la creazione si rinnova per mezzo di Cristo: il nuovo Adamo restaura il primo. L’itinerario che segue porta alla dimensione trinitaria: per mezzo dello Spirito, l’uomo contempla il Figlio e, attraverso il Figlio, il Padre. Il senso trinitario della dottrina sottolinea l’orientamento costante verso la Trinità che sarà caro ai mistici di tutti i tempi.

    “Al disopra di tutto, il Padre, ed è lui il capo del Cristo. Attraverso tutto, il Verbo, ed è lui il capo della Chiesa. In tutto, lo Spirito, ed è lui l’acqua data dal Signore a coloro che credono in lui, lo amano, e sanno che c’è solo un Dio Padre, che è al di sopra di tutto, attraverso tutto e in tutto”. (Ibid. V, 18,2).

    In questo suo divenire continuo, l’uomo ha per compagne, non solo il Padre, ma anche le mani di Dio, il Verbo e la Sapienza. E proprio queste mani, che lo hanno plasmato fino dall’inizio, a immagine e somiglianza del Creatore, lo collocheranno nuovamente nel paradosso, come hanno fatto per Elia ed Enoch.

    La gnosi di Ireneo, in effetti, come quella di san Paolo, di san Giovanni, e prima di loro dall’apocalittica giudaica, crede incrollabilmente in un solo Dio, creatore di tutte le cose e che solo può esserne il Salvatore.

    Ma, precisamente, essi prendono tutti talmente sul serio la creazione che le volontà libere e il mistero del loro gioco nelle mani del Creatore (di cui parla spesso Ireneo, e che sono per lui il Figlio e lo Spirito) vengono da loro interamente rispettati. La redenzione, per la “gnosi “ ortodossa, non sarà dunque una semplice liberazione di puri spiriti rinchiusi per un errore originario in un corpo e in un mondo essi stessi non salvabili. Essa sarà un conflitto, una vittoria riportata con un’altra lotta da parte del Creatore, che viene a lottare con e nella sua creatura contro le potenze di inimicizia che la disobbedienza di questa ha essa stessa scatenato. Così, tutto sarà salvato, la materia come lo spirito, di quello che la lotta e la vittoria divina faranno proprio. Ma al contrario si perderà lo spirito stesso che persisterà fino alla fine di questa colpa originale, la quale non è soltanto un errore, ma una ribellione. Una volta visto chiaramente tutto ciò che l’opera di Ireneo mette in luce nei confronti dello gnosticismo eretico, si distingue forse meglio il malinteso fondamentale di certi tentativi moderni intrapresi per “demitizzare“ il cristianesimo primitivo (es. Bultmann).

    Dopo Ireneo ascoltiamo il contributo di Clemente Alessandrino. Ad Alessandria la difficoltà di conciliare con il cristianesimo la cultura ellenistica fu particolarmente avvertita. Clemente affrontò decisamente questo problema e lo risolse con uguale energia, in senso favorevole. Egli si pose sulle orme di Giustino, ma con visioni ancora più vaste e concilianti, specialmente negli Stromata: anche ai filosofi pagani fu concessa la luce di molte verità, in vista, e come remota preparazione alla verità totale portata dal Cristo. Egli arriva ad apprezzare la filosofia pagana quasi come un terzo testamento paragonabile alla Legge degli ebrei, sia pure di un gradino inferiore, per il quale si accede alla filosofia secondo Cristo (Strom. , 6,8,67,1).

    La rivelazione è la grande luce che Dio ha sparso sul mondo. Ma anche la filosofia può rivelare molte verità, le quali, appunto perché verità, provengono dalla stessa e unica sorgente. Clemente, dunque, è sullo stesso piano di Giustino. La sola differenza sta in una maggiore insistenza, da parte di Clemente, nel ritenere come compito della filosofia pagana quello di costituire un fattore preparatorio a comprendere l’integrità della Rivelazione cristiana. Ma c’è di più. Nelle sue opere Clemente si propone come fine essenziale il progresso dell’anima che si eleva per gradi, dalla prima giustizia ricevuta nel battesimo, fino all’ultima perfezione considerata nella conoscenza e nella contemplazione di Dio. Questa perfezione egli la chiama “gnosi“. Ma qui sta la sua differenza con gli gnostici: essi proponevano la “gnosi“ come innata, e riservata a pochi privilegiati. Clemente nega questa teoria ed afferma che essa è frutto di una assidua applicazione mentale; è una lenta conquista, e occorre alimentarla e accrescerla con un esercizio incessante.

