Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Magnificat
Il Dio cantato da Maria,
serva del Signore
(seconda parte)
di Alberto Valentini

2. Dio dell’esodo e degli esodi

2.1. Il Dio dei Padri

Il Magnificat, nell’attuale contesto redazionale, è presentato come espressione dei sentimenti della Vergine, dopo la sconvolgente esperienza dell’annunciazione e dell’incipiente maternità, e quale risposta alle parole e agli elogi di Elisabetta.

Ma il linguaggio, lo stile e le prospettive del canto vanno ben al di là di quel pur importantissimo contesto, dal quale anzi potrebbe prescindere. Se infatti il Magnificat non ci fosse, il racconto in prosa non ne risentirebbe, anzi scorrerebbe con molta naturalezza. I racconti dell’infanzia sono stati per Luca un’occasione privilegiata per rileggere le origini della vita di Gesù, compimento della salvezza d’Israele, alla luce della storia passata - mediante cantici dal linguaggio arcaico e dalle cadenze veterotestamentarie -, nel contesto dell’evento pasquale ormai acquisito a livello di fede e di esperienza liturgica da parte delle comunità neotestamentarie, e nella prospettiva di un futuro di liberazione definitiva, di cui quel fatto decisivo costituisce pegno e primizia.

Il Magnificat si presenta, dunque, come memoria storico-liturgica della salvezza, come testimonianza concreta dell’evento pasquale di Cristo e della sua novità, come profezia di un futuro che ha già fatto irruzione nella storia e attende il suo definitivo compimento.

Luca che, soprattutto nei discorsi degli Atti, ama riproporre la storia biblica, interpretata alla luce della risurrezione di Gesù, inserendo nei racconti dell’infanzia cantici come il Magnificat ha inteso far memoria della salvezza d’Israele e mostrarne il compimento nel mistero pasquale di Cristo. In tale prospettiva, il canto della Vergine pur apparendo un salmo giudaico, intessuto di citazioni scritturistiche che ne fanno una sintesi particolarmente efficace della storia biblica, si presenta in realtà come celebrazione della liberazione di Dio in Cristo.

Maria, ovviamente, non può descrivere la sua situazione di serva del Signore, riscattata dalla condizione di povertà, senza riferirsi all’esperienza spirituale d’Israele.

I sentimenti che ella esprime caratterizzano la pietà giudaica più pura; ella parla come perfetta rappresentante del suo popolo, come testimone dell’amore e della fedeltà di Dio alla discendenza di Abramo suo amico. (32)

Il salmo proclamato dalla Vergine deriva da una comunità imbevuta di spiritualità biblica, che prega con le categorie tradizionali della pietà d’Israele. E’ il canto di una donna che celebra la propria esperienza salvifica sullo sfondo del suo popolo; è il canto di un popolo che rilegge la sua storia, alla luce dell’esperienza eccezionale di una donna.

Da questo brano emerge icastico il volto del Dio dei Padri: non delineato in astratto, ma plasmato alla luce della chiamata, della promessa, dell’elezione, da cui scaturiscono la liberazione e l’alleanza. In altri termini, il Magnificat ripropone la storia di Dio che viene ad abitare in mezzo a un popolo, si lega ad esso in maniera unilaterale e gratuita, e se ne prende cura con eterno amore e fedeltà. Un Dio che Israele impara a conoscere dalle sue azioni; al quale il popolo e le singole persone sanno di appartenere e sul quale poggia tutta la loro storia. È notevole, da questo punto di vista, la serie dei pronomi e aggettivi personali e possessivi che denotano il rapporto di reciproca appartenenza: mio salvatore (v. 47); la sua serva (v. 48); a me (v. 49); Israele suo servo (v. 54).

Un Dio dunque personale, impegnato in maniera attiva e dialogica con il suo popolo: pronto ad ascoltarne la voce e ad intervenire per salvarlo.


2.2. Il Dio del Signore Gesù Cristo

Il Magnificat celebra il Dio dei Padri e della storia d’Israele, ma più ancora il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

Il cantico non è un semplice salmo giudaico: sotto il linguaggio e le categorie antiche si nasconde la novità della salvezza messianica. Non solo perché la figura alla quale è attribuito appartiene al Nuovo Testamento - che si inaugura proprio con l’annunciazione, il dono dello Spirito e la risposta di fede della serva del Signore -, ma perché il testo stesso del Magnificat rivela il compimento della speranza messianica e l’irruzione dei tempi nuovi. I verbi, come si è detto, sono tutti al passato storico, a testimonianza di fatti compiuti.

Il Dio salvatore è ormai Gesù, com’è annunciato a Maria (Lc 1,31) e ai pastori (2,11), e proclamato da Simeone che vede in lui la salvezza di Dio (2,30).

Certo, il Magnificat usa il linguaggio dell’Antico Testamento, ma ormai ogni parola ed evento dev’essere compreso alla luce della Pasqua, come lo stesso Gesù insegna ai discepoli di Emmaus, e come fanno puntualmente i discorsi degli Atti. Si tratta dunque di rileggere il nostro canto alla luce della risurrezione di Cristo Signore.

E qui si pongono i problemi del rapporto del Magnificat con il suo contesto immediato e remoto, dell’autore, dell’ambiente d’origine. Come la critica contemporanea quasi concordemente riconosce, il Magnificat sarebbe sorto in una comunità giudeo-cristiana delle origini, ancora imbevuta di spiritualità veterotestamentaria, riletta ormai alla luce del compimento neotestamentario.

Esso costituisce il canto della comunità cristiana, dell’Israele di Dio che finalmente può celebrare la salvezza escatologica che ha fatto irruzione nella storia. In tale ambito si spiega bene l’esaltazione di Dio per le grandi cose da lui compiute e la “grande gioia” recata al mondo da Cristo Salvatore. Quel swth,r di Lc 1,47 si riferisce chiaramente a Dio, ma non si può dimenticare che nei racconti dell’infanzia - che costituiscono l’attuale contesto redazionale del Magnificat - swth,r è il Messia-Signore.

La preghiera del Magnificat è il canto dei poveri, i quali – come Maria, Elisabetta, Zaccaria, Simeone ed Anna – attendevano la consolazione d’Israele (cf Lc 2,25.38) ed ora si rallegrano perché Dio ha visitato e redento il suo popolo (cf Lc 1,68), perché i loro occhi finalmente hanno contemplato la salvezza (cf Lc 2,30). Il Signore ha guardato alla loro povertà e ha fatto per loro grandi cose, ha suscitato una salvezza potente (o un salvatore potente) nella casa di Davide suo servo (cf Lc 1,69). In tal modo, Dio ha manifestato la sua santità e fedeltà con una misericordia senza fine verso tutti coloro che lo temono. Questi timorati ovviamente fanno parte dei poveri che attendevano la liberazione e sono stati visitati da Dio, ma adombrano anche tutti i poveri del futuro che aspettano la rivelazione della salvezza in Cristo. La comunità cristiana di Gerusalemme, anche se composta in origine esclusivamente di membri provenienti dalla circoncisione, si apre lentamente e decisamente al mondo, come appare con particolare evidenza nel libro degli Atti, e fa spazio a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero.

La salvezza, che in passato era liberazione da nemici politici e dominatori violenti, senza perdere nulla della concretezza sociale e storica, acquista una dimensione più vasta e profonda, includendo lo stesso “peccato del mondo” e tutte le forze del male dalle quali Cristo è venuto a liberare il suo popolo.

L’Israele di Dio, soccorso e salvato dall’opera di Cristo-Signore, comprende ormai indistintamente giudei e gentili, tutti coloro che ascoltano il profetapromesso e inviato: soltanto chi “non ascolterà quel profeta sarà radiato dal popolo di Dio” (At 3,23). Questi sono ormai “i figli dei profeti e dell’alleanza che Dio stabilì con i Padri, quando disse ad Abramo: “Nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra”” (At 3,25).

Alla liberazione antica è succeduta la redenzione di Cristo Signore, al popolo discendente dalla carne di Abramo ha fatto seguito il popolo della promessa e della fede del patriarca. Questa è la salvezza cantata dalla Vergine di Nazaret, nella prospettiva di Luca.

undefined Meraviglia il fatto che in questo canto - collocato dopo l’annunciazione e in risposta agli elogi di Elisabetta che ha salutato Maria come madre del Signore - non ci sia nessun accenno esplicito alla futura nascita del Messia promesso, come del resto avviene nella prima parte del Benedictus, riguardo al figlio di Zaccaria. Il Magnificat – come il salmo del Benedictus (vv. 68-75)- è un canto arcaico di liberazione. Ciò significa anzitutto che il suo ambiente d’origine non era questo, come si è detto; significa anche, però, che Luca inserendo il Magnificat in un contesto teologico particolarmente sviluppato, come quello dei racconti dell’infanzia ha inteso comprenderlo su tale sfondo. Per conseguenza già nella nascita del Messia davidico, nella venuta di Dio nella nostra storia (“egli sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo” [Lc 1,32]; egli salverà il suo popolo dai suoi peccati [cf Mt 1,21; cf Lc 1,77]) l’evangelista anticipa la vittoria di Cristo. Alla luce della Pasqua (cf Rm 1,4) anche la nascita storica del Figlio di Dio acquista un enorme significato salvifico. Ed essendo la Vergine di Nazaret direttamente e a nome di tutti coinvolta in tale evento, nessuno meglio di lei poteva esprimerne la valenza e la densità salvifica. Ma nel suo canto non c’è nulla che si riferisca direttamente alla futura nascita di un debole bambino. Il canto di Maria celebra la vittoria del Messia-Signore.

3. Il Dio dei poveri cantato da una donna

Il Magnificat dischiude il volto del Dio salvatore, Dio dei Padri e del Signore Gesù Cristo, ma rivela anche – per conseguenza - il volto dei poveri, oggetto del suo intervento salvifico. Lo ha ben sottolineato Giovanni Paolo II nella Redemptoris Mater:

Il suo amore di preferenza per i poveri è iscritto mirabilmente nel Magnificatdi Maria. Il Dio dell’Alleanza, cantato… dalla Vergine di Nazaret, è insieme colui che “rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, … ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote, …disperde i superbi. … e conserva la sua misericordia per coloro che lo temono”. Maria è profondamente permeata dello spirito dei “poveri del Signore”. … Attingendo dal cuore di Maria, dalla profondità della sua fede, espressa nelle parole del Magnificat, la Chiesa rinnova sempre meglio in sé la consapevolezza che non si può separare la verità su Dio che salva…dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili, il quale, cantato nel Magnificat, si trova poi espresso nelle parole e nelle opere di Gesù (RM 37).

I poveri, nell’ottica del Magnificat, rappresentano il popolo di Dio lungamente oppresso dai nemici e finalmente visitato dal Signore con una salvezza definitiva. Essi non soltanto sono stati liberati dai loro oppressori, ma sono stati esaltati ed hanno assistito alla rovina di coloro che li calpestavano. Il canto parla di una rivoluzione operata dalla potenza di Dio salvatore che umilia i potenti ed innalza i deboli. E’ questo un atteggiamento costante del Dio biblico – e in tale contesto va compreso il ricorrente Giubileo –: ristabilire la giustizia, ripristinare il progetto originario di Dio secondo il quale tutti hanno pari ed inviolabile dignità, e mantenere le promesse di libertà assicurate al suo popolo. Ristabilendo la giustizia, egli innalza tutti gli ‘anijîm, gli oppressi del paese ed umilia coloro che con empia arroganza avevano insidiato la sovranità unica di Dio e i diritti dei poveri.

Possiamo domandarci perché tale canto di liberazione e di esaltazione sia stato intonato da Maria, la vergine di Nazaret. Certamente per il suo diretto coinvolgimento nel mistero della salvezza messianica; ma possiamo ulteriormente domandarci perché una donna umile e povera sia stata coinvolta in tale mistero.

Questo è avvenuto non solo perché la donna è sempre associata, fin dalle origini, alla salvezza di Dio; non solo perché donne illustri hanno cantato e contribuito alla salvezza (si pensi in particolare a Miriam, Debora, soprattutto Giuditta, sulla cui vicenda appare modellata la scena della visitazione), ma anche e soprattutto perché Maria, in base al vangelo dell’infanzia di Luca, è una donna in tutta la sua radicale povertà: vergine, serva, persona del tutto insignificante agli occhi del mondo. L’evangelista dei poveri, degli stranieri, degli ultimi, delle donne…, ha scorto in questa sconosciuta ragazza di Nazaret - che agli occhi di Dio è la kecaritwme,éhe – il tipo ideale della povertà biblica sulla quale si china il Signore per operare grandi cose. Ella è agli antipodi di ogni forma di autosufficienza e arroganza nei confronti di Dio e totalmente aliena da ogni tipo di oppressione. Maria è la povera, interamente aperta alla misericordia di Dio e all’umana solidarietà.

Luca ha visto in lei il vertice di quella lunga processione di poveri del Signore che costituiscono il resto d’Israele, la porzione santa, la radice benedetta portatrice della promessa e della salvezza escatologica.

Giustamente il Concilio Vaticano II la presenta come la povera per eccellenza e l’eccelsa figlia di Sion nella quale si compie finalmente la promessa di Dio:

Ella primeggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza. E infine con lei, eccelsa Figlia di Sion, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura una nuova economia, quando ilo Figlio di Dio assunse da lei la natura umana…

In una comunità di poveri nasce dunque il Messia salvatore; in una comunità di poveri, qual è la primitiva comunità gerosolimitana, si celebra la salvezza di Dio, alla quale Maria di Nazaret ha offerto tutta la sua umana e spirituale collaborazione; in una comunità giudeo-cristiana di poveri – quale emerge dai racconti dell’infanzia di Luca - Maria viene presentata come tipo ideale della novità neotestamentaria. Sulla scia di questa umile serva, che ha accolto nella sua vita l’azione di Dio salvatore – del Dio potente, santo e misericordioso –, tutti coloro che lo temono, i poveri e gli oppressi, Israele servo di Dio e discendenza di Abramo, riceveranno sempre la salvezza. L’Antico Testamento si apre con un uomo di fede, tratto per pura grazia dalla lontana Ur dei pagani; la nuova alleanza si inaugura con la fede di una donna, anzi di una fanciulla vergine e povera di un’emarginata contrada della “Galilea delle genti”. Per la sua fede Abramo fu benedetto con il figlio della promessa e con una discendenza innumerevole, per la sua fede Maria è benedetta con il discendente primogenito della nuova creazione e di una moltitudine sterminata di fratelli. Con l’Antico Testamento erano accadute cose nuove e grandi prodigi nella storia del mondo; con il Nuovo Testamento la rivoluzione di Dio attinge gli estremi sviluppi. Tutto però ricomincia con una donna che diventa il paradigma della salvezza di Dio.

