Negli ultimi mesi mi sono trovato a vivere più a lungo in alcuni paesi arabo-musulmani che non possono essere considerati post-cristiani, nei quali cioè l'influsso diretto del cristianesimo non è stato mai rilevante. Nel contatto con persone e ambienti ho constatato come un cumulo di tabù, di pregiudizi, di sospetti, di oppressioni, di difese, aggredisce e sommerge le realtà che hanno un più immediato riferimento al "piacere", alla "gioia di vivere". Ciò sia nei settori che hanno risolto il problema dei bisogno vitali e che hanno una notevole istruzione, sia in quelli popolari, più vasti, confrontati con le necessità del quotidiano, e sommersi dall'ignoranza e dai pregiudizi. Ho colto anche diffusa la sofferenza, l'inquietudine, la reazione nei confronti di codesto stato di cose e l'attesa per stili di esistenza caratterizzati da una più vera accoglienza interumana.
Confrontato con codeste esperienze mi sono reso conto che la sorgente di certe inibizioni è il cuore di pietra. L'influsso delle religioni, quella cristiana non esclusa, è riduttivo quando omette di prospettare le condizioni nelle quali le aspirazioni per una umanità più umana diventino storia. Per essere fedeli a se stesse e restare al servizio del bene umano, le comunità religiose non possono limitarsi a ratificare gli assetti comunitari già raggiunti, debbono risvegliare il desiderio, suscitare le attese di rendere concreta la speranza per il non ancora delle possibilità umane percepite nell'ascolto del Mistero, in sintonia con le persone disponibili alla sua chiamata. Esse restano al servizio umano quando sono se stesse e poiché la loro identità specifica è collegata alla profezia e alla vita piena, quando le disattendono cessano di essere utili alla stessa umanità e diventano fonte dl conflitto e di competizioni che ostacolano il cammino di coloro che vivono il rischio di discernere le condizioni del bene umano.
Si può pensare che la Chiesa tutta intera è, nei confronti dell'umanità in cui e con cui vive, nella posizione in cui era il profeta nel popolo eletto. La profezia, nella nuova alleanza, è vocazione e carisma del popolo che deve vivere il rischio della anticipazione provocatrice di assetti umani più ricchi di umanità. Il limite degli interventi non ispirati da codesta condizione è percepito non da coloro che chiedono rassicurazione e conferma al possesso, al già, ma da quelli che nei presente concepiscono il fascino delle dimensioni nuove della libertà e della comunione. Codesta attesa è illusione presto delusa, in coloro che non lottano per pensare e realizzare con tutti il maturare delle possibilità concrete di fruirne. Coloro che hanno la nostalgia del nuovo sono sacrificati non privilegiati; sono chiamati, scelti, per cooperare al bene "concreto dell'umanità". Soggetto della storia e della liberazione umana sono donne e uomini che vivono in sintonia con quel popolo che non oppone resistenza a lasciarsi condurre al bene di tutti, che persistono nell'aggredire le attese ispirate dall'istinto di morte quale che sia la forma sotto la quale si manifesta. Il potere della morte evidenzia i suoi limiti in coloro che, quando hanno individuato le vie della vita, avanzano in esse nonostante la lotta e le difficoltà.
Il profeta è suscitato nel popolo ed è "chiamato" perché viva il rischio di interpretare e incarnare le esigenze della "luce" che è apparsa per tutti e che deve illuminare il cammino di ciascuno nell'umanità. Le trasformazioni sociali sono frutto di lotta di popolo e si diffondono con il sistema dei "vasi comunicanti", nelle libertà che si lasciano coinvolgere fino in fondo nell'amore della vita. La profezia non vive nelle persone che non sono pronte a sacrificarsi perché il popolo arrivi a fruire concrete possibilità di libertà e di comunione, e nei popoli che non si lasciano coinvolgere dalla chiamata che spinge verso nuove dimensioni di esistenza.
"Consumatore" del bene umano è il popolo che ascolta, interiorizza, condivide il messaggio del profeta che lo sostiene perché non si sottragga alla sua vocazione e perseveri nella fedeltà a chi lo suscita per il bene di tutti. La gioia di vivere non può essere vissuta da soli, è come il tepore di una giornata di sole, ne beneficia ciascuno quando è possibilità per tuffi. Per sperimentarla è necessario essere in pace con la propria identità profonda e sentirsi vivi in un'umanità che non la sospetta, non la invidia, non la rimuove, non la Insidia, non la giudica1 non la condanna e in un certo senso non sia neppure indifferente ad essa. Da soli si può soffrire e morire, non gioire. I confini tra pubblico e privato sono di gravitazione non di contenuto, sono dimensioni di una sola vitalità, complessa e articolata, che aspira all'unificazione dei suoi aspetti. Finché il problema della gioia di vivere sarà considerato "privato", personale, non sarà rettamente impostato e non si potrà decifrare e comprendere il messaggio che veicola e per il quale postula riposta. Solo in un'umanità in conversione permanente alla propria identità i problemi umani sono posti per la soluzione e non per la polemica e la teorizzazione. Coloro che amano il bene umano debbono promuovere mentalità di crescita e perciò di coraggio, di universalità e di eterno, uniche che adeguano in verità l'aspirazione umana. Le terapie settoriali, curative o preventive che siano, per essere efficaci debbono tenere conto della condizione generale del paziente per non ridursi a curare organi da trapianto in donatori di cui è decisa la morte.