    È tuttavia necessario rilevare che Clemente non sempre sviluppa questa dottrina in modo costante e coerente. Talvolta sembra limitare la perfezione della “gnosi“ soltanto a coloro che se ne rendono capaci. Fatte queste premesse, rimane la constatazione dell’interdipendenza che egli ammette fra fede e gnosi:

    “La fede è, per così dire, una breve e compendiosa conoscenza degli elementi necessari (per la salvezza). La gnosi è ferma e stabile dimostrazione degli elementi derivanti dalla fede: essa si costruisce attraverso l’insegnamento del Signore, e conduce ad una scienza infallibile e ad una comprensione perfetta“ ( Strom.,7, 10 ) = Teologia.

    Nel tentativo operato da Clemente di conciliare la filosofia con la Rivelazione si ha l’inaugurazione della cosiddetta gnosi cristiana,in rapporto stretto con l’allegorismo introdotto nell’interpretazione della Scrittura: è questa, del resto, un’esigenza affiorata interamente in funzione della prima e che tradisce una diretta dipendenza da Filone e dalle correnti giudeo-elleniste. Per Clemente la filosofia deve mettersi al servizio dell’intelligenza della Scrittura: essa aiuta a precisare il contenuto della fede e induce lo studioso a passare dalla semplice aderenza ai dogmi della fede alla conoscenza (scientifica) della fede stessa. Il punto di partenza è offerto dai fatti presentati dalla Scrittura e dalle verità rivelate. È qui che deve intervenire la ricerca personale per giungere ad una conoscenza ( gnosi ) superiore. Ogni credente, grazie ad essa, può divenire un sapiente, uno “ gnostico cristiano “(Strom., 1, 99 1 ss; Strom6, 18, 114). È vero che tutti i credenti possono raggiungere la salvezza, ma la conoscenza delle verità della fede, raggiunta attraverso la penetrazione più profonda delle stesse verità, operata dall’esercizio della mente, rende l’uomo e il credente più perfetto. Si può dire che Clemente è riuscito a porre i fondamenti del metodo teologico.

    Uno dei capisaldi della dottrina di Clemente è la natura e la funzione del Verbo (Lógos). Ogni germe di verità, ogni rivelazione atta ad illuminare la mente dell’uomo, viene da Lui. In ogni essere creato non esiste scienza se non per mezzo suo.

    “È Lui che fin dall’origine, che fin dalla prima creazione del mondo, ha istruito ( l’uomo ) in molti modi e sotto molte forme, ed è a Lui che si deve la perfezione (del sapere)“ (Strom., 6, 7, 57) .

    È chiaro che Clemente riprende anche qui il discorso di Giustino, apportandovi soltanto più insistenza e più ardore. Egli sottolinea un aspetto singolare dell’insegnamento del Cristo: il maestro degli uomini più per la sua natura di Verbo divino e di sorgente di verità attraverso la luce, illuminante direttamente la mente dell’uomo, che non per l’azione esercitata da Lui attraverso l’insegnamento del vangelo, come Verbo incarnato.

    In opposizione alle pretese degli gnostici egli insiste su due temi fondamentali: la Chiesa è nata prima delle eresie, ed è nata sotto il segno di una inscindibile unità. L’opera delle eresie è diretta alla divisionee alla disgregazione, per questo Clemente non esita a dichiarare che uno dei maggiori ostacoli alla conversione dei pagani e degli ebrei è l’esistenza delle conventicole eretiche.