La rivoluzione di Dio, il capovolgimento di situazione, appare con grande evidenza nei poderosi versi 52-53. Luca però ha voluto aggiungere di sua mano un versetto che costituisce il vertice impensato di tale trasformazione operata da Dio salvatore. E’ noto dalla storia della salvezza e dai salmi che la lode-celebrazione di Dio è connessa e in qualche modo si fonde con l’esaltazione del giusto e della comunità, (33) ma un’espressione profetica di sconfinate prospettive come il v. 48b risulta una novità eccezionale, che sottolinea la singolarità della figura di Maria, ma anche la sua esemplarità e tipicità nei confronti di tutti i poveri ed i giusti che costituiscono il vero Israele di Dio. Nell’esperienza di umiltà e di esaltazione di questa donna c’è la speranza e la rivalutazione di tutti i poveri, in particolare di tutte le donne. E non si tratta di un semplice capovolgimento di situazione, ma di una glorificazione che coinvolge tutte le generazioni di ogni tempo e di ogni luogo. (34)

Il Magnificat rivela dunque la salvezza di Dio, rivolta ai poveri, capofila dei quali è una donna, sulla cui esperienza si configura ormai il progetto salvifico di Dio per il mondo. La lezione del Magnificat è emblematica per il Nuovo Testamento e per la chiesa di ogni tempo, popolo di poveri, salvato ed esaltato dal Signore. Di tale logica divina Maria di Nazaret è concreta e convincente testimonianza.

La verità su Dio implica la verità e uno sguardo nuovo sui poveri. La donna di Nazaret è in grado di rivelarci il volto di misericordia del Dio salvatore e il volto dei poveri destinatari delle grandi cose, della rivoluzione della salvezza, che egli incessantemente opera nella storia.

4. Il Dio del “già e non ancora”

La serie degli aoristi indicanti potenti interventi di Dio, la trasformazione della condizione dei poveri e soprattutto l’esaltazione di questi ultimi ad immagine di Maria cozza violentemente con la situazione tragica del mondo, codificata in maniera netta dalle profetiche parole di Gesù: “i poveri li avrete sempre con voi” (Gv 12,8).

Ma allora il Magnificat è da considerarsi un canto destoricizzato, una magnanima utopia, la vaga e idealizzata aspirazione ad un mondo migliore non realizzabile entro i confini del tempo? Che sia tutto una tragica illusione?

Che senso ha ripetere ogni giorno questo canto di vittoria quando ci dibattiamo con forme sempre nuove di povertà e spaventose sofferenze?

Il Magnificat, canto giudeo-cristiano, carico di storia antica e nuova, continua a ribadire il compimento delle promesse di Dio (cf v. 55); a testimoniare la venuta del Messia davidico (Lc 1,32), Figlio di Dio (v. 35) e Salvatore (cf Mt 2,11.21); a celebrare, l’evento decisivo che ha portato la grande gioia a tutto il popolo (cf Lc 2,10).

Effettivamente, con la sua venuta e con la sua opera, culminata nella Pasqua, Dio “ha visitato e redento il suo popolo” (Lc 1,68), realizzando le promesse (v. 55.70), ricordandosi della sua alleanza, del giuramento fatto ad Abramo nostro padre (vv. 72-73). Cristo Gesù è il delle promesse di Dio (cf 2Cor 1,19ss) in parte realizzate con la sua venuta, mentre altre attendono il pieno compimento al suo ritorno. (35) Alla prima venuta di Cristo, che ha redento la nostra storia, ne seguirà infatti una seconda, nella quale l’umanità e il mondo entreranno nella piena libertà dei figli di Dio. Tra la prima e la seconda apparizione del Signore si colloca il tempo della Chiesa che cammina nel “già e non ancora” della salvezza.

Ma come la Chiesa - che procede “fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (36) - deve vivere e cantare il Magnificat?

Innanzitutto in atteggiamento di fede in un evento decisivo, storicamente compiuto: l’evento-Cristo, che resta il centro della storia e ha dato senso nuovo a tutte le cose. In lui ha fatto ingresso nel mondo la rivoluzione del Regno, che ha trasformato ogni realtà secondo il progetto di Dio. Questo fatto è più forte di tutte le prove e le tentazioni del male. “Già è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi” (cf 1Cor 10,11) e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata e in certo modo anticipata nella storia. (37)

Ma la salvezza non è ancora definitiva né per noi né per il creato che porta ancora le vestigia della caducità e del peccato:

Fino a che non vi saranno nuovi cieli e nuova terra, nei quali la giustizia ha la sua dimora” (cf 2Pt 3,13), la Chiesa peregrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni... porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cf Rm 8,19-22). (38)

Il Magnificat è un canto di redenzione: senza l’esperienza della salvezza non si spiegano le sue parole né la gioia che lo pervade.

Al tempo stesso è un canto di speranza: i redenti dal Signore attendono ancora la piena manifestazione della gloria di Dio.

E’ anche un canto di impegno e di responsabilità - canta e cammina! esorta Agostino - perché si affretti l’ora, nella quale la giustizia di Dio regni pienamente sulla terra e la sua salvezza abbracci tutte le dimensioni del tempo e dello spazio.

Il Magnificat è una contestazione radicale del regno delle tenebre sconfitto dall’opera del Salvatore e ormai senza futuro, anche se il male continua a insidiare i progetti di Dio e il cammino del suo popolo.

E’ compito dei credenti illuminare con questo canto la verità su Dio e sui suoi disegni, smascherare e rendere vane le trame di potenti, ricchi ed oppressori. Non è una lotta impari col mondo dell’iniquità: il Signore non permetterà che i “superbi” continuino ad opprimere senza fine il suo popolo. Egli, che ha guardato l’“umiltà” della Vergine Maria e per lei ha operato grandi cose, è il medesimo che oggi soccorre “Israele suo servo”, per l’eterna misericordia verso Abramo e la sua discendenza.

Il Magnificat canto storico ed escatologico illumina con efficacia il volto di Dio salvatore, il Dio che ricorda le promesse fatte ai Padri e in Cristo ha rinnovato tutte le cose. Il mondo, pur presentandosi ancora lacerato dalla violenza e dal peccato, è irreversibilmente redento. Come la donna di Apocalisse (cf Ap 12), la nostra terra è nella tribolazione degli ultimi tempi, ma porta in sé evidenti i segni della risurrezione e della gloria.

(fine)



Magnificat.
Il Dio cantato da Maria,
serva del Signore
(prima parte) di Alberto Valentini


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Premessa

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La “verità” sul Dio dell’alleanza

Il
Magnificat, al quale la riflessione - non solo esegetico-teologica - ha
riservato un’attenzione particolare negli ultimi decenni, è stato
oggetto di interesse ripetuto anche da parte del Magistero. Al canto
della Vergine, Paolo VI, nell’Esortazione apostolica  Marialis Cultus, aveva già dedicato parole ispirate:




il Magnificat (cf Lc 1,46-55), la preghiera per eccellenza di Maria, il
canto dei tempi messianici nel quale confluiscono l’esultanza
dell’antico e del nuovo Israele, poiché – come sembra suggerire
sant’Ireneo – nel cantico di Maria confluì il tripudio di Abramo che
presentiva il Messia (cf Gv 8,56) e risuonò, profeticamente anticipata,
la voce della Chiesa…(1).

Al
Magnificat, Giovanni Paolo II attribuisce notevole importanza ed ampia
considerazione – oltre che in numerosi documenti e catechesi -
nell’Enciclica Redemptoris Mater (nn. 35-37), in cui lo
presenta come il canto, l’inno ufficiale della Chiesa in cammino sui
sentieri della storia che attinge ormai il terzo millennio: “Sgorgato
dal profondo della fede di Maria… non cessa nei secoli di vibrare nel
cuore della Chiesa” (2).

Questo
canto non solo traccia un programma di coraggioso impegno evangelico al
servizio del mondo, ma prima ancora rivela l’autentico volto di Dio.

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Dalla
profondità della fede della Vergine… (la Chiesa) attinge la verità sul
Dio dell’alleanza… Nel Magnificat essa vede vinto alla radice il
peccato posto all’inizio della storia… Contro il “sospetto” che “il
padre della menzogna” ha fatto sorgere nel cuore di Eva, la prima
donna, Maria, che la tradizione usa chiamare “nuova Eva” e vera “madre
dei viventi” proclama con forza la non offuscata verità su Dio…
Maria è la prima testimone di questa meravigliosa verità, che si
attuerà pienamente mediante le opere e le parole (cf At 1,1) del suo
Figlio e definitivamente mediante la sua croce e risurrezione.

La
Chiesa che… non cessa di ripetere con Maria le parole del Magnificat,
“si sostiene” con la potenza della verità su Dio… e con questa verità
su Dio desidera illuminare le difficili e a volte intricate vie
dell’esistenza terrena (3).

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Le
parole citate di Giovanni Paolo II sembrano rispondere al voto espresso
alcuni anni prima da J. Dupont, a conclusione di un eccellente studio
sul cantico della Vergine, considerato come discorso su Dio (4).
Al termine del suo lavoro e dopo aver indicato feconde piste di
sviluppo alla riflessione teologica, così egli si esprimeva:

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Il
Magnificat non definisce Dio… esso “situa” il mistero di Dio salvatore
e ne offre le coordinate. Dopo aver fatto questa constatazione,
l’esegeta deve fermarsi e passare la mano: noi saremmo felici se questo
studio del Magnificat come discorso su Dio ispirasse a un collega
dogmatico un discorso su Dio alla luce del Magnificat. Non è forse del
Dio salvatore, cantato in questo brano, che noi dobbiamo essere
testimoni oggi nel mondo? (5).

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Abbiamo l’impressione che l’invito di Dupont sia stato raccolto, come egli stesso forse non osava sperare.

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-
Il Magnificat costituisce, dunque, una privilegiata riflessione sul Dio
della salvezza, ma non offre una definizione astratta della sua
identità. Su questo punto, noi di tradizione greca e formazione
scolastica dobbiamo operare una profonda e mai del tutto compiuta metànoia.

Alla
tentazione di concettualizzare l’immagine di Dio hanno ceduto illustri
studiosi, in particolare gli autori di note teologie bibliche (6),
legate a concetti ampi e a loro avviso onnicomprensivi, quali:
salvezza, elezione, patto, rivelazione, redenzione, soteriologia,
escatologia…

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Con
questi concetti nominali ci si allontanò dal linguaggio dell’Antico
Testamento che è prevalentemente verbale e, inoltre, andò perduta la
molteplicità di forme che l’Antico Testamento usa nel parlare di Dio
(7).

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Un
discorso biblico su Dio deve privilegiare le forme verbali legate al
dinamismo della Parola rivelata e delle azioni salvifiche, sempre
aperte ad ulteriore riflessione ed approccio esistenziale. Non si danno
forme precostituite capaci di presentare in maniera univoca ed
esaustiva l’evento della parola e degli interventi divini.  

Il
Dio del Magnificat non è definito secondo categorie astratte, ma
narrato, cantato e celebrato sulla base di gesta salvifiche sulle quali
si fondano la fede e il culto del popolo di Dio.

Esiste
infatti un rapporto vitale e imprescindibile tra salmi, cantici ed
eventi di salvezza. Non si danno canti senza l’esperienza di una storia
che coinvolga il cantore rendendolo contemporaneo di quanti l’hanno
vissuta. I salmi – nonostante la loro diversità e le molteplici
classificazioni proposte in particolare da H. Gunkel (8) - si possono
distinguere in due categorie fondamentali, costituite secondo C.
Westermann da Flehen und Loben (9), divisione che ripropone in sostanza le classificazioni maggiori dello stesso Gunkel, gli inni e le lamentazioni.

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- L’io dei
salmi può essere personale o collettivo, talora generale, presentando
una situazione indeterminata dell’esistenza umana, ma rivela sempre una
dimensione dialettica spesso drammatica tra orante/i e il Signore, cui
si grida dall’angoscia o al quale si rivolge il canto di lode per la
salvezza conseguita.

Nel Magnificat l’orante parla al singolare: è una figura ben determinata, la douú,lh,
che con tutto il suo essere celebra il Signore e si rallegra della
salvezza. Tale figura, tuttavia, è portavoce di molti altri personaggi,
di tutti coloro che come lei sono stati raggiunti da straordinari
interventi salvifici. A conclusione del canto, la serva cede addirittura il posto ad Israele servo del Signore, popolo cui ella appartiene e del quale è testimone privilegiato.

Maria
giunge al termine, al vertice di un’infinita schiera di oranti, di uno
sterminato corteo di servi e serve del Signore, a partire dai Padri e
dalle Madri d’Israele, passando per le figure di uomini e di donne
celebri come Abramo, Mosè,  Davide e come
Miriam, Debora e Giuditta, come tutti i profeti, soprattutto il servo
di Yahwè inglobante il popolo di Dio, in particolare i poveri che nei
tempi escatologici si compendiano nelle eccelse figure del Messia
davidico e della vergine di Nazaret. Israele è un popolo di poveri che
il Signore si è scelto, ha riscattato e riservato per sé. Nulla
pertanto di più alieno dall’identità d’Israele dell’arroganza stolta
che caratterizza i pagani e che si esprime in ribellione nei confronti
di Dio e in oppressione dei deboli.

All’interno
del popolo dell’alleanza – tentato a sua volta di autosufficienza e per
questo periodicamente, quasi sistematicamente decimato e purificato –
permane  sempre un piccolo resto, che costituisce
l’Israele qualitativo e fedele, la porzione santa della quale la
Vergine del Magnificat è il tipo ideale, ma che si estende a tutti
coloro che temono il Signore, ai piccoli, oppressi ed affamati,
all’Israele di Dio, vera discendenza di Abramo e popolo della promessa. 

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undefined1.    Non definizione di Dio, ma celebrazione del suo agire undefined

 Jahwè

Il
Magnificat non offre pertanto una definizione di Dio, ma rievoca una
storia, divenuta liturgia-professione di fede, che rivela il volto
concreto di Dio salvatore: un volto plasmato dalle sue azioni salvifiche che costituiscono un memoriale per tutte le generazioni d’Israele.