La "fatica" della crescita
Coccioli alla fine del suo splendido "Requiem per un cane" palesa la resistenza a cercare "un altro cane " dopo che il primo è morto: "Cercare un altro cane equivarrebbe a qualcosa di diverso, evidentemente: ... sarebbe una nuova e forse splendida avventura di amore, ma ogni giorno di più mi stanca la fatica di amare... sicché invece d'agire per la moltiplicazione degli amori, comincio ad accettare la melanconia del mantenermi fedele, nell'amore, a ciò che ho amato, e per te, per tutto quello che è stato con me e se ne è andato, continuo ad attendere con disperata speranza l’Altra Dimensione" (p. 125 s.).
Altrettanto si può dire della "libertà", della "gioia di vivere": è bella ma è fatica, è pesante. Vive e convive con gli innumerevoli lacci dell'esistenza e misura se stessa e l'indefinito delle sue aspirazioni con il limite delle possibilità e delle resistenze. Ciò stanca. Il "nuovo" non nasce in modo miracolistico, automatico, è generato dalla perseveranza di coloro che vivono la "fatica di amare", che vincono la pigrizia di prendere sul serio il problema di Dio, del proprio essere e della sua costruzione, che si abilitano a vivere il "piacere" che, nell'aspirazione, intuiscono.
Nella realtà dell'esistenza una fede che non soffochi il piacere, lo provochi, lo redima e viva in comunione con esso, e un piacere che si qualifichi al punto da essere in sintonia, da vivere in comunione vera con la fede, esige e dalla "fede" e dal "piacere" l'andare verso il "nuovo" di stili di vita nei quali sussistono per tutti concrete possibilità di nuova comunione; esige tempre di profeti sintonizzati col popolo di profeti: è frutto di chiamata e di accoglienza, di comunicazione tra il mistero che assume la storia e la storia che si sintonizza al mistero. La "gioia di vivere" è l'oggetto della fede, è "l'invisibile" che l'occhio del credente ama e vede e che alimenta la fiducia di continuare a porre i germi di quel frutto che un’umanità liberata non dal piacere ma dalla morte che lo uccide dal peccato che lo rende malato e sottratto alla libera disponibilità della comunione.
Quando le aspirazioni sono per "nuovi stili di rapporti" non le si può soddisfare riciclando realtà già note. L'attesa per la "gioia di vivere" non è un aspirazione tipo quelle che si soddisfano liberalizzando il proibito, rendendo pubblico l'attuale dominio privato. Se così fosse, si tratterebbe di aggredire le norme, di ottenerne l'abrogazione o di esigere che venga ampliata la categoria degli ammessi a fruire delle prestazioni che esse legittimano. La logica del permesso e del proibito è valida per porre ordine nelle situazioni acquisite non per alimentare il coraggio delle libertà che si risvegliano alla chiamata, si nutrono di aspirazione, crescono nella lotta dell'inventare comunione. La questione è, perciò, di altro ordine, investe altre dimensioni dell'essere. Il permissivo mette in luce l'incapacità di fruire delle libertà rivendicate, svela le rimozioni, che certe proibizioni celano e sanciscono. Anche nei nostri tempi ha coinciso con la richiesta di rapporti qualificati non liberalizzati, con la rivendicazione per una qualità di vita nella quale l'aspirazione alla condivisione non sia rimossa e frustrata per remore psico-sociali, per sospetti nei confronti del noi della comunione.
Nelle situazioni concernenti il bene umano spesso la barriera del proibito è nella realtà così come è colta vissuta nelle rappresentazioni che ne abbiamo. Molte difficoltà in tema di costumi derivano dalla situazione di chi li vive. La resistenza maggiore è nella difficoltà di concepire e incarnare l'immagine di sé che la vocazione chiede di formare e di non privilegiare in esclusiva quella che siamo abituati ad accogliere nei contesto socio-culturale.
Al nuovo bisogna far l'occhio per guardarlo con serena oggettività. Chi si confronta con la legge deve imporsi di non trasgredirla, chi consente alla chiamata alla comunione interumana, vive il rischio di rendere culturali le aspirazioni. L’ostacolo più grande in questi campi non è quello opposto all'assetto legislativo ma quello avallato dalle paure, dalle incapacità, dalle mentalità e dalle consuetudini che, col loro consenso, gli danno vigore e lo rendono legittimo.
Le aspirazioni veramente nuove mettono in crisi tutti gli assetti culturali e impongono di vivere il rischio di proporre il modo di soddisfarle. La cronaca episodica delle comunità che condividono in concreto stili di vita che si chiariscono nell'impegno della fedeltà quotidiana deve diventare storia. Devono moltiplicarsi codeste comunità le quali, senza rimuovere la condizione di salvate in speranza, portano "la croce" dell'allargare i confini della speranza e di garantire durata alle realtà che strutturano l'amore il quale è autentico quando cerca e si dona le condizioni di amare senza fine, di fondare quotidianamente quella gioia di vivere che ha il colore degli occhi di chi le dà vita.
Dalmazio Mongillo
Profilo biografico: (01.09.1928-13.07.2005) teologo moralista, appartenente all'ordine domenicano. A lungo insegnante presso la Pontificia Università S. Tommaso (Angelicum) di Roma. È stato tra i fondatori dell'ATISM (Associazione italiana che raccoglie i teologi moralisti). La sua lunga attività accademica gli meritò il titolo di “Maestro in Sacra Teologia”, conferitogli dall’Ordine dei Predicatori. Tra le sue opere segnaliamo Teologia, Ed. San Paolo, 2002.
Il testo che presentiamo: è stato pubblicato dalla rivista torinese "Tempi di fraternità" nel 1976, all'interno di un dibattito sviluppatosi sul tema fede e piacere. "La fede è stile di vita, è il modo di essere e di situarsi, nella storia, delle comunità e delle persone per le quali Dio non è un nome astratto, ma sorgente di orientamento".