    L’ideale del ”perfetto gnostico"

    Assistiamo ai risultati di un sapiente processo di inculturazione. È sufficiente leggere la definizione della gnosi che Clemente ha dato nel secondo libro degli Stromati

    “Ecco le tre note che contraddistinguono il nostro gnostico: in primo luogo la contemplazione, poi l’adempimento dei precetti, infine l’istruzionedei buoni. Quando si riscontrano queste qualità in un uomo, egli è uno gnostico perfetto; ma se una di esse viene a mancare, la sua gnosi è manchevole” (Strom., 2, 10, 46).

    Ecco i tre elementi di questa gnosi.

    “La gnosi“, ci dice il VI libro degli Stromati, “è il principio e l’autore (demiurgós) di ogni azione conforme al Logos (Logiké)”.Trasferendo questa nozione del tutto biblica in termini stoici, alla maniera sia di san Paolo che di Filone, il IV libro la definisce come un’ ”energia” che è la purificazione dell’egemonikón dell’anima, ossia del suo potere di giudicare e di scegliere. La gnosi in quanto tale è vista da Clemente come il dono di Dio: il dono del Cristo per eccellenza. Non la si trova, ma piuttosto si è trovati da essa (Strom., 1, 32, 4).

    Bisogna che noi leggiamo le Scritture nella Tradizione,che, per lui, non è tanto una realtà estranea alle Scritture ma la loro presentazione naturale fatta dalla Chiesa: infatti “ gli insegnamenti che ci hanno trasmesso i beati apostoli e i maestri sono in accordo con le parole ispirate “, in quanto essi ci hanno trasmesso quelle parole stesse (Strom., 4, 134, 4). In effetti, le Scritture restano lettera morta se noi non abbiamo per leggerle quello che lui chiama il “canone ecclesiastico“. Con questo si intende una regola vivente di interpretazione di cui Clemente ha data questa ammirabile definizione:

    “La sinfonia della legge e dei profeti nell’alleanza che ci è stata trasmessa con l’apparizione ( parusía ) del Signore “ (Strom., 7, 95, 3).

    Tutto ciò coincide con la descrizione della gnosi che ci ha dato Ireneo.

    Una “ filosofia cristiana “

    Per Clemente, la filosofia greca, o più esattamente il sapere enciclopedico dell’epoca, costituisce come una propedeutica, se non necessaria almeno molto utile, alla gnosi cristiana. Ecco quello che egli dice a riguardo nel libro VI degli Stromati:

    “Lo gnostico deve approfittare delle scienze profane, come di esercizi preliminari dai quali egli può trarre profitto, sia per insegnare la verità con esattezza e con sicurezza sia per confutare le malvagie teorie, che tentano d’abbatterla. Egli perciò dovrà conoscere quelle discipline che formano il cerchio delle cognizioni generali ( tà egkúklia) e guidano all’apprendimento della filosofia ( greca ). Di questa scienza, della quale i sostenitori delle eresie si valgono a fin di male, lo gnostico deve approfittare a fin di bene “ ( Strom., 6, 10, 80-83 ).

    Tutto questo ci conduce verso un apice della gnosi che pare decisamente mistico, se si dà a questa parola il senso di una visione divina, che trasforma l’uomo ad immagine di quello che egli vede. Il vero gnostico è chiamato a “conoscere Dio“: gignóskein, o epignónai, a “vedere Dio“, a “possederlo“: choreïn.

    Sempre a proposito dell’apice della vita gnostica, dell’assimilazione a Dio, Clemente introdurrà nel linguaggio cristiano il termine apátheia. A partire dai Cappadoci e da Evagrio il Pontico, questo termine sarà ripreso dalla dotta spiritualità monastica dove rivestirà un ruolo notevole. In Clemente il termine significa un dominio conquistato, mediante la grazia alla quale si abbandona la nostra libertà, su tutto quello che, in noi, si oppone all’irraggiamento della carità. L’apátheia dunque, lungi dal rendere lo gnostico insensibile alla agápê cristiana, ne è in verità lo splendore vittorioso.