Certo,
nel Magnificat ci sono attributi fondamentali di Dio, ma tutto dipende
dai verbi. Gli stessi aggettivi e sostantivi risultano fortemente
dinamici: sono, in fondo,  forme e perifrasi verbali oppure intendono qualificare l’agire di Dio più che la sua astratta identità.

Ciò appare con assoluta evidenza nel titolo Dio salvatore che domina e caratterizza  tutto il canto. Esso è specificato da altri due appellativi pieni di densità:

- il potente che
ha fatto grandi cose, da comprendere in particolare sullo sfondo
dell’esodo e degli eventi maggiori della storia salvifica;

- il santo:
titolo non astratto né statico, che rivela la motivazione profonda
dell’agire di Dio, come viene esplicitamente proclamato nel canto del
mare (10), che celebra la notte della grande liberazione.

Un Dio, dunque, salvatore-potente e santo.

Oltre questi titoli ed appellativi il Magnificat presenta anche un sostantivo, e;leoj, per caratterizzare l’azione di Dio e qualificare il suo volto. Anche qui, però, bisogna osservare che e;leoj non
esprime un semplice sentimento, né solo un atteggiamento interiore, ma
una caratteristica fondamentale del Dio biblico che - coniugata con la
sua santità e potenza - si esprime in efficaci gesta salvifiche a
favore dei suoi servi, di coloro che lo temono e  di tutto Israele, senza limiti nel tempo e nello spazio.

A
parte i pochi elementi non-verbali, ma comunque dinamici, il volto di
Dio-salvatore è delineato da una notevole sequenza di verbi, collocati
in posizione dominante, che conferiscono al canto un aspetto unitario e
fortemente strutturato. Le forme verbali, proclamando le azioni divine,
come si è detto, sono decisive nella rivelazione biblica che è storia
concreta, sulla quale poggia la fede d’Israele.

Da
questo punto di vista, il Magnificat è un canto esemplare che celebra
la salvezza presente e personale della serva del Signore sullo sfondo
della storia del popolo dell’alleanza; storia ormai realizzata
definitivamente in Cristo e proiettata in maniera irreversibile verso
una metastoria, nella quale tutte le promesse di Dio diverranno
pienamente .

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- A parte l’Introduzione, in cui la serva parla in prima persona – anche se nascosta dietro perifrasi (la mia vitail mio essere),
peraltro particolarmente efficaci, e nonostante la dimensione
personalistica della prima parte –, il canto appare una proclamazione
degli interventi salvifici di Dio, narrati in terza persona, in una
comunità liturgica, come avviene per la liberazione pasquale celebrata
in particolare nel grande Hallel (salmo 136), in cui il
racconto-proclamazione, con cadenza litanica, fa memoria cultuale dei
grandi eventi del passato, con Yahwè, soggetto e protagonista del
racconto, come lo era stato dell’evento (11).

I
verbi, le azioni divine, costituiscono non solo l’elemento dominante,
ma la spina dorsale del cantico: essi sono tutti in aoristo – tempo
storico per eccellenza – diversamente da quanto avviene nei canti coevi
del giudaismo intertestamentario, che esprimono una tensione talora
parossistica verso il futuro, in un contesto di grande tribolazione, in
particolare nei salmi di Qumran. Le forme verbali del Magnificat sono
invece al passato, a testimonianza inequivocabile di una salvezza ormai
compiuta, e sono preceduti da un piuccheperfetto che rievoca una
lontana promessa fatta ai Padri e ora puntualmente realizzata. Alla
base degli aoristi c’è pertanto una Parola (“come aveva detto”), che la
storia ha definitivamente  confermato.
Protagonista di tutto è il Dio d’Israele che parla, promette ed attua
con assoluta fedeltà quanto ha annunciato. La parola uscita dalla sua
bocca non ritorna a Lui senza aver compiuto ciò per cui è stata inviata
(cf Is 55,11).

Maria,
nel canto, non è mai esplicitamente nominata: Dio salvatore è il solo,
vero protagonista del Magnificat. Egli è rispettivamente oggetto e
soggetto di tutti i verbi, vale a dire di tutti gli eventi e gesta
salvifiche proclamati dalla dou,lh.

-
Com’è noto, il Magnificat è un canto imbevuto di storia biblica,
intessuto di reminiscenze veterotestamentarie, tanto numerose da
mettere alla prova la sensibilità e la preparazione del lettore. Al di
là dei testi paralleli o imparentati, indicati solitamente dagli
studiosi e presenti negli apparati critici del NT, se ne possono
scorgere molti altri in filigrana, che fanno di questo canto un esempio
di quel che A. Robert chiamava “stile antologico” (12). Esso
costituisce un vero mosaico di allusioni, accostamenti e
interpretazioni che ne rendono ardua la piena comprensione. Si può
ripetere per questo canto quanto Moraldi affermava per le Hodayot di
Qumran: “In molti casi l’autore aveva in mente più di un passo biblico,
in altri dipende soprattutto dalla discrezione e preparazione del
lettore scorgere o meno un riferimento biblico” (13). Il Magnificat è
uno splendido mosaico le cui tessere sono costituite dalle vicende
della storia d’Israele, la quale ha attinto senso definitivo in Cristo,
ma attende pur sempre la pienezza escatologica.

Esaminando
il canto dall’inizio, ci troviamo subito di fronte a una solenne
dossologia e ad una gioiosa confessione della salvezza. Se è vero che l’Introduzione dà il tono a tutta la composizione, è non meno vero che essa è spiegata e giustificata dal corpo del canto,
in cui si esprimono i motivi per i quali viene esaltato il Signore e si
gioisce in Lui. Il Magnificat, lo ripetiamo, non offre una definizione
razionale ed astratta di Dio, ma una testimonianza
storico-esperienziale. Egli è grande perché ha operato grandi cose; è
salvatore perché tale si è dimostrato con le sue gesta. A celebrarlo
sono coloro che ne hanno constatato la magnificenza divina e la potente
salvezza. L’esperienza salvifica è alla base del canto e della gioia
che ne deriva.

I verbi dell’Introduzione sono coniugati in terza persona, ma il soggetto non è un personaggio anonimo e indeterminato: è la dou,lh che dal profondo del suo essere  esalta
il Signore, ne riconosce e proclama la grandezza, ed esprime la festa
della sua esistenza rinnovata dall’intervento divino.

L’Introduzione,
dunque, rivela subito il volto di un Dio grande, del tutto
trascendente, specialmente se messo in rapporto-contrasto con la tapei,nwsijdella serva. D’altra parte, egli non è distaccato o assente dal mondo:
è un Dio che interviene tempestivamente e con efficacia nelle
situazioni della storia, manifestandosi come salvatore. Un Dio lontano
e vicino al tempo stesso, misterioso nella sua assoluta trascendenza,
ma ben riconoscibile da coloro che da lui sono stati liberati. Un Dio
che provoca il gioioso canto dei redenti.

Non
è tuttavia sufficiente un’affermazione di principio, per quanto densa e
concreta, per celebrare il Signore: chi canta una prodigiosa
liberazione non può tacere i particolari, i fatti concreti della
propria esperienza, della sua storia nella quale è intervenuto con
potenza il Signore. E’ proprio di tali interventi che si compone la
trama del Magnificat.

Si passa così dall’Introduzione al corpo del canto, nel quale il soggetto dei verbi – tutti di azione e tutti in aoristo – è  Dio-Salvatore. La dou,lh è memoria e portavoce di una storia che viene rivissuta e interiorizzata nel culto, all’interno di una comunità di fede.

Il v. 48 comincia significativamente con un poiché,
che ricorre parallelamente all’inizio del v. 49: congiunzione causale
che regge non solo questi due versi, ma tutto il canto, tanto che
potrebbe essere ripetuta all’inizio di ogni versetto, formando una
sequenza litanica sull’esempio di numerosi salmi innici o di
“ringraziamento”. 

La
prima manifestazione dell’agire di Dio è di particolare densità e
riassume in qualche modo tutti i successivi suoi interventi:

poiché guardò dall’alto alla povertà della sua serva.

Non
a caso sono queste le prime parole con le quali il Signore si presenta
a Mosè, al momento di affidargli l’incarico di liberare il suo popolo:
“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto…” (Es 3,7). Esse
rivelano l’atteggiamento di viva partecipazione di Dio che precede ogni
suo intervento salvifico.

E’ da notare che il verbo ble,épw,
il quale originariamente indica la semplice funzione fisico-ricettiva
del vedere, acquista - già prima del Nuovo Testamento - un connotato
“intuitivo-conoscitivo-critico, nel senso di “guardare dentro,
scrutare, rendersi conto” (14). Tale significato di attenta e partecipe
osservazione viene approfondito dalla formula ebraica di Es 3,7: ra’ôh ra’îtî..., seguita da fondamentali verbi di percezione e di azione: šama‘tî… iada‘tî…wa’ered lehassîlô. Testo reso fedelmente dai LXX, i quali riproducono materialmente la formula idiomatica ebraica ra’oh ra’îtî con ivdw.n ei=don e iada‘tî con oi=da  (15).
Come si vede, tutti i sensi di contatto sono direttamente e
concordemente impegnati in Dio che veglia sulle vicende del mondo.
Yahwè – in questa circostanza egli rivela il suo nome, non volendo
essere identificato con i muti e inerti dei delle nazioni – chiaramente
vigila e si dà pensiero del suo popolo. Il verbo evpible,pw non esprime solo un guardare sopra, vale a dire dall’alto – si noti la ripetizione di evpi., – ma un curvarsi su,
prendersi cura, (16) come un padre e una madre nei confronti del figlio
in difficoltà. E a sottolineare ulteriormente la densità del testo –
ben evidente in Es 3,7 in cui si parla di miseria, grido, sofferenze,
che il Signore ha veduto, ascoltato e conosciuto -  si dà il netto contrasto tra la posizione elevata dalla quale Dio guarda e la tapei,nwsij, la bassezza della dou,lh,
la quale non è genericamente una serva, ma “la sua serva”, con un
esplicito articolo determinativo che ne sottolinea la totale
appartenenza. In termini ancor più chiari, il Signore si era espresso
riguardo ad Israele, sempre nel contesto dell’Esodo e della missione
affidata a Mosè: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito: Io ti avevo detto lascia partire il mio figlioperché mi serva! (Es 4,22s)”. Si noti questo intreccio tra figliolanza
e servizio che esprime appartenenza e dipendenza incondizionata. In Lc
1,48 ricorre il termine dou,lh (cf anche 1,38), ma vi è implicito il senso di proprietà, come si può arguire dal v. 54 in cui si parla di Israele paido.j auvtou, evocante la figura del servo del Deuteroisaia. Questo titolo indica che


il popolo è entrato… non solo alle dipendenze del Signore, ma nella sua
intimità e nella sua fiducia, al punto di essere messo a conoscenza del
suo disegno e di poter collaborare alla sua realizzazione. (17)

Già in questo primo emistichio del corpodel cantico si può scorgere una sintesi straordinaria della storia
della salvezza ed un’immagine icastica del Dio d’Israele - già
proclamato sinteticamente salvatore nel v. 47, prima che altri tratti
dei versi seguenti ne sviluppino ulteriormente la fisionomia -: un Dio
grande, che domina sul mondo e sulle sue vicende, che veglia con
premura sul suo popolo e interviene con efficacia per liberarlo.

L’esperienza
cantata dalla Vergine di Nazaret si colloca al vertice di una lunga
tradizione di interventi liberatori di Dio nei confronti di singoli
personaggi o della comunità in situazione di tapei,nwsij,
come si legge in Gen 29,32, in riferimento a Lia, e nel sal 30 (LXX),
in cui l’orante afferma di rallegrarsi - con lo stesso verbo avgallia,w presente nel nostro canto – a motivo dell’ e;leoj divino; c’è pure, ovviamente, il riferimento alla situazione di Anna, che nella sua preghiera così si rivolge al Signore: “’im ra’oh tir’eh, se davvero guarderai – col verbo ble,épw al futuro e con l’infinito costrutto (evpible,pwn evpible,yh|j) – alla tapei,nwsijdella tua serva” (1Sam 1,11). Come si diceva, non si tratta di semplici
interventi isolati, riguardanti questo o quel personaggio, ma di una
costante dell’agire di Dio e di salvezza concernente tutto il popolo.

 E’
da tener presente – vi insistiamo - che i verbi con Dio soggetto sono
all’aoristo, vale a dire al passato storico. Ancora una volta - come ha
fatto per la liberazione dall’Egitto e in tante altre circostanze - il
Signore si è chinato dall’alto, in vista di un intervento salvifico.
Nel nostro caso, tuttavia, il Signore ha guardato alla sua serva, non
in prospettiva di una liberazione futura, come in Es 3,7s (sono sceso
per liberarlo): nel Magnificat la liberazione è già avvenuta, è un
evento compiuto, celebrato nel canto, nell’esperienza liturgica della
comunità. L’escatologia ha fatto ormai irruzione nella storia del
mondo, compiendo le attese d’Israele proiettate – all’epoca del Nuovo
Testamento -  in un futuro nel quale Yahwè
avrebbe realizzato finalmente le promesse con un grandioso intervento
dall’alto. Nel canto della Vergine tale speranza-tensione escatologica
è chiaramente appagata, anche se con linguaggio e simbolismo ben
diversi da quelli della tradizione apocalittica. Nei confronti
dell’attesa veterotestamentaria e giudaica, l’evento cristiano –
nonostante il genere letterario diverso - si presenta sotto il segno
degli ultimi tempi e dunque di una salvezza realizzata.

Su questo sfondo, il v. 49 può proclamare: poiché il Potente ha fatto a me grandi cose…

Il Potenteè il secondo titolo di Dio dopo quello di Salvatore, ma come quello è
un appellativo eminentemente dinamico. I due titoli non si possono
scindere: Dio salvatore è il potente, in quanto realizza
efficacemente la salvezza: la sua forza è tutta al servizio della
liberazione. Il significato, la portata di quell’aver guardato alla tapei,nwsij della sua serva, appare con evidenza nelle gesta compiute in suo favore. Le grandi cose, che si contrappongono alla tapei,nwsij,
alla situazione di povertà esistenziale della serva, qualificano con
efficacia il volto di Dio: un Dio forte, potente, capace di trasformare
in esperienza di salvezza e di vittoria le condizioni di umiliazione
del suo popolo.

