La stessa formula di "guerra giusta", che non si ritrova in nessun modo nella Gaudium et spes è ripresa nel catechismo in modo consapevole e voluto, con un'operazione assolutamente sorprendente.
Nel momento in cui la qualità della guerra è assolutamente cambiata con il massacro deliberato di civili, avviene questa riesumazione di una antica teologia, nata in un altro tipo di guerra, che oggi non esiste più e che, peraltro, considerava immorale l'uccisione deliberata di civili.
Questa ripresa della teologia della guerra si colloca nel recupero della dottrina sociale e della pretesa di influenzare la politica e le scelte degli Stati attraverso categorie comprensibili dagli Stati stessi.
Anche l'attuale condanna della guerra preventiva risente di questo orizzonte, perché si legittima solo la risposta di difesa ad una offesa e si riconosce la legittimità di una guerra solamente nel momento in cui è autorizzata dall'autorità internazionale e cioè dall'Onu.
A proposito della prima guerra del Golfo nel 1991, il papa parla di "avventura senza ritorno". Dichiara: "le esigenze di umanità ci chiedono oggi di andare risolutamente verso l'assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo, al quale tutti i programmi e tutte le strategie devono essere subordinate".
Non ci sono i sottili distinguo di una teologia astuta, la condanna è netta e senza equivoci. I fatti hanno poi mostrato la giustezza di quella posizione. La guerra è stata inutile. Il costo di vite innocenti, assolutamente devastante.
Durante la guerra in Kosovo, nel 1999, ancora la parola del papa ha un altro timbro rispetto a quella di numerosi vescovi, molto segnati da interessi politici. Qualcuno ha definito la Nato il buon samaritano.
Giovanni Paolo II al Consiglio d'Europa dice: "una violenza che risponde ad un'altra violenza non è mai una via per uscire dalla crisi. Conviene dunque sospendere gli atti di vendetta per impegnarsi in negoziati".
Anche in questo caso la guerra ha lasciato aperti tutti i problemi e forse li ha complicati. Si è fermata una pulizia etnica e se ne e permessa un'altra. La stessa caduta di Milosevic poteva essere conseguita in ben altro modo. Al solito: la guerra come extrema ratio di una politica pigra e incapace di guardare lontano.
Anche dopo l'11 settembre 2001, le parole del papa sono con grande forza parole di pace. Già il 12 settembre, egli dice: "imploriamo il Signore perché non prevalga la spirale dell'odio e della violenza".
E all'ambasciatore americano, ricevuto in Vaticano, egli chiede che non prevalgano la "vendetta" e lo "spirito di ritorsione". Le cose, come sappiamo, sono andate in ben altro modo, ma anche in Afghanistan la guerra ha mostrato tutta la sua inutilità nel combattere il terrorismo e nel risolvere i veri problemi di quel Paese.
C'è un altro livello, non meno importante, di intervento sulla pace di Giovanni Paolo II. Sono le sue iniziative di preghiera: la preghiera di Assisi nel 1986, la preghiera per la ex-Jugoslavia del 1999, l'esperienza del digiuno con i musulmani dopo la guerra in Afghanistan. Sono gesti che portano la pace ad evitare catture politiche e a trovare il suo vero alimento nella forza spirituale.
È questa forza spirituale che spinge Giovanni Paolo II a liberarsi delle angustie della teologia della guerra, per trovare al cuore dei conflitti la parresia evangelica della pace.
In questo lo aiuta la sua storia di uomo e di credente, che ha visto in faccia la guerra in tutto il suo potere di tragedia e di distruzione. Il suo no alla guerra nasce dall'esperienza della seconda guerra mondiale, che lo spinge a comprendere meglio l'Evangelo.
Anche in queste settimane di drammatico avvicinamento alla guerra in Iraq si è percepito il timbro diverso del papa nella lettura degli eventi. Se talora i documenti non convincono, le sue parole sembrano spesso liberarsi dalla prigione della giustificazione della guerra, per diventare eco del Vangelo della pace.
(Adista, 5 aprile 2003)