    Scrive Clemente:

    “Il vero gnostico che ha preso l’abitudine alla bontà, agisce bene piuttosto che parlare bene; domanda la compassione per i peccati dei suoi fratelli; prega perché i suoi intimi confessino i loro peccati e si convertano, desidera rendere partecipi dei suoi beni i suoi amici più cari e tali sono tutti i suoi amici. Facendo così germogliare i semi riposti in lui, secondo la coltivazione che il Signore ha disposto, rimane senza peccato; è padrone di se stesso e vive con lo spirito nei cori dei santi, anche se è ancora trattenuto sulla terra. Un tale uomo, che agisce e che parla in tal modo di giorno e di notte seguendo i comandamenti del Signore, arriva alla gioia perfetta, non soltanto all’alba quando si leva e a metà del giorno, ma anche quando cammina, quando si corica, quando si veste e si sveste. Egli istruisce il figlio suo, se gli nasce un figlio; non può separarsi dalla legge e dalla speranza; rende continuamente grazie a Dio, è paziente in ogni avversità: “ Il Signore, egli dice, ha dato, il Signore ha tolto”. Tale era Giobbe che accettava la perdita dei beni esteriori, fino a quella della salute corporale, dice la Scrittura, giusto, santo, lontano da ogni malizia”. La santità significa qui la giustizia riguardo a Dio secondo tutte le disposizioni divine, ed è per aver conosciuto questa giustizia che egli era gnostico”. ( Strom. , 7, 12, 80).

    Clemente ha l’arte di condurci verso le altezze di una spiritualità pura ed esigente. Non v’è dubbio che la sua opera, specialmente la sua descrizione dello gnostico ideale, abbia aperto le vie alla spiritualità che sarà ben presto chiamata mistica più direttamente di qualunque altra.

    Qualche conclusione

    La difficoltà di rapportarsi con il mondo dei nuovi movimenti religiosi ( in particolare la New Age), da parte del cristiano, si lega sia a problemi di ordine conoscitivo ( è difficile identificare bene un fenomeno dai confini confusi e sfuggenti ), sia a problemi di origine relazionale ( l’atteggiamento ambiguo nei confronti delle altre religioni in genere e di quella cristiana in particolare è un esempio significativo di tale difficoltà ), ma tutto questo non deve scoraggiare coloro che, armati di santa pazienza e di buona volontà, desiderano portare un proprio contributo alle difficili relazioni con il variegato mondo dei vari nuovi movimenti religiosi. Noi, oggi, pur essendo dei nani, sulle spalle dei giganti, i Padri, abbiamo orizzonti più vasti. Le lezioni che ci vengono da questi giganti possono essere:

  • È necessario conoscere meglio i confini attraverso il contributo di studi seri e capaci di offrire al lettore quegli strumenti critici che i diretti interessati si guardano bene dal mettergli a disposizione.
  • Operare discernimento per individuare i modi in cui i nuovi fenomeni religiosi tentano con scaltrezza di diffondersi.
  • Tentare di instaurare un dialogo con quanti si lasciano avvicinare ( e generalmente manca una certa disponibilità iniziale ), proponendo loro con semplicità e chiarezza la “novità” del messaggio cristiano evitando di lasciarsi “asfissiare” dietro una cortina “mitopoietica” che rischia di renderlo quasi irriconoscibile.
    Venerdì, 10 Marzo 2006 00:53

    L'umile cavalcatura (Giovanni Vannucci)

    L'umile cavalcatura
    di Giovanni Vannucci

    Il linguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metaforico e quello razionale; il primo è il veicolo della religione, della poesia, il secondo della scienza, della morale, della filosofia, della statistica. Il primo è strettamente legato alla vita, e, sul piano religioso, alla Rivelazione intesa non come un insieme di nozioni astratte, ma come l’urgenza divina che spinge la coscienza umana a quelle trasformazioni, personali e collettive, che le permetteranno di raggiungere la sua perfetta fioritura.

    I modi con cui la Rivelazione si esprime sono delle Immagini, concrete e palpabili, dense di significati e stimolatrici di mutazioni di coscienza. Per questo nella lettura dei libri che trasmettono la Rivelazione, nella sua forma scritta, è necessario notare le immagini e meditare su di esse, tenendo conto di tutto l’insieme culturale nel quale sono state formulate.