Le grandi cose – le mega,la - sono importanti nella struttura e nel significato del canto, il quale si apre con il verbo megalu,nei che richiama appunto le mega,la compiute
da Dio. Di fronte alle grandi cose che hanno trasformato radicalmente
la sua esistenza, la serva riconosce e proclama la grandezza e la forza
di Dio.

I
due emistichi 48a e 49a (48b richiede un discorso a parte) sono dunque
strettamente congiunti: lo sguardo del Signore è premessa e condizione
del suo intervento: egli si lascia coinvolgere nelle vicende umane ed
entra in azione dispiegando tutta la sua forza. Solo di fronte ad essa,
allo strapotere del braccio divino i violenti recedono dalla loro
tirannia sul mondo.

Si
afferma spesso, e a ragione, che la prima parte del Magnificat si
occupa quasi esclusivamente di misericordia, che in essa l’intervento
di Dio riguarda solo i giusti ed i poveri, ma sullo sfondo è già
evidente la lotta che si svolgerà contro gli oppressori, e ciò risalta
non solo dal termine tapei,nwsij – che anticipa l’aggettivo tapeinou,j -
dalla quale la serva viene liberata, ma in maniera ancora più netta
dalla forza messa in atto dal Potente e dalle grandi cose da lui
compiute a vantaggio della dou,lh.

Il termine dunato,j (in ebr. gibbôr), esprime
l’eroe-guerriero; presenta pertanto una connotazione tipicamente
militare e bellica, come è confermato da diversi testi
veterotestamentari, in particolare dal Sal 24,8.10: “Yahwè forte e gibbôr, Yahwè gibbôr in battaglia… il Signore degli eserciti”.

Tale
potenza divina si manifesta anzitutto nei fatti dell’esodo e nel
passaggio del mare: “Quando i testi biblici ricordano al pio israelita
la potenza di Dio alludono sempre al prodigio del Mar Rosso che coronò
l’esodo dall’Egitto”. (18) E ciò viene confermato anche da diverse
testimonianze del giudaismo postbiblico. (19)

E’ da notare che la potenza e forza di Dio è motivo biblico frequente, ma il titolo o` dunato,j applicato
a Dio è eccezionale; con l’articolo si trova solo nel nostro testo e in
Sof 3,17, che usa l’espressione particolarmente significativa gibbôr jôšîa‘.
(20) Ciò significa che il nostro versetto è particolarmente importante
per qualificare il volto di Dio come forte guerriero. E’ una conferma
ulteriore del fatto generalmente acquisito che la collocazione di
questo canto nell’attuale contesto non è originaria; è conferma anche
che il contesto lucano intende presentare la venuta del Messia davidico
Figlio di Dio come l’intervento supremo dalla potenza di Dio: “Egli
sarà grande, sarà chiamato figlio dell’Altissimo… la potenza
dell’Altissimo verrà su di te…” (Lc 1,32s.35).

In
altri termini, quanto si verifica in Maria – che nella teologia di Lc
1-2 suppone l’evento pasquale di Cristo e la sua ricezione a livello di
fede e di liturgia - viene descritto con i termini della grande
liberazione dell’esodo, ma non è ad essa inferiore, anzi costituisce il
compimento di quella salvezza iniziale che in Cristo attinge pienezza e
nella parusia si manifesterà in tutta la sua efficacia. Il Dio cantato
nel Magnificat è dotato di straordinaria potenza salvifica, come tutta
la tradizione d’Israele ripete e come la personale esperienza della dou,lh conferma. 

Posto enfaticamente, in fine di riga e in posizione chiastica rispetto al soggetto sottinteso di evpe,bleyen, a conclusione di una sezione racchiusa entro i termini megalúu,nei- mega,ála, il titolo o` dunato,j acquista un rilievo notevole.

Esso appare in posizione strategica anche perché da una parte conclude la serie dei titoli divini (Ku,rioj, Qeo,j, Swth,r) e dall’altra introduce la descrizione dei tratti divini della santità e della misericordia. Inoltre o` dunato,j con evpoi,hse,n mega,la prepara la seconda parte del canto (vv. 51-55), la quale inizia con una formula quasi parallela: evpoi,hse,n kra,átoj.

La
forza e potenza di Dio, già presente nel v. 49a, esplode infatti con
eccezionale violenza nella seconda parte del cantico. Il Magnificat
celebra anzitutto e direttamente l’intervento salvifico a favore della dou,lhe di Israele servo di Dio, ma l’azione divina si deve confrontare, in
un caso come nell’altro, con forze ostili di oppressione e di morte.

Su questo sfondo si colloca, la frase quasi descrittiva e santo è il suo nome(v. 49b). Contrariamente a quanto potrebbe apparire, neppure questa è
un’espressione astratta, né una definizione razionale di Dio. E’ noto
infatti che il nome sta per la persona, e sappiamo ormai di quale
potente personalità si tratta. La santità, per conseguenza - nel nostro
contesto, come anche altrove –, è la radice profonda dello zelo che
presiede alle azioni salvifiche di Dio. Il parallelismo più diretto per
il nostro testo, rimane il canto del mare, ove troviamo un’esplicita
associazione tra santità e intervento liberatore: “Chi è come te…,
Signore? / chi è come te, / maestoso in santità,  tremendo nelle imprese, operatore di prodigi? (Es 15,11).

Nel Deuteroisaia il titolo caratteristico qedôš jisra’el è accompagnato da termini salvifici come go’el (21) e môšîa‘ (cf
Is 43,3). Ciò rivela la stretta connessione tra la santità di Dio e la
redenzione d’Israele che sono, per così dire, in rapporto di causa ed
effetto.

Anche l’e;leoj che
segue nel v. 50 – a conclusione della prima parte del cantico (22) -
non è un semplice sentimento o atteggiamento interiore, ma una
componente dinamica del Dio d’Israele, che sta alla base del rapporto
con il suo popolo: per la misericordia nei suoi confronti – legata
all’elezione e alla promessa – Dio interviene a salvarlo. Possiamo dire
che tutti i comportamenti di Dio salvatore: il guardare alla povertà
della serva, l’operare grandi cose sotto l’impulso della sua santità,
dipendono dal suo atteggiamento di hesed verso Abramo e la sua discendenza (cf vv. 54-55). (23)

“Nel linguaggio religioso lo hesed di Dio indica sempre più il suo aiuto misericordioso, e una tale accezione… si esprime nella traduzione e;leoj”. (24) 

Trattandosi di un termine che ricorre con grande frequenza nei LXX, per lo più con Dio come autore, (25) non si può dire che e;leoj sia un vocabolo caratteristico dell’esodo. E’ vero, tuttavia, che tra l’e;leoj e i prodigi di Dio esiste un legame particolare. (26)

La salvezza è opera della sua misericordia, del suo amore e della  fedeltà verso Israele, nel ricordo del giuramento fatto ai Padri.

L’immagine
divina emergente da questa prima parte del Magnificat è dunque
tradizionale ed eminentemente positiva. Il canto della Vergine si pone
sulla scia della grande storia e spiritualità d’Israele che celebra la
salvezza di un Dio potente, santo e misericordioso.

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Il
Magnificat è stato diviso in molti modi. La struttura bipartita sembra
la più logica, non a caso è quella oggi maggiormente condivisa.
Qualunque divisione, tuttavia, deve prendere atto della forte unità del
cantico e della sua continuità tematica. Tra la prima e la seconda
parte si danno dunque accentuazioni più o meno marcate, ma nessuna
frattura. Il Dio della prima parte, misericordioso e salvatore, è anche
il Potente che non esita a compiere grandi cose sotto la spinta del suo
zelo e della sua santità.

Nella
seconda parte si sottolinea in maniera esplicita l’azione divina contro
superbi ed oppressori, ma l’interesse principale verte – come nella
prima parte – sui piccoli e gli affamati; e il canto si conclude con un
riferimento ad Israele servo del Signore, oggetto della misericordia
divina. Non si può quindi affermare in maniera riduttiva che la prima
parte tratta della misericordia di Dio verso i poveri e la seconda
della sua forza devastante contro i potenti. Sia la prima sia la
seconda celebrano l’azione di Dio salvatore e liberatore, il quale
indirettamente deve prendere posizione risoluta nei confronti degli
oppressori del suo popolo.

Il
v. 51 è da intendere in collegamento con il v. 49, e ciò conferma la
continuità tra le due parti del cantico, dal punto di vista formale e
del contenuto.

Ma tra i due versetti c’è anche opposizione: la medesima forza di Dio che compie  mega,ála, vale a dire prodigi di salvezza per la dou,lh, causa
distruzione nei confronti degli operatori di ingiustizia. Ovviamente la
salvezza non è mai un’operazione indolore: essa si confronta di
necessità con la violenza degli oppressori. Per strappare le vittime
dalle loro mani si richiede un’esplosione della forza di Dio. L’azione
liberatrice comporta pertanto un aspetto drammatico e tragico,
testimoniato da tutta la storia della salvezza, a partire dalla
liberazione dall’Egitto, come appare fin dall’inizio della missione di
Mosè:



Allora
tu dirai al faraone: “Dice il Signore: Israele è il mio figlio
primogenito. Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio… Ma tu hai
rifiutato di lasciarlo partire: Ecco io faccio morire il tuo figlio
primogenito!” (Es 4,22s).

L’ostinazione
del faraone è irriducibile: resiste di fronte a nove spaventosi
prodigi, e cede infine – temporaneamente (cf Es 14,5ss) - di fronte
alla piaga della morte dei primogeniti (Es 12,29s). Solo allora (v.
31), costretto dall’immane tragedia, egli concede agli israeliti di
abbandonare la sua terra e la condizione di schiavitù.

Ma
la presentazione più efficace della liberazione d’Israele ad opera del
braccio potente di Dio è contenuta nel c. 14 dell’Esodo. Neppure la
morte dei primogeniti aveva fiaccato definitivamente la durezza del re
d’Egitto. Egli insegue con un potente esercito e raggiunge i figli
d’Israele accampati in riva al mare, non lasciando loro alcuna via di
scampo. Di fronte a tanta ostinazione e a tale estrema minaccia, il
Signore interviene direttamente per tutta una notte, operando mega,ála,
cose portentose. Al termine del racconto di quella fatidica notte di
salvezza per i figli d’Israele e di annientamento per l’esercito del
faraone, il testo biblico annota:

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In
quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani… Israele
vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro
l’Egitto… Allora Mosè e gli Israeliti cantarono questo canto al
Signore…

e segue il celebre canto del maredi Es 15,1-18. (27) Il motivo di questo inno di vittoria è ripreso
ininterrottamente nella tradizione d’Israele, in particolare nei salmi
che celebrano la liberazione dei poveri dalle mani dei loro oppressori.
Esso costituisce  il tema dominante della fede e
della pietà d’Israele che ad ogni Pasqua celebra i prodigiosi eventi
del passato e rinnova la speranza di una salvezza futura ad opera dello
stesso Signore operatore di cose grandiose.

Consiglio Ecumenico delle Chiese
Atene, lo Spirito Santo
e la missione del terzo millennio

di Giuseppe Caffulli

Parola d'ordine: synaxeis. Ovvero condivisione, dialogo, incontro. È stata questa la novità e la caratteristica principale della tredicesima Conferenza mondiale sulla missione, organizzata dalla Commissione per la missione e l'evangelizzazione del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) sul tema: «Vieni, Santo Spirito, guarisci e riconcilia! Chiamati in Cristo ad essere comunità di riconciliazione e guarigione». Svoltosi ad Atene dal 10 al 16 maggio, l’evento ha visto la partecipazione di oltre 600 delegati in rappresentanza di Chiese e organismi missionari, che in una settimana intensissima di incontri e confronti hanno dibattuto sulla delicata questione della missione comune. Per la prima volta l'iniziativa è stata ospitata da un Paese a maggioranza ortodossa e ha visto la partecipazione anche degli evangelici pentecostali (spesso in dissidio con le stesse Chiese protestanti tradizionali).

Cuore delle giornate di Atene sono stati appunto i gruppi di lavoro, le synaxeis una sorta di laboratorio interconfessionale che ha condiviso riflessioni ed esperienze sui temi della riconciliazione e della guarigione. Filo rosso delle varie sessioni, l'ascolto orante della Parola di Dio e l'invocazione dello Spirito Santo come ispiratore e guida della missione comune della Chiesa. Numerose le testimonianze dal Sud del mondo e dai contesti di violenza ed emarginazione, dove più urgente è intraprendere cammini di perdono e di «purificazione della memoria».

Il contesto nel quale si è svolta la Conferenza (conclusasi la giornata di Pentecoste con una significativa celebrazione ecumenica sull'Areopago di Atene, dove Paolo predicò agli ateniesi), ha finito per mettere l'accento sul mondo ortodosso e sui rapporti delle Chiese orientali con le altre confessioni cristiane (uno dei temi dibattuti è stato - e non poteva essere altrimenti - quello del proselitismo). Don Gianni Colzani, missiologo, docente presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma, più che i problemi, crede sia invece opportuno mettere in evidenza le novità, tra cui la rinnovata attenzione del mondo ortodosso per il tema della missione: «Credo che sia in atto una rinascita dell'annuncio in seno alle Chiese ortodosse, anche se la loro idea si richiama più all'opera dello Spirito che all'operosità dei missionari».

Monsignor Brian Farrel, segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani che ha guidato la delegazione cattolica ad Atene, non nasconde le sue speranze per la valenza anche simbolica che l'evento ha avuto: «il fatto che la Conferenza missionaria mondiale si sia svolta in un Paese di tradizione ortodossa non è un semplice dato geografico, ma un evento potenzialmente carico di sviluppi sul versante del dialogo con le Chiese ortodosse».

(da Mondo e Missione, giugno / luglio 2005, p. 24)

Giovedì, 10 Novembre 2005 01:28

La pace dentro la guerra (Gad Lerner)

La pace dentro la guerra

di Gad Lerner

Da tempo non provavo una commozione così intensa. Quella donna che invoca Dio di maledire gli ebrei, fra le macerie della sua casa distrutta in Cisgiordania. E poi scura in volto come paralizzata dall'ansia durante il trasbordo al check point fra un'ambulanza con la mezzaluna rossa e l'altra con la stella di Davide. Infine, un dialogo sorridente, fra le tecnologie di un ospedale avveniristico di Tel Aviv, col medico israeliano felice di avere salvato la vita a un bambino palestinese. Quel fagotto dai grandi occhi neri, che la donna aveva disperatamente accudito con l'aiuto di pediatri della sua terra, coraggiosi e ironici anche nel dialogo con quegli "psicotici" degli israeliani.

E poi i volontari del centro Peres. Manuela Dviri, che si prodiga nel costruire relazioni di pace perché non riesce a star ferma, dopo che le hanno ammazzato un figlio soldato ventenne in Libano. Litigando con suo marito Avraham, incapace di far suoi l'ottimismo e la disponibilità al dialogo. Senza dimenticare l'angelo ispiratore di questo miracolo, il mio amico Massimo Toschi (ma lui obbietterebbe che l'angelo ispiratore è sua moglie Piera, dal cielo), che va e viene dalla Toscana, disposto perfino a sedersi su una sedia a rotelle pur di correre più in fretta.

Sto parlandovi del meraviglioso documentario realizzato da Unicoop sull'esperienza di un annodi "Saving childrens", molto semplice a dirsi, un po' meno a farsi: bambini palestinesi curati negli ospedali israeliani, dialogo permanente fra medici delle due sponde, famiglie che passano i posti di blocco e si riconoscono, umanità reciproca dentro la guerra, oltre l'odio.

Il documentario è un'avventura col cuore in gola. Anzi, è tutto suspense di operazioni a cuore aperto, merito di équipe scientifiche d'altissimo livello, messe in relazione con la miseria dei vicini-nemici. Tutto vero, niente fiction. Gli attori recitano sé stessi e narrano come si possa agire contro la guerra stando dentro la guerra. In questo primo anno di attività, finanziata dalla Regione Toscana e dalla fondazione Monte dei Paschi di Siena, fortemente voluta da Shimon Peres e dal suo Centro per la pace, dovevano essere curati 300 bambini palestinesi, fra gli ospedali di Gerusalemme e di Tel Aviv. In realtà, ne sono stati curati 700. Grazie all'impegno di altre regioni (Emilia Romagna, Umbria, (Calabria), dal 2005 in poi saranno mille all'anno.

Ci voleva una scintilla di fede e di speranza da fuori per accendere un'energia di pace già diffusa fra persone costrette assurdamente a odiarsi.

Ve ne parlo, con sincero entusiasmo, ben sapendo che l'azione umanitaria e l'impegno delle organizzazioni non governative in zone di guerra - e in particolare nell'inferno irakeno - oggi subiscono la battuta d'arresto del terrorismo e della militarizzazione del territorio.

Non dappertutto è ripetibile l'esperienza di "Saving childrens". Altrove bisogna ripensare il modo e il senso stesso della presenza volontaria dentro ai conflitti. Ci sono state inevitabili e dolorose ritirate. Ma la testimonianza di una cultura di pace, capace di coinvolgere direttamente la popolazione a partire dai bambini, resta l'unica via della speranza.

(da Nigrizia, dicembre, 2004, p. 74)

 
Giovedì, 10 Novembre 2005 01:19

Le tre vie (Giovanni Vannucci)

Le tre vie

di Giovanni Vannucci

Le tre parabole contenute nel brano di Mt 13, 44-52 riguardano tre momenti distinti dell'umana avventura: il regno di Dio si può trovare per caso - il contadino che ignora che nel campo dove lavora è sepolto un tesoro, lo scopre e gioisce; il regno di Dio si trova nella ricerca - il mercante di perle che cerca la perla preziosa perché sa che esiste (il contadino e il mercante concordano nella necessità di vender quanto posseggono per avere il tesoro e la perla); nella parabola dei pescatori che tirano a riva la rete, essi non sono i protagonisti, lo sono invece i pesci che vengono selezionati e scelti.

Il contadino "compra il campo", non il tesoro. Il tesoro è in più, è gratuito. L'uomo con la virtù portata al grado eroico compra il campo, compra la vita, compra il suo "stare in questo mondo" che lo porterà al possesso del tesoro del regno di Dio. Il tesoro è sempre un dono, deve essere conquistato, meritato con la rinuncia a tutto ciò che ha chiamato "suo", fino a quel momento.

La rinuncia viene finalizzata all'acquisto del tesoro, la valorizzazione delle opere per avere il tesoro non toglie però un intimo malessere di averlo truffato, perché il valore del campo non può essere quello del tesoro, malessere che rivela la presenza di un dualismo; il contadino vangando entro di sé scopre il regno di Dio, ma non pensa di essere lui stesso il regno di Dio, non si sente figlio, ma servo, offre la sua vita, ma non la riconosce consustanziata con quella del Padre. È la via di Pietro: "Abbiamo rinunciato a tutto, quale premio ci darai?".

Il mercante di perle è il saggio, il cercatore della verità, della perla. Per lui la vita è come un'epopea iniziatica. Ricerca audace, tensione massima, rischi enormi. Sforzo ardente verso un fine sovrumano: divenire il collaboratore di Dio, il Figlio del Padre, un dio in Dio. La sua ascesi ha un solo movente: conoscersi e conoscere, raggiungere la verità la perla più preziosa, la verità che sola può dare un senso alla vita.

Cerca la verità nelle regioni ove suppone possa trovarsi. Cercandola la trova, la sua gioia è grande, ma gioia consapevole, senza l'incanto della sorpresa, con l'intima soddisfazione di una raggiunta conferma, A differenza del contadino non si stupisce di aver trovato il regno di Dio, scopo di tutte le sue ricerche, nè rifiuta di pagare quanto gli è richiesto. Il contadino compra il campo, non il tesoro, e con perplessità possederà il tesoro. Il mercante compra la perla, l'oggetto delle sue ricerche, ben ne conosce il valore. L'uno e l'altro giungono allo stesso risultato; il mercante, una volta in possesso della perla, non si dà pensiero delle difficoltà.

Dio, la perla, lo chiama a un incessante superamento, e cosciente dell'estrema distanza tra Dio e lui, tra la perla e i suoi beni, insieme è consapevole della parentela essenziale esistente tra i due termini e quindi della possibilità e della necessità di un'ascesi deificatrice. Il Creatore vuole dei creatori, lo Spirito vuole dei liberi spiriti, i figli di Dio hanno accesso alla vita e alle energie divine.

Il mercante, la via della saggezza, procede con serenità e sicurezza, forse il possesso per lui è raggiungibile nella vita terrena; il contadino, la via dell'ascesi, cammina con timore e tremore, e non è mai certo di raggiungere il possesso del tesoro.

L'essenza della cosa è pur sempre una: il regno di Dio è in vendita, viene comprato a prezzo di tutto ciò che si possiede. Comunque sia cercato il regno di Dio, una volta intravisto, ossessiona, riempie di sé ogni spazio, colma di sé tutto, e tutto diventa un niente davanti alla sua verità.

Veniamo alla parabola della rete: in essa la rete gettata in mare cattura "ogni sorta di cose", buone e cattive; le buone verranno conservate, le cattive gettate di nuovo in mare. Mentre nelle prime due parabole viene sottolineato il lavoro, lo sforzo individuale dei due ricercatori, il contadino e il mercante, in questa tutto avviene per una sorta di fatalità: la rete vien gettata dai pescatori, dagli Angeli, i pesci v'incappano casualmente, né i buoni nè i cattivi la cercano, vi s'imbattono.

Per chi ha raggiunto il Regno o attraverso la via dell'acquisto del campo per l'abbandono di tutto ciò che non sia il Regno, o mediante la via della perfetta dedizione alla verità, la legge della selezione e della scelta non è operante, egli si è liberato da ogni cosa sindacabile. La selezione vige per gli esseri comuni, che vivono nel mare della vita, incappano nella rete, la morte, e verranno scelti dagli Angeli, in conformità alle cose buone, attinenti allo Spirito, o alle cose cattive, attinenti alla forma materiale.

Questa visione domanderebbe un lungo sviluppo; se teniamo presente che la parola prima e ultima del Vangelo è l'invito a risvegliarsi, comprenderemo che il contadino e il mercante sono due risvegliati alla visione del Regno che perseguono in due vie differenti: l'ascesi e la conoscenza; mentre accanto a essi continua a vivere una massa di non risvegliati, buoni e cattivi, ma non consapevolmente coscienti del loro mistero di uomini. In essi non esiste il fattore di libertà o di responsabilità, una misteriosa volontà per essi opera e decide. La rete non sceglie, raccoglie, le cose raccolte non si scelgono da sole, sono scelte dai pescatori e il loro giudizio è insindacabile, essi sanno cosa conservare. In questa prospettiva l'invito a essere svegli assume un aspetto tremendo e impellente.

(da Adista, 2 luglio 2005, p. 15)

Giovedì, 10 Novembre 2005 01:08

Le Ceb non si fermano (Marcelo Barros)

Le Ceb non si fermano

di Marcelo Barros

In questo mese di luglio, la storia delle Comunità ecclesiali di base (Ceb) brasiliane si arricchirà di un nuovo capitolo. Dal 19 al 23, si celebrerà l’XI Incontro interecclesiale delle Ceb, cui parteciperanno migliaia di rappresentanti provenienti da ogni angolo della nazione e da altri paesi dell'America Latina.

L'evento avrà luogo nella diocesi di Itabira-Fabriciano, a Ipatinga: una città giovane, nata soltanto 30 anni fa, ma già gremita di 250mila abitanti, in gran parte impegnati nell'industria siderurgica. Il luogo è chiamato "la Valle dell'acciaio".

Ci si aspetta che la partecipazione di quest'anno non sarà minore di quella del X Incontro, a Ilheus, nello Stato di Bahia, dall'11 al 15 luglio 2000, quando ben 4.000 persone (di cui 2.400 delegati provenienti dalle comunità di 231 diocesi, delle 267 esistenti in Brasile) presero parte all'evento.

Il tema della prossima assise è: "Comunità ecclesiali di base e spiritualità liberatrice"; significativo lo slogan: "Seguire Gesù nell'impegno con gli esclusi".

Dopo la celebrazione di apertura, la sera del 19, il 20 sarà dedicato all'argomento "Una spiritualità profetica e la sua relazione con gli esclusi, a partire dalla esperienza comunitaria delle Ceb di oggi". Il secondo e il terzo giorno avranno come tema, rispettivamente, "Gesù e la pluralità delle esperienze spirituali" e "L'impegno con gli esclusi ci identifica con Cristo e ci unisce, al di là e nonostante le nostre differenze".

Anche di recente, molti mass media hanno affermato che il tempo delle comunità di base latino-americane è ormai passato e che la teologia della liberazione è superata. Oggi, molti ritengono che l'unica maniera di essere cattolico in Brasile sia quella proposta da don Marcelo Rossi, nuova pop star del Brasile, che celebra messe a ritmo di aerobica (e puntualmente teletrasmesse e seguite da milioni di spettatori) e i cui cd superano ogni record di vendita nel paese.

I membri delle Ceb, però, non la pensano così. Essi non intendono farsi adescare da un cristianesimo mediatico, né ripongono la loro speranza in una "pastorale di massa"- Credono, invece, che la vita cristiana vada vissuta e testimoniata in una ragnatela di piccole comunità di base, vive e bene organizzate.

E la tanto criticata teologia della liberazione? Essa è viva e vegeta. Basti pensare al Forum mondiale della Teologia della liberazione, celebrato lo scorso gennaio, a Porto Alegre, in concomitanza con il Forum sociale (Nigrizia, 01/05, 77).

Nel 1968, alla Seconda conferenza generale dell'episcopato latino-americano, a Medellin (Colombia), le chiese del sub-continente si sentirono sfidate da Dio a porsi decisamente al servizio dei più poveri. Da lì nacque una profonda mistica del Regno di Dio, caratterizzata da una spiritualità che non era più devozionistica, bensì radicata nell'amore per gli ultimi e alimentata dalla volontà di mettersi al servizio della liberazione totale di tutti.

Oggi il linguaggio e le prospettive delle Ceb non sono più quelli degli anni Sessanta. Ma le comunità credono ancora che la spiritualità del Regno di Dio e dei suoi valori è una risposta pastorale adeguata alle sfide della presente epoca, così marcata dall'individualismo, dal neoliberismo e dalla tentazione di privatizzare perfino la fede.

Sono certo che l'Incontro intereccle­siale di Ipatinga saprà ricordare (e mostrare) ai cristiani che la fede è espressa non già nelle grandi riunioni di massa, bensì nelle piccole comunità, quando queste sono animate da spirito di solidarietà, pronte ad assumersi impegni sociali e politici per la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, e decise a proseguire il loro cammino spirituale al servizio della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato.

In una recente lettera, scritta a conclusione della vicenda della sua successione episcopale, dom Pedro Casaldaliga, ex vescovo di Sào Félix, nel Mato Grosso, così si esprimeva: «Un'altra chiesa è possibile, e in molte parti e in molti modi la stiamo edificando: nelle comunità di preghiera, di fraternità, di impegno... e nel prossimo incontro interecclesiale delle Comunità ecclesiali di base e nel loro rianimarsi in Brasile, nel continente, nel mondo intero». E concludeva: «Van Gogh, malgrado avesse visto cadere nella sua vita tanti mulini, reali o simbolici, scriveva a suo fratello Theo; "Ma il vento continua". Anche noi, dopo aver visto cadere tanti mulini, nella società e nella chiesa, continuiamo a proclamare - nella speranza e nell'impegno - che "il vento continua"»». Il treno delle Ceb prosegue il suo viaggio.


(da Nigrizia, luglio-agosto 2005, p. 69)

Lo Spirito Santo
nella tradizione delle chiese orientali

di Tomáš Špidlík



Nella vita di san Serafino di Sarov, santo popolare russo morto nel 1833, si legge questo episodio, più volte citato. Si tratta di un colloquio che egli ebbe con uno dei suoi figli spirituali, un certo Motovilov, guarito dall'uomo di Dio da un grave reumatismo.

Lo starets (= padre) Serafino era famoso per il dono della chiaroveggenza spirituale. Perciò non sorprendono queste parole: «Dio mi ha rivelato - disse - che in gioventù tu desideravi ardentemente sapere qual’è il fine della vita cristiana e che più volte hai interrogato in proposito persone importanti ed esperte di cose spirituali».

Motovilov dovette ammettere che ciò era vero, perciò lo starets continuò: «Essi [i preti] ti hanno detto: Va in chiesa, prega Dio, osserva i comandamenti di Dio, fa il bene. Ecco, per te, il fine della vita cristiana».