    Nel Vangelo della domenica delle Palme si hanno queste immagini: Gesù sale a Gerusalemme cavalcando il puledro di un asino, i discepoli e la folla l’acclamano, i farisei, i custodi della tradizione vetero-testamentaria, sono scandalizzati, ed esortano il Maestro a far tacere l’entusiasmo del popolo; Gesù risponde: «Non potete fermare l’avanzamento della Rivelazione; se gli uomini tacessero, le pietre l’annuncerebbero» (cfr. Lc 19, 28-40).

    L’immagine di Gesù che cavalca l’asino colpisce la nostra immaginazione e la fa riflettere. La prima spiegazione che ci soccorre è quella consueta, a tinte sentimentali: il Messia ha scelto l’umile cavalcatura per esprimere la mitezza, l’aspetto dimesso del Regno che avrebbe instaurato tra gli uomini. E questo il significato che dava la folla alla figura del Messia cavalcante l’asinello? O piuttosto aveva compreso qualcosa di più vasto e di più profondo nel gesto di Cristo?

    I Greci presenti all’ingresso trionfale di Gesù avranno sicuramente pensato all’asino, animale sacro, che portava sul dorso la culla di Dioniso e che era collegato al culto della Grande Madre. Nel vangelo di Giovanni è riferito, nella circostanza dell’ingresso a Gerusalemme, il colloquio di Gesù con i Greci presenti, e i termini usati da Gesù alludono ai Misteri di Dioniso e Demetra: «Se il seme di grano non muore non da frutto» (Gv 12, 24).

    Gesù che cavalca l’asinello si rivela ai Greci come il celeste Dioniso dei Misteri, agli Ebrei come il vero, spirituale non militare, Messia che introduce nella religiosità virile vetero-testamentaria della Giustizia e del Giudizio, le qualità femminili della divinità: la misericordia e l’amore appassionato per tutto ciò che vive.

    La reazione dei farisei, in questa prospettiva, diventa più comprensibile; non sono mossi da gelosia ma da un’oscura intuizione che qualcosa di nuovo, di sconvolgente, di non ortodosso stava avvenendo in quello strano e rumoroso corteo.

    L’ingresso di Gesù in Gerusalemme è l’ingresso nel grande, dolente utero della natura terrena; si può dire che Gesù, in questa sua giornata trionfale, nasce davvero, per davvero morire!

    Gesù è il portatore dei Misteri divini, il portatore dello Spirito che distrugge e rinnova, rinnova distruggendo, è l’ebbrezza dionisiaca della creazione che avanza trionfale verso il suo compimento, perseguendo un percorso che è segnato da un’incessante pulsazione di morte e di risurrezione, aborrente ogni solidificazione e staticità. E in questo sta l’aspetto tragico, dionisiaco del Cristianesimo: l’uomo in Dio deve negare se stesso per vivere la vera vita.

    L’opera misteriosa dello Spirito, anche se invocata dalla materia, è esiziale alle forme, che reagiscono, si difendono e offendono.

    I farisei non erano certo dei criminali, dei malvagi; chiusi nella loro formale giustizia, difesi dal baluardo di una tradizione cristallizzata, non potevano vedere nella sconfinata novità di Cristo nulla di più di una ingiuria alla legge, di una aperta professione di anarchia.

    La virtù del mondo si opporrà sempre alla virtù dello Spirito, l’onestà della forma rifiuterà sempre la verità dell’idea. La giustizia degli uomini, in netta opposizione a quella di Dio, errerà per non volere errare, peccherà per voler essere giusta.

    Questa lotta affiorerà sempre: fra Cristo, distruttore delle forme in nome della vita, e Satana, consolidatore delle forme, l’impegno e la lotta sono assoluti. Contro l’escatologia cristiana Satana susciterà il mondo; e quando la Chiesa si sarà affermata e vorrà riposare, offrendosi alle lusinghe del successo, Cristo susciterà gli entusiasmi degli eresiarchi e la costringerà a combattere contro se stessa per debellare il diavolo dell’ignavia, dell’acquiescenza, della tiepidezza, del pietismo.

    (Giovanni Vannucci, in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte BG ed. CENS, Milano 1985; Domenica delle Palme, Anno C: «L’Umile cavalcatura». Pag. 70-72).

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