Non è, forse, questo l'insegnamento che sentiamo spesso e diamo anche noi? Il fine della vita cristiana ci sembra chiaro: fare il bene. Il dovere specifico dei predicatori, poi, è spiegare più in concreto in che cosa quel bene consista. Serafino non si accontentò di questa risposta: «Non ti parlavano come occorre. La preghiera, il digiuno, le veglie e tutte le altre opere del cristiano, per eccellenti che siano, non sono, in quanto opere, lo scopo della vita cristiana, sebbene siano mezzi indispensabili per conseguirlo. Il vero fine della vita cristiana consiste nell'acquisire lo Spirito di Dio, la grazia dello Spirito Santo».

Con questo insegnamento Serafino rimane pienamente nella tradizione della chiesa orientale che presenta lo Spirito Santo come principale e vero autore della nostra santificazione. Egli abita nei nostri cuori umani così che i cristiani diventano «un solo spirito con il Signore» (Pseudo Macario). L'uomo non può essere chiamato spirituale per il solo fatto che possiede un'anima immateriale, capace di conoscere e cercare i valori che nel linguaggio profano vengono chiamati "spirituali": la filosofia, la scienza, l'arte. Nel senso autenticamente cristiano l'uomo è chiamato spirituale a livello più elevato: perché possiede in sé lo Spirito Santo. Fu un grande contributo che sant'Ireneo diede stabilendo questa verità contro gli gnostici: «Molti uomini - scrive - non possiedono lo Spirito ... questi sono coloro che Paolo chiama carne e sangue.... Ma tutti quelli che temono Dio, che credono alla venuta del suo Figlio e che, per fede, stabiliscono nei loro cuori lo Spirito di Dio, questi meritano di essere chiamati spirituali, perché hanno lo Spirito del Padre che purifica l'uomo e lo eleva alla vita di Dio».

L'interlocutore di Serafino ebbe però delle difficoltà, non sull'insegnamento ma sulla prassi: «Padre, ecco che voi continuate a parlare di acquisto della grazia dello Spirito Santo e mi dite che in ciò consiste il fine della vita cristiana, ma come posso scorgerlo?

Le buone opere sono visibili, ma come si può vedere lo Spirito Santo? Come saprò se è in me o meno?». Non vi è dubbio che non fu soltanto Motovilov a porsi una tale domanda. Perciò l'esperienza miracolosa dello Spirito che seguì la preghiera di Serafino fu, come notò egli stesso, destinata a confermare la fede di tanti altri che, nel futuro, avrebbero letto questi ricordi.

Non tutti, evidentemente, possono avere una tale occasione straordinaria di sentire la presenza dello Spirito come luce, calore, felicità. D'altra parte, tutti i cristiani, dai tempi antichi si chiedevano come avrebbero potuto sapere se avevano o meno lo Spirito Santo. È lecito aspirare ad averne conoscenza? La questione dell'esperienza religiosa era sempre attuale in Oriente. Il teologo russo Vladimir Lossky afferma che «la tradizione orientale non ha mai distinto nettamente tra mistica e teologia». Come lo Spirito Santo potrebbe essere chiamato "luce" se la sua presenza non fosse vista in alcun modo e solo vi si "credesse"? Ma, d'altra parte è vero che verso la fine del secolo IV vennero condannati i carismatici esagerati, i cosiddetti "messaliani".

Questi identificavano la presenza dello Spirito Santo con la propria esperienza: chi lo sente lo possiede; chi non lo possiede non lo sente. La reazione degli ortodossi fu netta: «la grazia è deposta segretamente nel fondo dello Spirito, fin dall'istante del battesimo, sottraendo la sua presenza al sentimento». Così scrive, contro i messaliani, un grande autore spirituale greco del V secolo, Diadoco di Fotica.

Ma anch'egli non ha voluto esagerare nella direzione opposta. Il fatto che non possiamo sempre sentire lo Spirito è vero, però è una conseguenza del peccato. Questo genera in noi una anaisthesia, insensibilità per le cose divine. Col progresso della vita spirituale dobbiamo superarla. Nel contesto del discorso, l'autore spirituale russo Teofane il Recluso (+1894) dichiara che il risveglio dei sentimenti va, in un certo qual senso, di pari passo con la recuperata salute spirituale. Lo stesso Spirito Santo ci aiuta a sentirlo.

La pedagogia divina è, molto frequentemente, la seguente:

1. La grazia è presente dall'inizio, dal battesimo.

2. Quando qualcuno decide di proseguire la sua santificazione, lo Spirito fa spesso sentire la sua consolazione, una ricompensa per le fatiche.

3. Più tardi si nasconde di nuovo e Dio lascia i suoi santi nella sofferenza.

4. Alla fine, quando il periodo della purificazione è compiuto, Dio accorda di nuovo le sue consolazioni e la pienezza dello Spirito Santo.

È evidente che in questa vita il significato della "pienezza dello Spirito" si deve intendere in senso assai ristretto. Per esprimerlo gli autori utilizzavano una metafora tradizionale: «come una donna incinta». Lei sa che il bambino esiste nella sua vita, ma non conosce la sua forma e la sua bellezza. Così anche per il cristiano la grande consolazione sta nel fatto di sentire lo Spirito nel proprio cuore.

Il grande mistero della vita cristiana è dunque quello delle molteplici relazioni dello spirito umano con lo Spirito di Dio. In certi istanti tutti e due appaiono così uniti da sembrare fusi, ma in altri sembra ci sia una distanza infinita che li separa L'anima che si sente separata dallo Spirito si vede in un abisso di debolezza e di ignoranza, è piena di tristezza e di desolazione. Ma questo stato non è duraturo. .All'improvviso tutto cambia. L'uomo si sente forte, illuminato, pieno di gioia e di consolazione spirituale.

Il problema del come "sentire" la presenza dello Spirito può essere definito di un ordine pratico che tocca direttamente la vita spirituale. La teologia speculativa, al contrario, rimaneva perplessa davanti alla domanda teorica se lo Spirito Santo fosse la terza Persona divina. Egli viene nel nostro cuore come un "ospite divino". Un'antica formula cristiana parla dell'«angelo-Spirito Santo", inviato dal Padre. Come può unirsi con noi in modo tale da diventare «un solo spirito con il Signore»?

Per facilitare la risposta, la teologia occidentale parla della "grazia santificante", di un dono creato che trasforma la nostra anima e costituisce il fondamento reale per i nuovi rapporti con Dio. I Padri greci e gli autori orientali in genere, al contrario, continuano ad usare il linguaggio della Sacra Scrittura: lo Spirito Santo in persona viene ad abitare nei nostri cuori e si unisce così intimamente con noi che diventiamo "uno". San Basilio non esita a chiamare lo Spirito Santo la nostra "forma" e, per Teofane il Recluso, lo Spirito è «anima della nostra anima». Si tratta di una "incarnazione" dello Spirito nella chiesa e nei fedeli. Con quali parole umane esprimere questo mistero? L'Oriente cristiano usa il termine "divinizzazione", "spiritualizzazione", "vivificazione".

Lo Spirito Santo è Dio che entra nella nostra vita, ci vivifica e ci divinizza, non distruggendo la nostra umanità, ma, al contrario, elevandola e perfezionandola. Egli rende l'uomo più libero, mentre il mondo e lo spirito maligno si impossessano delle nostre facoltà rendendoci schiavi.

Riassumendo l'insegnamento tradizionale, Teofane il Recluso scrive: «L'essenza della vita in Gesù Cristo, della vita spirituale, consiste nella trasformazione dell'anima e del corpo e nell'introduzione nella sfera dello Spirito, cioè nella spiritualizzazione dell'anima e del corpo».

La vita spirituale, inoltre, ha un influsso determinante sulle nostre relazioni con il prossimo ed anche sui rapporti con la natura irrazionale, con il cosmo. L'uomo, nel mondo visibile, realizza il suo fine spirituale con la "spiritualizzazione cosmica".

All'inizio di ogni Ufficio divino la chiesa bizantina invoca lo Spirito con questa preghiera: «Re celeste, consolatore, Spirito di verità, che sei dovunque presente e riempi ogni cosa, Tesoro di beni e donatore di vita, vieni e rimani in noi e salva le nostre anime, Tu che sei buono».

(da Orientamenti pastorali)
Giovedì, 10 Novembre 2005 00:30

Gesù l’africano (Pier Maria Mazzola)

Gesù l’africano

di Pier Maria Mazzola

Racconta padre Renato Kizito Sesana che, un giorno, nel centro per ex bambini di strada che ha fatto sorgere in Zambia, ebbe l'idea di porre una domanda ai piccoli ospiti: «Chi è Gesù per te?». «Gesù è il mio cuore», fu il tenore di buona parte delle risposte. Oppure: «È come mia nonna, che m'ha voluto bene più di chiunque altro». «Ma Bernard - ricorda il comboniano -, invece che un foglietto, porta una scultura abbozzata su legno. Bernard ha 11 anni. È con noi da tre, dopo aver vissuto in strada per due e aver lasciato per sempre una famiglia, che oggi non esiste più: tutti gli adulti sono morti di aids. Mi mostra un volto scolpito, a fianco dell'illustrazione del catechismo da cui ha cercato di copiarlo. La somiglianza è approssimativa, ma la differenza più grande è che il Gesù di Bernard ha un ampio sorriso. Come mai, Bernard? "Gesù è conten­to perché io sono vivo"».

È Fonte di Vita e Guaritore: è il Mediatore e l'Antenato; è l'Amato, Amico e fratello; è il Leader, Capo e Liberatore. Sono queste le principali risposte alla domanda che una docente di teologia a Nairobi, la canadese Diane Stinton, ha posto a teologi, a pastori e a laici - sia cattolici che protestanti - in Ghana, Uganda e Kenya: «Chi è Gesù Cristo per te, Africa? Chi dici che egli sia?».

È una domanda che esce dal cuore del Vangelo e sulla quale si sono già letti diversi lavori (un titolo per tutti: Cristologia africana, Paoline, 1987). Ma la ricerca non può fermarsi: perché è nella relazione con Cristo che la fede nasce, cresce, si purifica e mette radici. Tutte le altre questioni - ecclesiologiche, giuridiche o morali che siano - hanno senso solo in quanto ancorate al momento cristologico.

Il volume della Stinton, Jesus of Africa, appare come una vera e propria inchiesta sui volti di Gesù. Un esempio. Confessare che «Gesù è mganga» (guaritore) non è un'affermazione così pacifica. Questa figura tradizionale, benché necessaria, è portatrice, secondo alcuni degli intervistati, anche di connotazioni negative. Di queste sono responsabili non solo la "cattiva stampa" dei missionari nel passato, ma anche certi atteggiamenti dell'uomo della medicina, a cominciare dalla sua familiarità con gli spiriti, che inducono timore, se non diffidenza, nei suoi confronti. «Per me, ad ogni modo - spiega, nella sua lingua, un'anziana donna del Ghana, protestante - Gesù è molto, molto, molto, molto più grande del tsofatse».

D'altra parte, Gesù stesso non usava forse le tecniche dei taumaturghi del suo tempo? Solo che non si limitava a far recuperare la salute, ma «nella sua stessa persona ha offerto la liberazione per il malato, il peccatore, il depresso, lo straniero, l'emarginato, il povero e il ritualmente impuro» (Aylward Shorter).

Fili e perline

Beads and strands ("Perline e fili") è una piccola perla. È una sorta di testamento spirituale di Mercy Amba Oduyoye, una delle autrici di riferimento di Diane Stinton. Donna akan del Ghana, metodista, antesignana della teologia africana al femminile, Amba ci consegna una serie di riflessioni da vera "madre della chiesa", intrise di sapienza e autorevolezza. Alla medesima collana, "Theology in Africa Series", appartengono altri due titoli: Christians and Churches of Africa, di Kà Maria, e Jesus and the Gospel in Africa, di Kwame Bediako.

Anche quest'ultimo, un pastore presbiteriano, nella sua miscellanea di articoli in vista di un'«era postmissionaria», non trascura la cristologia, vista «in una prospettiva ghaneana». Degno di nota il suo commento alla Lettera agli ebrei, che definisce «la nostra epistola!», a motivo della sua «rilevanza per società, come le nostre, con profonde tradizioni sul sacrificio, la mediazione sacerdotale e la funzione degli antenati. Ebrei mostra Gesù come risposta alle aspirazioni spirituali cui la nostra gente ha sempre cercato di soddisfare attraverso le tradizioni». Tradizioni che, per altro, egli non "canonizza". Sul versante politico, Bediako non esita a qualificare come «ontocrazie» le società etniche ove vige «una stretta associazione tra autorità religiosa e potere politico». Ora, «storicamente, il cristianesimo è stato una forza desacralizzante». Verità da tenere presente, soprattutto quando si ha a cuore l'avvento, sinora faticoso, della democrazia in Africa. «L'idea di Gesù sulla questione "politica e potere" non è un'idea di dominazione, di autosoddisfazione o autoritativa, ma è un'idea di salvezza, di redenzione, di servizio».

«Perché restiamo bloccati?»

La preoccupazione che la teologia debba stare in costante ascolto dell’anima dell'Africa e, al contempo, essere proiettata verso il cambiamento delle condizioni socioeconomiche, culturali e persino psicologiche del continente, è ormai sempre più condivisa dai teologi africani, e scavalca le scuole di pensiero cui essi appartengono. Ancora la Stinton sottolinea, citando il keniano Jesse Ndwiga Kanyua Mugambi, che, nella scia di Jean-Marc Ela, anche altri (John Pobee, Bénézet Bujo, Aniba Oduyoye, Anne Nasimivu Wasike...) hanno «lavorato alla sintesi tra inculturazione e liberazione». Il frutto più maturo di tale sforzo sarebbe la teologia della ricostruzione (Nigrizia, 7/04, 54), il cui esponente di punta è il congolese Kä Mana.

Nella sua riflessione, Ka Mana si arrovella sulla domanda: «Perché noi africani non riusciamo a rispondere adeguatamente alle sfide del nostro destino?». «Il nostro problema - considera il teologo - è la penuria di significato che tende a caratterizzare la nostra esistenza». In altre parole - prese in prestito dal sociologo Achille Mbembe - «la sfida consiste nel creare un'altra immagine di noi stessi nel mondo». Anche per affrontare tale sfida si rivela decisivo, per Kä Mana, il passaggio cristologico: fare perno sul rapporto di Gesù con la sua morte (e risurrezione), per «rivitalizzare lo spazio mitologico africano», perché l'uomo africano ritrovi autofiducia.

In tutt'altro stile è un'opera minore, ma a suo modo degna di nota: L'imitation, spiritualité chrétienne africaine. Muovendo da un punto di partenza inconsueto (la quattrocentesca Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis), il burkinabé Jules Pascal Zabre mostra come lo schema dell'imitazione - centrale, in Africa, nell'educazione dei più giovani - corrisponda alla sequela Christi, e anche a un tratto antropologico fondamentale. Quest'ultimo aspetto non appare granché convincente, a differenza delle pagine sull'iniziazione. Rimane il fatto che, anche in questa ricerca, il fulcro è la persona di Gesù.

(da Nigrizia, aprile, 2005)

Martedì, 08 Novembre 2005 00:22

La salvezza è la pace (Enrico Peyretti)

La salvezza è la pace
di Enrico Peyretti




«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio ma da come parla delle cose terrestri, che si vede se la sua anima ha soggiornato in Dio», dice Simone Weil, citata dal teologo torinese Oreste Aime nel (...) convegno sulla salvezza nell’Ortodossia e nel Cristianesimo occidentale, indetto dal Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli. Sembra per lo più che i teologi ortodossi volino nei cieli, senza toccare terra. Sembra di ascoltare una spiritualità così unicamente concentrata in Dio da non vedere più il mondo amato da Dio. Ora, noi siamo in terra, e aspettiamo la Gerusalemme celeste che, nelle figure del libro dell’Apocalisse, scenderà sulla terra, e non saremo noi a salire dalla terra al cielo.

La salvezza che speriamo e attendiamo è oggetto di una speranza tutta formale, oppure comincia realmente e si può intravedere in parzialità e contraddizioni, ma in realtà incoativa, già in questo tempo? Soltanto la mistica e la liturgia sono profezia del mondo risanato, o non anche la vita quotidiana nell’amore per il prossimo, che certamente è parte essenziale del cristianesimo orientale?

Dio ci salva dal peccato. E il peccato in definitiva è ogni offesa al prossimo, ogni violazione della relazione umana, ogni atto di dominio e disprezzo, che oscurano il senso dell’esistenza e creano dolore e paura, cioè morte, non-vita. Il nostro stare col prossimo è la misura del nostro stare davanti a Dio. Il prossimo è il primo sacramento di Dio, che dunque è onorato oppure offeso in esso, e di esso Dio si fa difensore e vindice.

Non c’è storia della salvezza senza salvezza della storia, diceva Ellacuria. E per Sobrino non è solo nella vita dopo la morte, ma nelle opere del Gesù storico che si attua il regno di Dio. La salvezza si realizza e si fa conoscere nel mondo delle relazioni, ha detto nel convegno Yannaras: nelle buone relazioni. Se il peccato è inimicizia, offesa e violenza nella nostra relazione con l’altro, Cristo è l’uomo senza inimicizia, è l’uomo nuovo, nonviolento nell’umanità violenta, è lui la pace vissuta, che abbatte le divisioni, è l’uomo-per-gli-altri, è il Salvatore.

Salvezza nella storia, cammino fuori dal peccato, è ogni riduzione della violenza (in tutte le sue forme, dirette, strutturali, culturali, esterne ed interne), ogni passo di pace. La parte di pace che riusciamo a costruire, come «figli di Dio», con la sua azione in noi, che lo sappiamo o no, è la profezia nella storia della piena salvezza finale.

Poiché l’amore del prossimo è l’elemento comune e la misura di fedeltà in tutte le vive religioni umane, la pace è la salvezza che Dio (comunque lo conosciamo) costruisce in noi e con noi, su tutte le vie religiose e umane autentiche. Quando Aldo Capitini esprime il pensiero che la vita senza morte (la salvezza) comincia col non uccidere, dice questo. Per Panikkar la pace è il nuovo mito emergente (mito in senso positivo), è la nuova etica universale, quasi una religione comune, nel rispetto delle differenze (la pace è pluralismo, insiste Panikkar); la pace è un valore che giudica oggi tutte le etiche, filosofie, politiche e religioni. Ci sarà il compimento della vita umana, non ci saranno molte salvezze come molte sono le teorie della salvezza. La pace è il contrario del dominio, è la carità concreta, è rispettare e amare il valore dell’altro.

Bisogna che anche la salvezza cristiana impari ad esprimersi così. Ciò non toglie nulla a Dio. Non ci si salva senza Dio, ma neppure senza il mondo, e desiderarlo non è bene. Ci si salva nella pace, la quale va all’infinito, cominciando dai passi qui difficili ma possibili, passi profetici da riconoscere con venerazione.

La salvezza è la pace. E ciò non va capito come riduzione della salvezza a qualche buona e giusta azione politica umana, come se non ci fosse Dio nell’uomo che pratica la giustizia. Va inteso nel senso che la vita buona, fragile e preziosa, nostro compito quotidiano nel piccolo e nel grande, è segno nei nostri giorni della salvezza che, nonostante la forza del male, viene, verrà, e sarà pace piena.


(da
Il foglio, n. 294, settembre 2002)

In cammino verso l'unità
(Ordine dei Frati Minori)

L'ecumenismo, e il movimento che ne attualizza le esigenze, è frutto di un lungo processo di maturazione, favorito da nuove situazioni sociali, culturali ed ecclesiali, verificatesi soprattutto a partire dal XIX secolo. Questo processo coinvolse inizialmente le chiese nate dalla Riforma protestante e progressivamente il mondo ortodosso e quello cattolico.


1.
Il mondo protestante

Diversi fattori, tra il XVIII e il XIX secolo, vennero a provocare in modo nuovo il variegato mondo della Riforma. L’illuminismo e il romanticismo, con il loro 'relativismo' dogmatico, preparano un terreno favorevole all'affermarsi dell'idea di libertà e di tolleranza religiosa. Un espansionismo coloniale dell'occidente permise a varie chiese di allargare il loro raggio di azione e di percepire in modo nuovo il problema dell'evangelizzazione. Il miglioramento delle comunicazioni rese possibile un più rapido contatto fra le chiese e un maggiore scambio di idee e di esperienze. Lo spostamento di masse dalle campagne verso le città o verso nuove nazioni spinsero i cristiani a porsi il problema dell'identità confessionale e della convivenza reciproca. I grandi cambiamenti politici in atto portarono a sviluppare una più chiara coscienza sociale e una maggiore attenzione ai problemi sociali. Non vanno dimenticate, infine, le varie correnti di 'risveglio' che posero l'accento sulla rinascita operata dall'adesione di fede a Cristo e sulla necessità di una incisiva testimonianza di vita cristiana.

Tutti questi avvenimenti si ripercuotono inevitabilmente nella vita delle chiese e danno origine a iniziative che in modo diversificato preparano un terreno favorevole al formarsi di una sensibilità attenta al problema dell'unità delle chiese. Infatti, in questo arco di tempo si assiste al sorgere di numerose Federazioni di Società missionarie, che favoriranno il coordinamento e la collaborazione fra missionari di confessioni diverse. Si formeranno anche varie Alleanze mondiali di chiese, allo scopo di realizzare una maggiore unità fra le chiese di una stessa confessione e una loro collaborazione sul piano internazionale. Si darà vita a nuove forme associative giovanili, come anche alla Federazione mondiale degli studenti cristiani, che voleva essere luogo di incontro e di reciproco arricchimento, attraverso il confronto, la condivisione delle ricchezze delle rispettive tradizioni confessionali, l'impegno comune a una vita cristiana più impegnata. Si formeranno inoltre gruppi e associazioni interconfessionali di cristiani che in nome della comune fede in Cristo si interessano ai problemi sociali dell'epoca. Similmente, si assisterà alla nascita di vari movimenti di preghiera che si propongono come loro fine specifico quello di invocare da Dio l'unità di tutti i cristiani. Grazie a queste iniziative, cristiani di confessioni diverse si danno degli strumenti per un maggiore contatto, per una conoscenza reciproca, per una qualche collaborazione in settori di azione comune.

In questo variegato contesto, spesso caratterizzato dalla convinzione che il confessionalismo, e dunque l'appartenenza ecclesiale, è una realtà Superata o da superare in nome della comune fede in Cristo, emergono quelle spinte che porteranno dapprima alla formazione del Consiglio Missionario Internazionale e successivamente dei movimenti di Fede e Costituzione e di Vita e Azione. Tappa fondamentale in questo cammino è la Conferenza Missionaria Mondiale di Edimburgo (1910). Infatti, durante questa conferenza di delegati di Società missionarie si perviene a una chiara presa di coscienza che le divisioni ecclesiali contraddicono il volere di Cristo e sono di ostacolo all'annuncio del Vangelo. Conseguentemente, l'ideale dell'unità sarà un tema ricorrente nei lavori dell'assemblea e si vedrà in essa la meta alla quale dovrebbe tendere il lavoro dei missionari. Questo intento rimarrà presente anche nel successivo lavoro del Consiglio Missionario (1921), caratterizzato dalla volontà di coordinare le attività delle varie Società missionarie, di promuovere la riflessione sui problemi missionari e di unire i cristiani nell'impegno per la giustizia e la pace. Per cui non è fuori luogo affermare che il moderno movimento ecumenico, almeno per quegli aspetti che sono propri al protestantesimo, affonda le sue radici nel movimento missionario.

Dal 1948 ad oggi tale organismo ha portato avanti, non senza difficoltà, una mole enorme di lavoro sul piano della riflessione e della concreta azione ecumenica. Ad esempio, è riuscito a coinvolgere sempre più le chiese nel suo organismo: dalle 161 chiese che hanno partecipato alla prima assemblea ad Amsterdam, si è arrivati alle 335 presenti all'ultima assemblea mondiale, Harare 1998, un numero in progressivo aumento (la chiesa cattolica non è affiliata al Consiglio Ecumenico, tuttavia è presente alle sue assemblee mediante osservatori ufficiali). Lo stesso Consiglio Missionario, nel 1961, ha aderito al Consiglio Ecumenico delle Chiese. Nel corso degli anni, infatti, si sono resi evidenti tutta una serie di sovrapposizioni e di doppioni fra i due organismi, per cui alla fine si è optato per la fusione, che ha impresso al Consiglio Ecumenico una più chiara attenzione ai problemi dell'evangelizzazione e della missione. Nel 1971, poi, c'è stata l'integrazione del Consigliò mondiale per l'educazione cristiana; cosa, questa, che ha portato a dare nuova vitalità a un settore già esistente nel Consiglio Ecumenico e che si articolava in varie iniziative: dalla formazione teologica, alla educazione religiosa di base, alla più generale formazione culturale umana.

In questi anni, inoltre, il Consiglio Ecumenico si è fatto promotore di diversi progetti che si pongono sui piano socio-politico. Il più famoso di tutti è il 'Programma di lotta contro il razzismo', al quale si affianca l'impegno per il rispetto dei diritti umani e per il diritto alla terra. Al tempo stesso il Consiglio si è preoccupato di promuovere una comprensione dell'economia mondiale più giusta, più solidale e più distributiva. Oltre a questo ha dato vita anche al progetto 'Giustizia, pace e salvaguardia del creato' (cf. Setil 1990), attirando così l'attenzione mondiale su un grave problema che minaccia la nostra società. È dunque evidente che il Consiglio Ecumenico in questi anni ha dato particolare rilevanza ai problemi sociali, economici e politici. Di questi problemi si è fatto portavoce e ha cercato di dare una risposta unitaria a nome di tutte le chiese.

Questo non significa che il Consiglio Ecumenico abbia trascurato del tutto i problemi teologici. É sufficiente prendere in considerazione i rapporti conclusivi delle varie Assemblee generali per rendersi conto che i temi teologici hanno avuto una certa rilevanza, come ad esempio il problema dell'unità che ritorna in tutti i rapporti delle varie Assemblee mondiali. A questo si deve aggiungere tutta la riflessione teologica che Fede e Costituzione ha sviluppato, in quanto dipartimento dottrinale del Consiglio, in particolare nell'ambito dell'unità della chiesa, della comunione nella fede, nei sacramenti, nel ministero e del servizio comune al mondo (in questo organismo la chiesa cattolica è presente a pieno titolo con i suoi delegati ufficiali).

Per quanto riguarda il tema dell'unità, negli anni '60 e '70, la riflessione si è concentrata soprattutto sui 'modelli di unità'. I risultati sono confluiti nella dichiarazione sull'unità dell'Assemblea di Nairobi (1975), dove si definì la chiesa come 'comunità conciliare' (dunque come comunione di chiese locali che vivono e manifestano la loro unità soprattutto mediante strutture conciliari, mediante concili). Recentemente, poi, la riflessione sull'unità ha portato alla formulazione di testi particolarmente significativi quali L’unità della chiesa come koinonia: dono e votazione (1991) e La natura e lo scopo della chiesa (1998).

Per quanto riguarda, invece, il problema della comunione nella fede, la riflessione si è concentrata soprattutto sul credo niceno-costantinopolitano. Su questo testo c'è stato un lavoro di riflessione comune che passando attraverso diverse redazioni, ha condotto alla pubblicazione del documento Confessare una sola fede.

Il terzo filone di riflessione riguarda il problema dei sacramenti e del ministero. In questo contesto è nato un documento che certamente è il più significativo dei documenti prodotti dal dialogo ecumenico multilaterale. E questo sia per il lungo tempo adoperato per l'elaborazione del testo, sia per la quantità di persone e di chiese ripetutamente consultate, sia per l'ampia riflessione di cui è stato oggetto. Si tratta del così detto BEM, cioè Battesimo, Eucaristia, Ministero (1982).

Il quarto filone, infine, riguarda il rapporto fra unità della chiesa e unità del genere umano. L'approfondimento di questa problematica ha portato alla formulazione, dapprima, del documento L'unità del mondo oggi e poi del testo Chiesa e mondo del 1991.

2. Nel mondo ortodosso

Fino alla prima guerra mondiale domina fra gli ortodossi un generale senso di diffidenza verso l'occidente, a causa anche dell'atteggiamento missionario che cattolici e protestanti avevano tenuto nei confronti dei fedeli ortodossi. La svolta decisiva avvenne dopo la prima guerra mondiale. Ne è segno l'accoglienza positiva che i capi delle chiese ortodosse riservarono alla delegazione episcopaliana statunitense, che nel 1919 visitò l'Europa per invitare le chiese a una futura conferenza mondiale a Fede e Costituzione. A questo farà poi seguito anche una lettera del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli destinata a tutte le chiese di Cristo, dovunque esse si trovano (1920). Questa iniziale 'apertura' del mondo ortodosso trova la sua concretizzazione nell'invio di rappresentanti ortodossi alle varie conferenze mondiali di Fede e Costituzione e di Vita e Azione. Tuttavia rimanevano delle perplessità. Molti, infatti, erano persuasi che il 'movimento ecumenico' fosse un'espressione e un mezzo per realizzare le mire espansionistiche e coloniali dei paesi occidentali. Ovviamente, l'obiezione più seria era di carattere dottrinale e si fondava sul fatto che le chiese orientali possiedono la pienezza di verità. Mettersi in dialogo con gli eretici, dunque, sarebbe stato uno sminuire l'autorità della chiesa ortodossa. Gli intenti non erano poi così chiari ed univoci neanche fra i sostenitori dell'apertura ecumenica. Per alcuni, infatti, questo non era altro che un modo per estendere l'influenza dell'ortodossia fra gli occidentali.

Spesso si critica la lentezza dei progressi ecumenici compiuti nell'ambito del Consiglio Ecumenico. Si tratta di una critica che non tiene adeguatamente in considerazione la natura stessa di questo organismo. Il Consiglio Ecumenico, infatti, è 'una fraterna associazione di chiese' che conservano la loro autonomia e il loro diritto di ratifica delle scelte compiute dall'Assemblea. La considerevole varietà di chiese che lo formano, la Molteplicità delle posizioni teologiche ed ecclesiologiche, le diverse sensibilità culturali proprie ai contesti nei quali operano le chiese, necessariamente si ripercuotono nel cammino ecumenico del Consiglio rendendolo lento, variegato, complesso.

In seguito alla seconda guerra mondiale, i rapporti delle chiese ortodosse con il mondo ecumenico della Riforma attraversarono una certa crisi, a causa anche della nuova situazione politica venutasi a creare. Infatti, la creazione del blocco di stati controllati dai comunisti condizionerà significativamente i rapporti tra i cristiani d'oriente e d'occidente. Espressione di queste difficoltà sono le decisioni prese durante la consultazione dei rappresentanti delle chiese autocefale che si tenne a Mosca nel luglio del 1948, in occasione del 500° anniversario della proclamazione dell'autocefalia della chiesa Russa.

Fra l'altro, tale consultazione espresse giudizi molto entici nei confronti del nascente movimento ecumenico. Oltre all'accusa di essere 'uno strumento dell'imperialismo americano' si criticava il Consiglio Ecumenico delle Chiese perché intenderebbe dar vita a una nuova chiesa ecumenica; perché svolgerebbe attività sociali e politiche che non competono alle chiese; perché si farebbe promotore di una radicale sfiducia verso la possibilità di giungere all'unità nella chiesa una santa cattolica e apostolica che è la chiesa ortodossa; perché la base dottrinale, con il suo richiamo unicamente alla fede in Cristo, svuoterebbe di contenuto la fede cristiana, che è trinitaria. In forza di tale giudizio solo gli ortodossi saranno presenti, in qualità di delegati delle loro chiese, alla prima conferenza mondiale di Amsterdam (1948).

Tuttavia le cose erano destinate a cambiare progressivamente. Nel 1952 abbiamo una lettera enciclica del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, dove si parla della partecipazione della chiesa ortodossa al Consiglio Ecumenico delle Chiese come una realtà 'necessaria' in quanto offre la possibilità di affrontare insieme agli altri cristiani i grandi problemi che affliggono l'umanità, come anche la possibilità di far conoscere agli eterodossi il tesoro della fede ortodossa,

Dopo la conferenza di Evanston (1954), alla quale parteciparono una trentina di ortodossi, vennero avviati contatti epistolari e personali fra il Consiglio Ecumenico e il Patriarcato di Mosca. Questo porterà nel 1961 all'ingresso della chiesa russa nel Consiglio Ecumenico, in seguito a tale passo, poi, progressivamente (tra il 1961 e 1965) anche le altre chiese ortodosse aderiranno al Consiglio.

Da allora il contributo che le chiese ortodosse hanno offerto al Consiglio Ecumenico è stato considerevole, sia in termini di persone che hanno collaborato alle varie strutture, sia in termini di riflessione e di stimoli teologici. Va detto però che la presenza degli ortodossi nel Consiglio Ecumenico delle Chiese spesso è stata anche problematica sia per gli uni che per gli altri. Emblematica a questo riguardo la dichiarazione dei delegati ortodossi presentata all'assemblea di Canberra, dove si esprimono chiare preoccupazioni circa la finalità, i mezzi, i contenuti dell'azione ecumenica perseguita dal Consiglio.

Negli anni '90 la tensione crebbe ulteriormente (anche a motivo della nuova situazione politica ed ecclesiale venutasi a creare nell'Est Europa.- caduta del muro di Berlino, libertà di culto riconosciuta anche alle chiese greco-cattoliche, arrivo massiccio di nuove chiese e di sètte, crescita dei nazionalismi, chiese locali in difficoltà ...), portando progressivamente a creare un forte sentimento antioccidentale e antiecumemeo (in questo contesto progressivamente maturerà, anche per tensioni interne, la decisione della chiesa ortodossa di Georgia di ritirare la sua adesione al Consiglio Ecumenico).

Conseguentemente, ad Harare, il tema della partecipazione e della collaborazione delle chiese ortodosse con il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha avuto un peso rilevante. Tagliente l'intervento del capo della delegazione russa, Hilarion Alfeyev: «Dopo tanti anni di impegno ecumenico da parte nostra appare chiaro che la chiesa ortodossa e le chiese di tradizione protestante hanno camminato in direzioni diverse. Gli ortodossi non possono influenzare il programma di lavoro perché sono sempre in minoranza. Non abbiamo mai discusso temi che sono importanti per noi, come la venérazione della vergine Maria, la venerazione delle icone, la venerazione dei santi perché tali temi sono ritenuti divisivi. Ma che dire del linguaggio inclusivo e del sacerdozio delle donne: non sono questi divisivi?... Ci sentiamo sempre meno a casa nostra qui... Gli ortodossi non sono più soddisfatti del programma di lavoro e della struttura del CEC.... Alcuni, in questa sala, dicono: 'Se non siete soddisfatti, andatevene'. Noi non vogliamo andarcene; vogliamo restare, vogliamo continuare il nostro viaggio insieme. Ma vogliamo che il CEC sia radicalmente trasformato, perché possa essere davvero una casa per gli ortodossi nel secolo a venire».

3. Nel mondo cattolico

Di fronte alle iniziative ecumeniche sorte nel mondo della Riforma la gerarchia della chiesa cattolica mantenne un atteggiamento sostanzialmente negativo fino al Vaticano II. Il rifiuto cattolico aveva un chiaro fondamento ecclesiologico; si fondava sulla persuasione che nonostante le divisioni, la chiesa di Cristo è presente m modo esclusivo nella chiesa cattolica romana, fondata ed edificata sull'unico Pietro, dotata di un magistero autorevole perché sia indefettibile il suo credo. Per questa sua unità e per questa sua struttura, la chiesa cattolica romana è la chiesa voluta da Cristo, dalla quale tutte le altre comunità cristiane si sono staccate perdendo il loro carattere ecclesiale.

Fondandosi su tali principi, la chiesa cattolica non poteva sostenere altro ecumenismo che non fosse quello del ritorno alla chiesa lasciata. Dunque le varie iniziative ecumeniche sorte all'interno delle chiese della Riforma, non potevano riguardare direttamente la chiesa cattolica: questa possiede già l'unità che Cristo ha voluto per la sua chiesa. Le varie iniziative ecumeniche, se mai, riguarderanno il mondo della Riforma e dovrebbero mirare a creare una maggiore unità fra queste chiese e a favorire il ritorno alla chiesa cattolica (cf. l'enciclica Mortalium Animos (1928) di Pio XI; l'enciclica Mystici Corporis (1943) di Pio XII; l'Istruzione Ecclesia Catholica (20.12.1949) del S. Ufficio)

All'atteggiamento chiuso e diffidente della gerarchia cattolica corrisponde un interessamento crescente da parte di singoli teologi e di gruppi di fedeli al problema dell'unità e alle iniziative ecumeniche fra i non cattolici. Fra gli anni '20 e '50 la chiesa cattolica è percorsa a livello di base da correnti che in forme diverse si interessano al problema dell'unità e che sensibilizzano il mondo cattolico al problema ecumenico; correnti che privilegiano ora l'aspetto spirituale (cf. Couturier e altri che si interessano alla diffusione della preghiera per l'unità dei cristiani; oppure le abbazie di Chevetogne e di Niederalteich che accanto a una seria produzione teologica, danno un grande risalto all'azione liturgica e alla vita spirituale); ora l'aspetto pastorale (cf. il movimento di Una Sancta Bruderschaft), ora l'aspetto storico e teologico (cf. J. Lortz, Y Congar, H. de Lubac, K. Rahner, M. D. Chenu, P Y Frére...). Un grande contributo alla maturazione della sensibilità ecumenica in ambito cattolico è venuto, infine, da quei movimenti di rinnovamento che precedettero il Concilio: il rinnovamento biblico, patristico, liturgico, teologico ... Tutti questi sviluppi, progressivamente, prepareranno la svolta ecumenica del Vaticano II (cf Unitatis Redintegratio).

Terminato il Concilio, la chiesa cattolica si è realmente impegnata a porre in atto quanto espresso nei vari documenti, non senza difficoltà e tentennamenti. Fra le iniziative postconciliari va ricordato: a) il sorgere a livello di chiese locali di commissioni per l'ecumenismo; b) l'attenzione al problema ecumenico nell'ambito della formazione teologica; c) la diffusione della settimana di preghiera per l'unità dei cristiani; d) l'istituzione di centri di studio con una chiara finalità ecumenica; e) l'avvio di dialoghi bilaterali con le altre confessioni cristiane sia a livello mondiale che locale.

In questo contesto, in particolare, va ricordata l'attività del Segretariato per l'unità dei cristiani (oggi Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani), il quale ha prodotto diversi documenti di carattere ecumenico, fra i quali occorre ricordare il nuovo direttorio ecumenico (1993). Si tratta di un testo che vuole essere punto di riferimento per tutta l'azione ecumenica della chiesa cattolica. Per cui in esso si offrono chiare indicazioni dottrinali e comportamentali per tutti i fedeli e specialmente per coloro che sono direttamente impegnati nella causa dell'unità, raccogliendo tutte le norme già fissate per applicare e sviluppare il concilio e per adattarle alla realtà attuale.

Anche i pontefici, dopo il Vaticano II, in moltissime occasioni e in diversi modi hanno testimoniato l'impegno della chiesa cattolica per la causa dell'unità. Molti sono i gesti compiuti è le parole dette. Qui ci limitiamo a menzionare due recenti documenti pontifici. Il primo documento da ricordare è l'enciclica Orientale Lumen (2 maggio 1995). Si tratta di una lettera che non presenta, in realtà, novità di rilievo. Tuttavia riveste un ruolo importante per il cammino ecumenico, perché è apparsa in un periodo di particolare difficoltà nei rapporti fra oriente e occidente; difficoltà sorte a causa della concreta situazione determinatasi nei paesi dell'ex blocco comunista, dove l'azione della chiesa cattolica e delle chiese greco-cattoliche è vista come un'intrusione nella vita di chiese ortodosse.

Il secondo testo da ricordare è l'enciclica Ut Unum Sint (25 maggio 1995). Questa enciclica nasce dal desiderio di unità che anima l'impegno pastorale dell'attuale pontefice e vuole essere un invito rivolto a tutta la chiesa cattolica ad operare per l'unità della chiesa. In essa l'impegno ecumenico della chiesa cattolica viene definito 'irreversibile'.

4. dialoghi bilaterali

Il coinvolgimento della chiesa cattolica nel movimento ecumenico si è concretizzato fra l'altro nell'avvio di dialoghi bilaterali con varie confessioni cristiane. La forma bilaterale di dialogo è una novità in ambito ecumenico (il Consiglio Ecumenico delle Chiese privilegia il dialogo multilaterale) e coinvolge un diverso soggetto, cioè le Federazioni/Alleanze di chiese (il Consiglio Ecumenico è invece formato da chiese territoriali).

Il dialogo bilaterale consente ai partners di elaborare un adeguato piano di lavoro, una specifica metodologia; di individuare problematiche specifiche, di precisare con maggiore chiarezza il fine a cui tendere. Per questi suoi aspetti positivi il dialogo bilaterale si è largamente diffuso (vedi dialoghi della Chiesa cattolica con altre confessioni, sia a livello mondiale che locale; ma anche dialoghi fra le stesse confessioni separate da Roma).

Questa fitta rete di dialoghi ha prodotto un enorme numero di testi di convergenza teologica (ovviamente, i documenti prodotti da tali commissioni non hanno valore vincolante per le chiese: sono proposti alla riflessione e alla ricezione delle chiese) nei quali si precisano le posizioni dottrinali reciproche; si determinano convergenze teologiche; si favoriscono migliori relazioni reciproche.

I molti temi affrontati in questi dialoghi si possono riassumere attorno ad alcuni nuclei: a) autorità nella chiesa (la Sacra Scrittura, la Tradizione, le professioni di fede, le decisioni conciliari, il magistero); b) giustificazione; c) ministero ordinato (natura, funzioni, struttura del ministero); d) teologia sacramentaria; nozione di sacramento, eucaristia e battesimo; e) i matrimoni interconfessionali; f) chiesa (un tema che sta diventando sempre più rilevante e centrale nei vari dialoghi).

In questo contesto va ricordato anche il Gruppo Misto di lavoro tra la Chiesa cattolica e il Consiglio Ecumenico delle Chiese, istituito nel 1965. Il gruppo ha prodotto diversi rapporti ufficiali nei quali troviamo un'attenta analisi della situazione ecumenica. Ha promosso anche studi su temi che riteneva di particolare importanza ecumenica: sulla cattolicità e apostolicità, sul proselitismo, sulla professione di fede comune, sulla testimonianza comune, sulla gerarchia delle verità, sulla chiesa locale e universale e sulla formazione ecumenica

Volendo concludere queste brevi indicazioni, ci sembra significativo ricordare le parole dell'ex segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese, Ph. A. Potter, il quale in un'occasione ebbe a dire: «È assai ironico notare che i rapporti del CEC con la più importante delle chiese non affiliate, quella cattolico romana, siano stati più intensi che non con molte delle chiese membri».

(Tratto da Ordine dei Frati Minori, La vocazione ecumenica del francescano, ISE Venezia - Roma, 2001, pp. 78-92)

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